Ammissibilità delle prove documentali illecitamente acquisite nel giudizio di separazione

Riccardo Pesce
06 Agosto 2018

Sono ammissibili in sede civile le prove documentali illecitamente acquisite per violazione della normativa in tema di privacy, considerando che nell'ordinamento civile manca un norma corrispondente all'art. 191 c.p.c.?
Massima

In tema di prove documentali illecitamente acquisite per violazione della privacy, poiché manca nel codice di procedura civile una norma analoga a quella di cui all'art. 191 c.p.p. che sancisce l'inutilizzabilità, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, nell'ambito civile esse sono ammissibili e liberamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 116 c.p.c., e ciò in quanto l'eventuale illiceità si sarebbe verificata in una fase preprocessuale senza ripercuotersi sugli atti stessi, e fatti salvi i profili di responsabilità penale.

Il caso

Nell'ambito del procedimento di separazione giudiziale, i cui profili più significativi riguardavano la richiesta di addebito e le questioni economiche, il coniuge ricorrente depositava in giudizio della documentazione acquisita in violazione della legislazione sulla riservatezza dei dati personali. Il coniuge convenuto deduceva l'inammissibilità di tale produzione.

La questione

La questione in esame riguarda l'ammissibilità in sede civile delle prove documentali illecitamente acquisite per violazione della normativa in tema di privacy, posto che nell'ordinamento civile è assente una norma corrispondente all'art. 191 c.p.c. che disciplini l'ammissibilità e valutabilità di tali prove nei processi civili.

Le soluzioni giuridiche

Come noto, il nostro sistema processuale civile, a differenza di quello penale (art. 191 c.p.p.), non conosce una specifica disposizione volta a vietare l'utilizzo delle prove illecitamente acquisite, con la conseguenza che la soluzione del problema deve essere rinvenuta nel contesto generale dell'ordinamento.

La sentenza in commento si inserisce nel filone ormai ampio di pronunce di legittimità e di merito le quali, in assenza di uno specifico divieto in ambito civile, aderiscono al principio riassumibile con il brocardo male captum bene retentum, in forza del quale anche ciò che è stato illecitamente acquisito può avere ingresso negli atti del procedimento ed essere valutato dal giudice ai fini della decisione ai sensi dell'art. 116 c.p.c.. Ciò in quanto l'illiceità della prova documentale si riferisce alla fase preprocessuale (ovvero al momento in cui il documento si è formato o è stato appreso) senza che ciò influisca sulla fase processuale vera e propria, nella quale il documento già esiste. Va tenuto in ogni caso presente che, proprio perché l'illiceità si verifica in una fase preprocessuale, l'ammissibilità di tali prove non si ripercuote sugli eventuali profili penali connessi alla illecita formazione o apprensione del documento stesso. In altri termini: la prova documentale illecitamente acquisita è ammissibile e liberamente valutabile dal giudice civile, ma i profili penali rimangono integri e immutati, il che impone alla parte e al difensore un'eccezionale attenzione sul punto.

Il principio sopra riportato, peraltro, non può considerarsi pacifico. Contra, si registra infatti l'ordinanza Cass. 8 novembre 2016, n. 22677 (v. L. Ventorino, La prova illecita nei procedimenti di affidamento della prole in ilFamiliarista.it) che, proprio nell'ambito di un giudizio di separazione e divorzio, ha stabilito il «principio dell'inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto illecitamente, mediante sottrazione fraudolenta all'altra parte processuale che ne era in possesso».

Osservazioni

Il tema sotteso alla problematica affrontata dal Tribunale di Milano riguarda direttamente uno degli obiettivi fondamentali del procedimento civile, ovvero l'accertamento della verità. Ci si chiede dunque se sia lecito (o quantomeno ammesso in ambito civile) avvalersi di preesistenti fatti commessi in violazione della legge pur di accertare la verità nell'ambito di un procedimento civile.

Il problema ha acquisito particolare rilevanza negli ultimi tempi attesa la straordinaria evoluzione tecnologica delle comunicazioni, con conseguente enorme propagazione, lecita o illecita, voluta o involontaria, di dati personali.

Invero, la dottrina ormai da anni si interroga su questi temi, pervenendo (così come la giurisprudenza) a soluzioni spesso contrastanti. Se infatti è vero che in ambito civile non vi è una norma corrispondente all'art. 191 c.p.p. (ancorché si potrebbe forse dibattere sull'applicabilità dell'art. 14 delle preleggi a tale norma), è altrettanto vero che in favore dell'inammissibilità delle prove illecitamente acquisite sussistono precise indicazioni normative. In primis il divieto penale di autotutela ex art. 392 c.p., che proibisce a chiunque di esercitare arbitrariamente le proprie ragioni laddove sia invece possibile ricorrere al giudice, per esempio richiedendo un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. Inoltre, non potrà essere sottaciuto il principio generale del giusto processo di cui all'art. 111 Cost.. Se infatti il procedimento deve necessariamente essere “giusto”, non è scontato che in esso possano ammettersi elementi acquisiti in violazione di norme ordinarie e costituzionali. Si pensi per esempio agli artt. 2, 3, 13, 14, 15 e 16 Cost. dai quali si desume l'importanza, anche a livello costituzionale, degli aspetti inerenti la vita del singolo e la sua riservatezza.

D'altro canto, il Tribunale di Torino in un caso assimilabile ha ritenuto ammissibile la produzione in giudizio di messaggi telefonici e di posta elettronica assunti in violazione alle norme di legge: «il contemperamento tra il diritto alla riservatezza e il diritto di difesa è rimesso, in assenza di una precisa norma processuale civile, alla valutazione del singolo giudice nel caso concreto» (Trib. Torino, 8 maggio 2013).

Si tratta come si vede di una situazione estremamente delicata e non completamente delineata, da valutare molto attentamente, innanzitutto per gli eventuali riflessi penali collegati all'acquisizione della prova illecita. Se quindi, come si è visto, le maglie della giurisprudenza paiono ormai larghe nel consentire l'ammissibilità delle prove illecitamente acquisite, non è detto che ciò valga sempre e in ogni caso.

Guida all'approfondimento
  • F. Danovi, Esigenze istruttorie e tutela della privacy nei processi di separazione e divorzio, in Quaderni AIAF, 2012, I;
  • A. Graziosi, Contro l'utilizzabilità delle prove illecite nel processo civile, in Giusto proc. civ., 2016;
  • E. Durello, Sull'inutilizzabilità della prova illecita nei procedimenti in materia di famiglia, Fam. e Dir., 2018, 1, 41.

*Fonte: www.ilFamiliarista.it

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