La Consulta sull'astensione dalle udienze degli avvocati: una motivazione che non convince

04 Settembre 2018

Con la sentenza n. 180 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2-bis della l. 146/1990 nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione dell'astensione dalle udienze degli avvocati, nel regolare all'art. 4, comma 1, lett. b), l'astensione degli avvocati nei procedimenti e...

Con la sentenza n. 180 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2-bis della l. 146/1990 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionale tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione dell'astensione dalle udienze degli avvocati – adottato in data 4 aprile 2007 dall'Organismo unitario dell'avvocatura (Oua) e da altre associazioni categoriali (U.C.P., Auf, Arga, U.N.C.C.) valutato idoneo dalla Commissione di Garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica n. 3 del 2008 – nel regolare all'art. 4, comma 1, lett. b), l'astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l'imputato si trovi in stato di custodia cautelare, interferisca con la disciplina della libertà personale dell'imputato.

L'art. 4, comma 1, lett. b) del codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati prevede che l'astensione non è consentita nella materia penale in riferimento ai procedimenti e nei processi in relazione ai quali l'imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l'imputato chieda espressamente a quanto previsto dall'art. 420-ter, comma 5, del codice di procedura penale, che si proceda malgrado l'astensione del difensore. In quest'ultima evenienza il difensore di fiducia o d'ufficio non può legittimamente astenersi e ha l'obbligo di assicurare la propria prestazione professionale.

Secondo la Corte in tal modo sarebbe lesa la riserva di legge di cui all'art. 13, comma 5, Cost., che fissa i termini di durata massima della carcerazione preventiva. Secondo i giudici costituzionali la previsione censurata violerebbe la riserva di legge di cui alla citata previsione costituzionale, nella misura in cui consente al codice di autoregolamentazione di interferire nella disciplina della libertà personale, interferenza consistente nella richiesta dell'imputato, sottoposto a custodia cautelare, di richiedere o no, in forma espressa, di procedere malgrado l'astensione del difensore, determinando in tal modo la sospensione, e quindi il prolungamento dei termini massimi (di fase) della custodia cautelare.

Delineando il rapporto tra la norma primaria (la l. 146 del 1990) sub art. 2-bis, la norma subprimaria quella dell'art. 4, comma 1, lett. b) del codice autoregolamentazione, la Corte ritiene l'illegittimità della prima nella misura in cui ha consentito alla seconda di incidere sulla durata della custodia cautelare prevedendo tale facoltà dell'imputato detenuto.

Le considerazioni della Corte non convincono.

Ora non appare fondato ritenere che la normativa secondaria attuativa della normativa primaria non sia rispettosa della c.d. tutela della libertà personale del soggetto sottoposto a misura cautelare, anche perché se si riconosce, come riconosciuta dalla Corte costituzionale, che l'astensione de qua sia un diritto, dovrebbe escludersi che esso sia del tutto sacrificato (come di fatto a seguito della decisione) in presenza di soggetti sottoposti a custodia cautelare.

Si trattava e si tratta di effettuare un corretto bilanciamento delle situazioni poste a confronto, come è stato fatto dal codice di autoregolamentazione, per un verso, tutelando il diritto del soggetto in vinculis, che non chieda espressamente, non tacitamente, la celebrazione del processo, per un altro, recuperando dal sistema presupposti e condizioni di cui all'art. 420-ter, comma 5, c.p.p., con le ricadute non sull'art. 303 c.p.p. ma sull'art. 304 c.p.p., ove si fissano i termini massimi complessivi anche in presenza della sola richiesta del soggetto ristretto.

In altri termini, i legittimi impedimenti – tra i quali può essere ricompreso l'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito – si bilanciano con il diritto di libertà dell'imputato, diritto che è posto a suo presidio e che il soggetto consapevolmente decide di considerare.

Vanno considerate sotto questa prospettiva, all'opposto, le conseguenze sulla durata della carcerazione preventiva connesse alle disfunzioni e all'inefficienza del sistema processuale che l'imputato finisce incolpevolmente per subire.

Se il ragionamento della Corte è corretto potrebbe porsi una questione di legittimità costituzionale, ancorché il dato sia previsto dal codice e quindi dalla riserva di legge per l'art. 420-ter, comma 5, c.p.p., per l'art. 304, comma 1, lett. a), b), lett. c-bis), c.p.p., nonché per il novellato comma 5 bis dell'art. 420-ter c.p.p. dove l'imputato in vinculis non può interloquire sulla sospensione automatica di cinque mesi.

Va considerato che non necessariamente ogni sospensione determina lo sforamento dei termini di fase di quelli complessivi e di quelli massimi.

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