Sequestro di persona a scopo di estorsione. Il contenuto del dolo specifico in rapporto al sequestro di persona a scopo di coazione

Gianluca Bergamaschi
29 Giugno 2018

La questione verte sul fatto se, per aversi un sequestro di persona a scopo di estorsione, sia necessario che la pretesa, quale prezzo della liberazione del sequestrato, debba avere un contenuto economico-patrimoniale, ovvero sia sufficiente una qualsiasi utilità, considerato anche il raffronto con lo spesso negletto e dimenticato delitto di cui all'art. 3 della l. 718/1985 ...
Abstract

La questione verte sul fatto se, per aversi un sequestro di persona a scopo di estorsione, sia necessario che la pretesa, quale prezzo della liberazione del sequestrato, debba avere un contenuto economico-patrimoniale, ovvero sia sufficiente una qualsiasi utilità, considerato anche il raffronto con lo spesso negletto e dimenticato delitto di cui all'art. 3 della l. 718/1985 (c.d. sequestro di ostaggi), oggi trasfuso nell'art. 289-ter c.p. dal d.lgs. 21/2018 (Sequestro di persona a scopo di coazione).

La tradizionale posizione della giurisprudenza di legittimità

Circa la giurisprudenza di legittimità, tradizionalmente e attualmente, la posizione è tetragona e semplicissima, ossia l'ingiusto profitto, quale dolo specifico perseguito dall'agente, non s'identifica necessariamente con un bene patrimoniale o un vantaggio economicamente valutabile ma può consistere in una qualsiasi utilità posta come sinallagma della liberazione del sequestrato.

La posizione è molto risalente nel tempo, si veda, ad esempio, la Cass. pen., Sez. I, 20 maggio 1980, che – nell'ambito di una rivolta carceraria, in cui i detenuti pretesero di essere scarcerati in cambio degli agenti di custodia sequestrati – ritenne sussistente il reato ex art. 630 c.p., proprio perché assimilò l'ingiusto profitto a qualsiasi utilità, anche non patrimoniale, purché avente rilevanza giuridica, vale a dire purché la pretesa fosse idonea e produrre effetti nel mondo del diritto, e purché costituente un vantaggio per il soggetto attivo.

Il concetto e la conseguente decisione, vennero ribaditi costantemente, ad esempio in Cass. pen., Sez. I, 25 maggio 1981, relativamente a un rapinatore che prese una persona in ostaggio perché gli facesse da scudo nella fuga, e in Cass. pen., Sez. II, 28 marzo 1988, anch'essa emessa nell'ambito di una rivolta carceraria in cui i detenuti pretesero la sospensione di determinati ordini di trasferimento, ossia un atto amministrativo, pur soggetto ad immediata revoca; nonché, sulla stessa scia, in Cass. pen., Sez. II, n. 625/1989 e Cass. pen., Sez. I, n. 8375/1998.

Venendo a tempi più recenti, si segnala la Cass. pen., Sez. V, n. 21579/2015, la quale – nell'ambito di un sequestro perpetrato per costringere terzi a consegnare un documento di identità, privo, di per sé, di valore economico – ribadì l'idea dell'ingiusto profitto come in una qualsiasi utilità, anche senza contenuto economico e patrimoniale, infatti, a fronte di tale rimostranza della difesa, affermò: «Essa, per come prospettata, sconta però il vizio originale di ritenere che l'ingiusto profitto debba necessariamente rivestire una connotazione economica, di cui sarebbe privo lo scopo dell'imputato di recuperare il documento di identità della F., qualificato per l'appunto come privo di valore economico, ignorando che il fine di ingiusto profitto che caratterizza il reato non è necessariamente di tipo economico/patrimoniale, essendo il prezzo della liberazione integrato, oltre che da qualunque bene materiale passibile di traditio, anche da utilità o vantaggio di altra natura avuti di mira dal soggetto agente (Cass. pen., 8375/1998)».

Egualmente fece la Cass. pen., Sez. V, n. 8352/2016, che – in un caso in cui la difesa sostenne la mancanza del dolo specifico, in quanto l'imputato concorse nel sequestro convinto che il complice volesse limitarsi a far firmare un foglio alla vittima, mentre, in realtà voleva estorcergli del denaro – ribadì quello che definì un insegnamento consolidato, scrivendo che: «Va allora ricordato come, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, ai fini della sussistenza del reato contestato, l'ingiusto profitto cui deve essere finalizzata l'azione dell'agente può identificarsi in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, che costituisca un vantaggio per il soggetto attivo del reato o per il terzo nel cui interesse egli abbia agito (ex multis e tra le più recenti Cass. pen., Sez. V, 8 aprile 2015, n. 21579, B. e altri; Cass. pen., Sez. II, 5 maggio 2015, n. 20032, Mastrodonato)»; aggiungendo, per altro, che «è dunque indiscutibile che, anche accedendo alla prospettazione difensiva, la condotta ascrivibile agli imputati integra comunque il delitto ascritto, avendo gli stessi in ogni caso agito con il dolo specifico richiesto per la sua configurabilità, rimanendo irrilevante, sotto il profilo della qualificazione giuridica del fatto che lo scopo perseguito, ancorché comunque tipico, non fosse eventualmente lo stesso per tutti i corre».

La Corte costituzionale e l'ingiusto profitto come “patrimonialità”

Come illustrato supra, la Corte di cassazione si è asserragliata nella sua posizione senza neppure mai giustificarla approfonditamente, il che l'ha portata inevitabilmente a trascurare non solo tutte le obiezioni mossele dalla dottrina ma pure quanto asserito, in diversi arresti, dal giudice delle leggi, nonché ad ignorare completamente la presenza nell'ordinamento di una norma come l'art. 3 della l. 718/1985 (c.d. sequestro di ostaggi), che, prevedendo come dolo specifico la pretesa del compimento o dell'omissione di un qualsiasi atto, inevitabilmente ha cambiato i connotati dell'elemento psicologico dell'art. 630 c.p., almeno dal 1985 in poi.

In effetti, già la Corte cost., n. 163/2007 venne indotta, dalla specifica questione proposta dal giudice remittente, a confrontare l'art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718 (Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979) e l'art. 630 c.p., per arrivare ad affermare che la fattispecie di cui al predetto articolo 3 è: «[...] più ampia e generica rispetto al delitto di cui all'art. 630 c.p., come rimarcato anche dalla difesa erariale».

Ulteriormente, la Corte cost., n. 240/2011 riprense in mano la questione e, partendo dall'affermazione di cui sopra, aggiunse che: «[…] tale carattere di maggiore comprensività – attestato anche dalla clausola di sussidiarietà espressa con cui la norma incriminatrice del sequestro di ostaggi esordisce (fuori dei casi indicati negli articoli 289-bis e 630 del codice penale) – si coglie segnatamente in rapporto all'obiettivo della condotta, identificato nel generico «fine di costringere un terzo [...] a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene»: finalità rispetto alla quale lo scopo di conseguire un ingiusto profitto, previsto dall'art. 630 c.p., rappresenta una species negativamente connotata».

Infine, anche la Corte. cost., n. 68/2012 – che ebbe a dichiarare incostituzionale l'art. 630 c.p. nella parte in cui, a differenza del combinato disposto dagli artt. 289-bis e 311 c.p. circa sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, non prevedeva che la pena da esso comminata fosse diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risultasse di lieve entità – è interessante ai nostri fini perché torna a soffermarsi, pur brevemente, sull'art. 3della legge 26 novembre 1985, n. 718, di cui scrive: «Al di là di talune affinità strutturali, detta ipotesi criminosa è, infatti, più ampia e generica del sequestro estorsivo in relazione all'obiettivo della condotta, normativamente identificato nel fine di costringere un terzo a compiere o ad omettere un qualsiasi atto: circostanza dimostrata anche dall'espressa clausola di salvezza delle ipotesi previste dall'art. 630 c.p. (oltre che dall'art. 289-bisc.p.), con cui il citato art. 3 della legge 718 del 1985 esordisce e che imprime al delitto in parola un carattere "residuale"»; inoltre, e ancor più, perché, nel raffrontare i beni giuridici tutelati dalle norme, asserisce che: «A fianco della comune lesione della libertà personale del sequestrato, il sequestro terroristico o eversivo offende, infatti, secondo una corrente lettura, l'ordine costituzionale (usualmente identificato nell'insieme dei principi fondamentali che nella Carta costituzionale servono a definire la struttura e la natura dello Stato); il sequestro estorsivo attenta, invece, al patrimonio».

Un caso di merito che riconosce la finalità economica del sequestro a scopo di estorsione

Con queste premesse, non sorprende che possano rinvenirsi delle distonie tra la giurisprudenza di legittimità e quella di merito.

Si ponga attenzione, ad esempio, alla recente Corte d'assise d'appello di Bologna, Sez. I penale, n. 4/2018, ove la Corte – nel contesto fattuale di una rivolta carceraria, in cui i detenuti minacciarono ritorsioni su un agente sequestrato, ove non venisse loro consentito di interloquire con la stampa e/o con esponenti istituzionali, quali il ministro della giustizia o il capo del Dap – condivise l'assunto giuridico di primae curae (Corted'assise di Parma, n. 1/2016) circa la ricorrenza del fatto di cui all'art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718, ossia il sequestro di ostaggi, e non il sequestro a scopo di estorsione, ex art. 630 c.p., originariamente contestato, proprio perché le pretese dei detenuti difettavano di contenuto economico, e, dunque, non erano riconducibili alla nozione di ingiusto profitto.

Circa il primo reato, infatti, la giurisdizione bolognese afferma: «Orbene è evidente che la norma punisce il sequestro di una persona in assenza di una finalità di terrorismo, nonché di un profitto ingiusto, di tal che la fattispecie ricorre invece, quando la coazione sia finalizzata ad imporre al soggetto passivo esterno un azione o una omissione di diversa natur.»; infatti, prosegue la Corte: «Ciò che qualifica il dolo (specifico) richiesto dall'articolo 3 della legge 718 del 1985 è la finalità di costringere un terzo (nel caso di specie l'amministrazione penitenziaria, coinvolta dalla direzione del carcere di Parma, a quella centrale, e la Procura locale) a compiere "un qualsiasi atto o ad astenersene", subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione»; cosicché: «In definitiva si può ben dire che la norma, per quanto modulata sullo schema del sequestro di persona a scopo di estorsione, sia connotata da un dolo più ampio e generico, rispetto a quello più specifico delineato dall'art. 630 CP (oltre che diverso da quello specifico di cui all'art. 289-bisc.p.), norme che quindi per tale requisito rivestono carattere di specialità»; e conclude che: «Pertanto, ove l'agente non miri ad ottenere, in cambio della libertà dell'ostaggio, un "ingiusto profitto", precipuamente inteso come utilità di tipo economico (Corte cost., n. 68/2012 ricorda infatti che «il sequestro estorsivo attenta, invece, al patrimonio»; è quindi evidente che l'introduzione della norma in esame ha finito per erodere l'ambito di applicabilità dell'art. 630 c.p., che secondo la prevalente interpretazione comprenderebbe qualsiasi tipo di utilità), ma intenda più genericamente costringere il soggetto ricattato a "compiere un qualsiasi atto od astenersene", la condotta va ricondotta alla fattispecie prevista dall'art. 3 legge 718/1985.».

Considerazioni critiche

In base a qualunque tipo di considerazione, e con buona pace di una certa pervicacia giurisprudenziale, appare chiaro come, circa il sequestro di persona a scopo di estorsione, la tesi dell'identità tra ingiusto profitto e qualsiasi utilità, anche di carattere non economico o patrimoniale, rappresenti una chiara distonia ordinamentale, giacché in contrasto con la sistematica codicistica, che lo considera pur sempre un reato contro il patrimonio; con la semantica giuridica, giacché, quando il legislatore intende riferissi a una utilità qualsiasi, lo dice espressamente, si pensi all'art. 317 c.p. (Concussione), agli artt. 318 e ss. c.p. (Corruzioni ed istigazioni varie), agli artt. 2635 e ss. c.c. (Corruzione tra privati ed istigazione), tutti casi in cui il Legislatore parla di denaro o altra utilità, mentre in altri articoli dello stesso corpo normativo si fa espresso riferimento all'ingiusto profitto, ad esempio nell'art. 2633 c.c. (Indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori), nell'art. 2634 c.c. (Infedeltà patrimoniale) e nell'art. 2636 c.c. (Illecita influenza sull'assemblea), a chiara significazione del fatto che, tra le due nozioni, c'è una differenza normativamente sancita; nonché, infine, in aperta distonia con la semantica socio-economica corrente, che associa sempre alla nozione di profitto un significato attinente al patrimonio ovvero ad un bene, cosa o elemento economicamente valutabili.

A maggior ragione, poi, questa conclusione s'impone a partire dal 1985, giacché proprio l'esistenza nell'ordinamento, sebbene spesso dimenticata, di un reato come l'art. 3 della legge 718/1985, comporta un riallineamento dei profili distintivi tra il medesimo e il sequestro di persona, per così dire, “semplice”, nonché quello a scopo di estorsione, con l'adozione di una più rigorosa e coerente nozione di “ingiusto profitto”, propria solo di quest'ultimo.

La presenza, infatti, di una forma di sequestro avente una finalità pretensiva – ma non estorsiva, stante il fatto che l'art. 3 della l. 718/1985 contiene un'espressa riserva di ricorrenza dell'art. 630 c.p. – indicata testualmente come un qualsiasi atto, rende insostenibile la tesi giurisprudenziale secondo la quale per ingiusto profitto debba intendersi una qualsiasi utilità, anche di carattere non economico o patrimoniale, giacché, se così fosse, una disposizione come l'art. 3 predetto non avrebbe ragione di esistere.

Anche l'esistenza dell'art. 3 della l. 718/1985, quindi, impone di ravvisare il sequestro semplice, ex art. 605 c.p., laddove il soggetto agente sia mosso dal mero dolo generico di privare il soggetto passivo della libertà personale; il sequestro di persona a scopo di estorsione, ex art. 630 c.p., laddove persegua il dolo specifico dell'ingiusto profitto, ossia persegua il conseguimento di un qualche beneficio economico o almeno economicamente valutabile; infine, il sequestro di ostaggi, ex art. 3 della l. 718/1985 (oggi previsto dall'art. 289-ter c.p. sotto la rubrica Sequestro di persona a scopo di coazione), laddove persegua il dolo specifico di costringere un terzo a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene.

D'altro canto la stessa Suprema Corte, nella sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 14802/2012, pur non affrontando lo specifico tema della nozione di ingiusto profitto, nell'indicare il dolo specifico del reato di sequestro a scopo di estorsione, che lo differenzia dal sequestro semplice, affermò: «Nel sequestro di persona a scopo di estorsione, la cui tipicità è data dal dolo specifico, la persona è mercificata, come risulta dalla stretta correlazione posta tra il fine del sequestro, che è il profitto ingiusto, e il suo titolo, cioè il prezzo della liberazione.».

Il concetto della “mercificazione della persona”, infatti, rende bene l'idea del senso e dello scopo del reato, che è quello di punire la condotta di chi degrada l'essere umano ad un ben materiale da scambiare con un altro bene materiale, nell'ottica di una perversa operazione economica, il che assona bene con l'idea di ingiusto profitto sempre riconducibile all'area dei beni patrimoniale o comunque economicamente valutabili.

Detto questo, però, occorre precisare che il tratto comune tra i due ultimi reati, è costituito dalla “rilevanza giuridica” della pretesa, ossia la minima ed astratta idoneità a produrre delle conseguenze e delle modifiche nel mondo del diritto, ove accolta.

Infatti, da un lato, questo elemento costituisce un tratto sistemico ed indefettibile, giacché ove la pretesa fosse “giuridicamente irrilevante”, sarebbe pure improprio ricollegarvi un qualsiasi effetto giuridico e resterebbe, in tal caso, solo il tratto della privazione della libertà, ossia il sequestro “semplice”; dall'altro, è la stessa lettera dell'art. 3 della l. 718/1985 (oggi art. 289-ter c.p.) ad imporre una simile conclusione, laddove parla di “qualsiasi atto” e non di un “qualsiasi comportamento”, ossia sembra chiaramente riferirsi ad una pretesa che possieda forma è sostanza giuridica, nel senso sopra precisato.

In conclusione

Concludendo, è da ribadire che stupisce, anche a fronte di una così chiara presa di posizione del giudice delle leggi, l'ostinazione della giurisprudenza di legittimità nel sostenere una nozione di ingiusto profitto riconducibile a una qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale; ciò anche in considerazione della chiarita funzione “residuale”, ovvero di chiusura del sistema, propria dell'art. 3della legge 26 novembre 1985, n. 718 (oggi, in virtù del principio di riserva di codice, anastaticamente trasfuso nell'art. 289-ter c.p.), vale a dire idoneo a coprire tutte le altre pretese di natura non economica (né terroristica o eversiva, ex art. 289-bis c.p).

La cosa è ancor più stupefacente ove si ponga mente al fatto che la stessa giurisprudenza di legittimità, ad altri fini, mostra di avere una nozione più ortodossa di profitto, ad esempio nella materia dei sequestri e delle confische, a riprova che, quella adottata in tema di sequestro a scopo di estorsione, è assolutamente ad usum delfini per tappare un presunto “buco normativo”, che però non c'è, almeno a far data dal 1985.

Resta da dire, infine, che la questione non è puramente accademica, perché la disciplina dell'art. 3 della l. 718/1985 (così come quella dell'attuale art. 289-ter c.p.), sebbene molto simile, rimane comunque più favorevole al condannato di quella dell'art. 630 c.p., basti pensare alla previsione del comma 3 del primo articolo, che recita: «Se il fatto è di lieve entità si applicano le pene previste dall'articolo 605 del codice penale aumentate dalla metà a due terzi»; laddove, invece, il secondo, nelle medesime circostanze, prevede (e a seguito dell'intervento manipolativo della Corte cost. n. 68/2012) solo un'ordinaria diminuzione di pena, ossia non oltre un terzo, ex art. 65, n. 3, c.p.

Inoltre, una situazione peggiore si riscontra anche a livello esecutivo, giacché l'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., vieta la sospensione dell'ordine di esecuzione del P.M.: «nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni»; tra cui è annoverato anche l'art. 630 c.p., alla condanna per il quale, inoltre, consegue l'ulteriore limitazione all'accesso ai benefici penitenziari prevista dallo stesso art. 4-bis, commi 1 e 1-bis,ord. pen.

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