La motivazione “culturale” della condotta può incidere sulla consapevolezza della sua illiceità penale?

24 Settembre 2018

Fino a che punto ai fini dell'accertamento del reato, si può o si deve tenere conto, delle tradizioni religiose e del retroterra etnico e culturale del destinatario della norma penale?
Massima

Ai fini della valutazione della sussistenza della consapevolezza dell'illiceità penale della condotta, può essere presa in considerazione la categoria dei reati culturalmente orientati o culturalmente motivati, purché all'esito di un rigoroso bilanciamento tra il diritto involabile del soggetto agente a non ripudiare le proprie tradizioni culturali, religiose e sociali e i valori offesi o posti in pericolo dal suo comportamento.

(In motivazione la Corte ha precisato che, per compiere il giudizio indicato, è utile accertare la matrice religiosa o giuridica della regola culturale in adesione alla quale è stato commesso il fatto, il suo effettivo carattere vincolante nella comunità di origine dell'imputato ed il grado d'inserimento dell'immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d'arrivo).

Il caso

L'imputato veniva tratto a giudizio perché, in violazione degli artt. 81 e 609-bis c.p. e art. 609-ter c.p., in più occasioni, abusando della sua autorità di padre, del divario di età e della condizione di immaturità del figlio minore, con violenza consistita nell'abbassargli velocemente i pantaloni, lo costringeva a compiere e a subire atti sessuali, come palpeggiamenti nelle parti intime e rapporti orali. La moglie, invece, era rinviata a giudizio, poiché, violando gli artt. 40, 81, 609-bis e 609-ter c.p., nonostante l'obbligo giuridico di evitare i gravi abusi perpetrati ai danni del figlio, non interveniva pur essendone a conoscenza e perché minacciava in strada un'insegnante del figlio, che aveva segnalato insieme ad una collega gli abusi subiti dal minore, con la seguente frase: “Hai rovinato la mia famiglia... Ti devo vedere sotto terra a te e all'altra”.

Il tribunale assolveva entrambi dalla contestazione di violenza sessuale, con la formula il fatto non costituisce reato; inoltre, dopo aver escluso la sussistenza dell'aggravante della gravità del fatto, dichiarava non doversi procedere per il reato di minaccia, attribuito alla sola donna, in quanto mancava la necessaria condizione di procedibilità, non avendo la persona offesa presentato querela.

La decisione assolutoria del collegio di primo grado – secondo la lettura che ne è stata data dalla Corte di cassazione – si fonda su un'interpretazione culturalmente orientata dei fatti, alla stregua della quale nella cultura di appartenenza degli imputati, immigrati in Italia da una zona rurale dell'Albania, le condotte accertate sarebbero prive di disvalore e, quindi, consentite o, quanto meno, tollerate.

Secondo il tribunale, in particolare, sulla base delle prove raccolte nel corso dell'istruttoria dibattimentale, tra cui anche i dati desunti dalle intercettazioni ambientali eseguite nella sala colloqui del carcere di Reggio Emilia, non ricorre alcun dubbio sulla sussistenza dei fatti materiali.

Nessuna incertezza, inoltre, può porsi circa la natura “sessuale” degli atti contestati, poiché «quale che sia la concezione di atto sessuale che si adotti, nessuno dubita che nel nostro ordinamento il contatto con l'organo genitale maschile, il bacio o ancor più l'inserimento in bocca del pene integri un atto sessuale in quanto invasivo della sfera sessuale, e integrante un rapporto del corpo dell'agente con parti del corpo della vittima naturalmente idonee a produrre stimolazione sessuale». Sul punto, tra l'altro, le docenti avevano riferito delle confidenze giocose ricevute dal minore di anni cinque, il quale aveva raccontato gli atti subiti dal padre (“me lo ciuccia come un biberon”), simulando tali gesti con un cucchiaino.

Il collegio di primo grado, tuttavia, ha ritenuto che mancasse l'elemento soggettivo del reato. Secondo il tribunale, infatti, il dolo assume connotazioni differenziate alla luce della valenza culturale del fatto. Tale profilo può influire sulla coscienza dell'antigiuridicità della condotta e sulla comprensione di fattispecie penali che presentano specifiche caratteristiche culturali, determinando una condizione di ignoranza inevitabile del precetto sanzionatorio.

La condotta degli imputati, nati e cresciuti in un diverso contesto culturale, in altri termini, non sarebbe stata accompagnata «dalla coscienza del carattere oggettivamente sessuale secondo la nostra cultura di riferimento, del bacio e tanto più del succhiotto sul pene del bambino anche quando effettuato dal genitore […]».

La Corte d'appello confermava la sentenza assolutoria, adottando la medesima formula (il fatto non costituisce reato), ancorché con una motivazione diversa.

Il collegio di appello, infatti, riteneva che i fatti, anche sul piano materiale, non integrassero il reato contestato, traducendosi in meri «gesti di affetto e di orgoglio paterno nei confronti del figlio maschio, assolutamente privi di qualsiasi implicazione di carattere sessuale e indicati come rispondenti a tradizioni di zone rurali interne dell'Albania, Paese di origine degli imputati». Per tale ragione, la Corte escludeva la sussistenza tanto dell'elemento oggettivo del delitto – perché le condotte non presentavano un intrinseco significato sessuale e un'obiettiva attitudine offensiva dell'altrui sfera sessuale, derivando piuttosto da «una commistione di abitudini del gruppo sociale di appartenenza, con una chiara manifestazione ludica, ultra affettiva e dimostrativa dell'orgoglio per l'unico figlio maschio» – quanto di quello soggettivo, non essendo gli atti diretti in alcun modo a soddisfare «qualche forma di concupiscenza sessuale nei confronti del minore».

Avverso questo provvedimento, il pubblico ministero proponeva ricorso per cassazione, deducendo, tra l'altro, che la Corte di appello avrebbe errato nel pervenire all'assoluzione per l'assenza della componente soggettiva del reato e nel sostenere che, alla luce della dinamica dei fatti ed anche della tradizione culturale del Paese d'origine dell'imputato, il gesto non sarebbe stato volto a soddisfare la concupiscenza dell'aggressore o ad invadere la sfera sessuale della persona offesa. La stessa affermazione del fondamento culturale degli atti del genitore sarebbe stata erroneamente fondata sulle sole dichiarazioni degli imputati e dei loro parenti nonché su una lettera inviata dal Prefetto di una delle Province dell'Albania, documento privo di autenticazione nel quale si riferiva solo che, in alcune zone rurali di tale nazione, costituirebbe una tradizione accarezzare il figlio maschio nelle parti intime, come augurio di prosperità.

La questione

In un momento storico caratterizzato da un massiccio fenomeno di flussi migratori in Europa e dal conseguenziale imporsi del c.d. multiculturalismo, derivante dalla progressiva integrazione dei migranti nella società di arrivo, è possibile un'applicazione culturalmente differenziata del diritto penale? Fino a che punto, in altri termini, ai fini dell'accertamento del reato, si può o si deve tenere conto, delle tradizioni religiose e del retroterra etnico e culturale del destinatario della norma penale?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione ha premesso che il diritto penale risente fortemente dell'evoluzione della cultura e della sensibilità diffuse. Sotto tale profilo, seppur con riferimento a fattispecie diverse da quella in esame, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che occorre promuovere un approccio esegetico che consideri il mutamento del costume e del sentire sociale, i quali sono in continuo divenire. Le decisioni, infatti, devono costituire il prodotto di una «interpretazione contestualizzata in relazione al momento storico, più che una tralatizia ripetizione di concetti come “il comune sentire” o “la pubblica decenza”, ritenuti erroneamente scontati e immutevoli» (così, Cass. pen., n. 39860/2014).

L'interpretazione delle norme penali, pertanto, deve risentire del momento storico e culturale di riferimento.

In questa prospettiva è emersa in dottrina la categoria dei reati culturalmente orientati o culturalmente motivati, la quale è stata progressivamente delineata in conseguenza dell'imponente flusso migratorio che, in questo periodo storico, raggiunge l'Europa e, più in generale, del fenomeno della cd. globalizzazione.

La categoria dei reati “culturalmente motivati” rappresenta proprio il tentativo di dare rilievo nel diritto penale al c.d. multiculturalismo, che ormai caratterizza la società moderna e che discende dalla integrazione dei migranti nella società.

Nessun sistema penale, invero, per quanto voglia essere aperto al rispetto di tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino o dello straniero, può abdicare, alla punizione di fatti che colpiscano o che mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza, come i diritti inviolabili dell'uomo e i beni ad essi collegati, tutelati dalle fattispecie penali.

Il Legislatore, difatti, ha considerato la peculiare posizione dell'immigrato, prevedendo, quale circostanza aggravante la «finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso», prevista dal d.l. 26 aprile 1993, n. 122, art. 3, comma 1, convertito nella legge 205/1993; nel contempo, ha incriminato condotte che, seppur conformi a credenze religiose, sociali e culturali, confliggono con beni rilevanti che non tollerano compressione come la salute o l'integrità fisica. È il caso della repressione penale dell'infibulazione, stabilita dall'art.583-bis c.p., inserito nel codice penale dalla legge 7 del 2006 (cfr. Cass. pen., n. 46300/2008).

La categoria dei reati culturalmente orientati, pertanto, ancorché non uniforme nella casistica, può essere impiegata dall'interprete per la qualificazione del fatto e, in particolare, per apprezzare l'incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell'illiceità penale della condotta da parte dell'agente. A tal proposito, però, è necessario procedere al rigoroso bilanciamento tra il diritto del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali e i valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta.

Al fine di compiere tale giudizio, in particolare, è utile l'esatta qualificazione della natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato, se di matrice religiosa o anche giuridica (come accade laddove la norma culturale trova un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto positivo vigente nell'ordinamento giuridico del Paese di provenienza dell'immigrato, dovendosi ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e, quindi, alla colpevolezza del fatto commesso), e del suo effettivo carattere vincolante.

Occorre anche accertare se la regola culturale è rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale di appartenenza dell'immigrato o sia piuttosto desueta ovvero poco diffusa anche in quel contesto.

Assume rilievo, infine, il grado di inserimento dell'immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d'arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d'origine, aspetto, quest'ultimo, relativamente indipendente dal tempo di permanenza nel nuovo Paese.

Sulla base di queste coordinate interpretative, la Corte di cassazione ha reputato carente la motivazione della sentenza di appello nella parte in cui ha affermato il fondamento culturale della condotta dell'imputato e il rilievo nel caso di specie del supposto rispetto di una tradizione rispetto alla consapevolezza dell'illiceità penale della condotta.

L'insufficienza motivazionale, in particolare, riguarda il mancato esame delle deduzioni della pubblica accusa circa l'assenza di prova della sussistenza della tradizione culturale. La sua esistenza, nella sentenza impugnata, è stata desunta dalle dichiarazioni degli imputati, dei loro familiari e da una nota apparentemente rilasciata dalla prefettura della provincia di Vlore, in Albania, priva, peraltro, di elementi da cui desumerne l'ufficialità. Questo documento, tuttavia, attesta soltanto l'esistenza di un uso locale per cui il padre manifesta affetto per il proprio figlio, accarezzandolo nelle parti intime al fine di esprimere un auspicio di prosperità e di continuità della generazione. L'esistenza di tale tradizione, però, non solo è stata esclusa dal consulente del pubblico ministero, sia pure sulla base di mere indagini sommarie in letteratura ma è stata anche ridimensionata dal fatto che, nel caso di specie, non si trattava di mere occasionali carezze, ma di rapporti orali.

Secondo la Corte, poi, il vizio della motivazione riguarda anche l'affermazione dell'ignoranza da parte degli imputati e della loro famiglia dell'offensività della condotta posta in essere ai danni del figlio minore, così come quella relativa all'ignoranza dell'esistenza della norma penale incriminatrice di essa.

Doveva essere considerato, infatti, che gli imputati «oltre a risultare ben integrati nel tessuto sociale ove vivevano e lavoravano da anni (tanto che i fatti emergono nel contesto scolastico ove il proprio figlio era collocato), allegano a propria discolpa una ignoranza che non assumerebbe rilevanza anche nel paese di origine, ove i medesimi fatti risultano sanzionati penalmente».

La Corte, inoltre, ha ravvisato anche il vizio di violazione di legge in merito all'interpretazione della natura sessuale degli atti posti in essere. Il collegio di appello, infatti, ha fondato il proprio giudizio su una nozione “soggettivistica” di atti sessuali, affermando erroneamente che la condotta non presenterebbe una valenza sessuale per il soggetto agente, non risultando compiuta per soddisfare la concupiscenza ma solo per esprimere affetto e orgoglio paterno conformemente alla presunta tradizione.

Secondo l'indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità, invece, devono essere considerati sessuali tutti gli atti indirizzati verso zone erogene, che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e a entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate esemplificativamente dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica. Tra questi vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica (Cass. pen., n. 7772/2000; Cass. pen., n. 4402/2000; Cass. pen., n. 20754/2013; Cass. pen., n. 4913/2015 ; Cass. pen., n. 21020/2014).

In forza di tale orientamento deve ritenersi che ogni atto invasivo della sfera sessuale di un soggetto, in mancanza del consenso di quest'ultimo, leda tale bene giuridico, a prescindere dal motivo per il quale il soggetto agente lo abbia posto in essere.

Quando, poi, come nel caso di specie, le vittime di violenze sessuali sono minori, l'oggetto di tutela risulta rafforzato, perché il delitto di cui all'art. 609-quater c.p. tutela l'integrità fisio-psichica del minore nella prospettiva di un corretto sviluppo della personalità sessuale, garantendone l'assoluta intangibilità nell'ipotesi di minore degli anni quattordici, come nella specie, e si configura anche in assenza di pressioni coercitive (cfr. Cass. pen., n. 29662/2004; Cass. pen., n. 24258/2010).

Il vizio della motivazione della sentenza di appello, inoltre, è stato ravvisato anche con riferimento all'esclusione dell'aggravante della gravità della minaccia. In materia di reati contro la persona, ai fini della configurabilità del reato di minaccia grave di cui all'art. 612, comma 2, c.p., rileva l'entità del turbamento psichico che l'atto intimidatorio può determinare sul soggetto passivo. Non è necessario, pertanto, che la minaccia di morte sia particolarmente specificata, ben potendo benissimo produrre un grave turbamento psichico anche se pronunciata in modo generico (Cass. pen., n. 44382/2015; Cass. pen., n. 35593/2015).

Nel caso di specie, la Corte di merito non ha tenuto conto neppure di tale ultimo principio, non valutando adeguatamente se le minacce di morte, per le circostanze di tempo e di luogo, oltre che per il tenore letterale, potessero essere ritenute gravi.

Osservazioni

1. Per reato culturalmente motivato s'intende «un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo etnico di minoranza, che è considerato reato dalle norme del sistema della cultura dominante. Lo stesso comportamento, nella cultura del gruppo di appartenenza dell'agente, è invece condonato, accettato come normale, o è approvato, o, in determinate situazioni, è addirittura imposto» (DE MAGLIE, Culture e diritto penale. Premesse metodologiche, in Riv. it. dir. proc. pen. 2008, 1088).

L'elemento caratterizzante di questa categoria di reati, che è stata delineata dalla dottrina, è il conflitto tra la norma penale di un certo territorio e la cultura dello Stato d'origine dell'agente. Questo conflitto genera un dilemma interiore che, nel caso concreto, è risolto dall'agente in favore della sua cultura d'origine (HELFER, Reati culturalmente motivati, in Digesto disc. pen. 2018, 1).

Il riconoscimento di un'eventuale rilevanza nel diritto penale del fattore culturale presuppone una questione di fondo che consiste nella difficoltà di conciliare il principio di uguaglianza e l'inviolabilità dei diritti dell'uomo con le esigenze legate all'organizzazione della vita comune in una società multiculturale.

Nel moderno stato di diritto, infatti, per un verso, si vuole riconoscere e rispettare l'identità del singolo, accettandone la diversità culturale o religiosa; per altro verso, per garantire lo svilupparsi della vita civile, occorre limitare le aspettative delle singole persone. Un'organizzazione sociale senza alcun compromesso, infatti, sarebbe inconcepibile.

Si comprende agevolmente quanto sia difficile bilanciare la tutela degli interessi della comunità e quella da riservarsi al singolo e ai suoi bisogni e desideri individuali, individuando soluzioni che possano soddisfare al tempo stesso e in misura ponderata entrambe le posizioni, anche soltanto in parte.

2. Tanto premesso, volendo analizzare il possibile impatto della matrice culturale dell'azione sulla struttura del reato, indagando sugli spazi normativi utili per la considerazione della diversità culturale, secondo la dottrina un'eventuale rilevanza penale di tale fattore sul piano del fatto tipico può dipendere solo dalla decisione del Legislatore stesso di costruire un reato attorno a detta origine, individuando nella "cultura diversa" un momento decisivo per poter affermare un minore o maggiore disvalore sociale del fatto rispetto ad uno commesso in assenza di tale elemento specializzante.

Nel nostro ordinamento, peraltro, l'incriminazione di condotte come le mutilazioni genitali femminili e l'accattonaggio dei minori sono indicative dell'impostazione di fondo tendente ad escludere che i dati culturali possano incidere sul fatto tipico.

La rilevanza della motivazione culturale, inoltre, potrebbe avere un rilievo come causa di giustificazione, escludendo l'antigiuridicità del fatto. Sul punto, però, in dottrina si osserva che i motivi che hanno spinto l'autore a commettere un determinato reato non possono essere considerati come giuridicamente rilevanti pro reo, integrando cause di giustificazione, qualora derivino da regole sociali della comunità minoritaria, di cui l'autore è membro, che esulano dall'ordinamento giuridico. Una considerazione a favore del reo del fattore culturale sul piano delle scriminanti richiederebbe il riconoscimento delle regole culturali di minoranza come

norme giuridiche interne, del diritto penale o di un altro ramo dell'ordinamento.

Sul piano della colpevolezza, infine, la considerazione del condizionamento culturale dell'autore è ipotizzabile nella valutazione dell'imputabilità o dell'ignoranza scusabile della legge penale.

Nella prima prospettiva, anche sulla base degli apporti scientifici più moderni, si deve sostenere che il condizionamento culturale non esclude la capacità di volere, vale a dire la capacità di autodeterminarsi. Il retroterra culturale dell'agente, infatti, non gli impedisce di comprendere il significato deplorevole di un fatto, pur se, alla stregua di tutte le altre circostanze di vita ed esperienze, passioni ed emozioni, rileva sul processo motivazionale dell'individuo, turbando la coerenza consequenziale tra intelletto e volontà.

L'eventuale esclusione della colpevolezza dell'agente per l'ignoranza della norma incriminatrice da parte dell'autore a causa delle diverse regole culturali che orientano il suo agire, invece, va vagliata alla luce dell'interpretazione dell'art. 5 c.p. offerta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988. Occorre accertare, pertanto, che l'ignoranza sia stata inevitabile. Ciò può ricorrere nel caso in cui il soggetto si trovi sul territorio nazionale soltanto da breve tempo e sempre che il precetto penale ignorato riguardi beni giuridici di rilevanza non primaria.

L'ignoranza, in altri termini, può vertere su reati di pura creazione legislativa ma assai difficilmente potrebbe essere riscontrata con riferimento ai reati naturali o mala in se.

Il fattore culturale, infine, può assumere un significato ai fini dell'accertamento delle circostanze del reato e in occasione dell'operazione di commisurazione della pena. Uno spazio per il riconoscimento della diversità anche delle tradizioni, in particolare, potrebbe ravvisarsi, in virtù della previsione normativa, per l'attenuante del particolare valore morale e sociale e per l'aggravante dei futili motivi.

3. In questo contesto, la sentenza illustrata si segnala perché, sul presupposto secondo cui il diritto penale risente dell'evoluzione della cultura e della sensibilità diffusa, ha riconosciuto l'esistenza della categoria elaborata dalla dottrina dei reati culturalmente orientati o culturalmente motivati, affermando che essa, ancorché non uniforme nella casistica, può essere impiegata dall'interprete per valutare l'incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell'illiceità penale della condotta da parte dell'agente. A tal proposito, però, è necessario procedere al rigoroso bilanciamento tra il diritto del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali e i valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta.

La decisione, pertanto, sembra individuare il percorso necessario per compiere questo bilanciamento.

In particolare, occorre procedere all'esatta qualificazione della natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato. A tal proposito va accertato se essa sia di matrice religiosa o anche giuridica. Talune regole culturali, infatti, possono trovare un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto positivo vigente nell'ordinamento giuridico del Paese di provenienza dell'immigrato. Tale circostanza incide sulla consapevolezza dell'antigiuridicità della condotta, soprattutto perché ne sostiene l'affermazione del suo carattere vincolante.

È necessario anche accertare se la norma è rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o sia piuttosto desueta ovvero poco diffusa anche in quel contesto. Una regola non vincolante neppure per la comunità sociale di appartenenza non potrebbe dimostrare l'ignoranza della norma penale.

Assume rilievo, infine, il grado di inserimento dell'immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d'arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d'origine, aspetto relativamente indipendente dal tempo di permanenza nel nuovo Paese.

L'applicazione nel processo penale di queste coordinate interpretative, peraltro, appare tutt'altro che agevole, presupponendo indagini di difficile realizzazione nel giudizio. Di esse, invero, vi è traccia anche nel caso di specie, nella parte in cui la sentenza rinvia all'esame di un consulente tecnico del pubblico ministero evidentemente incaricato di accertare l'esistenza della trazione culturale dedotta dagli imputati.

Nel rispetto degli oneri probatori, tuttavia, sembra possa sostenersi che l'esistenza di regole vincolanti derivanti dalla tradizione culturale o religiosa debba essere provata dall'imputato che afferma di aver commesso il fatto ignorando la norma incriminatrice o, quanto meno, può affermarsi che questi debba almeno a fornire un principio di prova di detta tradizione cogente.

4. L'analisi dei repertori giurisprudenziale, peraltro, manifesta abbastanza chiaramente come il modello italiano non sia particolarmente incline a valorizzare il fattore culturale al fine di ritenere il reato scriminato o di escludere la sussistenza della consapevolezza dell'illiceità penale del fatto, soprattutto se l'azione motivata dal rispetto di una tradizione culturale o religiosa lede o mette in pericolo beni giuridici di primaria rilevanza.

Limitando l'indagine ai reati contro la famiglia e a quelli contro la libertà sessuale, è stato affermato che lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia e di violenza sessuale non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare - in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica (Cass. pen., n. 14960/2015).

In particolare, secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di maltrattamenti in famiglia:

  • non assumono alcuna incidenza scriminante eventuali pretese o rivendicazioni legate all'esercizio di particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare – nella fattispecie dipendenti dallo stato di clandestinità della persona offesa e dalla prospettata sua disillusione per la mancata sua emancipazione sociale all'atto dell'ingresso in Italia – in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano nonché con il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (Cass. pen., n. 19674/2014);
  • integra il delitto la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l'agente è portatore (Cass. pen., n. 48272/2009);
  • non rileva, per l'integrazione del reato in danno della moglie, il credo religioso dell'autore delle condotte, non potendo ritenersi che l'adesione ad un credo, che non sancisca la parità dei sessi nel rapporto coniugale, giustifichi i maltrattamenti in danno della moglie (Cass. pen., n. 32824/2009);
  • l'elemento soggettivo del reato è integrato dalla condotta dell'agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata, non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta nei rapporti interpersonali (Cass. pen., n. 46300/2008; Cass. pen., n. 55/2002);
  • non rileva, ai fini dell'esclusione del dolo, la circostanza che il marito abbia agito sulla base della convinzione della superiorità della figura maschile all'interno della famiglia e della conseguente legittimità di atteggiamenti "padronali" nei confronti della moglie (Cass.n. 26153/2011).

In tema di violenza sessuale, invece, la Corte di legittimità ha affermato che:

  • il delitto è integrato ogni qual volta sia lesa la libertà dell'individuo di poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia, senza condizionamenti di ordine fisico o morale; con la conseguenza che non hanno diritto di cittadinanza, nella valutazione della condotta criminosa, eventuali giustificazioni dedotte in nome di presunti limiti o diversità culturali nella concezione del rapporto coniugale, posto che le stesse porterebbero al sovvertimento del principio dell'obbligatorietà della legge penale e all'affievolimento della tutela di un diritto assoluto e inviolabile dell'uomo quale è la libertà sessuale (Cass. pen., n. 37364/2015).
Guida all'approfondimento

DE MAGLIE, Culture e diritto penale. Premesse metodologiche, in Riv. it. dir. proc. pen. 2008, 1088;

HELFER, Reati culturalmente motivati, in Digesto disc. pen. 2018, 1;

PAVESI, Sull'esimente culturale dei reati contro la persona, nota a Cass. pen. Sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300, in Giur. It., 2010, 2.

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