Sull’applicabilità del sequestro c.d. impeditivo nei confronti degli enti collettivi

Ciro Santoriello
30 Agosto 2018

La sentenza in commento lascia assai perplessi nella parte in cui perviene, di fatto, a ribaltare il chiaro significato letterale della disciplina in tema di sequestro nei confronti degli enti collettivi. In primo luogo, sorprende il disinteresse che la Cassazione manifesta per il dato letterale ricavabile dall'art. 53 d.lgs. 231/2001 che, non richiama il comma 1 dell'art. 321 c.p.p. escludendo così, expressis verbis, la possibilità di adottare un sequestro...
Massima

In tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, è ammissibile il sequestro impeditivo di cui al comma primo dell'art. 321 c.p.p., non essendovi totale sovrapposizione e, quindi, alcuna incompatibilità di natura logica-giuridica fra il suddetto sequestro e le misure interdittive

In tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell'art. 19 d.lgs. 231/2001, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il periculum richiesto per il sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma 1, c.p.p., essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato.

Il caso

Nell'ambito di un procedimento penale per i reati di cui agli artt. 640-bise 640-quater c.p., veniva disposto il sequestro preventivo, fra le altre cose, anche di tre impianti fotovoltaici. In particolare, agli indagati era contestato di aver indebitamente fatto percepire ad una società erogazioni pubbliche attraverso l'artificiosa creazione di tre serre fotovoltaiche (di proprietà della società coinvolta), solo apparentemente dedicate a coltivazione agricola e a floricoltura, in modo da indurre in errore il Ministero per lo Sviluppo Economico per il tramite del Gestore dei Servizi Economici e determinato, quindi, l'ingiusto profitto della società medesima consistente nel percepimento di tariffe incentivanti; da qui, la decisione di sottoporre a sequestro preventivo ex art. 321, comma 1, c.p.p. (c.d. sequestro impeditivo) i predetti impianti fotovoltaici in quanto beni la cui libera disponibilità poteva aggravare o protrarre le conseguenze del reato già commesso o agevolare la commissione di altri illeciti.

La difesa contestava, in sede di ricorso di cassazione, la correttezza dell'adozione del sequestro impeditivo trattandosi di misura cautelare non ammissibile nei confronti degli enti come si desume non solo dall'art. 53 d.lgs. 231/2001 che richiama l'art. 321 c.p.p. limitatamente ai commi 3, 3-bis e 3-ter, escludendo invece il riferimento al comma primo, ma anche a livello sistematico in quanto le finalità precauzionali nei confronti di una persona fisica sarebbe del tutto estranee all'ente per il quale è stata previsto il sequestro solo funzionale alla successiva confisca, anche perché, se così non fosse si verrebbe a creare una sovrapposizione tra il sequestro impeditivo e l'interdizione dell'attività.

Inoltre, la difesa sosteneva che quando si intenda disporre un sequestro preventivo nei confronti di una persona giuridica, l'esame del profilo del fumus delicti va condotto con particolare rigore. Infatti, nell'ambito della procedura di cui al d.lgs. 231/2001, l'adozione di tale provvedimento cautelare richiederebbe non solo la dimostrazione della sussistenza gli indizi del reato presupposto, ma anche tutti gli altri elementi che fondano la responsabilità dell'ente (c.d. fumus allargato), ossia: a) che il reato sia ricompreso fra quelli previsti dalla stesso decreto; b) che l'autore si trovi in posizione apicale o subordinata all'interno dell'ente; c) l'interesse per l'ente o il vantaggio dal medesimo ottenuto dal reato, d) la colpa organizzativa. Sul punto, invece, il tribunale si era limitato solo a vagliare la fondatezza del fumus del delitto commesso dalle persone fisiche senza considerare tutti gli altri elementi che determinano la responsabilità da reato dell'ente.

La questione

Due i profili che nella vicenda in esame vengono sottoposti allo scrutinio della Cassazione.

Su uno di questi – attinente la definizione dei presupposti per l'adozione del sequestro preventivo nei confronti dell'ente collettivo – si registra da tempo un significativo dibattito in dottrina e giurisprudenza.

Secondo l'impostazione originariamente accolta dalla giurisprudenza per l'adozione della misura in discorso era necessaria solo l'astratta configurabilità dell'illecito e non la sussistenza di gravi indizi in ordine alla responsabilità dell'ente (Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2006, Miritello in Mass. Uff., n. 233373). Tale affermazione, come è noto già presente in giurisprudenza con riferimento al sequestro preventivo disciplinato dal codice di procedura penale, veniva giustificata richiamando la natura e la finalità dell'istituto della confisca nel sistema della responsabilità da reato delle società, nel cui ambito il provvedimento ablatorio disciplinato dagli artt. 19 e 53 d.lgs. 231/2001 non riveste necessariamente un carattere punitivo ma assume anche la fisionomia di uno strumento di compensazione dell'equilibrio economico violato, con conseguente applicazione della confisca anche in assenza di una acclarata responsabilità dell'ente collettivo per il fatto delittuoso – come dimostrato dalla circostanza che la sanzione in discorso può essere adottata anche nel caso in cui il reato sia stato commesso da un soggetto collocato in posizione apicale ma l'ente non debba rispondere dell'illecito posto in essere nel suo interesse o a suo vantaggio.

La dottrina ha da sempre contrastato tali conclusioni, sostenendosi che la definizione dei presupposti del sequestro preventivo a fine di confisca andrebbe effettuata considerando la stretta strumentalità che lega tale strumento alla sanzione della confisca, poiché «intanto il sequestro preventivo è preordinato alla confisca in quanto mira - e in via esclusiva - a garantirne la fruttuosità, [per cui] con la cautela in esame non si intende sottrarre all'ente la disponibilità di una res pericolosa ex lege, volendosi, invece, tutelare dal rischio di dispersione di prezzo e profitto dell'illecito che renderebbe vana la punizione dell'ente, una volta accertatane la responsabilità». Sulla scorta di questa ritenuta connessione fra sequestro preventivo e confisca finale del medesimo bene si conclude nel senso che per l'applicazione del provvedimento cautelare dovrebbero essere integrate le medesime condizioni stabilite per l'applicazione della sanzione della confisca e il giudice dovrebbe comunque accertare l'imputabilità dell'illecito alla societas nonché la sussistenza di ciò che ne costituisce prezzo e il profitto ed a sostegno di tale conclusione si evidenzia come proprio la circostanza che nel processo avverso gli enti collettivi la confisca assume una funzione di neutralizzazione dei vantaggi economici derivanti dalla attività criminosa renderebbe «scontato il previo accertamento di responsabilità della persona giuridica, [mentre] laddove si accerti l'insussistenza del reato verrebbero a mancare prezzo e prodotto, confiscabili in quanto illecitamente conseguiti» (PRESUTTI, , da cui sono tratte le citazioni presenti nel testo. Nello stesso senso, PAOLOZZI; GAITO; GARUTI).

Anche in giurisprudenza sono presenti decisioni di analogo tenore, avendo i giudici di legittimità, in un'unica occasione (Cass. pen., Sez. VI, 31 maggio 2012, n. 34505, Codelfa S.p.a.), sostenuto che la natura giuridica della confisca determina i requisiti di applicabilità del sequestro preventivo nel senso che quando questa misura cautelare è destinata ad anticipare l'applicazione di una sanzione definitiva, essendo la comminatoria di tale pena subordinata all'accertamento della responsabilità dell'accusato, allora il provvedimento preventivo non può essere assunto in assenza di un controllo del giudice sulla concreta fondatezza dell'accusa ovvero sulla rilevante probabilità che gli elementi probatori allo stato in possesso dell'ufficio inquirente conducano successivamente alla condanna definitiva dell'inquisito, per cui il fondamento giustificativo per il sequestro preventivo di cui all'art. 53 d.lgs. 231/2001 è un fumus delicti ‘allargato', che finisce per coincidere sostanzialmente con il presupposto dei gravi indizi di responsabilità dell'ente, al pari di quanto accade per l'emanazione delle misure cautelari interdittive. Quanto alla circostanza che l'art. 53 d.lgs. 231/2001 non fa alcun riferimento ad una attribuzione di responsabilità dell'accaduto alla società, diversamente da quanto prevede il precedente art. 45 del medesimo testo normativo, il quale nel disciplinare i presupposti per l'emanazione delle misure cautelari interdittive richiama i "gravi indizi" in ordine alla colpevolezza dell'ente, secondo i giudici di legittimità si tratta di «una diversità che non può essere considerata sintomo di una radicale differenziazione nei presupposti di misure cautelari che presentano caratteri omogenei in riferimento ai beni cui si riferiscono […] sicché i presupposti sostanziali dei sequestro devono essere ricercati all'interno della disciplina contenuta nel decreto legislativo del 2001, quindi tenendo conto della specificità della confisca cui la misura cautelare in questione si riferisce».

Successivamente, tuttavia, la giurisprudenza è tornata sui suoi passi, sostenendo nuovamente che per procedere a sequestro preventivo ex art. 19 d.lgs. 231/2001 non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, essendo sufficiente accertare la confiscabilità del bene una volta che sia possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato (Cass. pen., Sez. II, 16 settembre 2014, n. 41435; Cass. pen., Sez. IV, 18 novembre 2014, n. 51806; Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2006, n. 9829).

Quanto al secondo aspetto evidenziato nel ricorso della difesa e inerente le tipologie di sequestro preventivo che possono essere indirizzate nei confronti degli enti collettivi, il problema origina dalla circostanza che l'art. 53 d.lgs. 231/2001 – richiamando, per l'applicazione della misura reale le sole disposizioni di cui agli artt. 321, commi 3 e 3-bis, 3-ter, 322-bis e 323 c.p.p., con eccezione quindi del primo comma dell'art. 321 c.p.p. – parrebbe prevedere che oggetto di tale provvedimento cautelare possano essere solo le cose di cui è consentita la confisca, secondo quanto dispone l'art. 19 dello stesso testo normativo, che a sua volta fa riferimento al prezzo o al profitto del reato ovvero, quando non sia possibile eseguire la confisca delle cose anzidette, alle somme di denaro, beni ed altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto anzidetti. In considerazione di ciò, alcuni autori hanno sostenuto l'inapplicabilità del sequestro preventivo ex art. 321, comma 1, c.p.p., adottato per prevenire la reiterazione dell'illecito dipendente da reato o per evitare l'aggravarsi delle conseguenze dell'illecito, posto che opinando diversamente si verrebbe a creare «una sovrapposizione […] tra sequestro preventivo puro (o c.d. impeditivo) e la più grave delle misure cautelari previste dalla legge in esame, l'interdizione dall'attività, [giacché] posto che tra i beni che possono essere oggetto di sequestro preventivo v'è anche l'azienda, attraverso il sequestro preventivo dell'azienda si conseguirebbe il medesimo effetto di un'interdizione totale dell'attività dell'ente, ciò senza limiti temporali particolari (se non quelli della conclusione del procedimento) e superando tutti gli ulteriori limiti previsti per l'applicazione della misura cautelare interdittiva» (EPIDENDIO).

D'altronde, a conferma della non applicabilità, nel procedimento nei confronti degli enti collettivi, del sequestro preventivo c.d. impeditivo come disciplinato dal citato comma primo dell'art. 321 c.p., sta anche la circostanza che le esigenze cautelari – il c.d. periculum in mora – alla cui satisfazione deve essere diretto il sequestro preventivo previsto dall'art. 53 d.lgs. 231/2001 vanno individuate nella eventuale futura applicazione della confisca, che è resa possibile salvaguardando prezzo e profitto da rischi di loro dissipazione. Tale considerazione evidenzia come il sequestro preventivo disciplinato nel d.lgs. 231/2001, nonostante l'assonanza nominalistica con l'ipotesi di sequestro di cui all'art. 321 c.p.p., abbia comunque una funzione più propriamente conservativa, diretta a garantire la possibile futura esecuzione della sanzione della confisca e «le due categorie di cautele (interdittive/reali) destinate all'ente risultano entrambe in grado di realizzare l'identica finalità (incidere sull'attività economica) divergendo unicamente per il modus operandi, vale a dire comprimendo l'agire della persona giuridica direttamente (misure interdittive) ovvero come conseguenza indotta dal vincolo di indisponibilità apposto al suo patrimonio (cautele reali)» (PRESUTTI, cit., 186. Nello stesso senso, EPIDENDIO, Le misure…, secondo cui da questa constatazione discenderebbe – riprendendo un tema affrontato poche righe sopra – che anche per l'adozione delle misure cautelari reali non potrebbe prescindersi da un sia pur sommario accertamento circa la responsabilità della persona giuridica ai sensi del testo normativo in esame, proprio perché “anche vincoli su determinate cose possono conseguire effetti di parziale paralisi dell'attività dell'ente così da ottenersi indirettamente (per via di cautela reale) un risultato analogo a quello ottenibile con la misura personale).

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ha confermato il sequestro preventivo di ricorso, dando entrambe le censure.

Relativamente al primo profilo, inerente l'individuazione dei presupposti necessari per l'adozione del provvedimento cautelare nei confronti degli enti collettivi, la decisione, preso atto del contrasto di giurisprudenza, si limita a sostenere la correttezza della tesi più severa secondo cui per il sequestro preventivo di cui all'art. 53 d.lgs. 231/2001 non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità. Per aderire a tale orientamento la Cassazione – che pur riconosce che la confisca disciplinata dal d.lgs. 231/2001 costituisce una delle sanzioni a carico degli enti – richiama la circostanza che gli artt. 45 ss. del medesimo testo normativo richiedono la sussistenza dei gravi indizi di responsabilità solo per l'adozione delle misure interdittive cautelari e non per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Più articolata è invece la risposta intesa a sostenere l'ammissibilità del sequestro preventivo nei confronti degli enti anche quando lo stesso rivesta carattere impeditivo e si presenti perciò nelle forme di cui all'art. 321, comma 1, c.p.p.

In proposito, la Cassazione evidenzia come la lettera dell'art. 53 d.lgs. 231/2001 paia porre una netta differenziazione fra il sequestro preventivo applicabile nei confronti degli enti collettivi e l'analoga misura cautelare disciplinata nel codice di procedura penale. In primo luogo, il sistema normativo in tema di responsabilità da reato delle società non prevede il sequestro impeditivo di cui al primo comma dell'art. 321 c.p.p. e in secondo luogo perché il sequestro a fini di confisca di cui all'art. 53 d.lgs. 231/2001 non ha l'ampia latitudine di quello previsto dall'art. 321, comma 2, c.p.p., essendo ristretto e limitato, in virtù del rinvio all'art. 19, al solo prezzo o profitto del reato. La ratio di tale diversa disciplina della medesima cautelare è dai giudici di legittimità ricostruita richiamando la Relazione Ministeriale al d.lgs. 231/2001 in cui si evidenzia come la mancata previsione della possibilità del sequestro impeditivo nei confronti degli enti collettivi fu frutto di una deliberata valutazione del legislatore il quale ritenne che funzione cautelare assolta dal sequestro impeditivo – ovvero impedire che «la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati», avrebbe determinato «una incompatibilità con le sanzioni interdittive irrogabili nei confronti delle persone giuridiche», anch'esse aventi la stessa finalità.

Tale considerazione, tuttavia, non è sufficiente a concludere la questione giacché, a giudizio della Cassazione, l'incompatibilità (ritenuta dal Legislatore) fra il sequestro impeditivo e le misure interdittive previste dal d.lgs. 231/2001 sarebbe una valutazione tutt'altro che fondata e corretta ed anzi, al contrario, il sequestro impeditivo avrebbe un suo autonomo raggio di azione che lo renderebbe, per l'appunto, applicabile anche nei confronti degli enti collettivi.

In primo luogo, la misura interdittiva e il sequestro impeditivo avrebbero, a dire della Corte, effetti diversi quanto meno con riferimento alla sfera temporale, giacché l'adozione di una misura interdittiva – pur se idonea ad impedire l'uso di beni atti pertinenti al reato atti ad aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati – avrebbe comunque un'efficacia tendenzialmente momentanea mentre gli effetti del sequestro impeditivo avrebbero carattere di definitività posto che tale misura cautelare, ai sensi dell'art. 323, comma 3, c.p.p., in caso di condanna si converte in confisca. In secondo luogo, secondo la Cassazione, «mentre la misura interdittiva "paralizza" l'uso del bene "criminogeno" solo in modo indiretto (quale effetto di una delle misure interdittive), al contrario, il sequestro (e la successiva confisca) colpisce il bene direttamente eliminando, quindi, per sempre, il pericolo che possa essere destinato a commettere altri reati…; le misure interdittive sono dirette contro la società, tant'è che i criteri per la loro applicabilità sono stati parametrati su quelli delle misure cautelari personali [per cui] se è vero che l'interdizione dell'esercizio dell'attività può paralizzare anche l'utilizzo delle cose "criminogene", è anche vero che nulla vieta all'ente di continuare a disporre di quei beni: una cosa, infatti, è la paralisi dell'attività dell'ente (al fine di impedirgli di continuare a trarre profitto dal reato), ben altra cosa è il blocco di singoli e ben determinati beni che, ove non sequestrati, ben potrebbero continuare ad esplicare la loro carica criminogena ad es. perché utilizzati dall'ente in altri rami dell'attività non colpita dall'interdittiva o perché, addirittura, ceduti a terzi che continuino ad utilizzarli».

In sostanza, secondo i giudici di legittimità non vi è alcuna sovrapposizione fra sequestro impeditivo e misure cautelari interdittive, avendo il primo istituto una finalità che la misura interdittiva non ha, essendo diretto a impedire l'utilizzo di singoli beni ed evitare, sottraendoli alla disponibilità dell'ente, che possano continuare – nonostante la misura interdittiva – quantomeno ad agevolare la commissione di altri reati con conseguente pericolo per la collettività e tale considerazione impone, quindi, di superare la ricostruzione del legislatore secondo cui il sequestro impeditivo non potrebbe essere applicato nei confronti degli enti collettivi in quanto sovrapponibile e intersecantesi con la disciplina in tema di misure cautelari interdittive. Se dunque non vi sono ragioni di incompatibilità logico-giuridica fra la normativa di cui al d.lgs. 231/2001 e il particolare sequestro previsto dal comma primo dell'art. 321 c.p.p., allora deve ritenersi senz'altro applicabile tale particolare misura cautelare reale nei confronti delle società alla luce di quanto prevede l'art. 34 a norma del quale «per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano [....] in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».

Osservazioni

Tralasciando la parte dedicata all'individuazione dei presupposti necessari per l'adozione del sequestro nei confronti della società ai sensi dell'art. 53 d.lgs. 231/2001 – profilo che comunque rileva, come vedremo, per una valutazione critica dell'iter argomentativo percorso dalla Cassazione con riferimento alla applicabilità del sequestro impeditivo –, la sentenza in commento lascia assai perplessi nella parte in cui perviene, di fatto, a ribaltare il chiaro significato letterale della disciplina in tema di sequestro nei confronti degli enti collettivi.

Nessuna delle ragioni addotte in proposito dalla decisione ci sembra convincente.

In primo luogo, sorprende il disinteresse che la Cassazione manifesta per il dato letterale ricavabile dall'art. 53 d.lgs. 231/2001 che, come detto, non richiama il comma 1 dell'art. 321 c.p.p. escludendo così, expressis verbis, la possibilità di adottare un sequestro impeditivo nei confronti delle persone giuridiche quanto meno nell'ambito della disciplina di cui al d.lgs. 231/2001. È vero che la Corte di legittimità cerca di individuare delle ragioni – nessuna delle quali, come vedremo fra un attimo, condivisibile – per cui l'inequivoca indicazione del Legislatore va superata in un'ottica di interpretazione costituzionalmente orientata del sistema normativo; peccato però che il ricorso a una tale metodologia ermeneutica, intesa a porre nel nulla il dettato prescrittivo fatto palese dalla formula lessicale della previsione legislativa in nome della ricerca di un significato ragionevole e costituzionalmente accettabile, fosse stato in precedenza, poche pagine prima, dichiarato inammissibile dallo stesso giudice, allorquando per sostenere che l'adozione del sequestro preventivo di cui all'art. 53 d.lgs. 231/2001 non richiede la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, la Cassazione richiama – quale dato dirimente ed insuperabile – la circostanza che gli artt. 45 ss. del decreto in parola richiedono la sussistenza dei gravi indizi di responsabilità solo per l'adozione delle misure interdittive cautelari e non per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Insomma, il dato letterale della disposizione o rappresenta, se inequivoco e in claris, un elemento insuperabile per l'interprete nell'individuazione della norma da ricavare dalla previsione o è invece solo uno degli elementi da considerare nell'ambito dell'attività ermeneutica del giudice. Non si può oscillare, tanto meno nell'ambito della medesima decisione, fra questi due poli antitetici, accogliendo l'una o l'altra delle metodologie di interpretazione della legge a seconda di quale sia più funzionale al raggiungimento del risultato pratico cui il giudice intende pervenire – a meno che non si attribuisca alla motivazione il ruolo di mero simulacro di una decisione discrezionale assunta a priori dal giudice.

In secondo luogo, nella parte, per così dire, costruens della decisione, la Cassazione – dopo aver sostenuto che, a suo parere, non vi è alcuna forma di sovrapposizione fra sequestro impeditivo ex art. 321, comma 1, c.p.p. e le misure interdittive di cui agli artt. 45 ss. d.lgs. 231/2001 – cerca di individuare, nell'ambito del sistema della responsabilità da reato degli enti collettivi, un dato normativo che consenta di concludere che, seppur non espressamente previsto dall'art. 53 d.lgs. 231/2001, comunque il sequestro impeditivo potrebbe essere adottato anche nei confronti di una rinviene una tale possibilità richiamando il già citato art. 34 a norma del quale «per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano [....] in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271». In sostanza, secondo la Corte nella misura in cui il sequestro impeditivo è pacificamente previsto nell'ambito della disciplina dettata dal codice di procedura penale con riferimento alle misure cautelari reali sarebbe istituto sicuramente operante anche il sistema della responsabilità da reato degli enti collettivi, giacché al silenzio serbato sul punto dall'art. 53 d.lgs. 231/2001 potrebbe, per l'appunto, facilmente rimediarsi per il tramite del richiamo dall'art. 34 all'intera normativa contenuta nel codice di rito criminale.

Tale argomentazione, che a ben vedere cerca di fornire sostegno letterale alle conclusioni della Cassazione che, come abbiamo visto, tralasciano completamente il chiaro significato della formula linguistica contenuta nel citato art. 53, tuttavia non convince.

L'art. 34 in parola infatti non è una sorta di pass-partout idoneo a far “trasmigrare” nel sistema normativo di cui al d.lgs. 231/2001 l'intera disciplina presente codice di procedura penale. E' la stessa giurisprudenza aver fornito tale insegnamento allorquando si è discusso della possibilità di evitare l'azione civile in un procedimento nei confronti di una società innanzi al giudice penale: replicando ad alcune decisioni che sostenevano che l'art. 74 c.p.p. avrebbe dovuto trovare applicazione nel processo agli enti in virtù del rinvio contenuto nelle disposizioni degli artt. 34 e 35 d.lgs. 231/2001 (cfr. in particolare, ordinanza Gup Milano dott. Giordano del 5 febbraio 2008), la Cassazione ha escluso che potesse attribuirsi una tale rilevanza alla previsione di cui al citato art. 34 in quanto – come peraltro espressamente prescrive la medesima disposizione, laddove espressamente prescrive che «per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le […] disposizioni del codice di procedura penale in quanto compatibili» [grassetto nostro, ovviamente] – la possibilità di una integrazione della normativa in tema di processo contro gli enti collettivi dettata dal Capo III del d.lgs. 231/2001 mediante un richiamo alle previsioni contenute nel codice di rito è sempre subordinata ad una valutazione circa la compatibilità di tali disposizioni e il sistema relativo al procedimento di accertamento e di applicazione delle
sanzioni amministrative di cui al citato capo III, di modo che laddove tale compatibilità non possa rinvenirsi non sarebbe consentito colmare eventuali (e presunte) lacune presenti nella disciplina contenuta nel d.lgs. 231/2001 mediante un richiamo a istituti e previsioni previste con riferimento al processo nei confronti delle persone fisiche (Cass. pen., Sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 2251, che, per l'appunto, pur essendo l'istituto della costituzione di parte civile previsto e disciplinato nell'ambito dell'ordinario processo penale ha comunque escluso che la relativa normativa potesse trovare applicazione in sede di processo nei confronti di una società, pervenendo a tale conclusione sulla base di una ricostruzione delle differenze fra danno da reato commesso dal singolo ed illecito amministrativo da reato attribuito all'ente collettivo).

Orbene, è evidente che una tale valutazione di compatibilità tra le norme presenti nel codice di procedura penale che disciplinano la figura del sequestro preventivo a carattere impeditivo di cui all'art. 321, comma 1, c.p.p. ed il sistema processuale inerente il giudizio nei confronti degli enti collettivi è stato espressamente operato dal legislatore, il quale, per le ragioni sopra esposte, ha concluso in senso negativo, escludendo espressamente che la disciplina contenuta nel citato comma primo dell'art. 321 c.p.p. potesse trovare applicazione nel sistema processuale disegnato dal d.lg. n. 231 del 2001. A fronte di una tale valutazione del Parlamento, si può concordare o meno (a nostro parere la scelta del legislatore è corretta: sia consentito rinviare a SANTORIELLO, Il procedimento penale per l'accertamento della responsabilità amministrativa degli enti collettivi, Torino 2014, 45), ma certo nessun giudice può non tenerne conto e porre nel nulla tale giudizio sol perché, a suo parere, a seguire le indicazioni del legislatore ne deriverebbe per l'ente un regime privilegiato rispetto a quello generale previsto dal codice di rito e, quindi, [si verrebbe a privare la collettività di un formidabile ed agile strumento di tutela finalizzato ad eliminare dalla circolazione beni criminogeni.

Non spetta ai giudici rimediare alle (peraltro opinabili) storture della legge. Preoccupa che a tale principio non si adegui nemmeno la nostra Corte di cassazione.

Guida all'approfondimento

EPIDENDIO, Le misure cautelari ed i gruppi di impresa: teoria e prassi applicativa dai casi concreti, in Resp. Amm. Soc. Enti, 2006, 2, 123;

EPIDENDIO, Sequestro preventivo speciale e confisca, in Resp. Amm. Soc. Enti, 2006, 3, 93;

GAITO, La procedura per accertare la responsabilità degli enti, in AA.VV., Manuale di procedura penale, Bologna 2008, 672;

GARUTI, Responsabilità delle persone giuridiche: II) Profili processuali, in Enc. Giur., XVII, Roma 2004, 6;

PAOLOZZI, Vademecum per gli enti sotto processo. Addebiti “amministrativi” da reato, Torino 2005, 144;

PRESUTTI, Certezze e dissidi interpretativi in tema di sequestro preventivo applicabile all'ente sotto processo, in Resp. Amm. Soc. enti, 2009, 3, 181.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario