Dubbi di costituzionalità sulla disciplina delle limitazioni alla concessione della detenzione domiciliare speciale

17 Settembre 2018

L'istituto della detenzione domiciliare speciale, pur partecipando della finalità di reinserimento sociale del condannato, è primariamente indirizzato a consentire l'instaurazione, tra madri detenute (e in alcuni casi i padri ai sensi del comma 6) e figli in tenera età, di un rapporto quanto più possibile "normale". In tal senso, si tratta di un istituto in cui assume rilievo prioritario la tutela di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione...
Massima

L'art. 58-quater, commi 1 e 2, ord. pen., norma applicabile anche con riferimento alla misura della detenzione domiciliare speciale di cui all'art. 47-quinquies ord. pen. – nell'impedire, nei confronti del condannato resosi responsabile di condotte che hanno determinato la pregressa revoca di una delle misure alternative ivi indicate, l'accesso alla detenzione domiciliare “speciale” – pone una presunzione assoluta di pericolosità del condannato, da ritenere in contrasto con gli artt. 3, 29 comma 1, 30 comma 1, 31 comma 2, Cost., poiché non consente di valutare, secondo un prudente apprezzamento del giudice, le circostanze della vicenda concreta.

Il caso

La vicenda posta all'attenzione della Suprema Corte ha come oggetto il provvedimento Presidente del tribunale di sorveglianza di Milano che dichiarava inammissibile, per difetto delle condizioni di legge, l'istanza di detenzione domiciliare “speciale”, avanzata, a norma dell'art. 47-quinquies, commi 1 e 7, ord. pen., dal ricorrente detenuto – padre di un minore che non poteva essere affidato ad altri – nei cui confronti era però stata disposta poco tempo prima la revoca della misura alternativa della semilibertà.

Secondo il Presidente del tribunale alla base del provvedimento di rigetto vi era il divieto triennale di concessione di benefici penitenziari, stabilito dall'art. 58-quater, comma 2, ord. pen., in combinato disposto con i commi primo e terzo, operante nei confronti di coloro che hanno subito la revoca di un'altra misura alternativa.

La questione

Va evidenziato, in via preliminare, che l'art. 47-quinquies, commi 1 e 7, ord. pen., norma che regola la detenzione domiciliare cosiddetta “speciale”, dispone che anche nell'ipotesi in cui la pena detentiva ancora da scontare superi il limite dei quattro anni, e perciò le misure alternative ivi elencate non potrebbero essere concesse, le condannate con prole di età non superiore a dieci anni possono essere comunque ammesse a espiare la pena «nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli», a condizione che abbiano già espiato almeno un terzo della pena o almeno quindici anni, nel caso di condanna all'ergastolo (art. 47-quinquies, comma 1, ord. pen.); occorre anche che vi sia «la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli» e che non sussista «un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti». La detenzione domiciliare cosiddetta «speciale» è infatti un istituto, introdotto nell'ordinamento per effetto della legge 8 marzo 2001, n. 40, e poi ulteriormente disciplinato, ed esteso, dalla legge 21 aprile 2011, n. 62, posto a tutela del rapporto tra condannate madri (e, a certe condizioni, padri) e figli minori. La ratio della disposizione è comune a quella delle forme di detenzione domiciliare, già previste dall'art. 47-ter, comma 1, lett. a) e b), ord. pen., ossia di impedire, ove possibile, il distacco del minore dalla figura genitoriale, al tempo stesso evitandone l'inserimento in un «contesto punitivo», privo di adeguati stimoli per la sua crescita e del tutto inidoneo alla creazione di un rapporto affettivo fisiologico con la figura stessa.

Fatta questa premessa, secondo il ricorrente poiché l'art. 58-quater, comma 1, ord. pen. non menziona la misura alternativa della detenzione domiciliare “speciale”, rispetto a essa non varrebbe la preclusione, ivi stabilita, all'ulteriore concessione di benefici penitenziari; di conseguenza, nel caso di specie, la pregressa revoca della semilibertà non poteva essere, di per sé, ostativa alla valutazione nel merito dell'istanza proposta dal condannato e quindi il provvedimento di inammissibilità dell'istanza emesso dal presidente del tribunale era da considerare illegittimo. In tale ottica si è perciò sostenuto nel ricorso che una diversa interpretazione costituirebbe un'ingiustificata applicazione analogica, in malam partem, di disposizioni penali, e sarebbe perciò lesiva dell'interesse del minore, a protezione del quale, in ossequio a precise indicazioni d'ordine costituzionale, la misura alternativa in esame sarebbe stata istituita.

La questione di diritto che emerge dal ricorso consiste quindi nello stabilire se il divieto triennale di concessione delle misure alternative, derivante dalla revoca di altra misura (nella specie la semilibertà), previsto dall'art. 58-quater ord. pen., operi anche rispetto alla concessione della detenzione domiciliare cosiddetta «speciale» di cui all'art. 47-quinquies, malgrado la sua mancata indicazione da parte della norma che pone siffatto divieto.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte aveva già deciso un caso analogo con la sentenza Sez. I, n. 28712/2002, la cui massima ha affermato:

«La detenzione domiciliare speciale prevista dall'art. 47-quinquies della legge 26 luglio 1975 n. 354, pur avendo un ambito di applicazione ampliato rispetto all'ipotesi di detenzione domiciliare ordinaria, non si sottrae ai divieti cui è soggetta quest'ultima, previsti dall'art. 58-quater della stessa legge, e quindi non può essere concessa al condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale a norma dell'art. 47, comma 11, citata legge«.

A sostegno di tale interpretazione la Cassazione ha evidenziato che l'art. 58-quater, comma 1, ord. pen. fa espresso riferimento alla detenzione domiciliare senza altra specificazione, lasciando in tal modo intendere che la locuzione ricomprenda tutti i casi di detenzione domiciliare. Infatti, è stato osservato che il primo comma dell'art. 58-quater ord. pen., che delimita la sfera di operatività del divieto, è stato integralmente riscritto dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (art. 7, comma 6), quindi successivamente rispetto alla citata legge 40 del 2001. Secondo la Corte se il Legislatore, dunque, avesse voluto realmente affrancare dalla disciplina preclusiva la detenzione domiciliare «speciale», ormai presente nel sistema, lo avrebbe certamente esplicitato nel nuovo testo.

È stato poi sviluppato un argomento logico-sistematico difficilmente superabile: si è affermato che se la tesi del ricorrente fosse presa per buona si verificherebbe una evidente incongruenza. Il divieto di concessione di nuova misura alternativa continuerebbe infatti a esistere, pacificamente, per i casi di cui all'art. 47-ter, comma 1, lett. a) e b), ord. pen., (ossia ipotesi di detenzione domiciliare concessa in favore di donne incinta o di genitori di prole di età inferiore ad anni dieci con essi conviventi) e sarebbe paradossalmente inoperante, a parità di presupposti giustificativi, nel caso della detenzione domiciliare di cui all'art. 47-quinquies, dove anzi più rilevante è la pena residua che il condannato deve espiare.

Tale argomentazioni sono state fatte proprie dalla sentenza in commento, la quale ha però sollevato dei dubbi di costituzionalità, con riferimento agli artt. 3, 29, 30, 31 Cost., dell'art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, ord. pen., nella parte in cui essi, nel loro combinato disposto, prevedono che non possa essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare speciale, prevista dall'art. 47-quinquies della stessa legge 354 del 1975, al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, ai sensi dell'art. 47, comma 11, dell'art. 47-ter, comma 6, o dell'art. 51, comma 1, della legge medesima.

Ad avviso della Cassazione: «Il dubbio di legittimità costituzionale è alimentato, anzitutto, dalle considerazioni che hanno già indotto la Corte costituzionale, nella sentenza n. 239 del 2014, a dichiarare, tra l'altro, l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ord. pen., nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura prevista dall'art. 47-quinquies dello stesso ordinamento. In questa pronuncia si sottolinea il prioritario rilievo che, nell'economia dell'istituto, assume l'interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età, ad instaurare un rapporto quanto più possibile «normale» con la madre (o, eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo; interesse che - oltre a chiamare in gioco l'art. 3 Cost., in rapporto all'esigenza di un trattamento differenziato - evoca ulteriori parametri costituzionali (tutela della famiglia, diritto-dovere di educazione dei figli, protezione dell'infanzia: artt. 29, 30 e 31 Cost.)».

È stata poi richiamata la sentenza della Corte cost. 76 del 2017 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione dell'art. 31, comma 2, Cost. – l'art. 47-quinquies, comma 1-bis, della l. 354/1975, limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'articolo 4-bis». La disposizione censurata che, nel significato reso palese dalla sua formulazione letterale, impediva in assoluto alle predette condannate, anche laddove si sia verificata la condizione della collaborazione con la giustizia, di espiare la frazione iniziale di pena detentiva secondo le modalità agevolate ivi previste (presso un istituto a custodia attenuata, o, ricorrendone le condizioni, nel domicilio o presso luoghi di cura, assistenza o accoglienza) – introduceva un automatismo preclusivo dell'accesso a un istituto, come la detenzione domiciliare speciale, primariamente volto alla salvaguardia del rapporto della madre condannata con il minore in tenera età. Secondo la Corte costituzionale tale preclusione assoluta – lungi dal costituire bilanciamento di contrapposti interessi di rilievo costituzionale - non consentendo al giudice di verificare la sussistenza in concreto, nelle singole situazioni, delle esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria espiazione della pena detentiva da parte delle madri di minori infradecenni condannate per uno dei reati inclusi nell'elenco (complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità) dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario – ignorava e sacrificava totalmente l'interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile "normale" con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata (non estranea alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa alla detenzione).

Sulla scia delle citate sentenze della Consulta, i giudici della prima sezione la Corte di cassazione affermano perciò che «L'art. 58-quater, primo e secondo comma, ord. pen. – nell'inibire, nei confronti del condannato resosi responsabile di condotte che hanno determinato la pregressa revoca di una delle misure alternative ivi indicate, l'accesso alla detenzione domiciliare “speciale” – pone una siffatta presunzione assoluta, da ritenere in contrasto, per tutte le considerazioni svolte, sia con il principio di eguaglianza formale (art. 3 Cost.), per l'indebita parificazione di situazioni di espiazione soggettivamente differenziate, sia con le disposizioni costituzionali a tutela della famiglia (art. 29, comma 1), del rapporto di genitorialità (art. 30, comma 1) e dell'infanzia (art. 31, comma 2), che restano compromesse al di fuori del necessario prudente apprezzamento delle circostanze della vicenda concreta».

Osservazioni

L'istituto della detenzione domiciliare speciale, pur partecipando della finalità di reinserimento sociale del condannato, è primariamente indirizzato a consentire l'instaurazione, tra madri detenute (e in alcuni casi i padri ai sensi del comma 6) e figli in tenera età, di un rapporto quanto più possibile "normale". In tal senso, si tratta di un istituto in cui assume rilievo prioritario la tutela di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, qual è il minore ( in tal senso si vedano anche le sentenze della Corte cost. n. 239 del 2014, n. 177 del 2009 e n.350 del 2003).

Secondo la Consulta affinché il preminente interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine, la legge deve consentire che la sussistenza e la consistenza di queste ultime siano verificate in concreto, e non già sulla base di automatismi che impediscono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni. Non si è quindi in presenza di un bilanciamento tra principi - e di una ragionevole regola legale - se il legislatore, impedendo al giudice di verificare in concreto, nelle singole situazioni, la sussistenza e consistenza delle esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore, introduce un automatismo basato su presunzioni insuperabili, il quale comporta il totale sacrificio dell'interesse del minore (così anche la sentenza n. 239 del 2014 ). La sentenza n. 76 del 2017 ha perciò concluso che non è giustificato da finalità di prevenzione generale o di difesa sociale che – per una sorta di esemplarità della sanzione – la madre condannata per uno dei delitti elencati dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario debba inevitabilmente espiare in carcere la prima frazione di pena detentiva necessaria per accedere alla detenzione domiciliare speciale. Infatti, le esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica criminale non possono essere perseguiti attraverso l'assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole.

Si può quindi affermare che la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato in numerose occasioni la speciale rilevanza dell'interesse del figlio minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, ed ha riconosciuto che tale interesse è complesso e articolato in diverse situazioni giuridiche, che trovano riconoscimento e tutela sia nell'ordinamento costituzionale interno - il quale demanda alla Repubblica di proteggere l'infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, comma 2, Cost.) - sia nell'ordinamento internazionale, nel quale gli artt. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo, e 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Ue qualificano come "superiore" l'interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative ad esso, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, tale interesse deve essere considerato "preminente": precetto, questo, che assume una pregnanza particolare quando si discuta dell'interesse del bambino in tenera età a godere dell'affetto e delle cure materne. L'elevato rango dell'interesse del minore a fruire in modo continuativo dell'affetto e delle cure materne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali sono quelli di difesa sociale, sottesi alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato. Tale bilanciamento, in via di principio, è rimesso alle scelte discrezionali del legislatore e può realizzarsi attraverso regole legali che determinano, in astratto, i limiti rispettivi entro i quali i diversi principi possono trovare contemperata tutela.

L'affermazione consolidata di questi principi lascia prevedere che la questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici di legittimità troverà facile accoglimento presso la Corte costituzionale, che utilizzerà i suoi numerosi precedenti tutti volti ad eliminare automatismi nelle preclusioni, a maggior ragione se in ballo sono gli interessi del minore, soggetto estraneo alla commissione dei reati.

Va peraltro ricordato che la delega conferita al Governo dalla legge 103 del 23 giugno 2017 (c.d. legge Orlando) in materia di riforma dell'ordinamento penitenziario, prevede espressamente la necessità di adottare modifiche volte «alla revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori e di garantire anche all'imputata sottoposta a misura cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia compiuto il primo anno di età» (art. 1, comma 85, lett. e), sempre nell'ottica di offrire una maggior tutela al rapporto genitore/figli minori, e di superamento di automatismi preclusivi che impediscono tale tutela nel singolo caso.

Guida all'approfondimento

DELVECCHIO F., La detenzione domiciliare speciale fra rapporto genitoriale e istanze punitive statali, inProc. Pen. e Gius., 2017, fasc. 4, pagg. 584 ss.;

FARINELLI E., Verso il superamento delle presunzioni penitenziarie tra ragionevolezza in concreto e prevalenza dello “speciale interesse del minore”, inProcesso penale e giustizia, 2017, fasc. 5, pagg. 866 ss.

MENGHINI A., Cade anche la preclusione di cui al comma 1-bis dell'art. 47-quinquies ord. penit., in Dir. Pen. e Proc., 2017, fasc. 8, pagg. 1047 ss.

TIBERIO M., La detenzione domiciliare speciale nella lettura della Corte costituzionale, in Archivio della nuova procedura penale, 2017, fasc. 6, pagg. 593 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario