È appropriazione indebita il ritardo dell’amministratore nel restituire le somme detenute per conto dei condomini

11 Settembre 2018

La questio iuris sottoposta alla Suprema Corte concerne la natura del reato di appropriazione indebita e del tempus commissi delicti, compreso quelli concernenti l'individuazione del dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione. Nel caso di specie, la condotta appropriativa concerneva la rendicontazione...
Massima

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore di condominio che rifiuti o ritardi la riconsegna annuale ex art. 1129 c.c. delle somme detenute per conto di ciascun condominio, allorquando tale condotta sia finalizzata al conseguimento di profitto ingiusto, conseguendone che il reato di appropriazione indebita dell'amministratore si consuma in corrispondenza di tale termine, con cadenza annuale, senza che assuma alcuna rilevanza l'evenienza che le persone offese abbiano avuto conoscenza della condotta appropriativa solo a distanza di molto tempo.

Il caso

La pronuncia in commento concerne una tipica ipotesi di responsabilità penale dell'amministratore di condominio per il reato di appropriazione indebita. Nel caso di specie, l'amministratore, allo scadere dei termini annuali stabiliti dal codice civile per la rendicontazione contabile, aveva trattenuto e non restituito le somme detenute per conto di ogni condomino.

La mancata restituzione, con la volontà di far proprie tali somme di danaro, secondo la Suprema Corte, costituisce tipica ipotesi di appropriazione indebita aggravata, connotata da significativi indici di gravità, sotto il profilo soggettivo che oggettivo, trattandosi di fatti commessi arrecando danni ad una pluralità di condomini ed abusando dell'attività professionale in favore degli stessi.

La questione

La questio iuris sottoposta alla Suprema Corte concerne la natura del reato di appropriazione indebita e del tempus commissi delicti, compreso quelli concernenti l'individuazione del dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione.

Nel caso di specie, la condotta appropriativa concerneva la rendicontazione di numerose annualità e pertanto si poneva un problema di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, almeno per quei fatti risalenti a data anteriore al 2010.

In particolare, la tesi difensiva, favorevole all'imputato, eccepisce che, poiché per il disposto degli artt. 1135, 1129 e 1138 c.c., la carica di amministratore cessa ogni anno, deve ritenersi che annualmente sia onere dell'amministratore, nello stesso termine, di dare il conto della gestione e di restituire le somme detenute per conto del condominio. Pertanto, si deve ritenere che il termine di prescrizione decorra ogni anno, in coincidenza con la data prevista per la rendicontazione annuale, sicché i fatti relativi ai periodi anteriori a sette anni e mezzo prima (termine di prescrizione massimo), devono ritenersi estinti per intervenuta prescrizione.

Si chiarisce infatti che, posto che l'art. 1129 c.c. prevede «alla cessazione dell'incarico l'amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini», integrerà il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore che rifiuti o ritardi la consegna della documentazione contabile e delle somme detenute, allorquando tale condotta sia finalizzata al conseguimento di profitto ingiusto.

D'altra parte, le parti offese eccepiscono di aver avuto conoscenza dell'esistenza di una situazione creditoria, e quindi della condotta appropriativa dell'amministratore, solo dopo diversi anni, quando ormai l'amministratore si era reso irreperibile, assumendo quindi che debba assumere rilevanza, ai fini della consumazione del reato, il momento in cui le vittime hanno avuto effettiva conoscenza della condotta appropriativa e del conseguimento del profitto ingiusto da parte dell'amministratore.

Prima di affrontare nel dettaglio la questione, occorre in premessa precisare che il legislatore, allo scopo di ridurre la possibilità pratica di realizzazione di questi fatti di appropriazione, ha introdotto alcune disposizioni in tema di trasparenza e di confusione di patrimoni.

Infatti, la mancanza di specifiche e coerenti indicazioni legislative circa la necessità di far transitare le somme di spettanza dell'ente condominio su di un apposito conto corrente, portava ad una possibile confusione tra il patrimonio dell'amministratore e quello del singolo condominio, come anche tra le risorse dei vari condomini gestiti dallo stesso amministratore.

A queste incongruenze ha posto rimedio il novellato art. 1129 c.c., il quale dispone che l'amministratore di condominio è obbligato a far transitare su di un apposito conto corrente bancario o postale, intestato al condominio, tutte le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle erogate a qualsiasi titolo per conto del condominio, e che ciascun condomino può prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica, in modo da effettuare i dovuti controlli.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione è intervenuta sulla questione ribadendo la natura istantanea del delitto di appropriazione indebita, che si consuma con la prima condotta appropriativa, coincidente con il momento in cui l'amministratore di condominio è obbligato a restituire le somme detenute per conto di ogni condomino. Si avalla quindi la tesi difensiva che vede consumare il reato di appropriazione indebita dell'amministratore di condominio con cadenza annuale, senza che assuma alcuna rilevanza l'evenienza che le persone offese abbiano avuto effettiva conoscenza del fatto solo a distanza di molto tempo.

Secondo la Corte, infatti, la mancata restituzione delle somme non spese, accompagnata dal dolo specifico di realizzare un ingiusto profitto, configura e perfeziona la fattispecie di reato, a nulla rilevando il momento in cui sia stato scoperto l'ammanco, essendo onere dei condomini accedere e controllare la documentazione contabile, e così venire a conoscenza dell'ammanco.

Osservazioni

Anche la dottrina maggioritaria individua la consumazione del delitto nel momento in cui l'agente compie gli atti positivi in cui si manifesta la volontà di dominio, ovvero nel momento in cui doveva compiersi l'atto, anche laddove tale volontà si realizzi mediante atti negativi.

Tuttavia, occorre ricordare che, secondo un indirizzo dottrinario minoritario, la consumazione del delitto coincide con il momento in cui l'agente consegue il profitto (peraltro, da intendersi in senso non strettamente economico), e non con il compimento del fatto appropriativo. Infatti, far coincidere la consumazione con la condotta di appropriazione rischierebbe di rendere inafferrabile e indeterminabile tale momento soprattutto nei casi di condotta negativa di mancata restituzione, che sarebbe così caratterizzato unicamente da un elemento psichico, cioè dall'intenzione di servirsi della cosa come se fosse propria.

A tale concezione si obbietta che, secondo il tenore letterale della norma, il profitto è soltanto una nota dell'elemento psicologico, il fine cui la volontà deve dirigersi, e non un elemento costitutivo del reato. Pertanto, la consumazione del reato non può farsi dipendere dal mutamento dell'animus del possessore, posto che un fatto meramente psichico non può mai, di per sé, produrre effetti giuridici, essendo sempre necessario che si rifletta in comportamenti esteriori.

In conclusione, la giurisprudenza prevalente concorda con la dottrina maggioritaria e individua la consumazione del delitto nell'atto di disposizione uti dominus, posto in essere dall'agente con la volontà di tenere la cosa come propria, che può realizzarsi con il dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso ovvero mediante il rifiuto ingiustificato della restituzione, perché in entrambe le ipotesi appaia egualmente manifesta la volontà di affermare il dominio sulla cosa posseduta.

Il delitto di appropriazione indebita si consuma pertanto nel momento e nel luogo in cui l'agente tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto del proprietario.

Ci si limita ad osservare, in questa sede - senza entrare nel merito della disputa relativa l'individuazione del momento consumativo del reato - che esso certamente non può farsi coincidere, sic et simpliciter, con quello della scadenza del termine per la restituzione senza alcuna indagine concernente l'animus, in quanto la mancata restituzione colposa non integra il delitto.

Solo il rifiuto ingiustificato della restituzione della cosa, dopo la scadenza del termine che ne legittima il possesso che renda manifesta la volontà del possessore di invertire il titolo del possesso per trarre dalla cosa un ingiusto profitto, connota la condotta omissiva di illiceità penale.

Guida all'approfondimento

FIANDACA - MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, Bologna, 2005;

ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, XV ed., Milano, 2016;

PEDRAZZI, Appropriazione indebita, in Enc. dir., Milano, 1958;

SGUBBI, Patrimonio (Delitti contro il), in Enc. dir., Milano, 1974.

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