Il nuovo assegno di divorzio dopo le Sezioni Unite: ritorno al futuro?

17 Luglio 2018

Le Sezioni Unite hanno composto il contrasto giurisprudenziale insorto a seguito della sentenza Cass., sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 che aveva profondamente innovato la materia dell'assegno divorzile rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale inaugurato da Cass., S.U., n. 11490/1990.
Massima

Ai sensi dell'art. 5, comma 6, legge n. 898/1970, dopo le modifiche introdotte con la legge n. 74/1987, il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, e in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto.

Il caso

Tizio e Caia si sposano nel 1978 e si separano nel 2007, facendosi reciproche attribuzioni patrimoniali e senza prevedere alcun assegno ex art. 156, comma 6, c.c.; nel 2012 il Tribunale di Reggio Emilia pronunzia il divorzio, ponendo a carico di Tizio un assegno ex art. 5 l. n. 898/1970 di € 4.000,00.

Tizio impugna la decisione e la Corte d'appello di Bologna, in adesione ai principi espressi da Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 (A. Simeone, L'assegno di divorzio secondo la Cassazione: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, in ilFamiliarista.it), riformando il capo della sentenza, ha esonerato il marito dal versamento di un contributo all'ex coniuge, ritenuta economicamente autosufficiente.

Caia ricorre in Cassazione assumendo, nel primo motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 5 l. n. 898/1970 ritenendo che:

i) il criterio dell'indipendenza economica non ha alcun riscontro nel testo della norma;

ii) il criterio del tenore di vita, assunto a parametro del giudizio di inadeguatezza dei mezzi a partire da Cass. civ, S.U., 29 novembre 1990, n. 11490 e per i successivi 27 anni dalla giurisprudenza, nonché ritenuto legittimo anche dalla Corte Costituzionale (Corte cost., ord., n. 11/2015), viceversa, farebbe parte dell'intero impianto normativo del divorzio e, in particolare, dell'art. 5, comma 9,l. n. 898/1970;

iii) l'aver mutuato il criterio dell'autosufficienza economica, partendo da quanto stabilito dall'art. 337-septies c.c. è operazione errata sotto il profilo interpretativo, giusta la diversità della situazione del figlio maggiorenne rispetto all'ex coniuge e considerata la differente finalità dell'assegno per la prole rispetto a quello divorzile;

iv) il nuovo orientamento lede il principio della solidarietà post coniugale, ben scolpito nelle norme che riguardano la pensione di reversibilità e il diritto alla quota del trattamento di fine rapporto.

Caia, con il secondo motivo, censura altresì la sentenza impugnata per averla condannata alla ripetizione di quanto percepito in forza della sentenza di primo grado, sostenendo che la sentenza d'appello possa disporre solo de futuro e che, comunque sia, nella fattispecie vigerebbe il principio dell'irripetibilità degli importi percepiti ex art. 5 l. n. 898/1970.

Su richiesta di Caia, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite che hanno accolto il primo motivo e dichiarato assorbito il secondo.

La questione

Le Sezioni Unite, con il provvedimento in commento, hanno composto il contrasto giurisprudenziale insorto a seguito della sentenza della Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 che aveva profondamente innovato la materia dell'assegno divorzile rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale inaugurato da Cass., S.U., n. 11490/1990.

Partendo dalla evidente constatazione che l'art. 5 l. n. 898/1970, nella formulazione successiva alla novella del 1987, è norma “monca” (si riferisce ai "mezzi adeguati" senza indicare il termine di paragone), la giurisprudenza si presentava spaccata: secondo un primo orientamento (Cass. civ., S.U., 29 novembre 1990, nn. 11490, 11491 e 11492; Cass. civ., sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076; Cass. civ., sez. I, 2 luglio 2007, n. 14965; Cass. civ., sez. I, 20 marzo 2010, n. 7145; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2013, n. 16597; Cass. civ., sez. I, 5 febbraio 2014, n. 2546) l'assegno era dovuto a favore del coniuge che non avesse o non potesse procurarsi per ragioni oggettivi mezzi tali da poter mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva caratterizzato la vita matrimoniale; a questo orientamento se ne era contrapposto uno più recente (Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504; Cass. civ., sez. I, 11 maggio 2017, n. 11538; Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196; Cass. civ., sez. II, 23 marzo 2018, n. 1630; Cass. civ., sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481; Cass. civ., sez. VI, 29 agosto 2017, n. 20525; Cass. civ., sez. VI, 9 ottobre 2017, n. 23602; Cass. civ., sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327; Cass. civ., sez. VI, 30 ottobre 2017, n. 25781; Cass. civ., sez. VI, 5 dicembre 2017, n. 28994) frutto di rielaborazione di un precedente risalente nel tempo (Cass. civ., sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652) che riteneva dovuto l'assegno solo all'ex coniuge che non avesse o non potesse procurarsi per ragioni oggettive i mezzi per raggiungere l'autosufficienza economica, termine di paragone interpretato a volte in maniera oggettiva (Cass. civ., sez. I, 11 maggio 2017, n. 11538; Trib. Milano, 22 maggio 2017; Trib. Varese, 6 giugno 2017; Trib. Firenze, 14 giugno 2017; Trib. Matera, 7 marzo 2018) e, a volte, in maniera soggettiva, così da evitare «pericolosi automatismi» (Cass. civ., sez. VI, 26 gennaio 2018, n. 2042; Cass. civ, sez. VI, 7 febbraio 2018, n. 3016; Trib. Roma, 11 settembre 2017; Trib. Milano, 3 Ottobre 2017, n. 9868; App. Genova, 12 ottobre 2017; App. Brescia, 12 gennaio 2018).

I pur contrapposti orientamenti erano accomunati dal ritenere che il giudizio sull'assegno divorzile fosse rigorosamente bifasico: nella prima fase (quella dell'an) il giudice era chiamato a valutare l'inadeguatezza dei mezzi, rapporti o al tenore di vita (primo orientamento) o all'autosufficienza economica (secondo orientamento); esperita positivamente questa prima indagine, nella seconda fase (quella del quantum) si determinava l'esatto importo dell'assegno, applicando i criteri indicati nella prima parte della norma, che agivano come fattori di ponderazione dell'assegno (Corte cost. n. 11/2015), potendo arrivare anche ad annullarlo.

Tenore di vita o autosufficienza economica, dunque?

Né l'uno né l'altra, giacchè il massimo consesso dei giudici di legittimità ha optato per una “terza via”.

Le soluzioni giuridiche

La Corte, dopo un dotto e ricco excursus storico sull'evoluzione normativa e giurisprudenziale dell'art. 5 l. n. 898/1970 nella formulazione originaria, procede alla disamina della norma dopo la novella del 1987, sottopone a critica entrambi gli orientamenti pregressi e, infine, enunzia il nuovo principio di diritto cui tutti i giudici dovranno oggi uniformarsi.

Analisi della norma.

La Corte parte dall'esame delle novità apportate alla norma dalla novella del 1987, individuandole nel «rilievo dell'indagine comparativa dei redditi e dei patrimoni degli ex coniugi» (assente nella formulazione originaria) nell'«accorpamento di tutti gli indicatori che compongono il criterio assistenziale (condizioni dei coniugi e reddito di entrambi), quello compensativo (“il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”) e quello risarcitorio (“le ragioni della decisione”)» e, infine, nella previsione dell'inadeguatezza dei mezzi del richiedente.

L'abbandono del giudizio bifasico.

È noto per i giudici di legittimità che la novella del 1987 aveva determinato il passaggio, nella fase applicativa della norma, al cd. giudizio bifasico.

Il passaggio, invero fondamentale, della sentenza in commento è quello che disarticola la necessità del giudizio bifasico, che accomuna gli orientamenti contrapposti, in cui nella prima parte si valutano i mezzi del richiedente (da rapportare, alternativamente al tenore di vita o all'indipendenza economica) e nella seconda si applicano i criteri indicati nella prima parte della norma, che agiscono come fattori di ponderazione dell'assegno astrattamente dovuto.

Tale “rigida ripartizione” secondo la Corte è errata giacché:

a) «non costituisce una conseguenza necessaria della nuova formulazione della norma». E infatti, così come nell'originaria formulazione, il legislatore impone di tener conto di tutti i fattori che compongono i tre criteri assistenziale, risarcitorio e compensativo, senza tuttavia privilegiare nessuno di essi. Cosicché, la scelta di dare preminenza al criterio assistenziale (che finiva con l'assorbire, nei fatti, quello risarcitorio e quello compensativo) e di relegare alla sola fase della determinazione dell'assegno gli altri due criteri è operazione ermeneutica errata, in contrasto con la lettera e lo spirito dell'art. 5 l. n. 898/1970;

b) la valutazione delle condizioni economiche delle parti e, dunque, dell'eventuale divario costituisce «un accertamento ineludibile rivolto a entrambe le parti, con la conseguenza che la conoscenza comparativa di tali condizioni costituisce (…) pregiudiziale a qualsiasi successiva indagine sui presupposti dell'assegno»; di conseguenza è errato valutare in una prima fase solo le condizioni del richiedente, sia che le si voglia rapportare al tenore di vita, sia che le si voglia rapportare all'autosufficienza;

c) “il dato testuale” da cui è discesa la bipartizione «non presenta l'univocità che gli orientamenti contrapposti hanno voluto ravvisarvi», considerato che l'obbligo di somministrare l'assegno è previsto nell'ultima parte del primo periodo della norma che però «si apre con la prescrizione espressa e completa dei criteri di cui il giudice deve tenere conto, valutandone il peso in relazione alla durata del matrimonio». Dal punto di vista letterale, la norma è strutturata in modo da imporre che tutti i criteri da valutare in ragione della durata del matrimonio (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico, reddito) permeino l'intero giudizio sull'assegno di divorzio, non potendo invece essere relegati a meri fattori di ponderazione che entrano in azione nella sola seconda fase del giudizio, operativa solo a seguito dell'esito positivo del giudizio sull'inadeguatezza dei mezzi del richiedente.

Critica del criterio del tenore di vita.

Il superamento del giudizio bifasico non esclude però che l'assegno possa continuare a essere rapportato al tenore di vita o all'indipendenza economica, considerato che la norma prevede il giudizio di adeguatezza.

Secondo la Corte il parametro non può essere il tenore di vita, giacché:

a) imprime alla comparazione delle condizioni economiche dei coniugi un rilievo preminente, per non dire assorbente, che la norma (vedi sopra) non concede; tale preminenza poi potrebbe provocare il «rischio di locupletazione ingiustificata dell'ex coniuge, in tutte quelle situazioni in cui egli possa godere comunque non solo di una posizione autonoma ma anche di una condizione di particolare agiatezza oppure quando non abbia significativamente contribuito alla formazione della posizione economico patrimoniale dell'altro ex coniuge»;

b) marginalizza gli altri criteri indicati dalla norma e «in particolare quello relativo all'apporto fornito dall'ex coniuge nella conduzione e nello svolgimento della complessa attività endofamiliare, cui il Collegio ritiene di attribuire primaria e peculiare importanza»;

c) mortifica soprattutto il criterio compensativo che «non può essere esclusivamente un fattore di moderazione, dovendosene tenere conto al pari degli altri elementi indicati dalla norma, alla luce dell'inquadramento costituzionale delle ragioni giustificative del diritto all'assegno di divorzio».

Critica del criterio dell'autosufficienza economica.

L'orientamento inaugurato da Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504, come noto, partiva dalla valorizzazione del principio di autoresponsabilità economica, che non solo è applicato in materia di determinazione del contributo dovuto al figlio maggiorenne (cfr. Cass. civ. n. 18076/2014) ma «appartiene al contesto giuridico europeo, essendo da tempo presente in molte legislazioni dei Paesi dell'Unione, ove è declinato in termini rigorosi e radicali che prevedono, come regola generale, la piena autoresponsabilità economica degli ex coniugi, salve limitate – anche nel tempo - eccezioni di ausilio economico e dimostrate ragioni di solidarietà».

La decisione in commento “salva” e valorizza il principio di autoresponsabilità e quello di autodeterminazione, pur osservando però che esso deve coniugarsi, per porsi in un'ottica costituzionalmente orientata, con i principi di rispetto della dignità personale e del principio di eguaglianza.

Ne deriva che ancorare il giudizio sull'assegno solo alla valutazione della mera autosufficienza economica non rispetterebbe lo spirito e il senso della norma, e si porrebbe in contrasto, ove si optasse per un'applicazione rigida del principio, con valori tutelati a livello costituzionale.

Dunque, neppure detto criterio può continuare a orientare il giudizio sull'assegno di divorzio, giacché:

a) al pari del criterio del tenore di vita, è criterio che viene individuato al di fuori della norma;

b) non tiene conto che «i ruoli all'interno della relazione matrimoniale costituiscono un fattore, molto di frequente, decisivo nella definizione dei singoli profili economico patrimoniali (…) e sono frutto di scelte comuni fondate sull'autodeterminazione e sull'autoresponsabilità di entrambi i coniugi»;

c) è errato nella parte in cui viene fatto discendere dall'art. 23 Cost. che è «del tutto estraneo al contesto giuridico-costituzionale all'interno del quale deve collocarsi la cd. solidarietà post coniugale, riguardando (…) la relazione cittadino-contribuente»;

d) omette di considerare che le scelte fatte in costanza di convivenza possono anche essere irreversibili per la parte debole: «i principi di autodeterminazione e autoresponsabilità hanno orientato non solo la scelta… di unirsi in matrimonio ma (…) hanno determinato il modello di relazione coniugale da realizzare, la definizione dei ruoli, il contributo di ciascun coniuge nell'attuazione della rete di diritti e doveri fissati dall'art. 143 c.c… Alla reversibilità della scelta relativa al legame matrimoniale non consegue necessariamente una correlata duttilità e flessibilità in ordine alle condizioni soggettive e alla sfera economico-patrimoniale dell'ex coniuge»;

e) cancella, ancora di più di quanto già non facesse il criterio del tenore di vita, la valorizzazione del contributo dato dai coniugi in costanza di convivenza; peraltro, tutti i fattori indicati nell'art. 5 l. n. 898/1970 «e in particolare quello direttamente conseguente dal principio costituzionale della pari dignità dei coniugi, relativo al contributo” dato da entrambi al ménage “diventano meramente eventuali» con la conseguente abrogazione implicita della prima parte dell'art. 5 l. n. 898/1970.

Il nuovo orientamento.

La Corte conclude la propria disamina osservando che nessuno dei due orientamenti pare in grado di assorbire i mutamenti, anche simbolici, che hanno connotato l'istituto matrimoniale negli ultimi 40 anni. Da un lato, il criterio del tenore di vita determinava il doppio rischio di creare «rendite di posizione disancorate dal contributo personale dell'ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune o dell'altro e coniuge" e di "deresponsabilizzare eccessivamente il coniuge»; dall'altro altro il criterio dell'autosufficienza economica rischiava di non tenere nel debito conto il principio del rispetto dell'eguaglianza dei coniugi (art. 29 Cost.) e della dignità personale (art. 2 Cost.), obliterando ingiustificatamente il rischio che le scelte fatte dai coniuge durante la vita matrimoniale si proiettassero in maniera irreversibile anche nella fase successiva alla dissoluzione del vincolo.

Per la Corte, un'interpretazione correttamente ispirata e rispettosa dei principi costituzionali deve, invece, valorizzare tutti i criteri della norma: ne deriva che «il parametro sulla base del quale deve essere fondato l'accertamento del diritto ha natura composita, dovendo l'adeguatezza dei mezzi o l'incapacità di procurarli per ragioni oggettive essere desunta dalla valutazione, del tutto equiordinata, degli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, in quanto rivelatori della declinazione del principio di solidarietà».

L'assegno di divorzio non ha dunque, e qui sta la seconda grande novità, un carattere meramente assistenziale perché non si basa più solo né sulla disparità economica tra i coniugi (criterio del tenore di vita) né sulle condizioni soggettive del solo richiedente (criterio dell'autosufficienza economica). Secondo la Corte il principio di pari dignità tra i coniugi trova necessariamente il suo corollario, al momento della cessazione del vincolo, nella valorizzazione del contenuto prevalentemente perequativo-compensativo dell'assegno.

La Corte, infatti, ricorda che «lo scioglimento del vincolo incide sullo status, ma non cancella gli effetti e le conseguenze delle scelte e le modalità di realizzazione della vita familiare»; in altre parole occorre tenere conto dei sacrifici fatti da uno, o da entrambi i coniugi, nell'interesse della famiglia e durante la vita matrimoniale, sacrifici che possono aver comportato, per l'uno o per l'altro, degli effetti irreversibili che, nell'ottica del principio di uguaglianza tra i coniugi e di rispetto della dignità personale, devono necessariamente essere compensati mediante il riconoscimento di un contributo che, questo la Corte non lo dice ma è implicito nella norma, non può che essere un assegno perequativo.

Una lettura costituzionalmente orientata della norma impone necessariamente al Giudice del divorzio una valutazione che può definirsi a "step", senza per questo dover rimanere ancorati all'ormai superato giudizio bifasico.

I passi da compiere sono i seguenti.

1. In primo luogo il Giudice deve accertare, mediante il ricorso anche ai poteri ufficiosi riconosciuti dalla norma, l'esistenza di un'eventuale disparità tra le posizioni economiche complessive di entrambi i coniugi. È evidente che detta valutazione non riguarda solo i redditi ma, recuperando i principi elaborati negli ultimi 40 anni in punto assegno di separazione e assegno di divorzio non scalfiti dal nuovo orientamento, anche il patrimonio e, in generale, qualunque utilità suscettibile di valutazione economica.

La Corte aggiunge che la disparità tra le posizioni economico-patrimoniali dei coniugi deve essere "rilevante", dovendosi così escludere che minimi scostamenti possano giustificare l'imposizione di un assegno.

2. L'eventuale, rilevante, squilibrio tra le posizioni dovrà poi essere causalmente ricollegato (secondo una valutazione che la Corte ritiene debba essere "rigorosa") alle«scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell'assunzione di uno ruolo trainante endofamiliare».

La preminenza della funzione equilibratrice e perequativa comporta l'esigenza di «accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale sia da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari in relazione alla durata del matrimonio» fattore di "cruciale importanza" nonché all'età del richiedente.

3. Se esiste uno squilibrio economico rilevante causalmente connesso alle scelte e ai sacrifici fatti in costanza di convivenza nell'interesse della famiglia, il Giudice deve poi verificare se tale divario possa essere superato dal richiedente l'assegno, mediante il recupero o il consolidamento della propria attività professionale; per la Corte «il giudizio di adeguatezza ha pertanto un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall'assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo, il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro».

4. Se dunque esiste uno squilibrio economico rilevante tra le posizioni dei coniugi, causalmente connesso alle scelte e ai sacrifici fatti in costanza di convivenza e se questo divario non può essere autonomamente colmato, nel futuro, dal richiedente, il Giudice riconosce un assegno divorzile svincolato dal tenore di vita e non connesso all'autosufficienza economica, ma «adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente».

La Corte si occupa, infine, della ripartizione dell'onere probatorio.

Il divario tra le posizioni economiche non deve essere provato necessariamente dal richiedente, in virtù della (eccessiva, a giudizio di chi scrive) vis espansiva riconosciuta ai poteri ufficiosi del giudice.

Il contributo dato alla formazione del patrimonio comune e di quello dell'altro coniuge e, dunque, il nesso causale tra il divario e le scelte fatte in costanza di convivenza (ovverosia la prova che il divario dipende dai sacrifici fatti da una parte nell'interesse della famiglia e in funzione dell'assunzione di un ruolo endofamiliare "preponderante") spetta invece al richiedente l'assegno che potrà ricorrere anche alle presunzioni. La Corte aggiunge infine una frase sibillina che non chiarisce del tutto l'onere probatorio in capo all'obbligato, posto che «del superamento della disparità determinata dalle cause sopraindicate, la parte che chiede la riduzione o la eliminazione dell'assegno, deve fornire la prova contraria».

Osservazioni

La sentenza in commento presenta indubitabilmente una serie di pregi indiscutibili.

In primo luogo, si è fatta carico di risolvere la duplice "ingiustizia" derivante dall'applicazione del criterio del tenore di vita e di quello dell'autosufficienza economica. Il primo infatti, come correttamente rilevato, apriva la porta a ingiustificate locupletazioni, causate peraltro anche dalla mancata puntuale applicazione dei criteri indicati dalla norma (condizioni delle parti, contributo dato alla formazione del patrimonio comune e di ciascuna delle parti, ragioni della decisione il tutto parametrato alla durata del matrimonio),formalmente relegati a fattori di ponderazione ma, in realtà, mai correttamente applicati e calati nei singoli casi di specie.

Il criterio dell'autosufficienza economica, invece, rischiava di mortificare l'istituto matrimoniale, non tenendo debitamente conto dell'irreversibilità, sotto il profilo economico, delle scelte professionali e basandosi, al contrario, su principi in parte disancorati dalla realtà fattuale del nostro Paese (ad esempio non teneva conto del cd. gender gap salariale).

La rivalutazione del criterio compensativo operata dalle Sezioni Unite comporta invece la rivitalizzazione dell'importanza della divisione dei compiti all'interno della coppia, espressione piena del principio di pari dignità scolpito nell'art. 29 Cost. nonché nell'art. 143 c.c. e ha come effetto, ancorché collaterale, quello di sottolineare vieppiù l'importanza dei diritti e dei doveri che discendono dal matrimonio (e, si ricordi bene, anche dalla contrazione delle unioni civili, cui i nuovi principi fissati per l'assegno di divorzio si applicheranno, in forza del richiamo contenuto nell'art. 1, comma 25, l. n. 76/2016).

I principi espressi dalla sentenza determineranno, poi, la disapplicazione di qualsiasi automatismo (che, a sua volta, è la negazione della giustizia sostanziale, soprattutto nell'ambito del diritto delle relazioni familiari) e l'individuazione di soluzioni caso per caso e ritagliate sulla specificità di ogni storia familiare.

L'emergenza di un approdo condivisibile, però, non può impedire di rilevare l'esistenza di possibili falle nel meccanismo messo a punto dalla Suprema Corte, che rischiano di produrre sacche di incertezza e, dunque, applicazioni disomogenee sul territorio nazionale.

Non può infatti negarsi la contraddizione tra l'affermazione per cui l'assegno ha una natura composita assistenziale-perequativa-compensativa, in cui tutti i criteri sono "equi ordinati" e l'affermazione per cui la componente "compensativa" diventa di fatto predominante (attraverso la valutazione del nesso di causalità tra squilibrio economico e sacrifici "matrimoniali") e annulla le altre due.

Forse più che di equiordinazione, sarebbe stato preferibile parlare di criteri che presiedono autonomamente ciascuna fase del ragionamento; e infatti, lo scrutinio sulla debenza dell'assegno è sottoposto a una rigida scansione di passaggi logici (squilibrio-sacrifici-nesso di causalità-insuperabilità dello squilibrio), in cui i criteri assumono un peso diverso.

Nella fase della valutazione dello squilibrio prevarrà, pertanto, il criterio assistenziale, nella fase della valutazione del nesso di causalità prevarrà il criterio compensativo (ma avranno anche un ruolo l'età del richiedente e la durata del matrimonio), nella fase dell'insuperabilità dello squilibrio si dovrà tenere conto soprattutto delle condizioni soggettive dell'avente diritto, mentre il criterio compensativo puro passerà in secondo piano; nella fase finale, poi, poi tornerà alla ribalta in maniera preponderante il criterio compensativo puro e gli altri rimarranno sulla scena, ma in maniera "più defilata".

Parimenti qualche perplessità viene suscitata dall'abbondanza di ragionamenti e di passaggi logici; sovrabbondanza che corre il rischio di offuscare i nuovi principi, in realtà abbastanza nitidi. Il rimpallo tra i criteri, forse dovuto all'esigenza di criticare in forma light il principio dell'autosufficienza economica che la stessa Corte ha applicato in maniera rigida dal maggio 2017 in poi, potrebbe portare a ritrovare nella sentenza quello che ognuno vuole reperirvi: la predominanza del criterio assistenziale, piuttosto che la svalutazione del principio di responsabilizzazione del coniuge debole, così come la possibilità (che sarebbe peraltro contro lo spirito della sentenza) di far discendere quasi automaticamente la debenza dell'assegno dallo squilibrio economico.

Non rimane, però, che confidare nella capacità dei giudici di merito di cogliere la vera essenza della decisione per cui, a giudizio di chi scrive, la debenza dell'assegno (e anche la sua determinazione) rifugge da qualsivoglia automatismo ma passa dalla valutazione complessiva e bilaterale della situazione delle parti (al momento della contrazione e al momento dello scioglimento del vincolo) e dei comportamenti da loro tenuti manente matrimonio (rectius: sino alla separazione, giacché dopo di essa non può più esservi alcun contributo alla formazione del patrimonio comune o dell'altro).

Quanto al ruolo degli avvocati, rimane critica, giacché non perfettamente focalizzabile, la ripartizione dell'onere della prova. Nella prima fase, in cui occorre verificare l'esistenza o meno di un rilevante divario tra le posizioni delle parti, vigono i poteri ufficiosi del giudice che la sentenza espande forse anche eccessivamente, considerato che, oggi più di prima (quando l'assegno aveva invece natura prettamente assistenziale), il contributo divorzile rientra nell'ambito dei diritti disponibili.

Più confusi invece, sembrano, gli altri passaggi. Se, da un lato, la Cassazione specifica che la parte richiedente l'assegno deve dimostrare in maniera "rigorosa", fermo restando il ricorso (che si presume massiccio) alle presunzioni, il nesso di causalità, ovverosia il contributo dato «alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell'altro coniuge», dall'altro non è chiaro il ruolo dell'obbligato all'assegno (rectius: di colui nei cui confronti è formulata la domanda), considerato che la Corte assume che «del superamento della disparità determinata dalla cause sopraindicate, la parte che chiede la riduzione o la eliminazione dell'assegno posto originariamente a suo carico, deve fornire la prova contraria». Un passaggio che pare essere oscuro, giacché non chiarisce se l'obbligato deve allegare fatti estintivi delle pretese del richiedente l'assegno (p.e. dimostrare che il divario non è collegato causalmente agli impegni matrimoniali) e, dunque, fornire la prova diretta del fatto "contrario", oppure deve semplicemente limitarsi alla prova contraria senza allegare alcunché (il che, sotto il profilo degli oneri difensivi dell'Avvocato, parrebbe essere azzardato).

Parimenti la sentenza non chiarisce se l'esistenza di fattori che potrebbero determinare il superamento dello squilibrio (ad esempio la capacità lavorativa del richiedente) debba essere provata dal richiedente l'assegno (il che pare essere la soluzione più coerente con la decisione) oppure da colui che si oppone alla richiesta di pagare un assegno divorzile.

In sintesi, la sentenza, come tutte le novità, avrà bisogno di tempo per essere assimilata dagli operatori del diritto; e dovrà esserlo ancor più della sentenza Cass. n. 11504/2017, giacché quella delle Sezioni Unite comporta un radicale cambio di paradigma e di visuale, obbligando tutti a una valutazione complessiva delle singole storie matrimoniali, in un'ottica non più assistenziale ma marcatamente perequativa-compensativa.

La Cassazione ha così recuperato, attualizzandoli e rendendoli moderni, i criteri utilizzati per l'interpretazione dell'art. 5 l. n. 898/1970 nella formulazione vigente sino al 1987, così da allineare il nostro sistema agli ordinamenti degli Stati europei più popolosi (vedi l'art. 270 Code civil francese piuttosto che l'art. 97 del Codigo civil spagnolo, oppure, ancora il meccanismo inglese); ha recuperato il passato e lo ha proiettato nel futuro, con l'obiettivo di tutelare sia il breadwinner (il coniuge che lavora) sia l'home maker (quello che si sacrifica all'interno della casa), escludendo, da un lato, rendite parassitarie, ma anche evitando che le conseguenza della rottura possano ricadere solo sulla parte economicamente più debole.

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