Commette estorsione e autoriciclaggio il datore di lavoro che impone una retribuzione inferiore a quella risultante dalla busta paga

Alice Falconi
24 Agosto 2018

La questione attiene alla necessità, ai fini dell'integrazione del reato di autoriciclaggio, che le condotte importino un mutamento della formale titolarità del bene o della disponibilità dello stesso e che, dunque, si esplichino in una reimmissione nell'economia legale dei beni provenienti da illecito.
Massima

Ai fini dell'integrazione dell'illecito di cui all'art. 648-ter.1 c.p. è necessario che la condotta sia dotata di particolare capacità dissimulatoria, sia cioè idonea a provare che l'autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto attuare un impegno finalizzato a occultare l'origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto sicché rilevano penalmente tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso le reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita, finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall'occultamento del profitto illecito, penalmente rilevante.

Il caso

La vicenda aveva origine dal decreto di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta o per equivalente, disposto dal Gip presso il tribunale di Brindisi, di denaro, beni o altre utilità costituenti il profitto dei reati di estorsione e autoriciclaggio, commesso dagli imputati, in concorso tra loro, quali legale rappresentante e amministratore delegato di una società.

Secondo l'ipotesi accusatoria, i predetti, approfittando delle condizioni sfavorevoli del mercato del lavoro, avrebbero indotto parte del personale ad accettare retribuzioni inferiori rispetto a quelle indicate nelle buste paga, nonché a svolgere l'attività lavorativa per orari superiori a quelli stabiliti contrattualmente, dietro la minaccia di non assunzione o di licenziamento.

Con i proventi del reato di estorsione sopra descritto, secondo l'assunto accusatorio, fatto proprio dal giudice per le indagini preliminari, gli stessi avrebbero retribuito in nero alcuni dipendenti legati da un particolare rapporto fiduciario, rendendosi, in tal modo, responsabili anche del delitto di auto-riciclaggio, di cui all'art. 648-ter.1 c.p.

La contestazione attingeva anche la società di cui gli imputati erano legale rappresentante e amministratore delegato, per essere la stessa ritenuta responsabile dell'illecito amministrativo previsto dall'art. 25-octies del d.lgs. 231/2001, avendo impiegato nell'attività imprenditoriale il denaro proveniente dal delitto di estorsione, in modo tale da ostacolarne l'identificazione della provenienza.

Per mezzo del comune difensore, le parti adivano il tribunale del riesame che, tuttavia, rigettava l'istanza proposta ai sensi dell'art. 324 c.p.p.

Avverso tale decisione, dunque, il difensore ricorreva per Cassazione, deducendo quattro motivi di doglianza.

Con i primi due motivi, il difensore denunciava il vizio di motivazione, in ordine alla ritenuta sussistenza del fumus commissi delicti del reato di auto-riciclaggio, nonché di quello di estorsione continuata.

Il terzo e il quarto motivo afferivano, invece, alla violazione di legge nonché al vizio di motivazione in ordine alla configurabilità del delitto di autoriciclaggio.

In particolare, la difesa lamentava la mancanza degli elementi costitutivi di natura oggettiva del delitto ascritto agli indagati, tra cui, specificamente, l'idoneità delle condotte ad ostacolare concretamente l'individuazione della provenienza illecita dei beni, secondo un'interpretazione fatta propria dalla difesa, secondo cui dovevano considerarsi tipiche unicamente le attività di reimmissione nell'economia legale di beni provento di reato.

Secondo questo assunto, dunque, il reato di auto-riciclaggio doveva ritenersi assorbito in quello di estorsione, atteso che le somme provento dell'illecito non erano mai state immesse nel circuito economico.

La questione

La questione che viene rimessa alla Corte di cassazione attiene alla necessità, ai fini dell'integrazione del reato di autoriciclaggio, che le condotte contestate importino un mutamento della formale titolarità del bene o delle disponibilità dello stesso e che, dunque, si esplichino in una reimmissione nell'economia legale dei beni provenienti da illecito.

Le soluzioni giuridiche

I giudici di legittimità, preliminarmente, dichiaravano inammissibili, per manifesta infondatezza, tutti i motivi attinenti ai vizi della motivazione, in quanto, come noto, avverso le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo (e probatorio), è ammesso il ricorso per cassazione solo per dedurre violazioni di legge e non già i vizi della motivazione, salvo che questi siano così radicali da rendere l'apparato argomentativo, posto a fondamento della decisione, del tutto mancante o privo di coerenza, completezza, ragionevolezza e dunque inidoneo a rendere comprensibile l'iter logico motivazionale seguito dal giudice.

A giudizio della Corte Suprema, il tribunale del riesame adito dal ricorrente aveva fatto buon governo dei principi in tema di fumus del reato e, pertanto, la riproposizione delle censure difensive in sede di legittimità non era ricevibile.

Del resto, comunque, le conclusioni cui perveniva il tribunale del riesame erano giuridicamente corrette sia con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di estorsione, sia avuto riguardo al delitto di auto-riciclaggio.

La prima fattispecie criminosa risultava, infatti, integrata, sulla base delle dichiarazioni rese dai dipendenti della predetta società, i quali avevano rinunciato a parte del salario loro spettante, a causa delle ricorrenti intimidazioni che minacciavano la perdita del lavoro od il trasferimento in sedi disagiate.

Analogamente, erano destituite di ogni fondamento le doglianze difensive relative alla ritenuta insussistenza del reato di auto-riciclaggio.

Sul punto, la Corte di cassazione precisava che ai fini dell'integrazione del reato in parola, rilevano tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro, idonee a conseguire un concreto effetto dissimulatorio.

Diversamente da quanto sostenuto, invece, dalla difesa, i giudici di legittimità stabilivano la non necessità che l'autore ponesse in essere un trasferimento fittizio ad un terzo dei beni provenienti dal reato presupposto.

Alla luce di questi principi, la Corte affermava dunque che «il rastrellamento di liquidità attraverso le condotte estorsive enucleate in incolpazione e, in particolare, per effetto della mancata corresponsione degli anticipi solo formalmente versati in contanti, delle quattordicesime mensilità, del corrispettivo dei permessi non goduti e il successivo utilizzo, secondo le ammissioni dello stesso indagato, per pagare provvigioni o altri benefit aziendali in nero in favore dei venditori della società integra una condotta di reimmissione dei fondi illeciti nel circuito aziendale, concretamente ed efficacemente elusiva dell'identificazione della provenienza delittuosa della provvista».

Ugualmente privo di pregio veniva ritenuto l'ultimo motivo di ricorso.

Osservazioni

L'aspetto di maggiore interesse della pronuncia in commento è certamente l'affermazione secondo la quale non è necessario che il bene provento da illecito venga reimmesso nel circuito economico-finanziario; dunque, l'illecito è integrato anche se il denaro reimpiegato non fuoriesce dal circuito aziendale.

V'è da chiedersi se tale interpretazione sia in linea con la ratio della norma, ovvero quella di evitare la contaminazione delle transazioni economiche e finanziarie nonché del mercato in generale.

A ben vedere, chiarificatrice su questo precipuo punto era stata una recente decisione della Cassazione, la n. 33074 del 2016, con la quale i giudici di legittimità avevano fornito importanti chiarimenti in ordine alle definizioni di attività economica ed attività finanziaria, nelle quali, sulla base del tenore letterale dell'art. 648-ter. 1 c.p., deve confluire la condotta tipizzata dalla norma, di impiego, sostituzione o trasferimento, del denaro provento da illecito.

Ebbene, la Suprema Corte, ai fini della definizione di tali ambiti di attività, in assenza di una precisa nozione contenuta nel codice penale, aveva fatto esplicito richiamo, per l'attività economica, all'art. 2082 c.c., mentre, per l'attività finanziaria, all'art. 106 d.lgs. 385/1993, c.d. Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia.

La disposizione civilistica, in particolare, definisce l'attività economica come quella finalizzata alla produzione di beni ovvero alla fornitura di servizi; invece l'attività finanziaria comprende, secondo il disposto dell'art. 106 d.lgs. 385/1993 già richiamato, ogni attività rientrante nell'ambito della gestione del risparmio ed individuazione degli strumenti per la realizzazione di tale scopo.

Nello specifico, quest'ultima viene individuata nell'assunzione di partecipazioni (acquisizione e gestione di titoli su capitale di imprese), nella concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, nella prestazione di servizi di pagamento (incasso e trasferimento di fondi, esecuzione di ordini di pagamento, emissione di carte di credito o debito) e nell'attività di cambiavalute.

Nel caso sottoposto alla Corte, veniva esclusa la ravvisabilità del delitto di auto-riciclaggio nel caso in cui il profitto di un furto venisse semplicemente versato su una carta di credito prepagata, intestata allo stesso autore del reato presupposto, in quanto, le modalità di sostituzione esulavano dall'attività economica o finanziaria, come sopra descritte.

Ebbene, stando alla lettera delle definizioni offerte dalla predetta pronuncia, difficilmente sembrerebbe potersi ricondurre, all'una o all'altra definizione, il reimpiego nella società del denaro provento da delitto, oggetto della sentenza qui in commento, in quanto, apparentemente, non costituisce né attività economica né attività finanziaria.

A uno sguardo più approfondito, che sembra essere quello offerto dai giudici nella pronuncia in commento, però, le condotte in argomento possono ricadere nella portata applicativa della norma.

Deve ricordarsi, al proposito, che la norma sull'auto-riciclaggio nasce proprio dalla necessità di evitare le operazioni di sostituzione ad opera dell'autore del delitto presupposto.

Il legislatore richiede che la condotta sia dotata di particolare capacità dissimulatoria, sia cioè idonea a fare ritenere che l'autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto effettuare un impiego di qualsiasi tipo ma sempre finalizzato ad occultare l'origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto.

Nel definire il perimetro applicativo della norma, poi, il legislatore, ha scelto di bilanciare le esigenze di tutela del mercato economico e finanziario con quelle, sollecitate dalla dottrina, di impunità delle attività dirette all'investimento dei profitti, operate dall'autore del delitto contro il patrimonio.

Per tali ragioni, ha limitato la rilevanza penale delle condotte ai soli casi di sostituzione che avvengano attraverso la re-immissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita; finalizzate, appunto, ad ottenere un concreto effetto dissimulatorio che costituisce quel quid pluris che differenzia la semplice condotta di godimento personale, non punibile, da quella di nascondimento del profitto illecito, sanzionata dalla fattispecie criminosa in parola.

E poiché tale effetto dissimulatorio e di concreto nascondimento appare ravvisabile nella condotta contestata agli imputati nella pronuncia in commento, atteso che il reimpiego del denaro è avvenuto con pagamenti “in nero”, e quindi con una modalità non tracciabile, la soluzione adottata dalla Corte di cassazione appare immune da vizi logici.

A diverso giudizio, invece, dovrebbe giungersi qualora, secondo un'interpretazione eccessivamente estensiva delle maglie applicative della norma, la giurisprudenza dovesse ricomprendere nella condotta integrativa del delitto in parola, anche il semplice reimpiego del denaro nel circuito aziendale, con modalità del tutto individuabili.

Appare evidente, infatti, che tale condotta non si discosterebbe da quella, ritenuta non punibile, del semplice godimento personale e non meriterebbe, dunque, di essere trattata differentemente.

La pronuncia, sul punto, non è chiarissima, posto che non illustra compiutamente le ragioni sottese alla scelta adottata, soprattutto alla luce delle definizioni offerte dalla recente pronuncia n. 33074/2016 invocata dal ricorrente e richiamata anche dai giudici di legittimità.

Era auspicabile che, nel respingere le doglianze difensive ed affermare l'idoneità delle condotte contestate agli indagati ad integrare il reato in commento, la Suprema Corte chiarisse meno frettolosamente la portata applicativa della fattispecie in commento, anche al fine di non lasciare incertezze interpretative.

In altre parole, sarebbe stato opportuno chiarire se, come si può solo ragionevolmente intuire, il discrimen tra la condotta di sostituzione del denaro punibile e quella di impiego non punibile, è rappresentato unicamente dalla modalità di pagamento non contabilizzato.

Su questo delicato aspetto, invece, la sentenza non fornisce gli auspicati chiarimenti.

Guida all'approfondimento

BALDO L., Auto-riciclaggio, il testo attuale mira a fare presto, non a fare bene, 11 novembre 2014, in loraquotidiano.it;

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BRICHETTI R., Reato di autoriciclaggio, per il passato la certezza dell'impunità, in Quotidiano del diritto, 12 gennaio 2015;

BRIZZI F., CAPECCHI G., RINAUDO A., VANNI F., Autoriciclaggio e fenomeni di reimmissione dei beni illeciti nell'economia, in Altalex, 18 febbraio 2015;

BRUNELLI D., Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a margine del dibattito sulla nuova incriminazione, in Diritto Penale Contemporaneo, 10 gennaio 2015;

BURATTI B., CAMPANA G., Contrasto al riciclaggio e misure anti evasione, Maggioli Editore, 2012;

GIANZI L., Riciclaggio, autoriciclaggio e reati tributari, in Diritto penale tributario, 8 maggio 2013;

MAINERI N., PACINI M., Reato di autoriciclaggio, introduzione in Italia, in Diritto e Giustizia, 18 dicembre 2014;

MUCCIARELLI F., Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. Pen. Contemporaneo, 24 dicembre 2014;

SGUBBI F., Il nuovo delitto di “autoriciclaggio”: una fonte inesauribile di “effetti perversi” dell'azione legislativa, in Diritto Penale Contemporaneo, 10 dicembre 2014.

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