Conseguenze dell'omessa valutazione delle memorie delle parti nel processo penale

Maria Hilda Schettino
02 Luglio 2018

Quali siano i vizi che investono il provvedimento del giudice che non valuti le memorie difensive prodotte dalle parti è un tema oggetto di un acceso dibattito in seno alla Cassazione penale la quale, da ultimo, si è pronunciata sul punto con la sentenza n. 14975 del 2018. In termini generali va ribadito, con la dottrina più attenta, come il diritto ad un processo penale incentrato sul contraddittorio implichi tanto per l'accusa, quanto per la difesa, la facoltà di conoscere le osservazioni e gli elementi di prova prodotti dalla controparte, nonché di discuterli – appunto in contraddittorio – innanzi a un giudice terzo e imparziale.
Abstract

Quali siano i vizi che investono il provvedimento del giudice che non valuti le memorie difensive prodotte dalle parti è un tema oggetto di un acceso dibattito in seno alla Cassazione penale la quale, da ultimo, si è pronunciata sul punto con la sentenza n. 14975 del 2018.

L'Autore, dopo un inquadramento di carattere generale in merito alla disciplina delle memorie di parte, analizza i diversi orientamenti giurisprudenziali inerenti le conseguenze processuali della loro omessa valutazione nella motivazione della decisione del giudice.

La disciplina delle memorie difensive tra principio del contraddittorio e principio di parità delle parti nel procedimento penale

In termini generali va ribadito, con la dottrina più attenta, come il diritto ad un processo penale incentrato sul contraddittorio implichi tanto per l'accusa, quanto per la difesa, la facoltà di conoscere le osservazioni e gli elementi di prova prodotti dalla controparte, nonché di discuterli – appunto in contraddittorio – innanzi a un giudice terzo e imparziale.

È evidente, però, che il principio testé richiamato va coniugato in relazione alle varie fasi del procedimento atteggiandosi in maniera differente in relazione ai diversi momenti procedimentali.

In questa ottica, è noto, come le scelte del Legislatore del 1988 (uscite ulteriormente rafforzate dalla riforma dell'art. 111 Cost.) furono chiare nel senso di eleggere il contradditorio a strumento conoscitivo privilegiato per il giudice e principale garanzia di una difesa finalmente effettiva, anche attraverso la disposizione di cui all'art. 121 c.p.p.

Ed è senz'altro in attuazione del principio del contraddittorio che l'art. 121, comma 1, c.p.p. legittima le parti, in ogni stato e grado del procedimento, a depositare memorie o richieste scritte nella cancelleria del giudice. Si tratta, dunque, di una norma cardine del sistema accusatorio, così come voluto dalla terza direttiva della legge delega per l'emanazione del codice di procedura penale del 1988 – l. 81/1987 –, che comporta la piena partecipazione critica, argomentativa e tecnica della difesa sin dallo svolgimento delle attività di indagine.

In altri termini, sin dall'iscrizione della notizia di reato e fino alla fase dell'esecuzione, la norma garantisce la piena partecipazione di accusa e difesa, su basi di parità, per tutta la durata del procedimento penale, purché tali richieste siano indirizzate al giudice che procede.

Si tratta di una facoltà assai ampia e solidamente legata al diritto di difesa giacché, con tale atto, le parti possono comunicare al giudice elementi e circostanze fino a quel momento ignoti a sostegno della propria linea difensiva.

E, oltre a essere un prezioso veicolo per nuove argomentazioni difensive, le memorie in questione sono anche uno strumento utilissimo per la valutazione ragionata di elementi già acquisiti nel corso delle indagini preliminari o del processo.

L'introduzione dell'art. 121 nel codice di procedura penale del 1988 ebbe una portata dirompente per l'epoca poiché, collocandosi in un contesto di parità tra accusa e difesa, del tutto sconosciuto nel previgente sistema processuale, si distingueva nettamente dal corrispettivo art. 145 del codice di procedura penale del 1930.

In primo luogo, infatti, il Legislatore del 1988 aveva voluto accordare il diritto di presentare memorie e richieste in ogni stato e grado del procedimento, sopprimendo l'originario riferimento al processo proprio al fine di dilatare l'ambito di applicazione della disposizione, ricomprendendovi anche la fase delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare (Cfr.: Corte cost., n. 238/1991).

Il riconoscimento di una siffatta facoltà, come accennato, non esclude che il Legislatore possa disciplinarne l'utilizzo in vario modo predisponendo termini e modalità in relazione alla fase in cui se ne faccia ricorso.

In base al tipo di rito adottato, tale facoltà potrà quindi subire delle limitazioni temporali, come avviene, ad esempio, nel caso del giudizio in Cassazione, posto che l'art. 611 c.p.p. – ritenuto dalla giurisprudenza applicabile anche nel caso di udienza pubblica – fissa stringenti termini per il deposito di memorie e repliche prima della data di udienza (Cfr.: Cass. pen., Sez. II, n. 1417/2012) o nei procedimenti in camera di consiglio ai sensi dell'art. 127 c.p.p., per i quali il deposito delle memorie difensive è regolato non già dalla generale disposizione dell'art. 121 c.p.p. ma da quella speciale di cui al comma 2 dell'art. 127 c.p.p., con la conseguenza che dovrà essere rispettato, a pena di inammissibilità della produzione, il termine dei cinque giorni precedenti l'udienza (Cfr.: Cass. pen., Sez. V, n. 16311/2014).

Quale che siano le modalità previste, resta in ogni caso intatta la finalità della disposizione di assicurare il più ampio esercizio del diritto di difesa, garantendo alle parti il diritto di interloquire con il giudice anche al di fuori, e a prescindere, dalle udienze eventualmente fissate nel procedimento.

In secondo luogo, poi, diversamente dal passato, l'art. 121 c.p.p. ha incluso tutte le parti processuali nel novero dei soggetti legittimati ad esercitare il c.d. ius postulandi e, dunque, non solo le quelle private – imputato, persona indagato, persona offesa, parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria – e i loro difensori ma anche la pubblica accusa.

Ciò è stato chiarito anche dalla giurisprudenza di legittimità che, a Sezioni unite, ha statuito che quale parte, per quanto pubblica, il pubblico ministero ha la facoltà di interloquire, presentando memorie o richieste scritte e, quindi, anche proponendo osservazioni e contestazioni agli argomenti addotti dall'imputato a sostegno delle proprie argomentazioni (Cfr.: Cass. pen., Sez. unite, n. 13687/2003).

Di conseguenza, l'unico soggetto destinatario dell'esercizio di tale diritto sarà il giudice, nella cui cancelleria dovranno essere depositate le memorie, fatto salvo quanto previsto dall'art. 367 c.p.p. in virtù del quale, nel corso delle indagini preliminari, i difensori delle parti private hanno la facoltà di presentare memorie direttamente al P.M. che, in tale fase, riveste sicuramente un ruolo prevalente.

Alla disciplina generale fanno eccezione le ipotesi in cui a presentare la memoria sia un soggetto detenuto o internato in un istituto per l'esecuzione di misure di sicurezza. In tali casi, le memorie – come le richieste e le impugnazioni – dovranno essere ricevute dal dDirettore dell'istituto; se invece si tratta di un soggetto arrestato o in detenzione domiciliare o custodito in luogo di cura, le memorie saranno ricevute da un ufficiale di P.G. In entrambi i casi, comunque, i soggetti riceventi hanno l'obbligo di immediata trasmissione all'Autorità competente (art. 44 disp. att. c.p.p.).

Sebbene inizialmente sia stato obiettato che il deposito di memorie mal si concilierebbe con l'iconografia del processo penale, caratterizzato dai principi di oralità e immediatezza, non vi è chi non veda come la produzione di un documento o più ancora di una memoria difensiva che illustri in modo dettagliato valutazioni, riflessioni e ragionamenti già esposti oralmente o che ci si accinge a trasmettere al giudice anche verbalmente, rappresenti un efficacissimo atto che il magistrato (giudicante e inquirente) potrà valutare in maniera più attenta.

D'altro canto, le stesse tendenze della giurisprudenza di legittimità confermano ancora una volta come l'atto scritto, oltre ad essere la forma di estrinsecazione dello ius postulandi della parte, rappresenti anche una modalità di attuazione del contraddittorio. È questa per esempio l'opzione giurisprudenziale in materia di ricorso in Cassazione nell'ambito delle misure cautelari reali, ove si è appunto stabilito che in tal caso si segue il rito camerale non partecipato ex art. 611 c.p.p. (Cfr.: Cass. Pen., Sez. unite, n. 51207/2015)

In conclusione, bisogna allora considerare che non tutte le fasi del procedimento penale permettono una interlocuzione diretta con il giudice, per cui la memoria rappresenta talvolta l'unico strumento che la parte ha per veicolare le proprie argomentazioni difensive.

Il problema dell'omessa valutazione delle memorie difensive nella giurisprudenza di legittimità

Nell'ambito degli atti previsti dall'art. 121 c.p.p., le memorie si distinguono dalle richieste perché, pur condividendo con le prime la funzione di ampliare la piattaforma conoscitiva del giudice, prevedono un diverso contenuto e comportano l'insorgenza di incombenze differenti gravanti sul magistrato che le riceve.

In particolare, se la richiesta scritta mira a sollecitare un'iniziativa o l'adozione di un determinato provvedimento dell'Autorità giudiziaria, la memoria tende a esplicitare o a chiarire le opinioni e le ragioni della parte.

Ne discende che, se nel primo caso l'istante ha diritto a una specifica e autonoma delibazione da parte del giudice, che dovrà rispondere nel termine ordinatorio di quindici giorni, viceversa nella seconda ipotesi, non si impone alcun provvedimento giudiziale, in quanto le memorie confluiscono nel materiale processuale di cui occorrerà tenere conto in sede di decisione.

Cosa succede, allora, se il giudice omette di valutare il contenuto probatorio delle memorie difensive nella motivazione del suo provvedimento?

Sul punto si registra un acceso dibattito nella giurisprudenza di legittimità.

In una prima fase la Suprema Corte aveva attribuito agli strumenti processuali disciplinati dall'art. 121 c.p.p. una funzione di garanzia della piena partecipazione della difesa allo svolgimento delle attività processuali e, pertanto, aveva statuito come il rigetto immotivato dell'istanza di acquisizione di una memoria difensiva o la sua omessa valutazione determinassero la nullità di ordine generale della sentenza o dell'ordinanza, ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p., in quanto impedivano all'imputato di intervenire concretamente nel processo ricostruttivo e valutativo effettuato dal giudice in ordine al fatto-reato, comportando la lesione dei diritti di intervento o assistenza difensiva dell'imputato stesso, oltre a configurare una violazione delle regole che presiedono alla motivazione delle decisioni giudiziarie (Cfr.: Cass. pen., Sez. I, n. 23789/2005; Cass. pen., Sez. I, n. 45104/2005; Cass. pen., Sez. I, n. 31245/2009; Cass. pen., Sez. I, n. 37531/2010; Cass. pen., Sez. VI, n. 13085/2013).

In proposito, la Cassazione penale aveva, infatti, osservato che la facoltà delle parti di presentare memorie e richieste costituiva uno dei principali strumenti di attuazione del principio del contraddittorio sin dal momento delle indagini preliminari, prima ancora dell'instaurazione del processo (Cfr.: Relazione preliminare al codice di procedura penale del 1988, pp. 177 ss.).

Di conseguenza, la motivazione stessa dell'atto conclusivo del percorso processuale risultava indirettamente viziata per il mancato apprezzamento degli argomenti sviluppati nella memoria presentata da una delle parti processuali, in relazione alla fondatezza o meno delle diverse questioni che investono i punti e capi della decisione fatta oggetto di impugnazione.

Infatti, secondo quell'orientamento giurisprudenziale, l'incidenza dell'art. 121 c.p.p. sulla conformazione dialettica del processo presupponeva, da un canto, l'operatività dell'obbligo del giudice di pronunciarsi sulle memorie e sulle richieste delle parti con carattere di decisività e, dall'altro, la sanzione della nullità in caso di omessa pronuncia. Ciò trovava riscontro anche nella disciplina dell'art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p., in relazione ai requisiti della sentenza e dell'art. 292, comma 1, lett. c-bis), c.p.p., per le misure cautelari personali, che impongono al giudice di esporre in modo conciso i motivi della decisione, indicando le prove poste a base della stessa e gli elementi forniti dalla difesa.

Pertanto, l'omessa valutazione di memorie difensive poteva essere fatta valere in sede di gravame quale causa di nullità della sentenza o dell'ordinanza impugnata, la cui motivazione poteva risultare indirettamente viziata per la mancata considerazione di quanto illustrato con la memoria difensiva, in relazione alle questioni devolute con l'impugnazione (Cfr.: Cass. pen., n. 210/1996).

Recentissime dalla Cassazione

Più di recente la Suprema Corte è tornata sul tema dei vizi derivanti dall'omessa valutazione delle memorie difensive, mutando radicalmente il suo orientamento.

Secondo tale indirizzo, l'omessa valutazione di una memoria difensiva non determina alcuna nullità ma tuttalpiù può influire sulla congruità e sulla correttezza logico-giuridica della motivazione del provvedimento che definisce la fase o il grado nel cui ambito sono state espresse le ragioni difensive (Cfr.: Cass. pen., Sez. V, n. 4031/2015; Cass. pen., Sez. V, n. 51117/2017; Cass. pen., Sez. II, n. 14975/2018).

La Corte esclude che il semplice deposito di una memoria difensiva nel corso del procedimento, il cui contenuto non sia oggetto di specifica confutazione da parte del giudice, determini una nullità, stante il fatto che tale sanzione nel nostro ordinamento è sempre prevista a pena di tassatività ai sensi dell'art. 177 c.p.p. E ciò non è in alcun modo sancito né dall'art. 121 c.p.p., che si limita a dare facoltà alle parti di depositare simili atti nel corso del procedimento, né da altra disposizione del codice di rito.

Da ciò deriva che, se certamente le ragioni difensive necessitino di essere esaminate attentamente dal giudice cui vengono rivolte, siano esse espresse in un motivo di impugnazione, in una memoria scritta o in un intervento orale, tuttavia le conseguenze di una loro mancata considerazione rifluiscono sulla congruità e correttezza logico-giuridica della motivazione della decisione che chiude la fase o il grado nel cui ambito tali ragioni, eccezioni o motivi di impugnazione siano stati espressi (Cfr.: Cass. pen., Sez. VI, n. 18453/2012).

Così, l'omessa valutazione della memoria difensiva regolarmente acquisita agli atti non potrà essere dedotta nei limiti del vizio di violazione di legge di cui all'art. 606, lett. b), c.p.p. ma darà luogo a un vizio di motivazione nella misura in cui sia dimostrato che argomenti difensivi rilevanti e decisivi siano stati pretermessi dal giudice del merito.

Pertanto, sulla base di questo nuovo orientamento giurisprudenziale, esclusa l'automatica rilevanza dell'omessa valutazione di memorie quale causa di nullità, sarà onere della parte che deduca l'omessa valutazione indicare in fase di impugnazione quale argomento decisivo per la ricostruzione del fatto era contenuto nelle memorie. In caso contrario, il motivo di gravame proposto sul punto dovrà considerarsi generico.

In conlusione

Le considerazioni sin qui svolte consentono allora di affermare che, se è vero che con il codice del 1988 si passa dal contraddittorio sulla prova al contraddittorio per la prova non può non riconoscersi massima importanza agli strumenti che di tale principio costituiscono attuazione.

Se cioè il contraddittorio, qualunque forma assuma, è divenuto il metodo conoscitivo più efficace allo stesso non può e non deve rinunciarsi.

Questo profilo, ad avviso di chi scrive, implica però la necessaria valorizzazione nella parte motiva dei provvedimenti dei giudici di qualsiasi contributo proveniente dalle parti.

A fronte di una siffatta valutazione di carattere generale, bisogna però prendere atto che il recente approdo della giurisprudenza di legittimità, seguendo una interpretazione strettamente letterale del dato normativo, esclude che l'omessa valutazione di una memoria difensiva costituisca una ipotesi di nullità.

Pertanto, la omessa valutazione della stessa potrà al più rilevare sotto il profilo angusto del vizio di motivazione.

Rispetto però a una disposizione che oltre a riconoscere una facoltà assolutamente centrale del diritto di difesa, rappresenta una evidente estrinsecazione del contraddittorio, appare allora auspicabile che il contrasto sorto in seno alla giurisprudenza di legittimità il quale, senza forzature, può essere definito ancora attuale, sia devoluto al supremo organo di nomofilachia.

Guida all'approfondimento

G. DEAN, (a cura di), Trattato di Procedura penale - Vol. I: Soggetti e atti - Tomo II: Gli atti, Torino, 2008, pp. 31 ss.;

A. GAITO (a cura di), Procedura Penale, Milano, 2018, pp. 201 e ss.;

F. RIGO, La struttura della sentenza secondo la legge di riforma n. 103 del 2017, in Giurisprudenza Italiana, 2017, 10, 2279;

V. DE GIOIA, Compendio di diritto processuale penale, Milano, 2018;

P. TONINI; Manuale di procedura penale, Milano, 2017, pp. 184 ss.

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