La responsabilità penale del sanitario e l’imperizia “osservante”. Dubbi e soluzioni della giurisprudenza

16 Luglio 2018

Chi si proponesse di ricercare le peculiarità della responsabilità penale del professionista sanitario dovrebbe, innanzitutto, ripercorrere i passaggi che hanno segnato l'evoluzione storica di questa problematica. Sebbene, infatti, il Legislatore sia intervenuto espressamente solo in tempi recenti per cercare di delineare uno ...
Abstract

Chi si proponesse di ricercare le peculiarità della responsabilità penale del professionista sanitario dovrebbe, innanzitutto, ripercorrere i passaggi che hanno segnato l'evoluzione storica di questa problematica.

Sebbene, infatti, il Legislatore sia intervenuto espressamente solo in tempi recenti per cercare di delineare uno statuto della colpa penale in ambito sanitario distinguendolo dalle previsioni generali, nondimeno è da diversi decenni che si è presa compiuta coscienza delle particolari questioni che si agitano in questo settore.

Si intende con ciò affermare che le recenti leggi che hanno ridisegnato la responsabilità colposa in ambito sanitario sono il punto di arrivo di un lungo percorso, per molti versi accidentato, segnato da un serrato confronto tra dottrina e giurisprudenza e da forti prese di posizione delle categorie interessate, tese a sottolineare quali fossero le preoccupazioni della classe medica e i riflessi di tali preoccupazioni sulla loro attività professionale e, in definitiva, sul servizio sanitario nel suo insieme.

Le “tradizionali” problematiche della responsabilità medica in campo penale

Non è questa la sede per ripercorrere minutamente questo complesso iter storico. Ci si limita per il momento a indicare le tradizionali questioni che si agitano nel campo della responsabilità penale dei sanitari.

Questioni che, in modo affatto approssimativo e certamente non esaustivo, possono così riassumersi:

  • individuazione delle c.d. leges artis;
  • questione del grado della colpa (e rapporti tra codice penale e art. 2236 c.c.);
  • rapporti fra imprudenza, negligenza e imperizia;
  • il problema di arginare la «medicina difensiva».

Procediamo con ordine.

Le leges artis. Nell'ambito del procedimento penale, per l'indicazione della condotta doverosa in campo sanitario (ossia del comportamento ideale che l'esercente la professione sanitaria dovrebbe tenere in relazione a ciascuna singola attività) ci si avvale tradizionalmente delle opinioni di periti e consulenti.

È quindi in larga parte affidata al contributo di esperienza e di sapere scientifico di soggetti qualificati (in particolare, specialisti nelle singole branche della medicina e della chirurgia, o della medicina legale) l'individuazione, nei singoli casi concreti, del c.d. comportamento alternativo diligenteche l'agente modello (ossia, come un tempo si affermava, il professionista sanitario che agisce secondo la migliore scienza ed esperienza) avrebbe dovuto tenere nelle medesime condizioni.

Nel tempo si è avvertita la necessità di individuare in modo più oggettivo il parametro comportamentale del sanitario, anche per evitare che la decisione del giudice finisca, più o meno direttamente e più o meno consapevolmente, per essere “subappaltata” ai depositari della scienza chiamati a fornire un contributo di sapere e di esperienza nell'ambito del giudizio. Lo strumento per definire in modo (per quanto possibile) omogeneo i criteri comportamentali dei sanitari nelle diverse situazioni era costituito da prescrizioni a carattere generale (ancorché talora molto articolate e minuziose), variamente definite e caratterizzate: a seconda dei casi si trattava di linee guida, di protocolli o di “best practices”.

Nell'esperienza italiana, talune di queste prescrizioni erano (e sono) disseminate sia in alcuni testi normativi, sia in documentazioni scientifiche intese a standardizzare le procedure da adottare in determinate situazioni.

Sul piano sistematico, e fatta salva la possibilità di prescrizioni operative anche assai dettagliate, le linee guida sono considerate come raccomandazioni di ordine generale, rispetto alle quali resta salva la libertà di scelta professionale (e la responsabilità) del sanitario nel rapportarsi al caso concreto, nelle sue molteplici varianti e peculiarità; questo anche se il ricorso a queste prescrizioni è stato visto da alcuni come il segno di una tendenza a “normativizzare” le regole di cautela, altrimenti affidate ai consueti criteri generali della prudenza, della diligenza o della perizia.

Il grado della colpa e i rapporti tra la colpa penale e l'art. 2236 c.c.Sul piano del diritto positivo, le prescrizioni generali in materia di colpa penale non conoscono una distinzione della colpa in base al grado della stessa (colpa grave, lieve o intermedia).

Nondimeno, nell'ambito della colpa penale dell'esercente la professione sanitaria, la giurisprudenza per lungo tempo si era attenuta al principio civilistico di cui all'art. 2236 c.c., secondo il quale «il prestatore d'opera risponde solo in caso di dolo o di colpa grave (e, in specie, sotto quest'ultimo profilo, in caso di errore grossolano secondo il parametro dell'imperizia) quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà» (vds. Cass. pen., Sez. IV, 19 febbraio 1981, n. 5860, Desiato; Cass. pen., Sez. IV, 5 novembre 1984, n. 12249, Pinedda; Cass. pen., Sez. IV, 27 gennaio 1984, n. 6650, Ricolizzi; Cass. pen., Sez. IV, 2 ottobre 1990, n. 14446, Fonda). Come di qui a poco si vedrà, questo orientamento di minor rigore aveva avuto anche l'avallo della Corte costituzionale (con la sentenza n. 166/1973).

All'indirizzo appena richiamato fece seguito un indirizzo per molti versi opposto, in base al quale la colpa professionale del medico doveva valutarsi comunque secondo i generali parametri di cui all'art. 43 c.p. (Cass. pen., Sez. IV, 29 settembre 1997, n. 1693, Azzini e a.; Cass. pen., Sez. IV, 16 giugno 2005, n. 28617, De Stefano e a.; Cass. pen., Sez. IV, 21 aprile 2006, n. 21473, Maccarone e a.

Tuttavia, in alcune più recenti sentenze, venne di nuovo richiamato il principio enunciato dall'art. 2236 c.c. come utile criterio di riferimento per parametrare la colpa penale del sanitario, sempre sotto il profilo dell'imperizia (Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2011, n. 4391, P.C. in proc. Di Lella).

Rapporti fra imprudenza, negligenza e imperizia. Data la sua tradizionale collocazione all'interno della colpa generica, il parametro deontologico del comportamento del medico (violato il quale si pone il problema della natura colposa della condotta del sanitario penalmente rilevante) è stato – almeno finora – costituito dalle nozioni di prudenza, diligenza e perizia; specularmente rileva la violazione delle regole cautelari posta in essere con imprudenza, negligenza o imperizia. Ciò pone l'esigenza di individuare il contenuto delle nozioni di imprudenza, di negligenza e di imperizia e di distinguere fra tali nozioni.

In dottrina, come noto, alcuni Autori hanno cercato di dare una definizione chiara e netta delle tre nozioni (per citarne alcuni, nella recente manualistica, D. PULITANO', Diritto penale, Torino, 2015, p. 332, nota 6; G. MARINUCCI – E. DOLCINI, Manuale di Diritto penale, Parte generale, Giuffrè 2015, p. 338; A. CADOPPI – P. VENEZIANI, Elementi di Diritto penale, Parte generale, Padova, 2015, p. 366). In termini affatto generali e consapevolmente imprecisi, si tende ad ascrivere alla categoria dell'imperiziail comportamento del soggetto inosservante delle regole cautelari perché “inesperto”, soprattutto sul piano esecutivo; alla categoria della negligenza il comportamento del soggetto inosservante per non avere fatto ciò che era doveroso fare; alla categoria dell'imprudenza il comportamento del soggetto inosservante per avere fatto ciò che era doveroso non fare. Ma, a fronte di tali tentativi, diversi Autori riconoscono e mettono in luce la sussistenza di margini talora evanescenti, quando non di (almeno parziali) sovrapposizioni, tra le tre nozioni appena richiamate (si vedano ad es. O. DI GIOVINE, Colpa penale, “legge Balduzzi” e “disegno di legge Gelli-Bianco”: il matrimonio impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in Cass. pen., 2017, n. 1, p. 386; e A. GASPARRE, in Caso di malpractice medica: l'esonero di responsabilità per colpa lieve vale solo per l'imperizia?, nota a Cass. pen., Sez. IV, 11 maggio 2016, n.23283, in Diritto & Giustizia).

La rilevanza del tema nell'ambito della responsabilità penale del sanitario era alla base delle preoccupazioni della Corte costituzionale, la quale, nella citata sentenza n. 166/1973, affermava che la limitazione di responsabilità ai casi di colpa grave, che veniva ricavata dal citato art. 2236 c.c., «non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o di diligenza. Anzi, c'é da riconoscere che, mentre nella prima l'indulgenza del giudizio del magistrato é direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa» (ossia l'imprudenza e la negligenza, che secondo la Consulta sono integrate da «non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista») «ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di normale severità».

La “medicina difensiva”. Dottrina e giurisprudenza hanno messo in luce il rischio che previsioni troppo stringenti in tema di colpa medica – tali cioè da esercitare una pressione particolarmente incisiva sulle condotte diagnostiche, terapeutiche o profilattiche tenute dai sanitari – possano spingere verso l'adozione di prassi oltremodo guardinghe, costituite ad esempio dal praticare cure eccessive e talora non appropriate, dall'eseguire interventi chirurgici sproporzionati rispetto alle necessità reali, o dal prescrivere esami o analisi del tutto inutili; o, di contro, dall'astenersi dall'effettuare cure magari consigliabili, ma foriere di rischi.

Questo atteggiamento, denominato medicina difensiva, nasce dal timore che l'insoddisfazione, giustificata o meno, dei pazienti e delle loro famiglie per l'attività sanitaria praticata si traduca nel moltiplicarsi di azioni di responsabilità civile e (soprattutto) di giudizi penali a carico dei sanitari; e dalla speranza del medico di potersi sottrarre a tali strascichi giudiziari trovando riparo sotto l'usbergo di comportamenti (fin troppo) scrupolosi e circospetti. Siffatte condotte, su più vasta scala, sono suscettibili di generare rallentamenti nel funzionamento del sistema, e/o di spingere verso soluzioni caratterizzate da costi sproporzionati, quando non addirittura ricadute paradossalmente dannose per il singolo paziente, come l'allungamento dei tempi di guarigione, o addirittura il peggioramento delle condizioni: una vera e propria eterogenesi dei fini (sulla questione si rinvia a F. AMBROSETTI, Il quadro attuale, tra richieste di depenalizzazione e medicina difensiva, in N. TODESCHINI (a cura di), La responsabilità medica, Utet 2016, pp. 424-426; e a D. CHINDEMI, Responsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica o privata, Milano, 2018, p. 13).

Va annotato, peraltro, che una disamina del fenomeno da altra angolatura, non meno scrupolosa e certamente scevra da preconcetti, ha condotto alcuni Autori a ridimensionarne in modo significativo la portata (vds. C. BRUSCO, La colpa penale e civile, Giuffrè 2017, pp. 185-187 e bibliografia ivi citata).

Sta di fatto che lo spettro della medicina difensiva ha accentuato la tendenza, sempre più sollecitata dalla classe medica e in certe fasi condivisa dalla giurisprudenza penale, a circoscrivere la responsabilità (soprattutto, ma non esclusivamente, penale) del sanitario. In tale quadro si inscriveva il richiamo, operato sovente anche nell'ambito penale, alla limitazione di responsabilità del sanitario prevista in ambito civilistico dall'art. 2236 c.c.

Gli interventi legislativi di questi ultimi anni (dapprima la legge Balduzzi, da ultimo la legge Gelli Bianco) sono stati visti da più parti come una risposta al fenomeno della medicina difensiva, attraverso la quale cercano di recepire le istanze del personale sanitario tese a ottenere una limitazione della responsabilità professionale: sulla questione si rimanda all'interessante disamina di N. TODESCHINI, Illeciti vecchi e nuovi, in N. TODESCHINI (a cura di), La responsabilità medica, Padova, 2016, cit., in particolare pp. 8-13.

Si vedrà di qui a breve in che modo e con quali risultati.

La legge Balduzzi e la “colpa qualificata” in ambito sanitario

Con l'entrata in vigore della legge 189/2012 (legge di conversione, con modifiche, del d.l. 158/2012, c.d. decreto Balduzzi) il Legislatore introduceva una sostanziale modifica alle previsioni che fino ad allora avevano regolato la responsabilità penale in campo sanitario.

Veniva fatto, per la prima volta, un espresso riferimento all'utilizzo delle cosiddette linee guida e delle buone pratiche, intese come parametro per verificare, nei singoli casi, l'adesione o meno del medico alle leges artis e per individuare il comportamento alternativo diligente che il sanitario, in caso di violazione di quelle regole, avrebbe dovuto tenere.

Il primo comma dell'articolo 3 della legge di conversione (frutto di modifiche sostanziali rispetto al testo, ancor meno chiaro e preciso, contenuto nel decreto legge) prevedeva infatti che «l'esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve».

Questa disposizione poneva fin da subito rilevanti questioni interpretative.

In primo luogo, veniva sottolineata la scarsa precisione del riferimento normativo, che richiamava le linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e richiedeva che esse fossero accreditate dalla comunità scientifica.

In secondo luogo, l'introduzione del criterio della colpa lieve poneva il problema dell'evanescenza della zona di discrimine fra la colpa qualificabile come penalmente irrilevante, ossia lieve, e quella qualificabile come penalmente rilevante – in quanto grave, o comunque non lieve –, specie se rapportata al campo medico.

Come fra un attimo si vedrà, la legge Gelli-Bianco (legge 24/2017) ha apparentemente eliminato ambedue le questioni, introducendo un procedimento di validazione e pubblicazione delle line guida ed eliminando il riferimento testuale al grado della colpa. Ma questo non ha risolto tutti i problemi e anzi, se possibile, ne ha creati di peggiori.

Dalla legge Balduzzi alla legge Gelli-Bianco

A cinque anni di distanza dalla discussa legge Balduzzi, il Legislatore è nuovamente intervenuto per dare un nuovo assetto alla disciplina della c.d. colpa medica (e, più in generale, sanitaria) varando, dopo un non facile iter parlamentare, la c.d. legge Gelli - Bianco.

Giusto per richiamare le disposizioni di maggior interesse in questa sede, una di esse è sicuramente l'art. 5 della legge. La norma (al comma 1) obbliga infatti gli esercenti le professioni sanitarie – nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale – ad attenersi, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 dello stesso art. 5, elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con un emanando decreto del Ministro della salute (sulla base dei criteri di cui al successivo comma 2), da aggiornare con cadenza biennale. Viene poi precisato che, in mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si dovranno attenere alle buone pratiche clinico-assistenziali.

Di interesse preminente per il penalista è però l'art. 6, che abroga il primo comma dell'art. 3 della legge Balduzzi e introduce un nuovo articolo nel codice penale: l'art. 590-sexies c.p. (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), che così recita:

«1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma». «2. Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

Di più diretto interesse civilistico-risarcitorio sono i successivi articoli da 7 a 13 della nuova legge. Merita di essere qui ricordato in particolare l'art. 7, che disciplina la responsabilità civile della struttura sanitaria o sociosanitaria (pubblica e privata) e dell'esercente la professione sanitaria: al riguardo è interessante notare che, per la liquidazione del danno risarcibile, viene espressamente richiamata dalla legge la rilevanza penale della condotta del sanitario: il terzo comma dell'art. 7, infatti, prevede che «il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'art. 5 della presente legge e dell'art. 590-sexies del codice penale».

Merita infine una certa attenzione l'art. 15 della nuova legge, che introduce nuove disposizioni per la nomina dei consulenti tecnici d'ufficio e dei periti nei giudizi (penali e civili) aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, che dovranno tra l'altro essere scelti tra gli iscritti negli albi di cui ai commi 2 e 3 dello stesso art. 15.

Gli elementi qualificanti della legge Gelli-Bianco e le questioni che ne derivano

Si è ravvisata l'opportunità di ricostruire sinteticamente i punti salienti della legge Gelli-Bianco per poterne contestualizzare le disposizioni di interesse penalistico.

Di seguito si evidenziano alcuni punti rilevanti.

L'esercente la professione sanitaria. La legge, rivolgendosi agli esercenti le professioni sanitarie, fa un apparente passo in avanti rispetto alla legge Balduzzi, indicando le attività nel cui svolgimento essi sono chiamati a rispettare le previsioni normative: in base all'art. 5 della nuova legge l'obbligo di attenersi alle c.d. linee guida riguarda gli esercenti che agiscano «nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale».

Ma, come si è giustamente osservato (C. BRUSCO), non risulta esplicitato il riferimento alle attività chirurgiche, nelle quali la potenziale incidenza del rispetto dei protocolli è, notoriamente, più accentuata. Ora, è ben vero che al riguardo può sopperire la latitudine del riferimento alle attività genericamente “terapeutiche”, fra le quali sicuramente si inscrive la quasi totalità di quelle di tipo chirurgico; tuttavia, qualche dubbio in più può venire, ad esempio, in ordine alla riconducibilità alle attività terapeutiche della c.d. chirurgia estetica, che pure presenta aspetti problematici in tema di possibili disallineamenti rispetto a linee guida e buone pratiche. Del pari, come pure è stato rilevato, l'attività ostetrica non viene menzionata fra le attività soggette all'obbligo di attenersi alle linee guida. Una volta di più, il Legislatore, nello sforzo di precisare i contorni di una nozione, ha preteso (e non è la prima volta che accade qualcosa di simile) di elencarne analiticamente gli ambiti applicativi, con il rischio di lasciar fuori di essi ipotesi che non vi era ragione di escludere dalla nuova disciplina.

I reati di riferimento: omicidio e lesioni colpose. La disciplina penale cui si rivolge la legge Gelli-Bianco riguarda esclusivamente i reati di omicidio colposo e di lesioni colpose.

Il dato testuale è, su questo punto, assolutamente inequivocabile. Nondimeno, ci si può chiedere per quale ragione sia rimasto fuori dalla disciplina il reato di interruzione colposa di gravidanza (art. 17, legge 194/1978), che invece non risultava escluso dall'applicazione della legge Balduzzi (vds. infatti Cass. pen., Sez. VI, 13 novembre 2013, n. 660).

L'imperizia e i suoi rapporti con la negligenza e l'imprudenza. La legge Gelli-Bianco (in ciò discostandosi ulteriormente dalla legge Balduzzi) opera una distinzione tra il trattamento riservato alle condotte colpose contrassegnate da imperizia (quanto meno a certe condizioni) e quello riservato alle altre condotte colpose.

Tralasciando per ora l'intricata questione relativa al rispetto delle linee guida pur nell'ambito di una condotta caratterizzata da imperizia, ci si sofferma qui sulla diversa – e già accennata – questione dei rapporti fra la nozione di imperizia e le contigue nozioni di imprudenza e di negligenza.

Sotto il vigore della legge Balduzzi, accanto a sentenze nelle quali si riteneva necessario accertare se vi sia stato un errore determinato da una condotta negligente o imprudente pur a fronte del rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica (Cass. pen., Sez. IV, 5 novembre 2013, n. 18430, Loiotila) ve ne erano altre secondo le quali la disciplina di cui all'art. 3 della legge Balduzzi, pur trovando terreno d'elezione nell'ambito dell'imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell'agente sia quello della diligenza (Cass. pen., Sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 47289, Stefanetti), o comunque in ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall'imperizia (Cass. pen., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, Denegri).

Nell'assetto tracciato dalla legge Gelli-Bianco, pur con tutte le differenze connesse al nuovo statuto della colpa professionale in ambito sanitario, assume rilevanza necessariamente decisiva il ruolo della nozione di imperizia, espressamente qualificato dal Legislatore come funzionale alla valutazione del comportamento del medico alla luce di tale nozione.

Ciò rende ineludibile l'esigenza di precisare i contorni della nozione di imperizia.

Mentre infatti – in base al primo comma dell'art. 6 della nuova legge – il comportamento del sanitario viene adesso ricondotto (di regola) nella generale disciplina della colpa penale, il secondo comma dell'art. 6 prevede, come si è visto, una deroga qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia: in tale ipotesi la punibilità è esclusa, purchè siano «rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

La storia, in un certo senso, si ripete: si è avuto modo di vedere che un atteggiamento di maggiore indulgenza verso le condotte caratterizzate da imperizia (rispetto a quello riservato alle condotte contraddistinte da negligenza o imprudenza) risale alla già menzionata sentenza n. 166/1973 della Corte costituzionale. Resta tuttavia il fatto che la distinzione tra imperizia da un lato, negligenza e imprudenza dall'altro presenta più di una difficoltà, specialmente nei non pochi casi in cui siano difficilmente individuabili gli evanescenti confini fra tali nozioni, come accade nelle ipotesi in cui vi siano margini di sovrapposizione o di compresenza fra di esse.

Le linee guida e le buone pratiche clinico assistenziali. Con la legge Gelli-Bianco, il Legislatore ha avvertito la necessità di circoscrivere e individuare le c.d. linee guida e le c.d. buone pratiche rispetto alla generica dizione adottata sul punto dalla legge Balduzzi. E lo ha fatto dedicando a tali criteri comportamentali (e in particolare alle linee guida) specifiche previsioni, non tanto sotto il profilo definitorio, quanto sotto il profilo del loro censimento, della loro conoscibilità e degli organi abilitati a elaborarle.

Le linee di indirizzo che rilevano a tal fine sono quelle di cui all'art. 5 della riforma, che devono essere elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati, nonché da società scientifiche e da associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco, che sarà istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute; in mancanza, gli esercenti le professioni sanitarie si avvalgono delle buone pratiche clinico-assistenziali.

Va sicuramente apprezzato lo sforzo di conferire maggiore certezza all'individuazione e alla conoscibilità delle linee guida, avvolte com'erano, finora, nella nebulosa definizione data ad esse dalla legge Balduzzi, anche se è tangibile e giustificata la difficoltà – da più parti messa in luce - di individuare in modo preciso e tassativo, nel campo della scienza medica, criteri oggettivi, univoci e applicabili alla generalità dei casi rientranti in specifiche categorie di attività sanitarie: una difficoltà che, per certi versi e in certi ambiti, rasenta l'utopia.

Oltre a ciò si pone, con rinnovato vigore, il problema di stabilire se le nuove “linee guida” saranno o meno qualificabili come vere e proprie disposizioni cautelari codificate, tali da trasformare la responsabilità colposa in ambito sanitario in colpa specifica, anziché generica.

Fino ad oggi, come si è visto, la nozione di linee guida in ambito sanitario è stata riferita a una serie di previsioni, di protocolli, di raccomandazioni operative volte a indicare, su un piano generale, a quali criteri di massima debbano attenersi i sanitari cui siano affidate determinate attività diagnostico-terapeutiche, chirurgiche ecc.

Si è affermato al riguardo (C. PARZIANELLO) che, in medicina, «non esiste una definizione rigida di “linee guida”» e che alle stesse non va riconosciuto un carattere tassativo né impositivo: esse sono generalmente considerate e riconosciute come «raccomandazioni del miglior comportamento clinico esigibile nel caso astratto trattato» e «non costituiscono un punto d'approdo definitivo, ma un importante ausilio iniziale per il medico, fermo restando che egli mantiene la sua libertà e autonomia nelle scelte diagnostico-terapeutiche». Si è dunque in presenza non già di disposizioni di dettaglio, cui è richiesta una scrupolosa e tassativa adesione nell'applicazione concreta ma di indirizzi che spetta al singolo esercente la professione sanitaria applicare e adattare al meglio in relazione al caso concreto.

È illuminante la definizione che, nelle pubblicazioni all'uopo diramate dal Ministero della Salute, viene data delle linee guida, indicate come «raccomandazioni di comportamento, messe a punto mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni di esperti, che possono essere utilizzate come strumento per medici e amministratori sanitari per migliorare la qualità dell'assistenza e razionalizzare l'utilizzo delle risorse»; vi si precisa, poi, che «le decisioni cliniche sul singolo paziente richiedono l'applicazione delle raccomandazioni, fondate sulle migliori prove scientifiche, alla luce dell'esperienza clinica del singolo medico e di tutte le circostanze di contesto. Le linee guida rappresentano una sintesi delle migliori conoscenze disponibili e possono rappresentare uno strumento di aggiornamento e formazione per il medico. Spetta dunque alla competenza e all'esperienza del singolo professionista decidere in che misura i comportamenti raccomandati dalle linee guida, pur rispondendo a standard qualitativi definiti sulla base delle più aggiornate prove scientifiche, si applichino al caso clinico particolare».

Per trovare qualche utile riferimento contenutistico alle linee guida in ambito sanitario, può ricordarsi che il Ministero della Salute (come si ricava dal sito www.salute.gov.it) ha istituito il Sistema Nazionale Linee Guida, con d.m. 30 giugno 2004, per la necessità di pervenire ad un maggiore coordinamento delle istituzioni che a livello centrale operano per lo sviluppo di un Sistema Nazionale Linee Guida. Sempre sul sito del Ministero risultano altresì richiamate altre linee guida, raccolte a cura del Ministero della Salute nell'ambito del governo clinico e della sicurezza dei pazienti, esterne al S.N.L.G. e al programma linee guida dell'Agenas. Ad esempio, le linee guida sulla comunicazione dell'evento avverso, le linee guida per il monitoraggio dei percorsi diagnostico terapeutici complessi, ed altre.

La qualificazione delle linee guida come mere raccomandazioni di ordine generale, la cui attuazione va sempre misurata sulle specificità del singolo caso concreto, aveva trovato adesione nella giurisprudenza di legittimità formatasi sotto il vigore della legge Balduzzi (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 22 aprile 2015, n. 24455, Plataroti e a.; Cass. pen., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 2168, Anelli; e soprattutto la fondamentale Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, Cantore).

In dottrina, non era mancato chi ipotizzava, già all'epoca dell'inserimento delle linee guida all'interno dell'art. 3, comma 1, della legge Balduzzi, una tendenziale trasformazione della responsabilità penale del medico nel senso della colpa specifica. Tuttavia l'esperienza applicativa della legge ha dimostrato che la non prescrittività delle linee guida e delle buone pratiche continua a rendere necessario il ricorso alla prospettiva tipica della colpa generica: ossia alle categorie dell'imperizia, della negligenza e dell'imprudenza.

Ci si può chiedere adesso (riprendendo l'interrogativo che ci si è posti supra) se il nuovo assetto dato alle linee guida dalla legge Gelli-Bianco possa condurre verso una qualificazione della loro inosservanza come colpa specifica.

Al riguardo, va osservato che ciò che contraddistingue il ruolo delle linee guida nella nuova legge, rispetto alla genericità che ne caratterizzava il richiamo nell'abrogato art. 3, comma 1, legge 189/2012, è costituito dalle modalità di elaborazione (affidate ai soggetti pubblici e privati indicati dall'art. 5 della legge 24/2017), di validazione da parte dell'Istituto Superiore di Sanità, di pubblicazione e di aggiornamento periodico. Non appare viceversa scontato che dal nuovo assetto debba necessariamente scaturire un mutamento contenutistico delle linee guida: le quali pertanto, sebbene più accuratamente (?) elaborate e selezionate, resterebbero anche nel nuovo regime caratterizzate da un contenuto non prescrittivo ma solo “suggestivo”: ciò che comporterebbe l'esclusione dell'ascrivibilità della violazione delle stesse alla categoria della colpa specifica.

Se ne dirà in seguito, alla luce dei primi importanti arresti giurisprudenziali sulla legge Gelli-Bianco; ma può fin d'ora osservarsi che l'esclusione di una natura strettamente prescrittiva delle linee guida sembra implicita nello stesso dato testuale dell'art. 6, comma 2, della legge 24/2017.

Non può sfuggire, infatti, il riferimento alla natura esimente del rispetto di quelle che vengono significativamente chiamate come raccomandazioni contenute nelle linee guida (e già di per sé l'uso del termine raccomandazioni suggerisce margini di flessibilità e mal si concilia con un'ipotetica natura prescrittiva delle stesse), oltretutto a condizione che le stesse risultino adeguate alle specificità del caso concreto. Siffatta previsione implica che le linee guida, pur potendo riferirsi a una determinata categoria generale e astratta di situazioni, vadano sempre correlate caso per caso alle peculiarità della situazione sottostante, onde verificare se ciò che è previsto in linea generale sia valido anche nella particolare fattispecie in esame.

Se così è, non sembra potersi affermare con certezza che la natura delle linee guida sia modificata rispetto a quella finora nota (“orientativa”, piuttosto che precettiva), atteso che il procedimento di validazione dell'art. 5 della legge è destinato bensì ad operare una sorta di censimento – o, se si preferisce, di “selezione” – delle linee guida ma senza che il novum legislativo ne abbia previsto una specifica connotazione contenutistica.

La questione del grado della colpa. Si è detto che l'art. 3, comma 1, della legge Balduzzi prevedeva che il sanitario che, nello svolgimento della propria attività, si attenesse a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non rispondeva penalmente per colpa lieve. Ciò stava a significare una limitazione della responsabilità, in termini di grado di colpa, per coloro i quali avessero operato nel rispetto delle linee guida o delle buone pratiche; mentre per gli altri esercenti le professioni sanitarie, che da tali linee d'indirizzo si discostavano, tale limitazione non era prevista e pertanto essi rispondevano quale che fosse il grado di colpa loro imputabile.

Si è inoltre visto che, “a monte” di tale impostazione, vi era un percorso che, fra alterne vicende, aveva messo in luce il rischio che previsioni troppo stringenti in tema di colpa medica possano spingere verso l'adozione di atteggiamenti qualificabili come medicina difensiva (v. supra).

La limitazione alla colpa grave della responsabilità penale del sanitario, introdotta dalla legge Balduzzi, aveva posto anche il problema dell'applicazione del novum legislativo sotto il profilo del diritto intertemporale; secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, l'intervenuta parziale abolitio criminis, realizzata dall'art.3 legge 189/2012 in relazione alle ipotesi di omicidio e lesioni colpose connotate da colpa lieve, comportava che, nei procedimenti relativi a tali reati, pendenti in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella, il giudice, in applicazione dell'art. 2, comma 2, c.p., dovesse procedere d'ufficio (e, dunque, non più ponendo a carico dell'accusato l'assolvimento di un onere di allegazione) all'accertamento del grado della colpa, in particolare verificando se la condotta del sanitario poteva dirsi aderente ad accreditate linee guida (vds. la già citata Cass. pen., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, Denegri; in precedenza, peraltro, si era espressa conformemente anche Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, Cantore).

Con la riforma introdotta dalla legge Gelli-Bianco, invece, sparisce il riferimento testuale al grado della colpa. Non si fa, cioè, menzione di alcuna distinzione fra colpa lieve, colpa grave o colpa intermedia ma si opera unicamente un rinvio alle regole ordinarie in tema di omicidio o lesioni colpose, prevedendo però, quale deroga al principio generale, quella che è stata qualificata come una causa di non punibilità (piuttosto che una limitazione del grado della colpa) nel caso in cui concorrano le seguenti condizioni:

  1. l'evento si sia verificato a causa di imperizia dell'esercente la professione sanitaria;
  2. siano rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali;
  3. raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

Saranno fra breve illustrate le non poche criticità interpretative e applicative di tale stringente previsione, sia con riferimento alla sostenibilità giuridica dell'assenza di un riferimento al grado della colpa nella configurazione della causa di esclusione della punibilità, sia con riferimento alla compatibilità fra il comportamento caratterizzato da imperizia e il rispetto delle linee guida adeguate al caso concreto, sia infine con riguardo ai profili di diritto intertemporale e all'individuazione, nel tempo, della legge più favorevole al reo.

L'imperizia “osservante”: il punto d'incidenza della condotta colposa. Si è visto che l'art. 6, comma 2, della legge Gelli-Bianco assicura la non punibilità del sanitario, qualora l'evento si sia verificato per sua imperizia e a condizione che le raccomandazioni contenute nelle linee guida (osservate dal sanitario medesimo) fossero adeguate alle specificità del caso concreto.

Ci si è subito chiesti: è possibile immaginare che un sanitario agisca con imperizia (cagionando un evento mortale o lesivo a danno di un paziente) e che, però, lo faccia rispettando al tempo stesso le linee guida che erano adeguate al caso di specie?

In definitiva, la domanda è: a cosa pensa il Legislatore quando ipotizza (escludendone la punibilità) una condotta caratterizzata da imperizia (e dunque da colpa generica, non necessariamente “lieve”) ma nondimeno rispettosa delle linee guida “giuste” per il caso concreto?

Occorre infatti muovere dalla considerazione che, con la legge 24/2017, non è punibile la condotta del sanitario che abbia cagionato per imperizia (non è specificato se a titolo di colpa lieve, grave o intermedia) l'evento lesivo o mortale, ma si sia attenuto alle linee guida adeguate al caso concreto.

Potrebbe ad esempio trattarsi, ora come in passato, di comportamenti che, pur aderenti alle raccomandazioni generali ritenute idonee nel caso di specie, si manifestino con condotte ulteriori (non disciplinate, cioè, dalle linee guida) ma a loro volta rientranti nella specifica attività diagnostico-terapeutica, che vengano poste in essere con imperizia e che abbiano, ovviamente, rilevanza causale nel prodursi dell'evento lesivo o letale (ad es. O. DI GIOVINE, Colpa penale cit., afferma condivisibilmente che «il rischio terapeutico, sommandosi al rischio della patologia, può portare ad eventi avversi anche quando la condotta sia stata ottemperante, vale a dire quando le cautele standard risultino osservate»).

A circoscrivere ulteriormente lo spazio entro il quale può collocarsi il comportamento del medico caratterizzato da imperizia “non punibile”, vi è il fatto che il sanitario, per beneficiare della causa di non punibilità, deve avere rispettato le raccomandazioni contenute nelle linee guida sempre che esse siano adeguate alle specificità del caso concreto.

In questo fattore condizionante, introdotto dal nuovo testo di legge, si annida però un potenziale elemento di disturbo.

Infatti, secondo la tradizionale impostazione (che, come si è detto, non viene necessariamente smantellata dalla novella legislativa) le linee guida costituiscono suggerimenti di massima a carattere non prescrittivo (si è visto come la stessa legge faccia riferimento alle “raccomandazioni” da esse ricavabili).

Secondo tale impostazione viene diffusamente riconosciuto, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, che le linee guida fanno salva la scelta del medico di adottare la linea di condotta che, in base alla sua competenza ed esperienza, egli ritenga conforme alle peculiari necessità del caso clinico.

Si pongono, allora, due questioni.

In primo luogo, per quale motivo il sanitario che ha (correttamente) disapplicato le linee guida perché non erano adeguate alle specificità del caso concreto deve soggiacere a responsabilità penale secondo i canoni ordinari (e dunque in termini più severi rispetto al sanitario che abbia applicato in modo “imperito” le linee guida “giuste”)? Cos'ha fatto di più riprovevole il primo rispetto al secondo, visto che entrambi hanno selezionato le leges artis adeguate al caso di specie?

In secondo luogo, e soprattutto: quale spazio residuerà per individuare (e considerare non punibile) un comportamento sanitario aderente alle linee guida intese non solo come raccomandazioni generali, ma altresì come indicazioni adeguate alle specificità del caso concreto (ossia a quelle specificità che vengono riservate alla competenza e all'esperienza del sanitario nelle sue scelte professionali), e risulti nondimeno caratterizzato da imperizia?

Per dare (con grandi sforzi e tanta buona volontà) un senso alla previsione legislativa, non sembra che si possa pensare a un comportamento del sanitario che sia, in ogni sua parte, adeguato alle specificità del caso concreto: tale soluzione ermeneutica finirebbe per condurre a un'interpretatio abrogans, in quanto sarebbe virtualmente impossibile che un tale comportamento conforme in ogni sua parte alle leges artis, non solo sul piano generale, ma anche sul piano dell'aderenza alle esigenze del caso specifico, possa al tempo stesso essere viziato da imperizia. Quest'ultima dovrebbe quindi collocarsi al di fuori (sebbene nel contesto) delle raccomandazioni contenute nelle linee guida: le quali, esse sì, nella loro portata generale, dovranno essere valutabili come adeguate al caso di specie, senza che ciò impedisca tuttavia che il sanitario che le abbia rispettate esegua, ad esempio, in modo errato (ossia “imperito”) una qualche attività non specificamente disciplinata, ovvero ponga in essere altre e ulteriori condotte professionali (attive od omissive) in modo colposo e caratterizzato da imperizia.

Solo a queste condizioni si può prospettare un'interpretazione che consenta di salvare capra e cavoli: ossia di ipotizzare comportamenti colposi (per imperizia) che siano considerati non punibili alla stregua della nuova legge, collocandosi cioè al di fuori, ma nel medesimo contesto di condotte rispettose delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate alle specificità del caso concreto.

Come si vedrà, questo problema ha trovato soluzioni diverse in giurisprudenza; è soprattutto risultata controversa la riferibilità o meno del comportamento colposo (con imperizia, ma nel rispetto delle linee guida) caratterizzato da errore esecutivo, mentre è stata tendenzialmente esclusa la riferibilità della condotta non punibile a errori nella selezione delle linee guida (ciò che in effetti si porrebbe in contrasto con il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida e con la loro necessaria adeguatezza allo specifico caso concreto).

L'esclusione della responsabilità penale: causa di non punibilità, scriminante o cosa? Secondo la locuzione letterale utilizzata dal Legislatore, quella introdotta dall'art. 6, comma 2, della legge Gelli-Bianco è classificabile fra le cause di non punibilità.

Si tratta di vedere se essa sia qualificabile come causa di non punibilità in senso stretto; oppure come causa di giustificazione (o scriminante, che dir si voglia); o, ancora, come appartenente ad altra categoria.

È noto che la tradizionale distinzione tra cause di giustificazione e cause di non punibilità (o di esclusione della punibilità) sta nel fatto che, in presenza di un elemento scriminante – es. la legittima difesa, lo stato di necessità, l'adempimento di un dovere ecc. – il fatto tipico è lecito, pur se caratterizzato da un contenuto offensivo di un interesse protetto; mentre nel caso delle cause di non punibilità il fatto tipico resta oggettivamente illecito, anche se ragioni di opportunità inducono l'ordinamento a non punirlo,e può comportare infatti conseguenze giuridiche diverse da quelle penali.

Tendenzialmente, quindi, la non punibilità in senso stretto comporta una limitata e rigorosa applicazione al caso specifico e al singolo soggetto, stante la sua natura derogatoria ed eccezionale; le cause di giustificazione, invece, contengono in sé un elemento oggettivo di esclusione dell'antigiuridicità della condotta, che – ove ne sia accertata la presenza – rende la stessa pienamente lecita, e non solo penalmente irrilevante.

La questione, trasferita all'ambito di applicazione della legge Gelli-Bianco, rimane aperta, e va fin d'ora detto che anch'essa ha dato luogo a interpretazioni divergenti da parte della giurisprudenza.

La prima applicazione della Gelli-Bianco da parte della Cassazione: la sentenza Tarabori

Una prima applicazione della legge Gelli-Bianco nella giurisprudenza di legittimità si è avuta con la sentenza Tarabori, dal cognome della persona offesa (Cass. pen., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187).

L'imputato, L.D.L. un medico psichiatra responsabile dell'ufficio Salute Mentale Asl 3 di Pistoia, aveva in cura il paziente G.L.; - quale psichiatra di riferimento del piano riabilitativo redatto per il richiamato paziente, era accusato di avere colposamente posto in essere, ai sensi dell'art. 589 c.p., una serie di condotte attive ed omissive (in ordine al passaggio dal regime di internamento del G.L. a quello della libertà vigilata ed alla riduzione del trattamento farmacologico) qualificate come condizioni necessarie perché il G.L. ponesse in essere un gesto omicidiario nei confronti di M.T.: per l'esattezza il G.L., in data 16.01.2014, ebbe a sferrare numerosi colpi al capo e al collo del M.T., con un'ascia lasciata incustodita presso la richiamata struttura, solo perché infastidito dal comportamento della persona offesa.

La decisione impugnata era una sentenza di non luogo a procedere pronunziata dal giudice dell'udienza preliminare in un tipico caso di concorso colposo nel delitto doloso. Nella motivazione in diritto, dopo l'enunciazione di già noti argomenti tesi a censurare il malgoverno della regola di giudizio propria dell'udienza preliminare e a riaffermare la configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso (notoriamente avversata dalla dottrina, ma pacifica in giurisprudenza), il Collegio affronta la questione del novum legislativo, a beneficio – par di capire - non tanto del giudice del rinvio, quanto di quello del dibattimento.

Subito si sgombra il campo dalla lettura più “letterale” del testo normativo e dalla riferibilità dell'imperizia ad errore nell'esecuzione. E si cita un esempio: «Un chirurgo imposta ed esegue l'atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un'arteria con effetto letale. In casi del genere, intuitivamente ed al lume del buon senso, non può ritenersi che la condotta del sanitario sia non punibile per il solo fatto che le linee guida di fondo siano state rispettate. Una soluzione di tale genere sarebbe irragionevole, vulnererebbe il diritto alla salute del paziente e quindi l'art. 32 Cost., si porrebbe in contrasto con i fondanti principi della responsabilità penale».

Quanto alle linee guida, la sentenza afferma che esse «non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti; e, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico”; ed inoltre “esse non esauriscono la disciplina dell'ars medica. Da un lato, infatti, vi sono aspetti della medicina che non sono per nulla regolati da tale genere di direttiva. Dall'altro, pure nell'ambito di contesti che ad esse attingono, può ben accadere che si tratti di compiere gesti o di agire condotte, assumere decisioni che le direttive in questione non prendono in considerazione [...] in tali situazioni la considerazione della generica osservanza delle linee guida costituisce - si confida sia ormai chiaro - un aspetto irrilevante ai fini della spiegazione dell'evento e della razionale analisi della condotta ai fini del giudizio di rimproverabilità colposa. Insomma, razionalità e colpevolezza ergono un alto argine contro l'ipotesi che voglia, in qualunque guisa, concedere, sempre e comunque, l'impunità a chi si trovi in una situazione di verificata colpa per imperizia». Tradotto in termini sintetici: il rispetto delle linee guida non può costituire una sorta di alibi per giustificare errori commessi per imperizia riferibili a comportamenti che non siano minutamente disciplinati dalle linee guida medesime.

E ancora, la sentenza in esame si ribella ulteriormente all'approccio interpretativo basato sul dato letterale attraverso il riferimento contenuto in una norma della stessa legge Gelli-Bianco «che alimenta ulteriormente e radicalizza i dubbi in ordine alla praticabilità dell'interpretazione di cui si discute. L'art. 7, comma 3, legge n. 24 del 2017 recita che " [...] il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'art. 5 della presente legge e dell'art. 590-sexies del codice penale [...]". Dunque, per effetto di tale richiamo della disciplina civile a quella penale, il solo fatto dell'osservanza di una linea guida, anche quando non rilevante ai fini del giudizio di responsabilità, non solo escluderebbe la responsabilità penale, ma limiterebbe pure la quantificazione del danno. Insomma, neppure l'ambito civilistico consentirebbe alla vittima di ottenere protezione e ristoro commisurati all'entità del pregiudizio subito; e l'esonero da responsabilità si amplierebbe ulteriormente».

Viene perciò proposto un ambito applicativo basato sull'esclusione di situazioni rispetto alle quali, in base ai principi anzidetti, non viene ritenuta praticabile la nuova disciplina: la quale pertanto non trova applicazione:

a) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida;

b) nelle situazioni concrete in cui le suddette raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiari condizioni del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate;

c) in relazione alle condotte che, sebbene collocate nell'ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, come nel caso (dianzi riportato) dell'errore nell'esecuzione materiale di atto chirurgico pur correttamente impostato secondo le raccomandazioni ufficiali. Con la conseguenza che resterebbe fuori dell'applicazione della novella legislativa l'ipotesi dell'errore esecutivo determinato da imperizia, pur nell'osservanza generale delle linee guida.

Quanto alla classificazione dell'ipotesi di non punibilità enunciata dall'art. 6, comma 2, della legge Gelli-Bianco, la sentenza Tarabori sembra escludere che possa parlarsi di una causa di non punibilità e propone al riguardo una diversa soluzione ermeneutica, affermando che «l'evocazione della punibilità va intesa come un atecnico riferimento al giudizio di responsabilità con riguardo alla parametrazione della colpa».

Sul piano del diritto intertemporale, la sentenza Tarabori ricorda come l'art. 6 della legge Gelli-Bianco abbia abrogato l'art. 3, comma 1, della legge Balduzzi, che aveva escluso la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; ne consegue, secondo la sentenza in esame, la reviviscenza della previgente più severa normativa che non consentiva distinzioni connesse al grado della colpa, mentre per i fatti anteriori all'entrata in vigore del nuovo regime trova ancora applicazione, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., la citata normativa del 2012, in quanto più favorevole con riguardo alla limitazione della responsabilità ai soli casi di colpa grave.

In estrema sintesi, con la sentenza Tarabori:

  1. vengono indicati solo i casi in cui è esclusa l'applicazione dell'art. 590-sexies c.p. (di modo che l'area di applicazione della nuova disposizione dovrebbe essere individuata “per sottrazione”);
  2. viene esclusa, nonostante il dato testuale, la causa di non punibilità, vista invece come regola di parametrazione della colpa;
  3. la legge Gelli-Bianco è considerata sempre come disciplina meno favorevole della legge Balduzzi; quindi è esclusa l'applicabilità retroattiva in mitius;
  4. vi è un richiamo all'art. 2236 cod.civ. come regola di esperienza valida anche in campo penale, in quanto espressione di un principio di razionalità.

Ma la sentenza in esame non è andata esente da critiche. In specie sono state enucleate le seguenti criticità:

  • sostanziale interpretatio abrogans della nuova legge: non è del tutto chiaro a quali casi si riferisca la “non punibilità” introdotta dal Legislatore;
  • conseguente frizione con il principio costituzionale di legalità (non ci si spiegherebbe perché il Legislatore sia intervenuto, né la sentenza lo chiarisce);
  • insanabile contrasto con la lettera della legge (che, sia pure in nome di un'interpretazione costituzionalmente orientata, viene del tutto disattesa).
La sentenza Cavazza: una diversa prospettiva ermeneutica

Nel giro di pochi mesi, la Cassazione torna sul problema dell'interpretazione della legge Gelli-Bianco. E lo fa, in modo per molti versi divergente da quello della sentenza Tarabori, con la sentenza Cavazza (Cass. pen., Sez. IV, 19 ottobre 2017, n. 50078).

All'imputato era in questo caso mosso l'addebito di aver cagionato alla vittima, nel corso dell'esecuzione di un intervento di ptosi (lifting) del sopracciglio una ipoestesia tattile in ristretta zona frontale destra, consistente in una diminuzione della sensibilità della zona interessata ancora permanente a distanza di cinque anni dall'intervento. La colpa veniva individuata nell'imperizia nella concreta esecuzione dell'intervento e non nella scelta dello stesso, imperizia che aveva determinato la lesione del nervo sovra orbitario nel corso della esecuzione.

Nella parte in diritto, e sulla scorta dei motivi di ricorso, la sentenza in esame muove – per quanto d'interesse in questa sede – da un utile richiamo alla nozione di colpa grave fissata dalla giurisprudenza di legittimità, che in ambito sanitario «è configurabile nel caso di una "deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato" [cfr., efficacemente, Sez. 4, n.22281 del 15/04/2014, Cavallaro, Rv. 262273], ossia dell'errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell'uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell'atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria [cfr. in termini, Sez. 4, n. 9923 del 19/01/2015, p.c. Donatelli in proc. Marasco]».

Di seguito si osserva che, nella vicenda in esame, «il profilo di colpa è stato individuato nella imperizia nella concreta esecuzione dell'intervento e non nella scelta dello stesso, imperizia che aveva determinato la lesione del nervo sovra orbitario nel corso della sua esecuzione». Perciò nella fattispecie, riferita a condotte antecedenti l'entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, si pone il problema «dell'applicabilità del novum normativo, se ritenuto più favorevole»; e, con esso, quello di stabilire «quale sia la portata della riforma e quali ne siano gli effetti nella fattispecie in esame».

La sentenza Cavazza fissa alcuni punti fermi muovendo dalla dizione testuale dell'art. 6 della legge 24/2017.

In primo luogo, «è stata abrogata la disciplina penale relativa alla depenalizzazione della colpa lieve della legge Balduzzi, essendo stato abrogato l'intero comma 1 dell'art. 3. Non si pone più pertanto un problema di grado della colpa, salvo casi concreti in cui la legge Balduzzi possa configurarsi come disposizione più favorevole per i reati consumatisi sotto la sua vigenza coinvolgenti profili di negligenza ed imprudenza qualificati da colpa lieve (per ultrattività del regime Balduzzi più favorevole sul punto)».

In secondo luogo, e sempre restando aderente al dato letterale della novella, la sentenza in esame precisa che «il Legislatore ha ritenuto di limitare l'innovazione alle sole situazioni astrattamente riconducibili alla imperizia, cioè al profilo di colpa che si fonda sulla violazione delle leges artis, che ha ritenuto non punibili neanche nell'ipotesi di colpa grave».

Si affronta poi lo spinoso tema della «obiezione di fondo secondo la quale in presenza di "colpa grave", sarebbe oltremodo difficile ipotizzare come sussistenti le condizioni concorrenti previste per l'impunità del sanitario, nel senso che sembrerebbe difficile conciliare il grave discostamento del sanitario dal proprium professionale con il rispetto delle buone pratiche clinico assistenziali e, soprattutto, decisivamente, che possa conciliarsi la colpa grave con un giudizio positivo di adeguatezza delle linee guida al caso concreto». In proposito, la sentenza Cavazza replica opponendo «il concorrente rilievo della lettera e della finalità della legge: sotto il primo profilo, il Legislatore, innovando rispetto alla legge Balduzzi, non attribuisce più alcun rilievo al grado della colpa, così che, nella prospettiva del novum normativo, alla colpa grave non potrebbe più attribuirsi un differente rilievo rispetto alla colpa lieve, essendo entrambe ricomprese nell'ambito di operatività della causa di non punibilità; sotto l'altro concorrente profilo, giova ribadire che con il novum normativo si è esplicitamente inteso favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità penale, ferma restando la responsabilità civile».

Perciò, prosegue la pronunzia in esame, quella introdotta dalla legge Gelli-Bianco è una vera e propria causa di non punibilità, in cui «la rinuncia alla pena nei confronti del medico si giustifica nell'ottica di una scelta del Legislatore di non mortificare l'iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie mandandolo esente da punizione per una mera valutazione di opportunità politico criminale, al fine di restituire al medico una serenità operativa così da prevenire il fenomeno della cd. medicina difensiva»; quale ulteriore scostamento rispetto alla sentenza Tarabori, vi si afferma che la condotta non punibile caratterizzata da imperizia «non deve essersi verificata nel momento della scelta della linea guida, giacché non potrebbe dirsi in tal caso di essersi in presenza della linea guida adeguata al caso di specie, bensì nella fase "esecutiva" dell'applicazione».

Vi è, invero, il dubbio che la scelta del Legislatore possa porsi in contrasto con principi di rango costituzionale, in specie ex art. 3 Cost. (si osserva che «potrebbe in vero dubitarsi della coerenza di una scelta di non punibilità dell'imperizia grave e invece della persistente punibilità di una negligenza "lieve"») ma nella specie la questione difetta del requisito della rilevanza e non consente perciò di approdare a un provvedimento di remissione alla Consulta.

Ai fini dell'indagine sull'applicazione intertemporale della nuova disposizione, da quanto precede si ricava il principio in base al quale il secondo comma dell'art. 590-sexies c.p., introdotto dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), è norma più favorevole rispetto all'art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, in quanto prevede una causa di non punibilità dell'esercente la professione sanitaria collocata al di fuori dell'area di operatività della colpevolezza, operante - ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso) - nel solo caso di imperizia e indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche con la condotta (anche gravemente) imperita nell'applicazione delle stesse.

Riassumendo, la sentenza Cavazza:

  1. propone un'interpretazione letterale della legge Gelli-Bianco;
  2. ravvisa nell'art. 6, comma 2, una causa di non punibilità;
  3. e afferma che la causa di non punibilità opera limitatamente al caso di imperizia, quando siano rispettate le linee guida validamente selezionate in rapporto al caso di specie ma l'errore determinato da colpa (anche grave) interviene nella fase esecutiva.

Anche la sentenza Cavazza, peraltro, non è andata esente da critiche. In particolare si censurano:

  • l'eccessiva latitudine della portata della causa di non punibilità, anche in caso di colpa grave (con conseguente «vulnus» del principio di pari responsabilità )
  • il contrasto della non punibilità (anche) in caso di colpa grave con il principio costituzionale del diritto alla salute e con le esigenze di ristoro della persona offesa, correlate dall'art. 7 della legge alla responsabilità penale ex art. 590-sexies c.p.
Le sezioni unite Mariotti: risolto il contrasto ma …

Il contrasto di indirizzi venutosi a creare nella giurisprudenza della IV Sezione penale (competente per i reati colposi, anche in ambito sanitario) ha indotto la Sezione stessa a sollecitare un intervento delle Sezioni unite volto a dirimere la controversia.

L'occasione non ha tardato a presentarsi. Il caso (ricorrente Mariotti) riguardava un medico chirurgo al quale era stato addebitato di avere colposamente ritardato la diagnosi di “sindrome da compressione della cauda equina” e di avere così determinato il ritardo nell'esecuzione di un intervento chirurgico da parte di altro sanitario, con conseguente insorgere di esiti lesivi a carico del paziente.

Nel rispondere al quesito circa l'ambito di applicazione della previsione di non punibilità introdotta dal nuovo art. 590-sexies c.p., introdotto dalla legge Gelli-Bianco, le Sezioni unite (Cass. pen., Sez. unite, 21 dicembre 2017, n. 8770, Mariotti e altro) rilevano innanzitutto che il contrasto fra le sentenze Tarabori e Cavazza non riguarda la connotazione delle linee guida (che rimangono qualificate come un condensato di acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche, frutto di un'accurata selezione nei diversi ambiti operativi ma «senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti» e che – dunque – non costituiscono «veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto»).

L'operazione ermeneutica operata dalle Sezioni unite, dopo un sintetico riepilogo delle due sentenze della Sezione IV dalle quali è derivato il contrasto, si propone di muovere dal dato letterale per superarlo, in funzione di un'esegesi costituzionalmente orientata e in vista di una soluzione che, diversamente dalla esplicita richiesta del Procuratore generale d'udienza, non devolva la questione alla Corte costituzionale, anche per l'irrilevanza della questione stessa nel caso di specie (in relazione al quale si era infatti contestata la violazione delle linee guida valide nel caso di specie).

In tale quadro, la sentenza Mariotti muove dalla considerazione che l'adeguatezza delle linee guida al caso concreto, in base alla quale si pone il problema di valutare la non punibilità del medico, dev'essere valutata ex ante, non ex post. Indi, viene ristretto il campo d'osservazione, che riguarda solo il caso in cui il sanitario segua le indicazioni rivenienti dalle linee guida adeguate al caso di specie ma agisca con imperizia (non anche con negligenza o imprudenza).

Ciò chiarito, la sentenza Mariotti indica, quale punto debole della sentenza Tarabori, la sostanziale esclusione di spazi operativi per la non punibilità prevista dall'art. 6 della novella legislativa, al punto di negare la capacità semantica dell'espressione “causa di non punibilità” (logica conseguenza, osservano le Sezioni Unite, sarebbe stata quella di dedurre la questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di legalità). La censura mossa invece alla sentenza Cavazza è l'opposto speculare: secondo il Collegio apicale, infatti, la sentenza Cavazza si preoccupa di rispettare la lettera della legge al punto di estenderne in modo eccessivo la portata, qualificando come non punibile il comportamento caratterizzato da imperizia, qualora il medico si sia attenuto alle linee guida adeguate al caso di specie, indipendentemente dal grado della colpa. Grado della colpa che va, invece, reintrodotto (limitando quindi la non punibilità alla colpa lieve) sulla scorta dei precedenti storici e giurisprudenziali riguardanti la colpa medica, nonché – lo rivela per inciso un passaggio della motivazione della sentenza – il richiamo alla limitazione della responsabilità del medico in ambito civilistico (art. 2236 c.c.) e al suo riconosciuto ruolo nell'interpretazione giurisprudenziale.

L'ubi consistam dell'imperizia non sta, secondo le Sezioni unite Mariotti, nella selezione delle linee guida (che devono indiscutibilmente essere quelle adeguate al caso di specie), ma non può che collocarsi nel momento esecutivo, ossia nella fase di attuazione delle stesse.

Traendo le somme, le Sezioni Unite affermano che l'art. 590-sexies c.p., introdotto dall'art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, prevede una causa di non punibilità applicabile ai soli fatti inquadrabili nel paradigma dell'art. 589 o di quello dell'art. 590 c.p., e operante nei soli casi in cui l'esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse; la suddetta causa di non punibilità non è applicabile, invece:

  • né ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza,
  • né quando l'atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche,
  • né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall'esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso,
  • né, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse.

Ne discende anche la precisazione dei criteri di applicazione della novella legislativa sotto il profilo del diritto intertemporale e dell'individuazione della lex mitior: sulla base della ricostruzione dell'interpretazione dell'art. 6, comma 2, della legge Gelli-Bianco, le Sezioni unite escludono che quest'ultima possa risultare più favorevole rispetto alla normativa precedente (quella della legge Balduzzi), affermando che «l'abrogato art. 3, comma 1, del d.l. 158 del 2012, convertito con la legge n. 189/2012, si configura come norma più favorevole rispetto all'art. 590-sexiesc.p., introdotto dalla legge 24 del 2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto».

In definitiva, l'intervento delle Sezioni Unite ha comportato una sorta di “mediazione” (o, se si vuole, di “compromesso”) tra le opzioni interpretative delle due sentenze in contrasto (la Tarabori e la Cavazza), individuando una terza via, che recupera alcune indicazioni provenienti dalle due pronunzie della 4 Sezione e propone tuttavia un sia pur parziale scostamento dal dato letterale, in nome di un'interpretazione costituzionalmente orientata, limitando la non punibilità ai comportamenti “imperiti” caratterizzati da colpa lieve.

In sintesi, queste sono le affermazioni della sentenza a SS.UU. Mariotti, che a oggi costituisce il punto d'arrivo della giurisprudenza di legittimità in subiecta materia:

a)la legge Gelli-Bianco introduce una causa di non punibilità;

b) tale causa di non punibilità si applica alle seguenti condizioni:

  • l'evento sia stato cagionato da imperizia caratterizzata da colpa non grave (dunque la colpa grave resta sempre punibile) : viene espressamente rivalutato a tal fine il ricorso all'art. 2236 c.c. come regola di esperienza;
  • siano state scelte le linee guida adeguate al caso di specie;
  • e l'errore determinato da colpa sia intervenuto in fase esecutiva.
Voci critiche sulla decisione delle Sezioni unite

Così riassunti i termini della complessa vicenda, occorre ora dare conto dei commenti della dottrina alla sentenza a Sez. unite, Mariotti.

Una parte degli interventi dottrinari ha salutato in termini complessivamente positivi la decisione del Supremo Collegio: si è ad esempio affermato, in un recente articolo, che «quella adottata dalle Sezioni unite costituisce, probabilmente, la soluzione più ragionevole concessa dal dato legale, l'unica che garantisca alla norma un margine applicativo, senza tuttavia incappare nei legittimi sospetti di costituzionalità che avvolgevano la ricostruzione della sentenza “Cavazza”. Sotto questo profilo, sembra giusto ribadire come la ricerca di un'interpretazione conforme a Costituzione fosse una strada quasi obbligata per le Sezioni unite» (G.M. CALETTI – M.L. MATTHEUDAKIS, La fisionomia dell'art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell'imperizia e “antiche” incertezze, in diritto penale contemporaneo, n. 4/2018).

Assai più critica si dimostra un'altra parte della dottrina, che, commentando la decisione apicale (una “terza eclettica lettura della disciplina), manifesta la propria contrarietà alla soluzione proposta dalle Sezioni unite, che «sono state colte da una così potente nostalgia dell'antico, degli approdi sicuri conseguiti nel passato, che hanno compiuto un'operazione di inusitata audacia. Hanno letteralmente resuscitato Balduzzi, sebbene essa sia stata espressamente abrogata dalla legge n. 24; e hanno affermato che la responsabilità penale dell'esercente le professioni sanitarie è ancora fondata sulla distinzione tra colpa lieve e colpa grave che di quella abrogata disciplina costituiva uno dei cardini» (R. BLAIOTTA, Niente resurrezioni, per favore. A proposito di S.U. Mariotti in tema di responsabilità medica, in Diritto Penale Contemporaneo).

È comunque generalizzata la critica alla soluzione, fatta propria dalle Sez. unite Mariotti, di recuperare il concetto di colpa grave. Infatti, si osserva, la sentenza Mariotti, «se, da un lato, si orienta per una interpretazione costituzionalmente conforme, dall'altro lato, però, si pone in fortissima tensione con la legalità nel momento in cui torna ad attribuire un ruolo ermeneutico alle gradazioni della colpa»: gradazioni che, nella legge Gelli-Bianco, risultano assenti (R. BARTOLI, Riforma Gelli-Bianco e Sezioni Unite non placano il tormento: una proposta per limitare la colpa medica, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 5/2018). Tant'è che, secondo altro Autore, «il dubbio è se possa un'interpretazione “conforme a Costituzione” spingersi sino al punto di introdurre nel corpo di una fattispecie dal tenore letterale inequivoco (seppure di dubbia costituzionalità) un elemento nuovo e ulteriore (la distinzione tra gradi di imperizia), con effetti limitativi della punibilità (estendendo la punibilità a condotte di imperizia grave altrimenti esenti), in luogo della strada maestra, rappresentata dal contributo razionalizzante della Corte costituzionale» (C. CUPELLI, L'art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un'interpretazione “costituzionalmente conforme” dell'imperizia medica (ancora) punibile, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 3/2018; l'Autore dubita fra l'altro che la soluzione ermeneutica offerta dalla sentenza Mariotti «rientri nei canoni interpretativi consentiti al giudice, sia pure di legittimità e nell'ambito dell'attività nomofilattica»).

Un ulteriore argomento su cui si fondano le critiche alla sentenza Mariotti riguarda la carenza di fondamento giuridico della reintroduzione del grado della colpa, basata com'è essenzialmente su elementi di natura storica (e contrastante con le risultanze dei lavori parlamentari, durante i quali, mentre in un primo tempo venne conservato il riferimento testuale alla colpa grave, tale riferimento fu espressamente escluso nella fase conclusiva dei lavori), nonché su un malinteso recupero dell'art. 2236 c.c., che pure aveva incontrato in un certo periodo storico lo sfavore della giurisprudenza penale (in virtù della sua natura di norma “eccezionale”) e che, ai tempi della legge Balduzzi, aveva evidenziato un problema di disparità di trattamento a sfavore di altre categorie professionali di esercenti di attività pericolose, alle quali pure l'art. 2236 c.c. trova applicazione (C. BRUSCO, Responsabilità medica penale: le Sezioni Unite applicano le regole sulla responsabilità civile del prestatore d'opera, in Diritto Penale e Processo, n. 5/2018, p. 646).

Oltre a criticare l'attribuzione, da parte della sentenza Mariotti, di un ruolo decisivo (ai fini della punibilità) alla gravità della colpa - che in realtà la legge non prevede -, si sono levate ulteriori critiche alla contraddittoria enunciazione del criterio distintivo del grado della colpa, che la pronunzia a Sezioni Unite ha, di fatto, ancorato al parametro dell'agente modello: un parametro che però serve a contrassegnare il comportamento colposo rispetto a quello che non lo è, e non anche il “grado” della colpa (“il medico modello non è mai imperito, neppure lievemente”: così P.PIRAS, Un distillato di nomofilachia: l'imperizia lieve intrinseca quale causa di non punibilità del medico, in Diritto penale contemporaneo).

In conclusione

Il rapido succedersi di tre sentenze contenenti altrettante interpretazioni (fra loro difformi) della stessa disposizione di legge, con il contrasto verificatosi all'interno della Quarta Sezione penale e la relativa “composizione” da parte delle Sezioni Unite (il tutto nel giro di pochi mesi dall'entrata in vigore della l. 24/2017), la dice lunga sulla qualità – che ci si limita eufemisticamente a qualificare come non eccelsa - del prodotto legislativo del quale la Cassazione si è dovuta occupare, oltretutto in una delicata materia come quella della colpa penale medica.

Le tre sentenze sopra richiamate (la Tarabori, la Cavazza e la Mariotti), pur nel commendevole intento di cercare di dare un senso alla disposizione contenuta nell'art. 590-sexies del codice penale – introdotto dalla legge Gelli-Bianco –, sono pervenute a conclusioni tra loro assai diverse, ma che a conti fatti sono state ritenute non soddisfacenti in tutti e tre i casi.

Certamente non è casuale il fatto che in almeno due delle tre sentenze suddette (la Cavazza e la Mariotti) si fa esplicito riferimento a profili di incostituzionalità della disposizione di nuovo conio, profili la cui emersione era stata addirittura sollecitata avanti le Sezioni Unite dal rappresentante d'udienza della Procura Generale, e che tuttavia non hanno condotto a sollevare la questione di legittimità costituzionale in nessuno dei casi considerati, essenzialmente per difetto di rilevanza della questione nel giudizio in corso; a ben vedere, anche la sentenza Tarabori evoca possibili profili di incostituzionalità della norma, ma solo nel caso in cui essa lasciasse spazi di non punibilità a condotte caratterizzate da imperizia in attività non minutamente disciplinate dalle linee guida.

Del resto, se si prende la legge così com'è e la si applica “senza se e senza ma”, come sostanzialmente è stato fatto con la sentenza Cavazza, che ne ha dato un'interpretazione scrupolosamente aderente alla lettera della legge (e che, pur riconoscendo in essa la sussistenza di violazioni di principi costituzionali, non ha potuto trarne le debite conseguenze per difetto di rilevanza), emerge una chiara “frizione” del testo dell'art. 590-sexies c.p. con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. (nel senso che, mentre in caso di negligenza o di imprudenza qualunque comportamento colposo è passibile di sanzione penale, in caso di imperizia ciò non accade neppure per colpa grave, purché il sanitario si sia attenuto alle raccomandazioni di cui alle linee guida adeguate al caso concreto) e anche con il principio di tutela del diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost. (nel senso che la legge conferisce al sanitario la “licenza” di agire anche con imperizia grave – purché “osservante” delle raccomandazioni suddette – sottraendolo in tal caso a sanzioni penali).

Se invece si guarda alla legge con occhi critici, occorre cercare un'alternativa alla sua applicazione letterale.

Un'alternativa che è stata cercata, sul piano interpretativo, sia dalla sentenza Tarabori, sia dalle Sezioni Unite con la sentenza Mariotti; si sono peraltro viste le critiche articolate sia rispetto alla soluzione delle SS.UU. di interpretare il contenuto della legge in malam partem (introducendo cioè una graduazione della colpa che non risulta esplicitata nel testo normativo e che, di fatto, limita la portata della causa di non punibilità in essa prevista); sia rispetto alla soluzione di “devitalizzarne” i contenuti escludendo (come sostanzialmente aveva fatto la sentenza Tarabori) la possibilità di configurare l'imperizia (anche) nel caso in cui il comportamento colposo cada sulla fase esecutiva (ciò che, come detto, è stato visto da alcuni come un'interpretatio abrogans non compatibile con l'intervento legislativo e con il principio di legalità e che, di fatto, rappresentava un caso di “eterogenesi dei fini” rispetto all'intenzione del Legislatore, di segno probabilmente opposto).

L'alternativa suggerita dalla vicenda in esame (ed evocata da più Autori) sembrerebbe, piuttosto, essere quella del riconoscimento (e della denuncia, sollevando la relativa questione alla Consulta allorquando se ne presentino le condizioni) della scarsa tenuta costituzionale della norma in esame: non solo sotto i già visti profili di disparità e di contrasto con il diritto alla salute, ma anche sotto l'ulteriore profilo che sembra caratterizzarla, costituito dalla violazione del principio di legalità, declinato nei parametri della tassatività e della determinatezza (non solo e non tanto con riferimento all'omessa indicazione del grado della colpa nel caso di imperizia, quanto e soprattutto con riguardo alla scarsa conciliabilità fra colpa da imperizia e contemporanea adesione alle linee guida).

Questo, de iure condito (ossia fino a che il Legislatore non metterà nuovamente mano alla questione).

In prospettiva, ed eventualmente de lege ferenda, pare opportuno rivolgere un appello to whom it may concern a tirare le somme dall'esperienza applicativa dei principi formatisi in dottrina e in giurisprudenza, nonchè delle leggi succedutesi in materia di colpa penale del sanitario.

E', forse, il caso che venga ripensato il ruolo da assegnare alle linee guida e alle buone pratiche ai fini della responsabilità colposa del medico e, in generale, dell'esercente la professione sanitaria. Considerando la stringente necessità di caratterizzare la fattispecie concreta, a fronte della natura e delle finalità proprie delle leges artis in materia sanitaria, ci si può interrogare, ad esempio, sull'effettiva utilità del riconoscimento legislativo di un simile ruolo, in termini di espressa qualificazione penale del comportamento colposo del sanitario che se ne discosti; nonché sull'interazione tra linee guida (o buone pratiche) ed esigenze organizzative ed economiche degli enti e delle strutture sanitarie di riferimento, quale possibile punto di frizione di tali regole con i bisogni terapeutici del paziente nel singolo caso concreto.

È, forse, il caso che venga affrontata spassionatamente la questione dell'effettiva entità del fenomeno della “medicina difensiva” in relazione alla sua incidenza sulla relazione terapeutica fra paziente e sanitario: si tratta cioè di chiarire fino a che punto la necessità di contrastare la medicina difensiva risponda a esigenze reali, e da che punto in poi essa venga piuttosto “agitata” per lucrare previsioni legislative lato sensu de-responsabilizzanti.

È, forse, il caso di tenere ben presente che la limitazione alla colpa grave di cui all'art. 2236 c.c. (spesso usato come criterio interpretativo anche in ambito penalistico) vale solo ed esclusivamente per le prestazioni che implichino la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà; con la conseguenza che è pure opportuno riflettere su quali prestazioni sanitarie rispondano effettivamente e concretamente a siffatte caratteristiche e, quindi, sull'opportunità di prevedere che il limite della colpa grave (anche) in ambito penale sia confinato a tali prestazioni e non si estenda a quelle routinarie o di non particolare complessità.

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