Sentenza in punto di status: termine per la relativa richiesta

Simonetta Giuliano
05 Settembre 2018

Può ritenersi che la richiesta di pronuncia parziale di separazione in punto status debba essere effettuata solo prima della concessione dei termini per il deposito delle memorie di carattere istruttorio ex art. 183, comma 6, c.p.c.?
Massima

L'art. 709-bis c.p.c. non prevede un termine decadenziale per la richiesta di pronunzia immediata in punto status nel procedimento di separazione; pertanto, detta pronunzia può essere richiesta dalle parti in giudizio anche successivamente alla concessione dei termini per il deposito delle memorie di carattere istruttorio ex art. 183, comma 6, c.p.c..

Il caso

In un giudizio di separazione, successivamente alla concessione dei termini per il deposito delle memorie di carattere istruttorio, ex art. 183, comma 6, c.p.c., le parti, congiuntamente, chiedevano al Tribunale di pronunciare la separazione in punto status. Il Tribunale respingeva detta richiesta, ritenendo inammissibile la domanda parziale sullo status, poiché non formulata alla prima udienza davanti al giudice istruttore, ma successivamente alla concessione dei termini per le memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c..

Con ricorso congiunto, le parti interponevano gravame davanti alla locale Corte d'appello, evidenziando l'erroneità della decisione del giudice di prime cure.

La Corte d'appello accoglieva il gravame proposto, ritenendo fondato l'appello e rilevando come l'art. 709-bis c.p.c. (nella formulazione novellata dall'art. 1, comma 4, legge 28 dicembre 2005, n. 263) non prevedesse alcun termine decadenziale.

La questione

Può ritenersi che la richiesta di pronuncia parziale di separazione in punto status debba essere effettuata solo prima della concessione dei termini per il deposito delle memorie di carattere istruttorio ex art. 183, comma 6, c.p.c.?

Le soluzioni giuridiche

L'art. 709-bis c.p.c., al comma 2 prevede: «Nel caso in cui il processo debba continuare per la richiesta di addebito, per l'affidamento dei figli o per le questioni economiche, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione. Avverso tale sentenza è ammesso soltanto appello immediato che è deciso in camera di consiglio».

Analoga previsione si rinviene, peraltro, in tema di divorzio, all'art. 4, comma 12, l. n. 898/1970 ove si legge: «Nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sentenza è ammesso soltanto appello immediato. Appena formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all'art. 10».

Innanzitutto, si deve rilevare come dette disposizioni normative possano ritenersi specificazioni della generica previsione dell'art. 277 c.p.c. (e dell'art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c.), che riconosce al magistrato la facoltà di limitare la decisione ad alcune domande proposte, disponendo la prosecuzione dell'istruttoria per le altre (…).

La ratio sottesa alle suddette norme è quella del favor libertatis. Con la sentenza non definitiva, il Legislatore avrebbe infatti approntato uno strumento processuale volto a definire con sollecitudine lo status della coppia in conflitto.

La sentenza non definitiva di separazione permette, quindi, di anticipare al massimo la proponibilità della domanda di divorzio, che, si ricorda, prevede il verificarsi del duplice presupposto (art. 3 l. n. 898/1970), della decorrenza di un anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente (ovvero sei mesi dalla data di omologa del verbale di separazione consensuale), e il giudicato sullo status, che ben potrà formarsi anche in base alla sentenza non definitiva (anche in sede di divorzio, infatti, il giudice potrà adottare sentenza non definitiva sullo status, rendendo così, in tempi relativamente brevi, i coniugi nuovamente liberi).

Presupposto per una pronuncia non definitiva è ovviamente l'esistenza di un processo in cui vi siano più oggetti di decisione, il che di solito è la conseguenza della avvenuta proposizione di più domande. È chiaro, infatti, che se l'unico oggetto del processo è costituito dalla domanda di separazione o di divorzio, l'unica pronuncia possibile è appunto quella che accoglie o rigetta l'unica domanda proposta, e che dunque è necessariamente una sentenza definitiva.

L'art. 4 l. n. 898/1970, come sostituito dall'art. 8 l. 6 marzo 1987, n. 74 e poi modificato dall'art. 2 d.l. n. 35/2005, è stata la prima norma a disciplinare la sentenza non definitiva, ma limitatamente al giudizio di divorzio.

La sua introduzione aveva fatto sorgere una serie di questioni circa la sua applicabilità anche ai giudizi di separazione. In questi ultimi, tuttavia, verrà prevista dal Legislatore solo nel 2005 - con la l. 28 dicembre 2005, n. 263 - con l'inserimento degli ultimi due periodi dell'art. 709-bis c.p.c., andando a confermare una prassi consolidata nei tribunali e all'esito di una lunghissima diatriba tra la giurisprudenza di merito e di legittimità.

All'origine del dibattito giurisprudenziale, si poneva proprio l'eccessiva lungaggine che aveva a subire il giudizio di separazione quando, alla domanda principale, rapidamente valutabile, si aggiungeva la richiesta di addebito, e/o le altre richieste accessorie, che costringeva, come già detto, la coppia a posticipare l'avvio del giudizio di divorzio di anni e addirittura all'esito dei tre gradi di giudizio.

Si riteneva, infatti, inscindibile la pronuncia della separazione da quella di addebito, prolungando indefinitivamente un vincolo matrimoniale ormai in crisi, costringendo un coniuge a subire la pratiche dilatatorie avversarie.

Il conflitto prese avvio dalla sentenza Trib. Milano 29 settembre 1994 che, per primo, sostenne l'opportunità di un disgiungimento delle due pronunce.

Il dibattito si incentrò sulla possibilità di emettere sentenza non definitiva e di proseguire la causa per accertare a chi fosse addebitabile la separazione.

La giurisprudenza di merito si orientò per l'ammissibilità della soluzione descritta.

In tale prospettiva, assunse rilievo l'art. 4, comma 12, l. div. - relativo alla sentenza non definitiva prevista in sede di divorzio - che fu ritenuto applicabile, in base all'art. 23, l. n. 74/1987, al giudizio di separazione, in quanto con esso compatibile.

La Corte di Cassazione si pronunciò, in prima battuta, negativamente: la prima sezione ebbe sempre a negare la scindibilità della pronuncia di separazione da quella di addebito, anche all'interno dello stesso processo, sostenendo l'inammissibilità della sentenza non definitiva di separazione con la conseguenziale inidoneità della stessa, ove adottata e non impugnata, a costituire giudicato, e ritenendo improponibile «la domanda di divorzio anche quando il giudizio di separazione prosegua in fase di impugnazione, sia pure con censure che investano soltanto l'addebito» (Cass. civ., sez. I, n. 8106/2000; Cass. civ., n. 3718/1998).

Da un punto di vista letterale, poi, la Cassazione motivava il proprio orientamento dalla lettura dell'art. 151, comma 2, c.c., secondo il quale il giudice decide sull'addebito «pronunziando la separazione», esprimendo così una chiara opzione per la contestualità delle pronunce.

Infine, anche la dottrina venne coinvolta nel dibattito, e la maggior parte degli autori si schierò con la posizione seguita dalla giurisprudenza di merito; rilevava, infatti, che per ottenere una pronuncia sull'addebito fosse necessario proporre una domanda specifica. Sosteneva, poi, che le due domande si differenziassero nella causa petendi (intollerabilità della convivenza nell'una e violazione dei doveri coniugali nell'altra), e nel petitum (costituito in un caso dalla pronuncia della separazione con le relative conseguenze di carattere personale e patrimoniale, nell'altro dall'accertamento positivo e sfavorevole alla controparte dal quale discendono gli effetti ulteriori della perdita del diritto al mantenimento e dei diritti successori (cfr. F. Cipriani, Impugnazione per il solo addebito e domanda di divorzio, in Foro It. 1998, I, 2142., 2145)

Nel 2001 intervenne la Suprema Corte, a Sezioni Unite, che, con le pronunce Cass. n. 15248/2001 e Cass. n. 15279/2001, mutarono il precedente orientamento delle sezioni semplici, affermando che «nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di declaratoria di addebitabilità della separazione stessa, ha natura autonoma, pure se logicamente subordinata alla pronuncia di separazione, in quanto non sollecita mere modalità o varianti dell'accertamento già devoluto al giudice con la domanda di separazione, né mira a semplici specificazioni o qualificazioni di detta pronuncia, ma amplia il tema dell'indagine su fatti ulteriori ed indipendenti da quelli giustificativi del regime di separazione, ed inoltre tende ad una statuizione aggiuntiva, priva di riflessi sulla pronuncia di separazione e dotata di propri effetti di natura patrimoniale, e che, pertanto in carenza di ragioni o norme derogative dell'art. 277, comma 2, c.p.c., il giudice del merito può limitare la decisione alla domanda di separazione, se ciò risponda ad un apprezzabile interesse della parte e se non sussista per la domanda stessa la necessità di ulteriore istruzione». E ancora «poiché la richiesta di addebito ha natura di domanda autonoma, qualora la sentenza sulla separazione e sull'addebito sia stata impugnata con esclusivo riferimento all'addebito, si forma il giudicato sulla separazione e diviene possibile chiedere il divorzio».

Peraltro, le Sezioni Unite, pur paragonando il rapporto sussistente tra pronuncia di separazione e addebito da un lato e pronuncia di divorzio e assegno dall'altro, avevano preferito non ritenere estensibile al giudizio di separazione l'art. 4, comma 12, l.div., bensì applicabile l'art. 277, comma 2, c.p.c..

Dal riconoscimento dell'autonomia della domanda di addebito rispetto a quella di separazione ne era derivato l'inevitabile corollario della possibilità di appellare la sentenza definitiva di primo grado, contenente la pronuncia su entrambe le domande, per il solo capo relativo all'addebito, permettendo alla statuizione sullo status di passare in giudicato con l'effetto di avviare il giudizio di divorzio pur in pendenza dell'appello sulle altre questioni R. Rossetti, Giudizio di separazione e sentenza non definitive, in Giust. Civ., 2003, 05, 163).

A seguito di dette pronunce, cui si sono uniformate tutte le successive sentenze di merito e di legittimità (cfr. Cass. n. 16996/2004; Trib. Bologna 28 aprile 2004; Trib. Ascoli Piceno 24 marzo 2003; Trib. Trani 24 aprile 2001), venne a consolidarsi detto orientamento giurisprudenziale che poi trovò ufficiale riconoscimento legislativo del 2005 con la previsione, come già detto, degli ultimi due periodi dell'art. 709-bis c.p.c., in cui si è finalmente ammessa la sentenza non definitiva anche nel giudizio di separazione.

Avverso il tipo di sentenza in esame, è ammesso appello solo immediato, come espressamente precisato dagli artt. 709-bis c.p.c. e 4, comma 12, l. div..

Ciò significa che la sentenza non definitiva è soggetta alla disciplina di cui all'art. 325 c.p.c., nel senso che ove questa sia notificata a istanza dell'altra parte, l'appello stesso deve essere proposto entro 30 giorni dalla notifica, mentre in caso di omessa notifica è applicabile il regime di cui all'art. 327 c.p.c..

Non è quindi ammessa la riserva di appello ai sensi dell'art. 340 c.p.c..

L'appello potrà essere fondato soltanto su errores in procedendo o su altre questioni di legittimità.

Il rito da seguire in sede di gravame è quello camerale, il quale si applica all'intero procedimento, dall'atto introduttivo (ricorso anzichè citazione) alla decisione in camera di consiglio.

Osservazioni

La scelta del Legislatore di introdurre la sentenza non definitiva prima nel giudizio di scioglimento del matrimonio e successivamente anche in quello di separazione, ha sollevato alcuni dubbi e questioni.

Una prima questione è proprio quella relativa alla sentenza in oggi in commento, ovvero il momento in cui andava pronunciata la sentenza non definitiva.

Nulla quaestio sul fatto che detta pronuncia dovesse essere emessa una volta che il giudice avesse valutato che il processo dovesse proseguire per le altre questioni diverse e ulteriori dallo status, quindi una volta che fosse definito il thema decidendum, allo scioglimento della riserva sui mezzi istruttori ex art. 183, comma 6, c.p.c..

Tuttavia, nella prassi, tale momento slitta normalmente per due volte proprio per la consuetudine dei giudici di rinviare ad un'apposita udienza per l'ammissione dei mezzi istruttori chiesti nelle memorie, e poi ad un'ulteriore udienza per la precisazione delle conclusioni sulla sentenza non definitiva, a cui si dovrebbero aggiungere i termini per le memorie conclusionali e le repliche, a cui tuttavia, spesso, le parti rinunciano.

Nella prassi, sarebbe sul punto auspicabile che il giudice istruttore già fin dall'udienza di prima comparizione ed all'atto di assegnare i termini dell'art. 183, comma 6, c.p.c., invitasse le parti a precisare le conclusioni e a replicare - nelle rispettive note istruttorie - in ordine alla eventuale sentenza non definitiva.

Questo aspetto è ancora aperto, e risolto discrezionalmente da giudice a giudice.

Altra questione riguardava l'applicabilità del rito camerale applicabile al giudizio di appello.

In oggi la querelle può ritenersi superata, essendo applicabile detto rito; negli anni scorsi, invece, è stata oggetto di contrasto tra la giurisprudenza di legittimità, che affermava l'integrale soggezione dell'appello al rito camerale (cfr. Cass. n. 5304/2006; Cass. n. 3836/2006; Cass. n. 1179/2006; Cass. n. 507/2003), e la prevalente dottrina, per la quale, invece, solo la fase decisoria dovrebbe svolgersi senza che abbia luogo la discussione in pubblica udienza, mentre, per il resto, il giudizio di gravame dovrebbe seguire le regole ordinarie previste dagli artt. 339 ss. c.p.c. (F. Cipriani, in Foro. it. 1999, I, 1119 ss.; P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, 307).

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