Dispositivi medici: il sottile confine tra responsabilità medica e responsabilità da prodotto difettoso nei casi di protesi infette

17 Luglio 2018

Il Regolamento UE 2017/745 del Parlamento e del Consiglio europeo, noto come MDR, o Medical Devices Regulation, è entrato in vigore il 25 maggio 2017, riunendo in un unico atto la normativa applicabile a tutti i tipi di dispositivi medici ed introducendo alcune rilevanti novità.
MDR: la nuova normativa europea sui dispositivi medici

Regolamento UE 2017/745 del Parlamento e del Consiglio relativo ai dispositivi medici (MDR), entrato in vigore il 25 maggio 2017, riunisce in un unico atto la normativa applicabile ai cosiddetti dispositivi medici impiantabili attivi (disciplinati dalla direttiva 90/385/CEE) ed a tutti gli altri dispositivi medici (disciplinati dalla direttiva 93/42/CEE), con la sola esclusione di:

  1. dispositivi medico-diagnostici in vitro, di cui al regolamento (UE) 2017/746;
  2. medicinali definiti all'art. 1, punto 2, della direttiva 2001/83/CE;
  3. medicinali per terapie avanzate di cui al regolamento (CE) n. 1394/2007;
  4. sangue umano, emoderivati, plasma o cellule ematiche di origine umana, nonché dispositivi che, una volta immessi sul mercato, contengono tali emoderivati, plasma o cellule ematiche;
  5. prodotti cosmetici di cui al regolamento (CE) n. 1223/2009;
  6. organi, tessuti o cellule di origine animale o loro derivati nonché prodotti che li contengono o ne sono costituiti; il nuovo regolamento si applica tuttavia ai dispositivi fabbricati utilizzando tessuti o cellule di origine animale, o loro derivati, non vitali o resi non vitali;
  7. organi, tessuti o cellule di origine umana o loro derivati, contemplati dalla direttiva 2004/23/CE, nonché prodotti che li contengono o ne sono costituiti; il nuovo regolamento si applica tuttavia ai dispositivi fabbricati utilizzando derivati di tessuti o cellule di origine umana, non vitali o resi non vitali;
  8. prodotti, diversi da quelli di cui ai punti 4), 6) e 7), che contengono o sono costituiti da materiali biologici vitali o organismi vitali, compresi microrganismi, batteri, funghi o virus vivi;
  9. alimenti, come da regolamento (CE) n. 178/2002.

Il nuovo Regolamento abroga le direttive 90/385/CEE e 93/42/CEE, e modifica la direttiva 2001/83/CE (codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano), il regolamento (CE) n. 178/2002 sulla sicurezza alimentare ed il regolamento (CE) n. 1223/2009 sui cosmetici.

Le novità più rilevanti introdotte dalla nuova normativa riguardano l'istituzione di una banca dati europea dei dispositivi medici (l'Eudamed) ed una ridefinizione degli obblighi posti in capo ai loro fabbricanti e distributori; per questi ultimi viene istituito a nuovo il ruolo di Responsabile del rispetto della normativa e previsto l'obbligo di predisporre un processo di valutazione clinica e di sorveglianza post-commercializzazione all'interno di un piano specifico definito PMCF (Post-Market Clinical Follow-up).

Infine, viene introdotto l'obbligo di trasparenza e tracciabilità per tutti i dispositivi medici.

Le date che scandiscono le varie fasi di attuazione del provvedimento in tutta l'Unione vanno dal 25 maggio 2017, che ne ha segnato l'entrata in vigore, fino alla sua definitiva applicazione, entro il 26 maggio 2020.

La prima novità, come si è accennato, è costituita dalla creazione di EUDAMED, una Banca dati europea dei dispositivi medici che, integrando diversi sistemi elettronici, raccolga ed elabori le informazioni riguardanti i dispositivi presenti sul mercato, gli operatori economici del settore, la valutazione della conformità dei dispositivi stessi, gli organismi notificati e certificati, nonché le indagini cliniche e le attività di vigilanza e sorveglianza effettuate sul mercato (artt. 33-34).

Scopo di Eudamed è migliorare la trasparenza e la tracciabilità dei dispositivi, rendendo più semplice ed efficace l'accesso alle informazioni da parte del pubblico, rafforzando il coordinamento tra Stati membri e razionalizzando il flusso di informazioni tra fabbricati, distributori, organismi notificati e Commissione Europea.

Agli artt. 10-16 del provvedimento vengono inoltre definiti chiaramente gli obblighi previsti per i diversi operatori economici del settore, quali fabbricanti, importatori, distributori, istituzioni sanitarie ed utilizzatori finali.

I produttori, come si è detto, sono ora tenuti a prevedere, all'interno della loro organizzazione, la presenza di almeno una persona responsabile del rispetto della normativa, che possieda le competenze necessarie nel settore dei dispositivi medici. Si tratta di competenze che devono essere attestate da precise qualifiche, ovvero da un diploma, certificato o altro titolo ottenuto completando studi universitari o riconosciuti come equipollenti dallo Stato membro relativo, in giurisprudenza, medicina, farmacia, ingegneria o un'altra disciplina scientifica pertinente. È anche necessario aver maturato un'esperienza professionale di almeno un anno nel campo dei sistemi di gestione qualità dei dispositivi medici. Per le imprese molto piccole, tale figura può anche essere esterna all'azienda.

La valutazione clinica e la vigilanza post-vendita, che nelle direttive 90/385/CEE e 93/42/CEE erano previste solo negli allegati, come corollari, vengono ora integrate nelle disposizioni del regolamento, il che obbliga i produttori ad attenersi ad esse, in conformità al disposto dell'art. 61 e dell'allegato XIV dello stesso.

La tracciabilità dei dispositivi per mezzo del sistema UDI di identificazione, basato su linee guida internazionali, ha lo scopo di rafforzare l'efficacia delle attività legate al controllo della sicurezza dopo la commercializzazione dei dispositivi, grazie all'azione sinergica generata da una più puntuale segnalazione degli incidenti, una migliore sorveglianza da parte delle autorità competenti e da azioni correttive mirate.

Il rischio di infezione e contaminazione microbica

Il nuovo Regolamento prevede che tutti i dispositivi siano progettati e fabbricati in modo da eliminare, o ridurre per quanto è possibile, i rischi d'infezione, sia per i pazienti che per gli utilizzatori. Ogni dispositivo, infatti, deve essere concepito per ridurre il rischio di lesioni involontarie, come sono ad esempio le ferite provocate da aghi e parti appuntite. Esso deve inoltre consentire una manipolazione agevole e sicura, ma soprattutto deve ridurre al massimo ogni esposizione o contaminazione di tipo microbico, sia durante la fabbricazione ed il confezionamento, che durante l'uso.

Se necessario, infine, i dispositivi devono essere progettati in modo da facilitarne la pulizia, la disinfezione e/o la ri-sterilizzazione.

I dispositivi con etichetta che ne indica lo specifico stato microbico devono essere progettati, fabbricati e imballati in modo da garantire che mantengano tale stato al momento dell'immissione sul mercato, nelle condizioni di trasporto e di immagazzinamento previste dal fabbricante.

Se forniti allo stato sterile, devono essere progettati, fabbricati e confezionati in modo da garantire che siano sterili al momento dell'immissione sul mercato e, salvo il caso di danneggiamento della confezione che ne conserva la sterilità, devono mantenere tali condizioni, finché la confezione non sia stata aperta, una volta giunta al punto di utilizzo. L'integrità dell'involucro deve essere garantita ed evidente.

La confezione dei dispositivi non sterili deve garantirne l'integrità e la pulizia e, ove gli stessi siano destinati ad essere sterilizzati prima dell'uso, deve ridurre al minimo i rischi di contaminazione microbica. La confezione, infine, deve essere adeguata al metodo di sterilizzazione indicato dal fabbricante e l'etichettatura del dispositivo deve consentire di distinguere facilmente tra dispositivi immessi sul mercato in forma sterile e non sterile.

Tanta attenzione nel garantire la sterilità dei dispositivi posti in commercio non è casuale: il rischio della contaminazione di questo tipo di impianti e delle infezioni che ne possono derivare è infatti molto alto. Tra i tanti tipi di dispositivi medici in commercio, quelli di tipo protesico sono tra i più soggetti a problemi di questo genere.

Con il termine protesi si intendono quei dispositivi artificiali che hanno lo scopo di sostituire o integrare parti del corpo umano mancanti o danneggiate; si tratta di impianti che possono essere prodotti in serie (come le valvole cardiache), oppure su misura, com'è il caso delle protesi ortopediche e dentarie.

In ogni caso, che si tratti di una semplice lente a contatto o di una placca utilizzata in ortopedia, oppure di un impianto cardiovascolare, una protesi che s'infetta costituisce una complicanza molto grave ed invalidante per il paziente, che può perfino avere esiti mortali.

Nel nostro paese il consumo di impianti protesici è in aumento, anche a causa del progressivo invecchiamento della popolazione: si stima che entro il 2050 il 70% degli italiani avrà bisogno di una protesi; fino ad alcuni anni fa le percentuali di infezione si attestavano al di sotto dell'1%, ma ora esse arrivano al 2-5%, con punte anche del 15-20% in caso di re-intervento per la sostituzione di una protesi infetta.

Secondo gli esperti, assistiamo ad una vera proliferazione di batteri e germi, come gli stafilococchi e lo pseudomonas aeruginosa, un germe ad alto rischio di invulnerabilità alla maggior parte dei farmaci disponibili.

Questi microrganismi infettano le protesi formando il cosiddetto biofilm batterico: una specie di scudo impenetrabile, sia agli antibiotici che al sistema immunitario, ed il loro trattamento è particolarmente complesso proprio perché la pellicola del biofilm difende i batteri da controffensive interne ed esterne.

Bisogna poi considerare che la diffusione di tecniche diagnostiche sempre più sofisticate e sensibili ci consente oggi di rilevare infezioni che agiscono meno velocemente di quelle acute, ma che col tempo erodono l'osso e portano al fallimento dell'attecchimento protesico.

In questi casi è necessario re-intervenire, il che finisce per aumentare il rischio di infezioni resistenti, in un circolo vizioso che può condurre alla sepsi e causare il decesso del paziente.

Secondo il prof. Romanò, già presidente della Società europea delle infezioni osteo-articolari, per gravità e difficoltà di trattamento le infezioni ossee e degli impianti sono paragonabili ai tumori e comportano un costo altissimo in termini sociali ed economici.

Trattandosi di oggetti estranei al corpo, gli impianti protesici possono essere causa di rigetto e possono provocare danni anche molto seri al paziente.

Anche a distanza di molti anni, sono inoltre riscontrabili irregolarità tecniche e tossicità dei materiali utilizzati per fabbricarli, e perfino infezioni alle ossa o gravi modifiche posturali.

La giurisprudenza non è concorde circa le richieste di risarcimento presentate da soggetti che avessero subito danni in seguito all'applicazione di uno di questi dispositivi. In particolare, risulta difficile stabilire se dei danni debba rispondere il produttore, o se la responsabilità debba essere attribuita al medico che ha effettuato l'impianto, od alla struttura sanitaria che ha ospitato l'intervento.

D'altro canto, alcuni casi che si sono verificati negli anni scorsi e sono stati ripresi ed amplificati dagli organi di stampa, hanno molto scosso l'opinione pubblica.

Nel 2010 un certo numero di articolazioni artificiali dell'anca, prodotte dal colosso americano De Puy – Johnson & Johnson, risultarono pericolose per la salute delle persone alle quali erano state impiantate. L'allarme fu lanciato dagli stessi tecnici della casa statunitense, che avevano rilevato casi di metallosi, un'infezione del sangue causata dallo sfregamento delle parti metalliche degli impianti e dal conseguente rilascio di sostanze nocive nell'organismo dei pazienti.

Nonostante all'epoca queste protesi fossero considerate tra le migliori esistenti sul mercato, il produttore fu letteralmente sommerso da richieste di risarcimento, da parte dei pazienti che furono costretti a subire un nuovo intervento per la rimozione delle protesi pericolose.

Il caso della Poly Implant Prothèse e la pronuncia della Corte di Giustizia Europea sui dispositivi medici “salva-vita”

Grande clamore ha poi suscitato il caso delle protesi al seno prodotte dall'azienda francese PIP (Poly Implant Prothèse), che hanno provocato a migliaia di donne in tutto il mondo infiammazioni ai linfonodi ascellari e addirittura casi di cancro al seno.

La vicenda nacque in seguito al ritiro dal mercato delle protesi mammarie prodotte da questa società, inizialmente a causa di un tasso anomalo di rotture.

Dai controlli successivi emerse poi che le protesi erano fabbricate con un gel altamente nocivo per l'uso al quale era destinato ed il titolare dell'azienda, Jean-Claude Mas, fu condannato a 4 anni di prigione ed al pagamento di una multa di 75 mila euro, nonché diffidato dall'esercitare qualsiasi attività in ambito sanitario.

Ma intanto questi dispositivi si erano diffusi in tutto il mondo: solo in Italia sono state 4 mila le donne sottoposte all'impianto, e ben 400 mila in tutta Europa.

Dal momento che nel 2010 le autorità francesi avevano ormai accertato che il fabbricante aveva prodotto le protesi con silicone industriale non conforme, una paziente tedesca che aveva subito l'impianto nel 2008 ne aveva chiesto la rimozione.

Nel frattempo la PIP aveva dichiarato fallimento e dunque la signora chiedeva ai giudici tedeschi la condanna della TÜV Rheinland, l'organismo incaricato dal fabbricante di valutare il suo sistema di qualità nell'ambito della certificazione CE, al risarcimento dell'importo di 40 mila euro, a titolo di danno morale patito per la vicenda.

Essa chiedeva inoltre che la TÜV fosse dichiarata colpevole di negligenza e responsabile per qualsiasi danno materiale anche futuro. Sarebbe infatti bastato un semplice esame dei documenti di trasporto e delle fatture della PIP, per consentire alla società tedesca di constatare che il fabbricante non stava impiegando il tipo di silicone autorizzato.

Secondo la Corte Federale di giustizia tedesca, perché vi fosse responsabilità della TÜV occorreva che la stessa avesse violato una norma di protezione, oppure un'obbligazione contrattuale. Per accertare tale violazione, la Corte tedesca chiedeva quindi alla Corte di Giustizia Europea di interpretare la normativa allora vigente nel settore dei dispositivi medici, ovvero la direttiva 93/42/CEE.

Quest'ultima armonizzava i requisiti che i dispositivi medici, come le protesi mammarie, dovevano soddisfare per essere immessi in commercio e disciplinava in particolare la procedura relativa alla dichiarazione di conformità CE, nonché i compiti e gli obblighi degli organismi notificati, ovvero dei certificatori, nell'ambito di tale sistema di assicurazione di qualità.

Con la sentenza n. C-219 del 16 febbraio 2017 la Corte europea ha quindi risposto che, in base a tale direttiva, un organismo notificato come il TÜV, che operava nell'ambito della procedura relativa alla dichiarazione di conformità CE, non era tenuto, in via generale, ad effettuare ispezioni impreviste e ad esaminare la documentazione commerciale del fabbricante. Tuttavia, in presenza di indizi tali da suggerire che un dispositivo medico potesse non essere conforme ai requisiti della direttiva, tale organismo avrebbe dovuto adottare tutte le misure necessarie per rispettare gli obblighi ad esso imposti dalla direttiva stessa.

Bisognava quindi tener conto che l'intervento del certificatore nell'ambito della procedura relativa alla dichiarazione di conformità CE era destinato prima di tutto a proteggere i destinatari finali dei dispositivi medici.

In tali circostanze spetta al diritto nazionale determinare le condizioni per le quali possa insorgere la responsabilità di un organismo notificato nei confronti dei destinatari di un prodotto, per colpevole inadempimento degli obblighi posti a suo carico dalla direttiva.

In pratica, secondo la Corte di giustizia europea, non discende esplicitamente dalla direttiva 93/42/CE un'eventuale responsabilità parallela a quella del fabbricante del dispositivo difettoso, in capo al certificatore eventualmente inadempiente rispetto agli obblighi posti dalla direttiva stessa. Tuttavia, tale responsabilità non può nemmeno essere esclusa in modo assoluto, ma deve essere valutata alla luce delle norme vigenti nei singoli Stati Membri.

A tale riguardo c'è da chiedersi se, essendo in Italia abbastanza cospicua la giurisprudenza sulla responsabilità del Ministero della Salute per mancata o carente vigilanza in materia di emotrasfusioni, la stessa non possa eventualmente applicarsi anche agli organismi notificati che risultassero inadempienti rispetto ai loro obblighi di vigilanza.

In Francia, ad esempio, il Tribunale del Commercio di Tolosa ha stabilito all'inizio del 2017 che la Tüv Rheinland dovesse risarcire 3 mila euro per ognuna delle 20 mila pazienti francesi che avevano presentato querela per l'impianto delle protesi mammarie PIP, determinando un risarcimento totale di ben 60 milioni di euro da parte del noto certificatore tedesco.

Ed è proprio per evitare casi simili che l'UE ha deciso di varare norme più severe sui dispositivi medici.

In particolare, poiché nel caso della PIP non era stato possibile accertare se molte donne avessero o meno ricevuto protesi difettose, è stato introdotto un sistema di identificazione dei dispositivi per consentirne la tracciabilità ed è stata istituita la banca dati Eudamed.

Per lo stesso motivo la nuova normativa ha introdotto controlli più severi sui produttori e l'obbligo per questi ultimi di fornire dati clinici sulla sicurezza dei dispositivi venduti.

È infine prevista una procedura supplementare di controllo per gli organismi notificati e per i dispositivi ad alto rischio.

Come si è detto, nei danni causati da dispositivi medici può essere difficile individuare il soggetto responsabile. L'eventuale danno, infatti, può essere dovuto a difetto di fabbricazione o può essere ascritto al medico che ha fatto l'impianto, oppure alla struttura presso la quale è stato effettuato l'intervento.

Un aspetto rilevante riguarda anche l'attribuzione delle eventuali spese di indagine per appurare l'origine del problema e per l'eventuale rimozione e reimpianto del dispositivo oggetto della vertenza.

A questo riguardo, con sentenza del 5 marzo 2015 sulle cause riunite C-503/13 e 504/13 (Boston Scientific Medizintechnik GmbH / AOK Sachsen-Anhalt – Die Gesundheitskasse e a.), la Corte di Giustizia Europea ha deciso che, qualora un dispositivo medico presenti una mancanza anche potenziale, tutti i prodotti dello stesso modello potranno essere qualificati come difettosi ed i costi per la loro sostituzione saranno a carico delle aziende produttrici.

Il caso concerneva un'impresa tedesca che commercializzava pacemakers e defibrillatori cardiaci impiantabili. In seguito a controlli di qualità effettuati a campione, veniva appurato che alcuni dei prodotti venduti erano difettosi. L'azienda stessa, pertanto, raccomandava ai clienti di sostituire i dispositivi impiantati nei pazienti con altri offerti gratuitamente.

Le compagnie di assicurazione chiamate a risarcire i costi per la sostituzione delle apparecchiature medicali difettose chiedevano quindi al fabbricante il rimborso delle spese sostenute per gli interventi di rimozione e rimpiazzo degli impianti, ma questi rifiutava, adducendo come giustificazione che le apparecchiature oggetto del contendere erano già dotate di vita e validità limitate e, pertanto, sarebbero state da reimpiantare comunque, indipendentemente dalla loro difettosità.

La contesa giungeva alla Corte Suprema tedesca, che decideva di sottoporre alla Corte di Giustizia Europea i seguenti quesiti:

a) se i dispositivi sostituiti potevano essere qualificati come difettosi, anche se per essi non era stata riscontrata alcuna anomalia, semplicemente perché controlli di qualità “a campione”, effettuati dal fabbricante su dispositivi del medesimo modello avevano rivelato l'esistenza di un potenziale difetto;

b) se, in forza della direttiva 85/374/CEE in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, il costo della sostituzione dei dispositivi dovesse essere a carico del produttore.

La direttiva 85/374/CEE, nota come PLD (ovvero Products Liability Directive), stabilisce che il produttore di un impianto medico è tenuto al risarcimento dei costi dell'eventuale intervento necessario per la sua sostituzione, a condizione che il paziente dimostri che l'impianto stesso è difettoso. Ma nel caso in specie, la rimozione del dispositivo per effettuarne il controllo avrebbe potuto causare la morte del paziente stesso.

Dal momento che un prodotto è considerato difettoso quando non garantisce il livello di sicurezza che l'utente ha il diritto di aspettarsi, tali aspettative di sicurezza dipendono anche dalla destinazione del prodotto stesso e dalle specifiche esigenze delle persone alle quali è destinato.

Nel caso di pacemakers e defibrillatori impiantabili, quindi, si doveva tener conto della funzione svolta da questi dispositivi e dell'estrema vulnerabilità dei pazienti che li utilizzavano. I requisiti di sicurezza previsti divenivano perciò assai più stringenti e l'eventuale responsabilità del fabbricante marcata dall'enorme potenziale di danno che questi impianti potevano causare alle persone interessate. Dato infine l'obbiettivo di proteggere la salute e la sicurezza dei consumatori perseguito dalla Direttiva, il risarcimento del danno doveva per forza comprendere i costi necessari per eliminarne le conseguenze, il che implicava il risarcimento delle spese relative alla sostituzione del prodotto difettoso, se tale operazione si fosse resa necessaria per risolvere i problemi causati dalle sue, non importa se presunte, mancanze.

Da qui la decisione della Corte di Giustizia Europea, che ha voluto delineare il concetto di difettosità nel contesto dei dispositivi medici, rispetto alla vulnerabilità dei pazienti ai quali sono destinati.

L'impatto di questa decisione nell'ambito del contenzioso medico verte però sul fatto che il dispositivo in esame sia effettivamente etichettato come "salva-vita" dai magistrati competenti, che sono dunque chiamati ad analizzare ogni caso e a decidere se esso sia effettivamente assimilabile a quelli trattati dalla Corte Europea, per garantire che l'eventuale responsabilità del produttore non risulti eccessivamente aggravata, anche alla luce degli ulteriori e dettagliati requisiti di sicurezza previsti dal nuovo Regolamento 2017/745.

La responsabilità del professionista sanitario e della struttura nei casi di infezione dei dispositivi medici

Il fabbricante ha dunque l'onere di mettere in circolazione solo dispositivi sicuri, costruiti con materiali di altissima qualità e adatti ad un utilizzo delicato come quello sanitario. Tuttavia è possibile che la responsabilità per il pregiudizio eventualmente sofferto dal paziente non sia attribuibile a difetto nella produzione o nel confezionamento del dispositivo.

Può anche accadere che lo stesso venga installato correttamente dal medico e dall'équipe chirurgica, ma che venga accertato un difetto di sterilizzazione della sala operatoria, teatro dell'impianto.

È questa la fattispecie analizzata dal Tribunale di Imperia, con sentenza del 27 aprile del 2016, nella quale è stata riconosciuta la colpa dell'ASL di Imperia per danni cagionati ad un paziente, sottoposto ad intervento chirurgico d'urgenza con osteosintesi per ridurre una frattura del collo femorale.

L'operazione si era svolta nel 2008 e già nei mesi successivi ad essa sopraggiungeva un'infezione indomabile e veniva diagnosticata al paziente, allora quindicenne, un'artrite settica all'anca, con osteomielite del bacino e del femore. Come conseguenza, non solo bisognava impiantare una protesi intera dell'anca, ma si rendeva anche necessaria una sostituzione della stessa ogni 15 anni, con ulteriore ricovero, intervento, nuovo rischio settico e nuova riabilitazione.

La responsabilità della struttura per non aver garantito la perfetta sterilità della sala operatoria è stata accertata dal perito medico-legale nominato dal Tribunale, che ha confermato come l'intervento fosse stato eseguito correttamente dall'équipe chirurgica.

È giunta pertanto nel 2016, a distanza di 15 anni dal fatto e dopo una lunga serie di procedimenti, la condanna per l'Azienda Sanitaria e per il suo assicuratore al risarcimento di oltre 170.000 euro a favore del paziente, per i danni patrimoniali e non patrimoniali da quest'ultimo sofferti.

Alla luce della più recente giurisprudenza è tuttavia possibile che la struttura risponda anche nel caso in cui vi sia difetto della protesi impiantata, come deciso dal Tribunale di Ravenna, per mano del Giudice dott. Massimo Vicini, con sentenza del 3 marzo 2017, depositata il 20 marzo successivo.

Il caso riguardava la richiesta di risarcimento avanzata da un paziente per i danni subiti in seguito all'operato del personale sanitario del reparto di Ortopedia dell'Ospedale di Lugo, in occasione di un intervento chirurgico di artroplastica totale dell'anca sinistra, al quale l'attore era stato sottoposto nel 2010.

La colpa professionale del personale sanitario sarebbe consistita nell'avere impiantato una protesi non conforme alla regola dell'arte, che si era rotta circa un anno e mezzo dopo l'intervento, determinando la necessità per il paziente di sottoporsi ad un secondo intervento chirurgico per un nuovo impianto. L'Azienda ospedaliera si costituiva in giudizio, contestando ogni responsabilità attribuitale e provvedendo alla chiamata in causa della società fornitrice della prima protesi impiantata, perché corrispondesse direttamente all'attore la somma eventualmente liquidata a suo favore.

La sentenza emessa dal Tribunale di Ravenna verte in questo caso sul rapporto di natura contrattuale intercorso tra il paziente e la struttura sanitaria: «il rapporto che si instaura tra paziente … e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ. , all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cass. civ., 26 gennaio 2006 n. 1698; Cass. civ., 22 marzo 2007 n. 6945.

Secondo i principi che governano la responsabilità contrattuale, dunque, la struttura sanitaria convenuta in giudizio per ipotesi di malpractice è tenuta a fornire la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 c.c., con la conseguenza che il mancato raggiungimento di tale prova (compreso il mero dubbio sull'esattezza dell'adempimento) non può che ricadere a suo carico. Nel caso in questione, la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria risultava evidente dalle considerazioni medico-legali contenute nella relazione peritale, ma dalla stessa emergeva anche il difetto della protesi impiantata sul paziente.

L'azienda sanitaria, quindi, contestava che la causa petendi della domanda attorea fosse costituita unicamente dall'errata esecuzione dell'intervento chirurgico, ritenendo che la responsabilità dipendesse invece dalla difettosità della protesi. Ma trattandosi di un difetto dovuto ad una micro irregolarità superficiale, la quale poteva essersi prodotta in qualunque momento tra la fabbricazione del componente, il suo confezionamento, la sterilizzazione e la manipolazione prima dell'operazione (e perfino durante la stessa), la struttura sanitaria avrebbe dovuto, per essere esente da responsabilità, fornire la prova che il difetto in questione era insorto prima che la protesi entrasse nella sua sfera di controllo e che la stessa era stata sottoposta ai dovuti controlli, prima di essere utilizzata nell'intervento chirurgico.

Non avendo la struttura adempiuto tale onere probatorio, andava quindi affermata la sua responsabilità contrattuale per i danni sofferti dall'attore, anche in conseguenza dell'avvenuta rottura della protesi per un suo eventuale difetto.

Sulla medesima linea si pone una sentenza del 17 aprile 2018, nella quale il Tribunale di Lucca si è pronunciato a sfavore di una clinica di Forte dei Marmi.

Il caso riguardava un paziente di Sarzana, sottoposto ad impianto di protesi al ginocchio nel 2006, che aveva contratto un'infezione nosocomiale periprotesica, dalla quale erano scaturite una grave setticemia e la perdita totale della vista, oltre a gravi sofferenze che lo avevano perseguitato fino alla morte, avvenuta per cause indipendenti dalle patologie legate all'intervento.

La vicenda processuale era iniziata nel 2012 e già nel 2013 la CTU aveva attestato la responsabilità della clinica, la quale non aveva voluto riconoscerne i risultati, costringendo gli eredi della vittima a rivolgersi in tribunale. Il Giudice ha ora condannato la Casa di Cura a risarcire loro la somma complessiva di 360.000 euro.

Tra le problematiche che interessano gli apparati protesici, bisogna anche considerare i casi di errato posizionamento. Questi dovrebbero in teoria essere attribuiti ad imperizia del professionista sanitario che effettua l'operazione, ma il coinvolgimento della struttura, in misura variabile a seconda del caso, sta diventando un fatto sempre più comune.

Significativa, sotto questo profilo, è la sentenza n. 3204 del 9 ottobre 2017 del Tribunale di Firenze, sul caso di una paziente sottoposta ad impianto di protesi totale ad un ginocchio e vittima di malpractice medica per errato posizionamento del dispositivo.

La paziente aveva convenuto dinanzi al tribunale sia il sanitario autore dell'operazione, che la struttura presso la quale la stessa si era svolta. La clinica, però, contestava ogni addebito per sue carenze e richiedeva l'integrale manleva da parte del medico chirurgo esecutore dell'intervento, in quanto libero professionista ed unico responsabile del danno patito dall'attrice. Il Giudice, pur non rilevando particolari inadempimenti da parte della clinica, ha ritenuto la stessa «responsabile ai sensi dell'articolo 1228 c.c., dei fatti dolosi e colposi commessi dai suoi dipendenti ed ausiliari, senza che rilevi se per l'esecuzione delle prestazioni strettamente sanitarie eseguite da figure professionali abilitate, si sia avvalsa di proprio personale dipendente o di collaboratori esterni».

È interessante notare come, sulla base dell'esito della CTU che provava la responsabilità del medico, il Giudice abbia condannato lo stesso per imperizia nell'esecuzione dell'intervento chirurgico (“condotta non conforme a buona pratica medica”), ma abbia ritenuto comunque responsabile in via solidale la struttura, pur accogliendone per intero l'azione di regresso verso il chirurgo, non avendo essa direttamente concorso alla determinazione del danno.

La clinica, insomma, viene considerata il responsabile primario, in virtù dell'art. 1228 c.c., anche se ciò non vieta, ove non fossero rilevabili particolari e diretti inadempimenti a suo carico, di accoglierne il regresso verso il sanitario che avesse direttamente ed esclusivamente concorso alla determinazione del danno.

Anche un software può essere considerato “dispositivo medico”

Con sentenza C. 329/16 sul caso Sniterm-Syndicat national de l'industrie des technologies médicales, la Corte di Giustizia Europea ha allargato l'area di applicazione della Direttiva 93/42/CEE, e d'ora in avanti del Regolamento 2017/745, determinando i criteri in base ai quali un software possa essere qualificato come dispositivo medico.

La questione era stata sollevata dalla Sniterm (associazione francese delle imprese di tecnologia medicale), che aveva chiesto di valutare se un software che presenti «una funzionalità che consenta l'utilizzo dei dati personali di un paziente, al fine di aiutare il suo medico nella predisposizione della sua prescrizione, rilevando in particolare le controindicazioni e interazioni con altri medicinali ed eventuali posologie eccessive» possa essere considerato alla stregua di un dispositivo medico, tenuto conto che lo stesso non viene impiegato nel o sul corpo umano.

La definizione di dispositivo medico, infatti, comprende “qualunque strumento, apparecchio, impianto, software, sostanza o altro prodotto destinato ad essere impiegato sull'uomo”.

La Corte di Giustizia Europea ha così assunto un'interpretazione ampia della disciplina, dando atto che – perché un software possa ricadere nella sfera di applicazione del nuovo Regolamento 2017/745 – non è sufficiente che lo stesso sia utilizzato in un contesto medico. Occorre però che il fabbricante l'abbia destinato ad una specifica finalità medica. In tal caso, infatti, è possibile qualificare il software come dispositivo medico anche senza che lo stesso venga impiegato direttamente sull'uomo.

In base al considerando 6 della Direttiva 2007/47 «un software è di per sé un dispositivo medico quando è specificamente destinato dal fabbricante ad essere impiegato per una o più delle finalità mediche stabilite nella definizione di dispositivo medico».

Si tratta quindi di concentrarsi non tanto sull'effetto che lo stesso è in grado di produrre sul corpo umano, quanto sullo scopo del suo utilizzo. Ne consegue che «ai fini della qualificazione di dispositivo medico, il fatto che un software agisca direttamente o non agisca direttamente sul corpo umano non è rilevante, essendo invece fondamentale che la finalità indicata dal fabbricante sia una di quelle previste per la definizione stessa di dispositivo medico».

Questa sentenza è certamente destinata ad avere un enorme impatto sul mercato dei software e delle applicazioni informatiche (le App), che – se di supporto all'attività diagnostica - dovranno ora essere marcati CE, come tutti i dispositivi medici e dovranno sottostare alle rigide norme di fabbricazione previste dal nuovo Regolamento entrato in vigore nel 2017.

In una sanità sempre più informatizzata, inoltre, si prevede che questo tipo di applicazioni abbia sempre maggiore diffusione nella pratica ospedaliera ed eventuali problemi o illeciti che dovessero essere attribuibili al loro malfunzionamento potranno aggiungersi alle tante fonti di contenzioso che già interessano il settore.

In conclusione

Le complicazioni che possono interessare i pazienti sottoposti ad impianti protesici sono assai diverse e dipendono principalmente dalla possibilità che si sviluppino infezioni.

D'altro canto i dispositivi medici sono ora soggetti ad una normativa sempre più stringente, che disciplina la responsabilità del fabbricante e salvaguarda il consumatore, inteso come soggetto vulnerabile e da proteggere. Dato il loro costante aumento, la nuova normativa dedica ampio spazio alla prevenzione di contaminazioni ed infezioni, lungo tutta la filiera produttiva e distributiva. La tutela del danneggiato può quindi articolarsi per mezzo delle norme che regolano il Codice del Consumo.

La normativa di riferimento è in questo caso costituita dal d.lgs. 24 febbraio 1997 n. 46 e dal d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206, ma dalla giurisprudenza più recente emerge un progressivo slittamento del carico di responsabilità verso la struttura sanitaria, disciplinata agli artt. 1218 e 1228 c.c. che regolano la responsabilità di natura contrattuale, indipendentemente dal fatto che venga appurata una specifica mancanza nell'operato del chirurgo, dell'équipe o del produttore.

Tale tendenza si pone in linea con quanto previsto dalla Legge Gelli, nel tentativo di alleggerire la posizione del professionista, eccessivamente indebolito dall'estremo intensificarsi del contenzioso medico-legale che ha interessato la responsabilità sanitaria italiana negli ultimi vent'anni.

C'è però da tener presente che i due sistemi di salvaguardia a disposizione dei danneggiati prevedono modalità assai diverse.

Mentre il regime che regola la responsabilità contrattuale comporta un limite prescrizionale di dieci anni, i quali per altro decorrono dal momento in cui la vittima dell'illecito ha avuto coscienza del danno subito, il Codice del Consumo prevede che il diritto al risarcimento si prescriva «in tre anni, dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto o dell'identità del responsabile». Anche se «Nel caso di aggravamento del danno, la prescrizione non comincia a decorrere prima del giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l'esercizio di un'azione giudiziaria» (art. 125).

E se all'art. 126 è comunque previsto che il diritto al risarcimento si estingua «alla scadenza di dieci anni dal giorno in cui il produttore o l'importatore nell'Unione Europea ha messo in circolazione il prodotto che ha causato il danno», c'è comunque da considerare la diversa distribuzione dell'onere probatorio che grava sui soggetti coinvolti.

Qualora la domanda del paziente si inquadri nell'ambito della responsabilità da prodotto difettoso, infatti, egli dovrà provare il difetto del dispositivo, il danno che ne è derivato e la causalità tra questi due elementi.

Avvalendosi dell'azione da responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., invece, gli basterà provare l'esistenza del contratto ed il danno lamentato, allegando il nesso causale fra i due, mentre il debitore dovrà dimostrare che l'inadempimento è dovuto a cause indipendenti dalla sua condotta.

La struttura sanitaria coinvolta, poi, dovrà provare di aver scelto il tipo di dispositivo più adeguato al caso trattato e di aver osservato in tutte le fasi del servizio prestato la massima diligenza, garantendo la perfetta sterilizzazione degli ambienti nei quali esso si è svolto.

Non sorprende, quindi, che la giurisprudenza si indirizzi sempre più frequentemente verso un'interpretazione in chiave contrattuale del contenzioso che investe i danni conseguenti all'impianto di dispositivi medici e protesici, pur offrendo la più recente normativa in materia di protezione del consumatore ampi spazi per chi volesse invece avvalersi delle disposizioni che disciplinano la responsabilità del produttore.

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