Rivendicazione (azione di)
22 Agosto 2018
Inquadramento
Dell'azione di rivendicazione, si occupa l'art. 948 c.c., il quale, al comma 1, recita: «Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l'esercizio dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a ricuperarla per l'attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno». L'azione è esperibile da parte del proprietario nei confronti di chi possegga o detenga una cosa: pertanto, è il mezzo previsto dall'ordinamento per conseguire il ricongiungimento tra il diritto di proprietà (potere di diritto sul bene) e il possesso (potere di fatto sullo stesso bene); trattasi di azione petitoria, concessa a colui che si afferma proprietario di una cosa, avente carattere generale, di natura reale ed esperibile erga omnes. Alla stregua di tali finalità, deve ritenersi l'improponibilità dell'azione di rivendicazione - che lascerà, se del caso, il passo ad una semplice azione risarcitoria aquiliana ex art. 2043 c.c. - laddove il bene sia andato distrutto o perduto prima della domanda (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 18 aprile 2001, n. 5702). In altri termini, l'azione di rivendicazione ha per oggetto la restituzione dell'identica cosa che l'attore afferma essere posseduta o detenuta dal convenuto, sicché, mancando tale requisito, l'azione esperibile è soltanto quella personale - soggetta a prescrizione - diretta ad ottenere il valore pecuniario della cosa o, trattandosi di cosa fungibile, la restituzione di cosa analoga per specie, quantità e qualità (il c.d. tantundem). Per completezza, va rammentato che l'azione di rivendicazione è imprescrittibile, perché anche il non uso è una manifestazione dell'ampiezza dei poteri che spettano al proprietario, ma la stessa domanda va disattesa se il convenuto dimostra di avere acquistato la proprietà della cosa rivendicata per usucapione ex art. 948, comma 3, c.c. I summenzionati caratteri distinguono l'azione prevista dall'art. 948 c.c. da altri strumenti giuridici che sembrano diretti a tutelare il medesimo interesse sostanziale. Circa la differenza tra l'azione di rivendicazione e le azioni possessorie - in particolare, l'azione di reintegrazione nel possesso - è agevole rilevare come queste ultime, semplicemente finalizzate al ripristino di uno stato di fatto, non presuppongono l'accertamento della titolarità di un diritto dominicale sul bene oggetto della pretesa restitutoria; nulla esclude che anche il proprietario-possessore (e non solo il possessore non proprietario), una volta spogliato del bene, può trovare conveniente - ricorrendone i presupposti, v. soprattutto il rispetto del termine annuale di decadenza - esperire la assai più celere azione possessoria di reintegra (anche al fine di ottenere immediatamente il provvedimento interdittale), anziché l'azione di rivendicazione la quale segue un regime probatorio assai più difficile. L'azione di rivendicazione va, altresì, distinta dall'azione di restituzione - a prescindere dall'effetto recuperatorio del possesso del bene, che è comune ad entrambe le azioni - in quanto hanno natura e presupposti diversi: con la prima, di carattere reale, l'attore assume di essere proprietario della cosa, e di non averne più il possesso, sicché agisce contro chiunque di fatto la possegga e la detenga, sia al fine di ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà (che è, pertanto, tenuto a provare), sia al fine di conseguire il possesso della cosa stessa; invece, l'azione di restituzione, di natura personale, ha il suo fondamento nel venir meno del titolo in base al quale la cosa è stata trasferita, e tende solo alla riconsegna della cosa stessa, sicché l'attore può limitarsi a fornire la dimostrazione dell'avvenuta consegna della cosa in base ad un titolo e del successivo venir meno di quest'ultimo per qualsiasi causa, per accertata invalidità, inefficacia, per esaurimento della sua funzione, per decorso del termine di durata, per esercizio della facoltà di recesso, ecc. (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 24 febbraio 2000, n. 2092). Inoltre, l'azione di rivendicazione presuppone che colui che si afferma proprietario non abbia altro titolo per pretendere la consegna del bene che non sia il fatto di esserne proprietario, mentre l'azione di restituzione trova il suo presupposto in un'obbligazione di natura contrattuale - ad esempio, locazione, comodato, deposito - e segue un regime probatorio assai snello (Cass. civ., sez. II, 19 febbraio 2002, n. 2392), poiché l'attore, di regola, può limitarsi a dimostrare il rapporto contrattuale con la controparte ed il conseguente diritto alla restituzione del bene: sono, in altri termini, incontestati la proprietà da parte dell'attore e la detenzione ad opera del convenuto, deducendo soltanto che tale detenzione è priva di qualsiasi titolo giustificativo (Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 2000, n. 13605). La legittimazione attiva ad esperire l'azione di rivendicazione deve certamente riconoscersi solo ed esclusivamente al proprietario del bene rivendicato - il quale, ovviamente, non si trova in possesso della cosa - e ciò anche nel caso in cui egli sia diventato tale per effetto di intervenuta usucapione. L'azione può essere esperita anche dal semplice comproprietario del bene, sia nei confronti degli altri condomini che lo escludano dal compossesso sia nei confronti dei terzi possessori: il fine sarà quello di conseguire l'accertamento del diritto di comproprietà nonché l'uso ed il godimento della cosa comune nei limiti della sua quota; di qui, l'assunto generale in materia condominiale che il diritto di ciascun condomino ha, per oggetto, la cosa comune intesa nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui, con la conseguenza che egli può legittimamente proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune, senza che si renda necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 1998, n. 10478). Invero, l'azione di rivendicazione, non inerendo ad un rapporto giuridico plurisoggettivo unico ed inscindibile e non tendendo ad una pronuncia con effetti costitutivi, non introduce un'ipotesi di litisconsorzio necessario, con la conseguenza che essa può essere esercitata da uno solo o da taluni dei comproprietari (Cass. civ., sez. II, 10 maggio 2002, n. 6697; Cass. civ., sez. II, 6 luglio 1994, n. 6699). Pertanto, ciascun partecipante è legittimato a proporre le azioni a difesa della proprietà della cosa comune senza necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini, restando inteso che, qualora la controparte non si limiti a negare la situazione soggettiva dell'attore, ma opponga la proprietà esclusiva del bene contestando il diritto di tutti i condomini, sicché la controversia riguardi l'esistenza stessa della condominialità e, pertanto, un rapporto soggettivo unico ed inscindibile, è necessaria la presenza nel processo anche degli altri condomini, dovendo la pronuncia avere effetto nei confronti di tutti. Sulla base del rilievo per cui il diritto di ciascun comproprietario investe la cosa nella sua interezza, sia pure con il limite del concorrente diritto altrui, è stato osservato che le azioni tendenti all'accertamento della proprietà o alla tutela del bene comune - sia nei confronti dei terzi, sia nei confronti del condomino che ha commesso l'abuso - possono essere esercitate da uno solo dei comproprietari, presumendosi il consenso degli altri condomini (Cass. civ., sez. II, 29 aprile 1999, n. 4354; Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 1998, n. 10478; Cass. civ., sez. II, 28 agosto 1998, n. 8546; Cass. civ., sez. II, 5 giugno 1990, n. 5391). Invero, non si è ravvisato il litisconsorzio necessario quando l'azione sia stata proposta a difesa dei diritti reali del condominio nei confronti di terzi (Cass. civ., sez. II, 5 maggio 1998, n. 4520; Cass. civ., sez. II, 25 giugno 1994, n. 6119), o per la tutela della proprietà comune (Cass. civ., sez. II, 28 aprile 1993, n. 5000, e Cass. 18 febbraio 1987, n. 1757). In ordine alla legittimazione attiva dell'amministratore di condominio riguardo all'azione di rivendicazione relativa alle parti comuni dell'edificio, occorre partire dal disposto dell'art. 1131, comma 1, c.c., secondo cui i poteri processuali dell'amministratore, dal lato attivo, coincidono con la sfera delle sue attribuzioni, salvo che più ampi poteri non gli derivino dal regolamento o da una determinazione assembleare ad hoc. Quindi, nella maggior parte dei casi, l'àmbito della predetta legittimazione attiva viene delimitato in relazione alla generale previsione dell'art. 1130 c.c.: in altri termini, l'amministratore è legittimato al promovimento del giudizio soltanto con riferimento a quelle azioni che costituiscono diretta esplicazione delle sue attribuzioni ordinarie, e ciò senza bisogno di autorizzazione da parte dell'assemblea. Nelle ipotesi in cui, invece, il merito della controversia esuli dalla sfera di attribuzioni precisate dal citato art. 1130 c.c. e, comunque, attenga ad obblighi esclusivi dei singoli condomini, la predetta rappresentanza processuale attiva dell'amministratore è esclusa (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 24 settembre 1997, n. 9378; Cass. civ., sez. II, 14 marzo 1984, n. 1750), e resta subordinata all'esistenza di una manifestazione di volontà dei condomini, esternata nel regolamento condominiale o contenuta in un'apposita deliberazione assembleare che, ai sensi dell'art. 1136, commi 2 e 4, c.c., deve essere approvata con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio - non essendo necessario il consenso di tutti i condomini, stante la summenzionata possibilità del singolo comproprietario di promuovere azioni reali a difesa della proprietà comune - salvo sempre il diritto del condomino dissenziente di ottenere l'esonero di responsabilità a norma dell'art. 1132 c.c. Si pensi - per quel che ci interessa da vicino - alle azioni reali, come quelle di rivendicazione, che esulano dall'àmbito degli atti meramente conservativi, al cui compimento l'amministratore è legittimato per espressa previsione ex art. 1130, n. 4), c.c., tendendo, invece, a statuizioni relative alla titolarità ed al contenuto dei diritti medesimi (Cass. civ., sez. II, 11 agosto 1999, n. 8589; Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 1994, n. 8531; Cass. civ., sez. II, 24 aprile 1993, n. 4856; Cass. civ., sez. II, 16 aprile 1993, n. 4530, nella specie l'azione di rivendicazione della proprietà comune riguardava l'appartamento abusivamente costruito da un condomino sul lastrico solare dell'edificio; al contrario (ad avviso di Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 2000, n. 13611), l'amministratore è legittimato, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea dei condomini, ad instaurare il giudizio per la demolizione della sopraelevazione dell'ultimo piano dell'edificio, costruita dal condomino in violazione delle prescrizioni e delle cautele fissate dalle norme speciali antisismiche o alterando l'estetica della facciata dell'edificio, perché tale atto, diretto a conservare l'esistenza delle parti comuni condominiali, rientra negli atti conservativi dei diritti che, ai sensi dell'art. 1130, n. 4), c.c., è attribuito all'amministratore medesimo.
Legittimato passivo dell'azione di rivendica è chiunque di fatto possegga o detenga il bene rivendicato, ed abbia la facultas restituendi, anche se ne ha temporaneamente consentito ad altri la precaria utilizzazione (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 9 settembre 1997, n. 8748). Qualora, invece, il convenuto eccepisca di essere soltanto un detentore nomine alieno, egli ha il diritto di essere estromesso dal giudizio unicamente a condizione che l'indicazione del possessore, da lui fatta, non venga contestata né dall'attore, né dal medesimo possessore, oppure sia accertata nella sua esattezza dal giudice. Peraltro, basta che questa situazione sussista al momento della domanda giudiziale: il legislatore codicistico vuole impedire che il convenuto ceda ad altri il possesso della cosa rivendicata al fine di poter eccepire che è venuta a mancare una delle condizioni dell'azione (ed essere così assolto); perciò, si ammette che la domanda possa proseguire anche contro il fictus possessor, ma, in tale caso, l'azione di rivendicazione potrebbe non avere l'effetto restitutorio del possesso che le è proprio, nel senso che il convenuto è obbligato a recuperare la cosa per l'attore a proprie spese e, in difetto, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno, salvo che il proprietario non intenda rivolgersi anche contro il nuovo possessore per ottenere direttamente da quest'ultimo la restituzione della cosa. Nella risoluzione delle problematiche afferenti alla materia condominiale, l'attenzione va posta al comma 2 dell'art. 1131 c.c., il quale prevede che l'amministratore del condominio possa essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente “le parti comuni dell'edificio”, termine, quest'ultimo, che viene comunemente inteso in senso estensivo, così da comprendere, da un lato, tutte le parti materiali comunque destinate all'uso comune dei condomini e, dall'altro, tutti i vari rapporti che attengono all'organizzazione ed all'amministrazione condominiale nonché al regime dei servizi comuni.
Si pensi al caso in cui un condomino, convenuto in rivendicazione, il quale non si limiti a negare la situazione soggettiva degli istanti, ma eccepisca in via riconvenzionale, in contrasto con i condomini attori, di avere acquistato la proprietà esclusiva del bene rivendicato e, quindi, contesti il diritto di tutti gli altri partecipanti ex art. 1117 c.c.: qui, il rapporto di comproprietà dedotto in giudizio risulta concettualmente unico ed inscindibile nei confronti di tutti i soggetti attivi e passivi - la controversia riguarda l'esistenza stessa della condominialità e, di converso, l'accertamento del titolo di proprietà opposto dal convenuto - e non attiene ad interessi riferibili autonomamente e separatamente a ciascuno di essi (Cass. civ., sez. II, 25 giugno 2001, n. 8666, in una fattispecie relativa a posti auto condominiali; Cass. civ., sez. II, 20 settembre 2000, n. 12439, specificando che, altrimenti, l'eventuale accoglimento di questa domanda pregiudicherebbe i diritti dei condomini rimasti estranei al giudizio; Cass. civ., sez. II, 19 maggio 1999, n. 4845, con riferimento alla domanda con cui un condomino chiedeva che venisse accertata la proprietà esclusiva di parte del sottotetto, quale proiezione verso l'alto del proprio appartamento; Cass. civ., sez. II, 3 dicembre 1997, n. 12255, la quale ha evidenziato l'obbligo di consentire a tutti gli altri condomini di confutare l'assunto del condomino convenuto in rivendica; Cass. civ., sez. II, 7 luglio 1988, n. 4475, rilevando che la pronuncia implicherebbe un accertamento in ordine a titoli di proprietà confliggenti fra loro; Cass. civ., sez. II, 9 marzo 1982, n. 1511, precisando che, nell'ipotesi di mancata partecipazione di alcuni dei condomini al giudizio di appello, va disposta l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei medesimi ai sensi dell'art. 331 c.p.c.). Analoga situazione si verifica anche nelle seguenti ipotesi sottoposte al vaglio della giurisprudenza: quando viene proposta una domanda di accertamento della proprietà condominiale di un fabbricato e della destinazione ad alloggio del portiere dei relativi locali, essendo tale accertamento insuscettibile di frazionamento, riguardando necessariamente tutti i partecipanti alla comunione e non essendo ipotizzabili due diverse destinazioni dello stesso immobile (Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 1992, n. 11626); nel caso in cui un terzo estraneo al condominio assuma di essere proprietario esclusivo del locale destinato ad alloggio del portiere, chiedendone il rilascio, ed il convenuto condominio deduca essere il bene di proprietà comune dei singoli condomini, invocando la presunzione legale di cui all'art. 1117 c.c., essendo dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico ed inscindibile (Cass. civ., sez. II, 28 novembre 1996, n. 10609); allorché la domanda sia diretta all'accertamento della proprietà comune di un'autorimessa condominiale, ed alcuni condomini eccepiscano in via riconvenzionale di essere proprietari esclusivi in base ai titoli o per intervenuta usucapione, implicando la sentenza un accertamento in ordine a proprietà confliggenti tra loro, e non potendo la stessa conseguire alcun risultato utile se non pronunciata nei confronti di tutti i partecipanti (Cass. civ., sez. II, 21 agosto 1996, n. 7705). Peraltro - ad avviso di Cass. civ., sez. II, 17 marzo 2006, n. 6056 - l'azione di accertamento della proprietà comune, in quanto ha ad oggetto la contitolarità del diritto di proprietà in capo a tutti i condomini, è relativa a un rapporto sostanziale plurisoggettivo unitario, dando luogo ad un'ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i condomini; infatti, il giudicato si forma ed è opponibile nei confronti dei soli soggetti che hanno partecipato al giudizio; d'altra parte, poiché non è applicabile ai rapporti assoluti la disciplina specifica dei rapporti obbligatori, non è estensibile alla specie il criterio dettato in materia di obbligazioni indivisibili dall'art. 1306 c.c., in virtù del richiamo di cui all'art. 1317 c.c., secondo cui gli effetti favorevoli di una sentenza pronunciata nei confronti di uno o di alcuni dei diversi componenti dell'obbligazione solidale o indivisibile si comunicano agli altri. Parimenti, la situazione processuale di cui sopra si verifica quando viene proposta una domanda volta ad ottenere la demolizione, sia pure parziale, di un qualsiasi manufatto appartenente al condominio, in quanto la pronuncia resa sulla stessa, essendo destinata ad incidere su situazioni necessariamente comuni, non può produrre effetti concreti nella pretermissione di taluna delle parti interessate, alla quale la pronuncia stessa è inopponibile (Cass. civ., sez. II, 17 novembre 1999, n. 12767, secondo la quale l'azione diretta non al semplice accertamento dell'esistenza o inesistenza dell'altrui diritto, ma al mutamento di uno stato di fatto mediante la demolizione di manufatti o costruzioni, dà luogo ad un'ipotesi di litisconsorzio necessario tra i proprietari dei beni interessati: nel caso di specie, l'attore, nella sua qualità di comproprietario di un immobile, aveva chiesto l'eliminazione dell'apertura creata dai condomini nel muro portante comune al condominio e al fabbricato limitrofo; Cass. civ., sez. II, 11 febbraio 1999, n. 1158, con la conseguenza che ove, nel giudizio di primo grado, sia mancata l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli interessati non citati a comparire, il giudice di appello è tenuto a rimettere la causa al primo giudice a norma dell'art. 354 c.p.c., per la riassunzione del giudizio nei confronti di costoro). Se è, invece, il condominio (o un condomino) ad agire per la demolizione di una veranda realizzata su una striscia di terreno in comproprietà con il coniuge del convenuto, pur se in base all'assunto attoreo soltanto questi è l'autore del manufatto, il contraddittorio deve essere integrato nei confronti di entrambi i comproprietari, essendo la pronuncia destinata ad incidere su situazioni necessariamente comuni, con la conseguenza che, ove la nullità del giudizio per la mancata partecipazione di uno dei litisconsorti necessari venga fatta valere, la pronuncia deve essere annullata e le parti rimesse davanti al primo giudice (Cass. civ., sez. II, 15 febbraio 1999, n. 1270; Cass. civ., sez. II, 13 giugno 1997, n. 5335; di contro, ad avviso di Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2005, n. 7779, qualora uno dei condomini, ritenendo, contra legem, una porzione dell'edificio condominiale di sua proprietà abbia eseguito in questa delle opere, e alcuni dei condomini, assumendo che trattavasi di aree condominiali, abbiano chiesto la rimessione in pristino con demolizione delle opere abusivamente realizzate, nel giudizio così instaurato non deve disporsi l'integrazione del contraddittorio anche nei confronti degli altri). La prova diabolica e le sue attenuazioni
L'attore in rivendicazione ha l'onere, in primo luogo, di provare il possesso o la detenzione del bene in capo al convenuto, e ciò in particolare nel caso in cui questi neghi siffatto possesso o detenzione. Al riguardo, la dimostrazione del possesso o della detenzione, non involgendo specifiche indagini tecniche, è di solito abbastanza agevole e può essere ottenuta prevalentemente mediante deposizioni testimoniali; in difetto di tale prova, stante la finalità tipicamente recuperatoria di tale azione, la domanda va rigettata senza che il giudice abbia la necessità di procedere all'indagine sull'effettiva proprietà del bene da parte del rivendicante. In secondo luogo, il proprietario della cosa rivendicata, al fine di poter esperire legittimamente ed efficacemente l'azione di rivendicazione, deve provare di essere l'effettivo titolare del diritto di proprietà sulla cosa stessa, ma la prova della titolarità del diritto di proprietà è assai rigorosa (i latini parlavano in tali ipotesi di probatio diabolica). In conformità alle regole generali (art. 2697 c.c.), l'attore ha l'onere di dimostrare il suo diritto: pertanto, in linea di principio, è tenuto a provare che il bene rivendicato è stato da lui acquistato a titolo originario o, in caso di acquisto a titolo derivativo, gli è pervenuto attraverso una serie ininterrotta di trasferimenti da chi lo aveva acquistato a detto titolo originario, non potendo limitarsi ad invocare il titolo, ma dovendo provare che anche il suo dante causa poteva legittimamente disporre della proprietà (in ossequio al principio nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet, ossia nessuno può trasferire un diritto che non ha o con ampiezza maggiore rispetto a quella goduta). Quindi, l'attore deve, innanzitutto, dimostrare la sussistenza di un titolo idoneo all'acquisto e, poi, provare che gli stessi requisiti si ravvisino riguardo agli atti di acquisto dei suoi danti causa, risalendo a tutti i precedenti proprietari fino ad un acquisto a titolo originario. Come si vede, a voler andare a ritroso all'infinito, la prova sarebbe, se non impossibile, estremamente difficile - una soluzione di continuità nella catena dei trasferimenti impedirebbe gli acquisti successivi - sicché soccorrono due istituti: a) rispetto agli immobili, è sufficiente che l'attore, unendo al tempo per cui è durato il suo possesso quello dei suoi autori (art. 1146 c.c.), provi il possesso continuato per 20 anni (art. 1158 c.c.), che gli avrebbe in ogni caso fatto acquistare per usucapione la proprietà sulla cosa, anche in virtù di un'eventuale successione o accessione nel possesso; b) riguardo ai beni mobili, è sufficiente che l'attore abbia, a suo tempo, ricevuto in buona fede ed in base ad un titolo idoneo al trasferimento della proprietà (art. 1153 c.c.) il possesso del bene, di cui ora lamenta di non avere il godimento. Secondo il costante indirizzo della giurisprudenza, tale rigore probatorio è, tuttavia, attenuato - commisurando sempre tale onus alle concrete peculiarità della singola controversia - allorché si prenda in adeguata considerazione la posizione assunta dal convenuto, con particolare riferimento alle eventuali ammissioni, anche parziali, o agli specifici comportamenti processuali dallo stesso tenuti, o nel caso in cui l'acquisto della proprietà sia un fatto pacifico tra le parti, oppure allorché i due contendenti pongano a base delle rispettive ragioni il medesimo titolo di acquisto dallo stesso dante causa, in quanto manca ogni contestazione sul diritto di proprietà di esso dante causa, né direttamente, né attraverso la deduzione di un titolo contemporaneo o anteriore volto a contrastarlo, sicché la controversia si risolve attraverso la verifica dell'atto di acquisto a favore dell'uno o dell'altro degli stessi contendenti (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2004, n. 15388; Cass. civ., sez. II, 11 marzo 2004, n. 4975; Cass. civ., sez. II, 21 gennaio 2004, n. 901; Cass. civ., sez. II, 4 febbraio 2000, n. 1250; Cass. civ., sez. II, 22 dicembre 1995, n. 13066). Nello stesso ordine di concetti, il rigore della prova della proprietà è attenuato se il convenuto riconosca che il bene rivendicato apparteneva un tempo ad una determinata persona, essendo sufficiente in tal caso che il rivendicante dimostri, mediante gli occorrenti atti di acquisto, il passaggio della proprietà da quella determinata persona fino a lui; al fine di tale dimostrazione non è necessaria, né sufficiente la prova della continuità delle risultanze catastali e ipotecarie, trattandosi di forme di pubblicità prive di effetti costitutivi sulla titolarità del diritto dominicale (Cass. civ., sez. II, 13 luglio 1983, n. 4774); se è vero che non attenua l'onere probatorio incombente all'attore il fatto che il convenuto invochi un proprio diritto sul bene stesso chiedendo il relativo accertamento, al contempo, tale onere risulta attenuato allorché il convenuto opponga un titolo di acquisto successivo, che derivi la sua efficacia da quello dedotto dall'attore o il fatto che il convenuto deduca un titolo di acquisto che non sia in contrasto con l'appartenenza del bene stesso al dante causa. Può, pertanto, convenirsi che i principi in tema di prova nel giudizio di rivendica non hanno carattere assoluto, ma vanno adeguati alle particolarità del caso concreto, conseguendone che il rigore della prova si attenua allorquando il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa o ad uno dei danti causa dell'attore, e contrapponga l'esistenza di un suo titolo derivativo di proprietà che abbia per presupposto l'originaria appartenenza del cespite al dante causa indicato dal rivendicante, bastando, in tal caso, che questi si limiti a dimostrare che il bene medesimo ha formato oggetto del proprio titolo di acquisto, perché la proprietà sia attribuita alla parte che ha addotto un titolo prevalente rispetto a quello dell'altra (Cass. civ., sez. II, 22 luglio 2005, n. 15388) Di contro, la posizione del convenuto riguardo alla prova è molto più comoda di quella dell'attore (si parla, in questi casi, di commodum possessionis): invero, nessun onere probatorio grava, in linea di principio, sul convenuto, il quale può limitarsi ad affermare possideo quia possiedo, ed attendere tranquillamente che l'attore provi il suo diritto, o anche addirittura affermare di essere proprietario della cosa rivendicata, stante che tale affermazione non implica alcuna rinuncia alla posizione di vantaggio derivantegli dal possesso e non esonera l'attore dalla prova a suo carico (Cass. civ., sez. II, 12 aprile 2001, n. 5472). La posizione del possessore non proprietario è, pertanto, abbastanza privilegiata, nel senso che, qualora il rivendicante non riesca ad assolvere compiutamente l'onere su di esso incombente, il convenuto, possessore anche illegittimo, va assolto dalla domanda ex adverso proposta in forza del principio in pari causa melior est condicio possidentis. La situazione muta - ed anche in questi casi si attenua il regime probatorio a carico dell'attore - allorché il convenuto, riconoscendo la titolarità formale del bene in capo al rivendicante, opponga, in via di eccezione o di domanda riconvenzionale, il perfezionarsi a suo favore dell'usucapione (v., sia pure con diverse sfumature, Cass. civ., sez. II, 30 marzo 2006, n. 7529; Cass. civ., sez. II, 10 marzo 2006, n. 5161; Cass. civ., sez. II, 29 novembre 2004, n. 22418; Cass. civ., sez. II, 29 settembre 2003, n. 14448; Cass. civ., sez. II, 17 aprile 2002, n. 5487; Cass. civ., sez. II, 8 ottobre 2001, n. 12327; Cass. civ., sez. II, 28 giugno 2000, n. 8806; Cass. civ., sez. II, 8 maggio 1998, n. 4659). In questa ipotesi, tale onere si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte del rivendicante e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, nonché alla prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto, mentre il mancato raggiungimento della prova dell'intervenuta usucapione, il cui onere incombe al convenuto, porta di regola all'accoglimento della domanda del rivendicante. Comunque, nel giudizio di rivendicazione, l'attore è tenuto, preliminarmente, ad indicare il titolo in base al quale afferma il proprio diritto di proprietà sulla cosa posseduta dal convenuto, e l'onere della prova viene assolto soprattutto attraverso la produzione di documenti e, in particolare, dei titoli aventi ad oggetto il diritto di proprietà sul bene rivendicato (in materia condominiale, Cass. civ., sez. II, 23 febbraio 1999, n. 1505, ha puntualizzato che la controversia tra privati sull'accertamento della proprietà comune o esclusiva interessata da ampliamenti su di essa - nella specie, box per auto - deve esser risolta sulla base dei rispettivi titoli di proprietà, perché la rilevanza della licenza, o concessione, o autorizzazione, o la mancanza di essa, si esaurisce nell'àmbito del rapporto tra Pubblica Amministrazione e privato richiedente o costruttore). La validità di tale principio trova conferma nel pronunciamento dei giudici di legittimità (Cass. civ., sez. II, 21 novembre 1997, n. 11605), secondo i quali l'attore in rivendica è tenuto a dimostrare la proprietà del bene che assume a lui appartenente fornendo la prova (anche risalendo ai propri danti causa) dell'acquisto a titolo originario della res oggetto della controversia, non potendo, all'uopo, ritenersi sufficiente la mera produzione di documentazione amministrativa - nella specie, nota di trascrizione nei registri immobiliari, nota dell'ufficio del registro, denuncia di successione del presunto dominus, dati ricavati dai registri catastali - o l'assenza di contestazioni sul tema da parte del convenuto, sul quale, inoltre, non può ritenersi gravante alcun onere di allegazione o dimostrazione della legittimità del possesso da lui esercitato. Tuttavia, poiché la determinazione del suddetto bene configura una condizione della domanda di rivendicazione, il giudice, anche d'ufficio, deve rigettare la stessa, ove non siano fornite indicazioni idonee all'individuazione del bene controverso, senza che il convenuto sia tenuto a formulare sul punto specifiche eccezioni. A tale proposito, deve sottolinearsi come, a volte, riesce difficile individuare il bene rivendicato, e cioè quello descritto nella citazione introduttiva (mancando, ad esempio, l'indicazione degli estremi identificativi), con quello oggetto dei titoli prodotti. In tali casi, può essere utile avvalersi di un consulente tecnico d'ufficio al quale affidare l'incarico di confrontare i vari titoli con la situazione reale dei luoghi, anche attraverso la redazione di rilievi planimetrici, tenendo presente, però, in ordine alla prova dell'estensione della proprietà, che non è decisiva la superficie indicata nell'atto di compravendita, poiché l'estensione dell'immobile va determinata in base ai confini menzionati nel contratto, ove essi siano precisi e riscontrabili sul terreno (Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2002, n. 3568). Ai fini di cui sopra, non si può fare riferimento ad un atto di divisione: invero, quest'ultima, per la sua natura dichiarativa e non costitutiva di diritti, non fornisce la prova, nei confronti dei terzi, del negozio con cui la proprietà sia stata trasferita ad uno dei condividenti, occorrendo dimostrare il titolo di acquisto della comunione, in base al quale il bene è stato attribuito in sede di divisione, né, a tale proposito - ad avviso di Cass. 15 aprile 1987, n. 3724 - possono assumere rilevanza i titoli eventualmente menzionati nell'atto notarile di divisione ma non acquisiti agli atti del processo (v., altresì, Cass. civ., sez. II, 4 marzo 1997, n. 1925). Nello stesso ordine di concetti - sempre per quanto concerne la prova per l'azione di rivendicazione - la denuncia di successione avente, di per sé, efficacia a soli fini fiscali, non è idonea a fornire la prova del diritto di proprietà di un determinato bene (Cass. civ., sez. II, 8 novembre 2002, n. 15716), ma, in assenza di prove o indizi di segno contrario, può costituire elemento di convincimento del giudice in favore di chi la alleghi a dimostrazione di una situazione di fatto esistente al momento della denuncia stessa; lo stesso dicasi per il testamento, allorché il convenuto contesti il diritto di proprietà del testatore, e per le dichiarazioni ricognitive in genere, che non appaiono in grado di documentare la titolarità degli immobili. Parimenti, non possono, di per sé, dare piena prova del diritto di proprietà i dati ricavabili dal catasto, che hanno valore meramente indiziario, potendo concorrere a formare il convincimento del giudice per quanto concerne l'individuazione dell'immobile, ma non possono assurgere a valore di prova decisiva della relativa appartenenza, in quanto preordinati al fine esclusivo dell'attribuzione e determinazione dell'onere tributario (Cass. civ., sez. II, 26 gennaio 1998, n. 711). Casistica
Valletta, Tutela della proprietà tra azione di rivendicazione e azione personale di restituzione del bene immobile, in Gazzetta forense, 2014, fasc. 3, 45; Pezzani, Azioni a tutela della proprietà comune e litisconsorzio necessario tra comproprietari, in Riv. dir. proc., 2014, 1573; Bordolli, Occupazione senza titolo e azioni a tutela del proprietario, in Immob. & proprietà, 2013, 250; Costanza, Azione di revindica e onere della prova, in Giust. civ., 2010, I, 123; Cicia, Sull'azione di rivendicazione e di restituzione, in Riv. giur. edil., 2005, I, 1147. |