Codice Civile art. 1136 - Costituzione dell'assemblea e validità delle deliberazioni 1 .

Alberto Celeste

Costituzione dell'assemblea e validità delle deliberazioni1.

[I]. L'assemblea in prima convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio.

[II]. Sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.

[III]. Se l'assemblea in prima convocazione non può deliberare per mancanza di numero legale, l'assemblea in seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima. L'assemblea in seconda convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero edificio e un terzo dei partecipanti al condominio. La deliberazione è valida se approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio.

[IV]. Le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore o le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore medesimo, le deliberazioni che concernono la ricostruzione dell'edificio o riparazioni straordinarie di notevole entità e le deliberazioni di cui agli articoli 1117-quater, 1120, secondo comma, 1122-ter nonché 1135, terzo comma, devono essere sempre approvate con la maggioranza stabilita dal secondo comma del presente articolo 2.

[V]. Le deliberazioni di cui all'articolo 1120, primo comma, e all'articolo 1122-bis, terzo comma, devono essere approvate dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio3.

[VI]. L'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati.

[VII]. Delle riunioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore.

 

[1] Articolo modificato dall'art. 14, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. Il testo precedente recitava: «[I]. L'assemblea è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e i due terzi dei partecipanti al condominio. [II]. Sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. [III]. Se l'assemblea non può deliberare per mancanza di numero, l'assemblea di seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima; la deliberazione è valida se riporta un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio. [IV]. Le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore o le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore medesimo, nonché le deliberazioni che concernono la ricostruzione dell'edificio o riparazioni straordinarie di notevole entità devono essere sempre prese con la maggioranza stabilita dal secondo comma. [V]. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni previste dal primo comma dell'articolo 1120 devono essere sempre approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell'edificio. [VI]. L'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione. [VII]. Delle deliberazioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascriversi in un registro tenuto dall'amministratore».

[2]  In deroga al presente comma v. art. 10, comma 9 d.l. 18 aprile 2019, n. 32, conv. con modif. in l. 14 giugno 2019, n. 55.

Inquadramento

Il codice civile, nella disciplina dedicata al condominio negli edifici (artt. 1117-1139), anche a seguito delle modifiche introdotte sul punto dalla l. n. 220 del 2012, non dà una definizione dell'assemblea, limitandosi a delinearne le attribuzioni nell'art. 1135 c.c., salvo poi specificare i requisiti per una valida costituzione e svolgimento nell'art. 1136 c.c. nonché prevedere le modalità per impugnare le relative deliberazioni nel successivo art. 1137 c.c.

Può, comunque, convenirsi che l'assemblea sia l'insieme dei condomini che si riuniscono per adottare le statuizioni necessarie ed opportune ad organizzare, pianificare e gestire la vita condominiale: è, in altri termini, l'organismo del condominio mediante il quale si forma e si esprime la volontà dei singoli partecipanti.

Nel condominio, la stessa assemblea costituisce l'organismo: a) naturale del condominio, perché non necessitante di alcuna nomina per poter operare b) permanente, nel senso che funziona sempre non richiedendo successive incardinazioni, e c) più importante, in quanto dotato dei maggiori poteri, decidendo, in buona sostanza, su ogni questione concernente sia le cose, gli impianti ed i servizi comuni, sia la regolamentazione delle relazioni tra i condomini (le sue attribuzioni possono spaziare dalla semplice amministrazione ordinaria ad atti di gestione di carattere straordinario).

Infatti, l'art. 1135 c.c., ai numeri da 1) a 4), menziona espressamente le attribuzioni specifiche dell'assemblea, tuttavia, dal sistema si ricava che l'assemblea rappresenta il massimo organismo deliberativo (oltre che di indirizzo e di controllo) del condominio, poiché essa decide l'approvazione, in sede preventiva e di rendiconto, di tutte le spese inerenti la gestione dei beni comuni, e, al contempo, nomina (e revoca) l'amministratore; quest'ultimo, invece, può svolgere funzioni meramente esecutive e conservative, è comunque tenuto a rendere alla prima il conto della sua gestione, e qualunque suo atto è suscettibile di ricorso all'assemblea ai sensi dell'art. 1133 c.c.

Peraltro, si ritiene che i poteri dell'assemblea condominiale riguardano, in linea generale, la disciplina, anche attraverso modificazioni ed innovazioni, della cosa comune, sicché la predetta disposizione deve essere integrata con tutti quei riferimenti ai poteri dell'organismo gestorio contenute in diverse altre norme del codice civile e delle leggi speciali.

Il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciute all'assemblea medesima dall'art. 1135 citato è stato ribadito dalla giurisprudenza, la quale ha aggiunto che l'assemblea può deliberare qualunque provvedimento, anche non previsto dalla normativa vigente o dal regolamento di condominio, sempre che non si tratti di provvedimenti volti a perseguire una finalità extracondominiale.

Nello specifico, l'art. 1136 c.c. – oggetto del presente commento – disciplina l'assemblea come iter, procedimento, fattispecie a formazione progressiva, dal momento della sua nascita a quello dell'epilogo, passando attraverso le varie fasi imprescindibili dedicate alla costituzione, allo svolgimento, alla decisione ed alla verbalizzazione.

Presidente

Uno dei primi incombenti nello svolgimento della riunione condominiale è costituito dalla nomina del presidente, anche se non esiste alcuna disposizione di legge che obbliga l'organismo deliberante a provvedere in tal senso.

L'unica norma che prevedeva tale soggetto avrebbe potuto rinvenirsi nell'art. 67, comma 3, disp. att. c.c. (peraltro, ad avviso di Trib. Tempio Pausania-Olbia 22 maggio 2006, non applicabile al regime della multiproprietà; contra, Trib. Bolzano 14 febbraio 2000).

La Riforma del 2013 ha espunto, però, la figura del presidente che, in mancanza di designazione del rappresentante in assemblea da parte dei comproprietari di un'unità immobiliare appartenente in proprietà indivisa a più persone, doveva provvedere «per sorteggio» (soluzione, quest'ultima, molto più veloce e pratica), laddove ora si prevede soltanto che tale designazione da parte degli interessati avvenga «a norma dell'art. 1106» c.c., contemplando, in difetto, un eventuale intervento dell'autorità giudiziaria in sede di volontaria giurisdizione).

Comunque, la figura del presidente – mutuata dalle assemblee per le società di capitali (v., ad esempio, gli artt. 2363,2371,2375,2379 c.c.) – anche se non espressamente prevista, svolge funzioni che si rivelano, nella pratica, di grande importanza al fine del buon svolgimento dell'assemblea, ed è oramai considerata una vera «costante» nelle riunioni condominiali, coinvolgendo questioni che concernono le fasi preliminari allo svolgimento dell'assemblea medesima.

Per quanto concerne in particolare la nomina del presidente, sembra che possa considerarsi sufficiente il voto della maggioranza semplice degli intervenuti, ossia basandosi sul mero dato numerico ed a prescindere dai millesimi, non rientrando la stessa nei quorum qualificati richiesti per i provvedimenti contemplati dall'art. 1136 c.c. (d'altronde, anche l'art. 2371 c.c., in tema di presidenza dell'assemblea nella società per azioni, parla di mera «designazione»).

Chiunque può ricoprire la carica di presidente, cioè può esserlo un condomino o un terzo munito di delega, un terzo estraneo, mentre appare inopportuno che l'amministratore possa arrogarsi tale potere (v. appresso).

Il presidente ha, innanzitutto, il compito primario di constatare la validità della costituzione dell'assemblea, e, quindi, da un lato, verificare accuratamente che tutti i condomini o gli «aventi diritto» – come prescrive il novellato comma 6 dell'art. 1136 c.c. – siano stati regolarmente e tempestivamente invitati alla riunione, e, dall'altro lato, che i condomini, presenti personalmente o per delega, permettano di raggiungere il quorum costitutivo e deliberativo (peraltro, ad avviso di Cass. II, n. 140/1985, l'irregolare costituzione dell'assemblea dei partecipanti non può essere provata in base ad una generica annotazione fatta in calce alla copia del verbale dell'assemblea inviata ai condomini assenti, richiedendosi al detto fine l'acquisizione particolareggiata e precisa di tutti gli elementi comprovanti l'esistenza del vizio denunciato).

In via preliminare, spetta, dunque, al presidente – sulla base dei documenti che l'amministratore ha messo a disposizione dei condomini o dello stesso presidente – acclarare: a) se i presenti sono legittimati ad intervenire, rimanendo, invece, preclusa ogni indagine relativa alla validità dei titoli, in quanto l'aggiornamento della c.d. anagrafe condominiale è compito dell'amministratore (v., attualmente, l'art. 1130, n. 6, c.c.), b) se i partecipanti hanno diritto di voto (allontanando eventuali terzi estranei alla compagine condominiale o esortando all'astensione quei condomini che si trovano in una situazione di conflitto di interessi; Triola, 1995, 1166), e c) se vi sia il prescritto requisito (numerico e millesimale) per deliberare, e quant'altro.

In quest’ottica, si è chiarito (Cass. II, n. 40827/2021) che, in tema di assemblea di condominio, la preventiva convocazione degli aventi diritto a parteciparvi integra un'incombenza, di regola, gravante sull'amministratore, nonché un requisito di validità di ogni deliberazione, spettando poi all'assemblea e, per essa, al suo presidente, il compito di controllare, sulla base dell'elenco di detti aventi diritto eventualmente stilato dall'amministratore, la regolarità degli avvisi di convocazione, nonché darne conto nel verbale della riunione, trattandosi di una delle prescrizioni di forma richieste dal procedimento collegiale, la cui inosservanza importa l'impugnabilità della delibera, in quanto non presa in conformità alla legge.

In proposito, mette punto rammentare che, all'assemblea, non dovrebbe intervenire alcun terzo estraneo alla compagine condominiale, che non sia stato delegato da un condomino, in qualità di spettatore o di consulente – a meno che rivesta la carica di presidente, segretario o amministratore – tuttavia, tale presenza può, talvolta, rivelarsi opportuna, come nel caso dell'intervento di un legale che esponga la situazione di diritto prima di decidere se intentare o meno una lite nei confronti di un condomino oppure dell'intervento di un ingegnere che offra il suo parere in ordine alla fattibilità di determinati ingenti lavori da approvare.

Dunque, una volta conclusi i predetti controlli preliminari, riguardanti la verifica se i presenti abbiano diritto di intervenire all'assemblea, quale sia il loro numero e quanti millesimi rappresentino, una volta verificata la rituale convocazione – invito a tutti i soggetti legittimati, informazione preventiva sulle materie da discutere, osservanza del termine di preavviso – una volta accertata la regolare costituzione (in prima o seconda convocazione) dell'assemblea stessa ed una volta nominato il segretario, si passa al momento, per così dire, dinamico della riunione, quello che attiene allo svolgimento dell'assemblea, che registra come sue fasi imprescindibili quelle della discussione, della votazione, della decisione e della verbalizzazione.

In quest'ottica, il presidente deve dirigere e condurre, in modo ordinato e proficuo, la discussione, cercando di circoscriverla nell'àmbito degli argomenti posti all'ordine del giorno, ed utilizzando i suoi poteri di disciplina, non escluso quello di sospendere temporaneamente la riunione – ad esempio, al fine di placare gli animi, acquisire un documento rilevante, sentire l'amministratore a chiarimenti, ecc. – per sollecitare la conclusione di interventi dei singoli partecipanti troppo lunghi o esulanti dall'oggetto della riunione condominiale.

Comunque, il presidente non può mai impedire ai condomini di esprimere, nel corso del dibattito, la loro opinione su argomenti indicati nell'avviso di convocazione, in quanto il condomino ha il diritto di rendere noto agli altri partecipanti le ragioni per cui ritiene di approvare o di rifiutare la proposta di deliberazione contenuta all'ordine del giorno (Cass. II, n. 2893/1984, ha ritenuto annullabile, ai sensi dell'art. 1137 c.c., la deliberazione adottata se risulta che sia menomato l'esercizio di tale potere).

Si è efficacemente puntualizzato (Cass. II, n. 24132/2009) che la funzione del presidente dell'assemblea è quella di garantire l'ordinato svolgimento della riunione e, a tal fine, egli ha il potere di dirigere la discussione, assicurando, da un lato, la possibilità a tutti i partecipanti di esprimere, nel corso del dibattito, la loro opinione sugli argomenti indicati nell'avviso di convocazione e curando, dall'altro, che gli interventi siano contenuti entro i limiti ragionevoli; ne consegue che il medesimo presidente, pur in mancanza di un'espressa disposizione del regolamento condominiale che lo abiliti in tal senso, può stabilire la durata di ciascun intervento (nella specie, dieci minuti), purché la relativa misura sia tale da assicurare ad ogni condomino la possibilità di esprimere le proprie ragioni su tutti i punti della discussione.

Comunque, tra i compiti principali del presidente dell'assemblea, vi è la direzione dell'adunanza (Izzo 2010, 893), attività questa difficile, considerando che, nella riunione condominiale, spesso si parla troppo, a sproposito, inutilmente, si dà vita ad interventi estemporanei, si dà sfogo a rancori personali o a ripicche, si trae spunto per trattare altri argomenti anche esulanti l'edificio e la sua convivenza all'interno di esso; a tal fine, occorre che il presidente si imponga, con la voce e con l'autorità della carica, ed eventualmente con l'esperienza acquisita in precedenti riunioni, altrimenti la discussione non avviene in modo ordinato e proficuo.

Appare preferibile seguire la discussione delle materie così come enumerate nell'ordine del giorno contenuto nell'avviso di convocazione, previa necessaria illustrazione dell'argomento in esso contenuto, ma nulla esclude la possibilità di cambiare, trattando prima alcuni argomenti e dopo altri, stabilendo sempre il modo ed i tempi della discussione.

Infine, il presidente deve mettere a verbale, in maniera succinta, l'esito della discussione e della votazione, e, al termine dell'assemblea, esaminare il verbale stesso – redatto dal segretario, v. appresso – e, quindi, controfirmarlo; in proposito, il n. 7) del novellato art. 1130 c.c. stabilisce che, nel registro dei verbali delle assemblee, siano annotate, altresì, «le eventuali mancate costituzioni dell'assemblea (e) le deliberazioni nonché le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne ha fatto richiesta» (aggiungendo che, allo stesso registro, va allegato il regolamento di condominio, ovviamente qualora quest'ultimo sia stato adottato).

Segretario

Va premesso che l'art. 1136, comma 7, c.c., a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 220/2012, è cambiato nel senso che, prima, la redazione del processo verbale – da trascriversi nel registro tenuto dall'amministratore (espressamente contemplato nel n. 7 dell'art. 1130 c.c.) – riguardava le «deliberazioni», laddove, oggi, si riferisce espressamente alle «riunioni», facendo intendere che la verbalizzazione sia imposta anche qualora l'assemblea vada deserta e non si adotti alcuna valida decisione.

Il segretario può essere nominato dai condomini presenti o dallo stesso presidente, quale aiutante e in quanto tale depositario della sua fiducia – nulla esclude che lo stesso presidente potrebbe provvedere lui stesso alla stesura del verbale – e svolge una funzione meramente materiale, essendo il suo compito limitato alla redazione del verbale, su dettatura del presidente, anche se, talvolta, può coadiuvare il presidente nella direzione dell'assemblea e nello svolgimento di alcune formalità.

L'assemblea è costituita soltanto dai suoi partecipanti, tra i quali non è da annoverare il segretario, che deve soltanto documentare l'attività che vi si svolge mediante la redazione del verbale, il che non esclude, ovviamente, l'esperibilità di tutti i mezzi di gravame nelle ipotesi di incompleta o falsa verbalizzazione.

Tuttavia, l'odierno ultimo comma dell'art. 1136 c.c. prevede che «delle riunioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascriversi nel registro tenuto dall'amministratore», il che induce a ritenere che l'ufficio di presidenza di cui sopra sia composto anche da un segretario (in mancanza di tale nomina, il verbale dovrà essere sottoscritto dai presenti).

Pacifico che la carica di segretario può essere ricoperta da un condomino o da un terzo munito di delega oppure da un terzo estraneo, l'unica questione che si è posta al riguardo è quella se l'amministratore possa svolgere (anche o solo) la funzione di segretario.

La soluzione negativa potrebbe fondarsi su ragioni di opportunità, che sconsiglierebbero di cumulare nella stessa persona la qualifica di legale rappresentante del condominio e segretario dell'organismo deliberante, sussistendo, in pratica, il timore di un'attività di influenza da parte dell'amministratore se interpellato dal presidente o dai partecipanti, oppure di una sua soggettiva stesura del verbale, ossia non rispettante il reale volere dei condomini presenti.

Tuttavia, alla luce delle peculiari funzioni svolte dal segretario – limitate, come si è detto, alla compilazione del verbale – e considerando che, di regola, alla fine della riunione (o anche durante lo svolgimento della stessa) e, comunque, prima della sottoscrizione da parte del presidente, il predetto verbale viene letto ai presenti all'adunanza, al fine di consentire a questi ultimi di verificare la corrispondenza di quanto riportato per iscritto a quel che è effettivamente avvenuto in assemblea, non sembra che vi siano incompatibilità di sorta, salvo l'esistenza di ipotesi di divieti previsti nel regolamento di condominio.

È, comunque, principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui la nomina del presidente e del segretario dell'assemblea condominiale non è prevista da alcuna norma a pena di nullità, essendo sufficiente, per la validità della costituzione e delle deliberazioni, la sussistenza delle maggioranze prescritte dalla legge, conseguendone che la mancata nomina di tali soggetti o le eventuali irregolarità relative alla medesima nomina non comportano l'invalidità delle decisioni assembleari (Cass. II, n. 5709/1987; in argomento, v. anche Cass. II, n. 4615/1980, che ha esaminato una fattispecie nella quale il ricorrente sosteneva che la nomina del presidente dell'assemblea nella riunione di prima convocazione, in cui mancava la maggioranza prescritta dalla legge, viziava le deliberazioni prese in seconda convocazione dall'assemblea presieduta dalla stessa persona nominata in prima convocazione; cui adde, da ultimo, Cass. II, n. 8577/2024, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto valido il verbale contenente la ratifica dell'operato processuale dell'amministratore del condominio, ancorché privo della sottoscrizione di presidente e segretario, evidenziando che la sottoscrizione del verbale assolve unicamente la funzione di imprimere ad esso il valore probatorio di scrittura privata riguardo alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori e non si estende al contenuto della scrittura).

Pertanto, anche se la nomina del presidente o/e del segretario siano previste dal regolamento di condominio, la stessa nomina non costituisce elemento necessario per la validità dell'assemblea: l'importante è che vi siano le maggioranze prescritte e che sia redatto un verbale (in senso contrario, v., invece, Trib. Bologna 12 marzo 1997, il quale ha addirittura considerato nulla la deliberazione adottata da un'assemblea nella quale, in violazione delle norme del regolamento condominiale sulla validità della costituzione dell'assemblea stessa, le funzioni di segretario erano state affidate all'amministratore).

Il discorso cambia qualora l'assemblea si svolga in modalità di videoconferenza ai sensi del novellato art. 66, comma 6, disp. att. c.c. - come modificato dal d.l. n. 104/2020, convertito in l. n. 126/2020 - ove è espressamente previsto che il verbale, redatto dal segretario e sottoscritto dal presidente, sia trasmesso all'amministratore ed a tutti i condomini. 

Presenza dell'amministratore

A questo punto, non resta che esaminare la necessità o l'opportunità della presenza dell'amministratore all'assemblea medesima, accertare se tale rappresentante abbia o meno un diritto di intervenire alla riunione, nonché, correlativamente, verificare quali siano le conseguenze giuridiche relative all'inottemperanza di quell'obbligo o i rimedi in caso di violazione di questo diritto.

A stretto rigore, la competenza dell'amministratore, in ordine alla tenuta ed allo svolgimento dell'assemblea, dovrebbe terminare, prima dello svolgimento della riunione vera e propria, con l'invio dell'avviso di convocazione e la raccolta dei documenti giustificativi di tale comunicazione, che mette a disposizione dei condomini, unitamente a quei documenti in suo possesso necessari al proficuo svolgimento della stessa adunanza (si pensi alla discussione e votazione su un bilancio consuntivo o sull'approvazione di un lavoro alla luce di un preventivo acquisito).

Va, infatti, rilevato che non si rinviene alcuna norma che regoli i diritti ed i doveri dell'amministratore nell'assemblea, ed anche la giurisprudenza non ha adottato decisioni esplicite sul punto, in quanto è difficile scorgere vizi di una deliberazione soltanto perché risultava presente l'amministratore, a meno che non si fossero riscontrate condotte tali da giustificarne la revoca giudiziaria per le «gravi irregolarità» di cui al novellato art. 1129, comma 11, c.c. (ad esempio, per aver influenzato le volontà dei condomini facendo convergere i consensi verso l'approvazione di un determinato lavoro mediante falsa rappresentazione dello stato dei luoghi).

Al riguardo, occorre verificare cosa si ricava dalla normativa vigente.

Seguendo l'ordine delle disposizioni contenute nel codice civile – così come modificate dalla l. n. 220/2010 – emerge che: l'art. 1129, commi 1 e 11, c.c. stabilisce che la nomina e la revoca dell'amministratore è di competenza dell'assemblea, e non richiede un parere dell'interessato; l'art. 1130 c.c. elenca le sue attribuzioni, specificando, al n. 10), solo che, alla fine di ciascun anno, l'amministratore deve redigere il rendiconto condominiale della sua gestione; l'art. 1131, comma 3, c.c. contempla l'obbligo, in capo all'amministratore, di dare notizia senza indugio all'assemblea di atti di citazione o provvedimenti notificatigli il cui contenuto esorbita dalle predette attribuzioni; l'art. 1132 c.c. dispone che il dissenso alla lite, deliberata in assemblea, debba essere notificato all'amministratore, come se la verbalizzazione non lo riguardasse; l'art. 1133 c.c. prevede il ricorso all'assemblea contro i provvedimenti presi dall'amministratore; l'art. 1136, comma 7, c.c. si occupa, tra l'altro, della costituzione dell'assemblea, imponendo soltanto che il relativo verbale sia trascritto nel registro tenuto dall'amministratore ai sensi dell'art. 1130, n. 7), c.c. ma non prevede minimamente la presenza di quest'ultimo.

Passando, poi, in rassegna le disposizioni di attuazione allo stesso codice civile, si evidenzia che l'art. 66, commi 1 e 2, c.c. ammette la possibilità della convocazione dell'assemblea da parte dei singoli condomini, qualora l'amministratore sia inerte, benché sollecitato in proposito, oppure quando il condominio sia privo del rappresentante.

Al contempo, si osserva, innanzitutto, che l'amministratore, una volta che abbia provveduto alla convocazione all'assemblea, non può «disinteressarsi» delle ulteriori vicende di essa (Lazzaro-Stingardini, 263), nel senso che è opportuno che presenzi, quanto meno al momento dell'avvio dei lavori della riunione, affinché inviti i condomini presenti all'elezione del presidente e del segretario nonché agevoli l'attività del medesimo presidente in ordine al controllo delle presenze degli aventi diritto, della regolarità delle deleghe e della rituale convocazione, costituzione e svolgimento dell'assemblea, mediante l'esibizione di tutta la documentazione relativa (avvisi di convocazione, cartoline di ricevimento, fax, posta elettronica certificata, sottoscrizione per presa visione, e eventuale consegna del registro dei verbali delle assemblee se i condomini ritengano che si provveda, seduta stante, alla redazione, anziché optare per la trascrizione successiva).

Inoltre, l'amministratore è il naturale depositario di tutti i documenti giustificativi relativi all'amministrazione del condominio (Bortolotti, 31), sicché è l'unico in grado di supportare dal punto di vista probatorio tutti gli importi erogati per la conservazione delle cose comuni e per la prestazione dei servizi generali, di illustrare i criteri adottati nelle somme spese per la manutenzione ordinaria, di mostrare i preventivi raccolti per gli eventuali lavori straordinari urgenti eseguiti, di giustificare sue condotte non conformi con le deliberazioni adottate, di prospettare le linee essenziali del suo programma in caso di rinnovo nell'incarico, e quant'altro (specie a seguito del contenuto, più ricco ed articolato, che ha assunto il «rendiconto condominiale» alla luce del nuovo art. 1130-bis c.c.).

Del resto, si era affermato (Cass. II, n. 864/1969), sul presupposto che tutta l'attività dell'amministratore è soggetta al controllo assembleare, in sede di rendiconto della gestione annuale, che l'amministratore è tenuto ad informare l'assemblea sia di quanto abbia compiuto in esecuzione del preventivo già da essa approvato, sia delle ulteriori determinazioni da lui assunte ed attuate nel corso della gestione stessa, specie se esse comportino oneri non contemplati nel preventivo, e, in quest'ottica, la presenza dell'amministratore in assemblea può consentire ai condomini un'istruttoria completa dell'argomento posto all'ordine del giorno, in modo che la relativa discussione sia esauriente e la decisione sia responsabilmente conforme alle reali esigenze del condominio.

Peraltro, l'amministratore, per la sua figura di mandatario, deve compiere non solo gli atti per i quali gli è stato conferito il mandato, ma anche quelli che sono necessari al suo compimento (art. 1798 c.c.), per cui vanno ricompresi ad ogni effetto, nell'oggetto del medesimo mandato, tutti gli atti, sia preparatori che consequenziali, anche materiali e non necessariamente giuridici, rispetto a quelli dedotti espressamente, per il compimento dei quali si riveli indispensabile una precisa e compiuta esecuzione dell'incarico (Zaccagnini, 465).

In quest'ordine di concetti, si auspica una partecipazione attiva dell'amministratore, nel senso di dare chiarimenti, offrire informazioni, esprimere pareri, esibire documenti, al fine anche di adempiere a tutti quei compiti connessi alle attribuzioni espressamente affidate dal regolamento e dalla legge, nonché implementate dalla Riforma.

Nulla esclude, però, che i documenti relativi alla convocazione ed alla gestione del condominio siano consegnati o comunque messi a disposizione di tutti i condomini nei giorni precedenti la riunione: le verifiche preliminari di ogni assemblea possono essere eseguite da ogni condomino, purché lo stesso amministratore abbia fatto pervenire per tempo il registro dei verbali, la prova degli invii degli avvisi di convocazione, le c.d. pezze giustificative, e quant'altro (da ricordare, in proposito, che, in forza del novellato art. 1129, comma 2, c.c., l'amministratore, contestualmente all'accettazione della sua nomina, è tenuto a comunicare ai condomini i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta, possa prendere visione gratuitamente di registri di cui all'art. 1130, nn. 6 e 7, c.c. nonché ottenere, previo rimborso della spesa, copia da lui firmata).

Posto, dunque, che l'amministratore non ha l'obbligo di essere presente in assemblea, ma la sua presenza è opportuna, per ragioni di correttezza e per buona regola di comportamento, diversa è la questione se l'amministratore abbia un proprio diritto di intervenire all'assemblea e se questa possa privargli tale diritto (si pensi a quelle ipotesi di convocazioni ai sensi dell'art. 66 disp. att. c.c. ad opera di alcuni condomini e su argomenti all'ordine del giorno sconosciuti al legale rappresentante).

Poniamo il caso in cui l'amministratore sia impedito (per problemi personali) a partecipare all'assemblea da lui convocata: a parte i casi in cui, preavvertendo tutti i condomini in tempo utile, l'amministratore possa sempre rinviare l'assemblea stessa o incaricare un suo ausiliario nel sostituirlo, non sembra che si possa precludere ai condomini di riunirsi ugualmente, cioè non ritenendo necessaria la partecipazione dell'amministratore, sicché le deliberazioni adottate sono da considerarsi perfettamente valide.

Quest'ultimo, dal canto suo, avrà altri strumenti per tutelare i suoi interessi (Terzago, 2015, 242): potrà rifiutarsi di eseguire le deliberazioni radicalmente nulle o inesistenti, o potrà nuovamente convocare l'assemblea per chiarire meglio la situazione e per far adottare statuizioni che la sua assenza, e correlativa mancanza di informazioni, non hanno permesso ai condomini di prendere o di prendere nelle idonee misure – l'art. 66, comma 1, disp. att. c.c., infatti, consente tale potere discrezionale all'amministratore, che può convocare l'assemblea «quando lo ritiene necessario» – oppure potrà impugnare le decisioni pregiudizievoli dei suoi diritti.

Resta sempre inteso che, anche se l'amministratore è presente in assemblea, sarà compito esclusivo del presidente enunciare gli argomenti posti all'ordine del giorno, aprire la discussione su ognuno di essi, mettere ai voti le relative decisioni, verificare i quorum richiesti, e dettare a verbale il risultato al segretario, rimanendo confinate le incombenze dell'amministratore nell'espletamento dei compiti (principali e consequenziali) attinenti al suo mandato.

Metodo collegiale

Affinché vi sia una valida deliberazione, occorre che la manifestazione di volontà dei condomini sia stata adottata nella riunione convocata con l'osservanza delle formalità prescritte nonché con il rispetto del metodo collegiale e del principio maggioritario.

Sotto il primo aspetto – metodo collegiale – le deliberazioni assembleari sono da considerarsi come atti collegiali, nei quali, però, le dichiarazioni di voto dei singoli restano distinte e, nel contempo, si fondono in un'unica volontà in forza del principio maggioritario (Corona, 155): in altri termini, le predette deliberazioni si compongono di dichiarazioni di più soggetti, i quali formano, tuttavia, in ragione dell'identità dell'interesse di cui sono portatori, una sola parte.

Vigendo il metodo collegiale, l'adunanza è necessaria, perché la deliberazione esige che vi sia una riunione dei condomini: senza questa, non vi sarebbe, infatti, un'assemblea e mancherebbe l'organismo che rappresenta la voce stessa del condominio, il quale è una collettività, e perciò non può non essere composto che da tutti i partecipanti, i quali devono essere assolutamente preavvisati.

Del resto, la predetta maggioranza deve formarsi in sede di assemblea, perché la minoranza ha sempre il diritto di essere sentita, potendo i suoi argomenti convincere gli altri partecipanti a mutare opinione; la minoranza deve, comunque, essere interpellata – tranne i casi di urgenza di cui all'art. 1134 c.c. – e l'importante è che tutti siano messi nella possibilità di intervenire all'assemblea, rimanendo, poi, libero il singolo condomino di non presentarsi o di astenersi dal voto, perché nessuno può obbligarlo.

In quest'ordine di concetti, si è escluso (Cass. II, n. 2916/1969) che, al posto dell'adunanza, possa valere una dichiarazione di adesione mandata a firmare ai vari condomini, sia pure sotto la forma di un verbale predisposto, perché così si elimina la discussione orale, che è un momento necessario per una decisione ponderata, restando inteso che i provvedimenti adottati all'unanimità dei condomini al di fuori dell'assemblea potrebbero essere vincolanti in forza del valore contrattuale dell'atto.

Nella stessa lunghezza d'onda, l'assemblea non può rimettere al parere espresso da singoli condomini la propria potestà deliberatoria e la formazione della maggioranza di legge – Cass. II, n. 5646/1982, nella specie si era in presenza della sottoscrizione di una lettera circolare, «fatta girare» tra i condomini – facendo ritenere addirittura che trattasi di deliberazione «inesistente», ossia quell'atto che non ha nemmeno i requisiti strutturali e funzionali per potersi definire una deliberazione assembleare. Parimenti, le decisioni sulla scelta del contraente per l'esecuzione di lavori da conferire in appalto e sul riparto del relativo corrispettivo, assunte da una commissione di condomini nominata con delibera assembleare con l'incarico di esaminare i preventivi di spesa, sono vincolanti per tutti i condomini, anche dissenzienti, solamente in quanto rimesse all'approvazione, con le maggioranze prescritte, dell'assemblea, le cui funzioni non sono delegabili a un gruppo di condomini (Cass. II, n. 33057/2018: nella specie, è stata cassata la decisione del giudice del merito, che aveva invece ritenuto che la delibera assembleare di incarico a due consiglieri di esaminare i preventivi e decidere la spesa da affrontare fosse idonea a conferire ad essi, quali mandatari degli altri condomini, poteri rappresentativi in ordine alla stipula del contratto di appalto).

Sul punto, è costante l'orientamento giurisprudenziale secondo cui non può dirsi che una deliberazione di maggioranza vi sia, se non sia stata regolarmente costituita la massa deliberante, nel senso che ciascuno dei condomini deve essere posto nelle condizioni di partecipare alla deliberazione, prima ancora con il proprio voto, con le proprie osservazioni e proposte.

A tal fine, risulta irrilevante che i condomini assenti siano titolari di quote millesimali tali da non spostare l'esito della votazione, perché la convocazione – come più volte sottolineato – è richiesta non solo per votare, ma anche per discutere e controllare; peraltro, è questa la ragione per cui l'omessa convocazione dell'avviso di convocazione contenente l'oggetto dell'adunanza, anche se nei confronti di uno solo dei partecipanti ed anche se titolare di una caratura millesimale insignificante, comporta l'invalidità dell'adunanza e, di conseguenza, della deliberazione in essa adottata.

Pertanto, essendo obbligatoria l'adunanza, non sono ammessi equipollenti, come incontri parziali o adesioni scritte, mentre va ritenuto invalido il voto dato per corrispondenza o per telefono; parimenti, va registrato che, di recente, soprattutto nei condominii di vaste proporzioni, ci si avvale del referendum al fine di verificare, in via preventiva, le opinioni dei partecipanti al condominio con riferimento a decisioni concernenti la vita dell'edificio, specie per evitare la convocazione di assemblee inutili per l'approvazione di proposte in ordine alle quali la maggioranza dei condomini si era orientata negativamente, tuttavia si ritiene che tale referendum non spiega alcun effetto giuridicamente rilevante nei confronti dell'assemblea, in quanto non ne può costituire il presupposto logico-giuridico (Trib. Napoli 25 novembre 1992).

La contestualità del concorso delle volontà, quale requisito indispensabile per la confluenza delle stesse in un unico atto, è stata ribadita dalla Corte di Cassazione – v. appresso – laddove ha sottolineato l'irrilevanza della manifestazione di volontà del condomino che, allontanatosi dalla riunione, dichiara di uniformarsi alle decisioni della maggioranza.

Stesso discorso va fatto per l'adesione successiva, in quanto la deliberazione, in conformità dei principi basilari che regolano la materia della volontà degli organi collegiali, costituisce una sintesi, e non una somma algebrica, delle volontà dei singoli; in altri termini, l'atto collegiale non può risolversi nella mera sommatoria della volontà dei componenti del collegio, in qualunque luogo e tempo espresse, ma richiede un'unitaria manifestazione di volontà del collegio stesso, espressa attraverso la volontà maggioritaria dei suoi componenti; nel calcolo delle maggioranze prescritte dall'art. 1136 c.c. per l'approvazione delle deliberazioni assembleari, non si può tener conto delle adesioni espresse in un momento diverso da quello della votazione, perché solo questa determina la fusione delle volontà dei singoli creativa dell'atto collegiale.

In questa prospettiva, la comunicazione del voto fatta dopo l'adozione della deliberazione non può spostare l'esito della votazione, così come l'eventuale conferma dell'adesione alla deliberazione, successivamente all'adozione della stessa, da parte dei condomini che tale adesione avevano precedentemente espresso, non può valere come sanatoria dell'invalidità, ma eventualmente solo come rinuncia a farla valere, senza precludere agli altri condomini la possibilità di impugnazione.

Deve essere tenuta distinta la situazione relativa alla (asserita) acquiescenza alla deliberazione assembleare, che va, invece, valutata caso per caso.

In generale, può affermarsi che la legittimazione dell'impugnante va negata al condomino (assente, dissenziente o astenuto) che abbia rinunciato al relativo diritto espressamente o tacitamente, mediante atti incompatibili con la volontà di contestare la validità della deliberazione, tenendo, però, presente che questa è immediatamente esecutiva e, quindi, non potrà ravvisarsi una rinuncia nel mero comportamento del condomino conforme alla volontà espressa dalla maggioranza dei condomini.

Ad esempio, quando l'assemblea procede alla trattazione di materia non indicata specificatamente nell'avviso di convocazione, la partecipazione alla discussione, senza sollevare eccezioni al riguardo, preclude al condomino il diritto di impugnare la deliberazione adottata, in conseguenza dell'acquiescenza prestata con il proprio comportamento all'irregolarità della convocazione dell'assemblea (Cass. II, n. 8344/1998; Cass. II, n. 989/1979; Cass. II, n. 240/1967).

Di contro, il pagamento, da parte del condomino, della prima rata di una quota di spesa afferente alla riparazione di una parte dell'edificio, cui egli ritenga di non essere tenuto, non importa necessariamente e di per sé solo la preclusione dell'azione di impugnativa della deliberazione assembleare che ha disposto il riparto di quella spesa, poiché il pagamento non implica il riconoscimento dell'obbligazione cui si riferisce, potendo essere eseguito per molteplici ragioni, tanto è vero che ne è ammessa la ripetizione se non è dovuto (Cass. II, n. 1923/1974, avente per oggetto una fattispecie nella quale il condomino aveva pagato per evitare l'ingiunzione, esecutiva nonostante opposizione, prevista dall'art. 63 disp. att. c.c.).

Principio maggioritario

Sotto il secondo aspetto – principio maggioritario – ne consegue l'obbligatorietà per la minoranza di sottostare alle decisioni della maggioranza e, quindi, ritenersi vincolata da un accordo al quale non ha acconsentito; ciò anche per un motivo di ordine pratico, perché richiedere, per la validità delle deliberazioni assembleari, il consenso unanime della totalità dei partecipanti significherebbe paralizzare l'attività gestionale del condominio, restando qualsiasi statuizione condizionata al volere, o capriccio, del singolo (si pensi allo ius prohibendi per impedire la realizzazione di innovazioni migliorative della cosa comune).

In altri termini, accogliendo il principio maggioritario nell'operatività dell'organismo collegiale, il legislatore ha inteso assicurare il concreto funzionamento del condominio e permettere l'adeguamento dello stesso alle mutevoli esigenze (prossime o future) della compagine condominiale: è la dinamicità del condominio ad imporre tale principio, ogni qual volta si tratta di amministrare le cose, gli impianti ed i servizi comuni.

Si parla anche di «imposizione» della maggioranza (semplice o qualificata che sia) sulla minoranza, ma ciò non significa che la maggioranza può fare quello che vuole, poiché esistono alcuni limiti invalicabili – si pensi, ad esempio, ai diritti quesiti del singolo proprietario in base all'atto di acquisto – ed il singolo può sempre impugnare le deliberazioni che ritenga a lui pregiudizievoli ai sensi dell'art. 1137 c.c.

Stabilito che i criteri per formare una maggioranza sono quelli del numero dei partecipanti (c.d. per teste) e quelli della quota degli interessi che essi rappresentano (c.d. per valore), il codice civile del 1942 – peraltro, sullo schema delineato dalla legge speciale del 1934 e diversamente dal codice abrogato che seguiva solo il criterio del valore – ha adottato il criterio misto, in cui il numero concorre con il valore, in modo da aversi una doppia maggioranza per l'approvazione delle deliberazioni assembleari (Terzago, 1995, 513).

In parole povere, il suddetto codice – la cui impostazione sul punto non è stata intaccata dalla Riforma del 2013 – determina la composizione della maggioranza sia quantitativamente che qualitativamente, e nonostante la diversa dizione usata nei vari capoversi della disciplina dedicata al condominio per indicare i componenti dell'assemblea (intervenuti o partecipanti), l'elemento valore (qualità) è sempre in stretta connessione con il numero (quantità), anche se il rapporto di questi due elementi cambia con il variare dell'oggetto della deliberazione (v. appresso).

Posto che i quorum rappresentano il valore minimo, sotto il quale non si verificano le condizioni perché la volontà rappresentata sia considerata come espressione dell'assemblea, se non si raggiungono per entrambi gli elementi del meccanismo di funzionamento dell'assemblea (testa e valore) i minimi di legge, la deliberazione da questi rappresentata non può formare una maggioranza in senso tecnico; la circostanza, poi, che sulla deliberazione confluiscano, ma solo per numero o per valore, consensi superiori, ma insufficienti se considerati singolarmente, non incide sulla validità della medesima deliberazione.

L'adozione di tale criterio è stata giustificata per evitare che la maggiore entità degli interessi, talvolta distribuiti in proporzioni diversissime tra i partecipanti, soverchiasse troppo le volontà individuali; nel contempo, non è decisivo neanche il numero, altrimenti si potrebbe avere un'efficacia preponderante da parte di condomini che hanno diritti minori e si potrebbe dare àdito alla sopraffazione della maggioranza numerica con il pericolo di manovre ostruzionistiche che precludano l'adozione di qualsiasi decisione.

Privilegiare l'uno o l'altro aspetto (personale o millesimale) condurrebbe a possibili prevaricazioni in un senso o nell'altro, posto che un solo individuo con forte valenza millesimale potrebbe bloccare ogni iniziativa dei condomini intrapresa per la gestione della cosa comune, e, per contro, più condomini portatori di una quota millesimale complessivamente inferiore potrebbero imporre scelte economiche gravose ricadenti per la maggior parte sul condomino che possiede una quota maggiore di millesimi.

Il meccanismo del reciproco sbarramento volto a contemperare i due diversi modi di formazione della maggioranza che, singolarmente presi, risulterebbero iniqui, non consente perciò di considerare maggioranza assembleare in campo condominiale, a norma dell'art. 1136 c.c., quella che manchi dell'uno o dell'altro elemento.

In definitiva, il legislatore, con l'adottare il sistema misto della doppia maggioranza, ha inteso evitare che il valore soverchiasse il numero e viceversa, per cui i due elementi risultano commisti e correlativi, e basta che uno solo di essi sia insufficiente perché la deliberazione non sia valida.

Tuttavia, secondo una non recente, ma sempre attuale, pronuncia dei giudici di Piazza Cavour (Cass. II, n. 202/1966), il solo fatto che la deliberazione venga presa, rispettando i due minimi prescritti dal codice, in ordine al numero (dei partecipanti) ed al valore (dei millesimi), non è, ovviamente, sufficiente perché la stessa debba considerarsi obbligatoria per tutti, e cioè anche per la minoranza dissenziente, nel senso che è, altresì, necessario che il numero dei condomini che hanno votato a favore e l'entità degli interessi da essi rappresentati superino il numero dei proprietari e l'entità degli interessi che hanno votato contro, o, detto in altri termini, che i condomini dissenzienti siano inferiori, per numero e per valore, ai condomini che hanno espresso voto favorevole.

Sarebbe, infatti, assurdo che possa considerarsi validamente adottata una deliberazione solo perché raggiunga i limiti di legge, poniamo quelli ordinari di un terzo del numero ed un terzo del valore, contro il voto contrario dei due terzi del numero e del valore (in caso di perenne contrasto tra la maggioranza di numero e di valore, con l'impossibilità di ottenere una valida deliberazione, dovrebbe auspicarsi il ricorso all'autorità giudiziaria, ad iniziativa anche di un singolo condomino, ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., in sede di volontaria giurisdizione).

In quest'ordine di concetti, si è condivisibilmente affermato (Cass. II, n. 25528/2020), che la regola posta dall'art. 1136, comma 3, c.c., secondo la quale la deliberazione assunta dall'assemblea condominiale in seconda convocazione è valida se riporta un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio, va intesa nel senso che coloro che abbiano votato contro l'approvazione non devono rappresentare un valore proprietario maggiore rispetto a coloro che abbiano votato a favore, atteso che l'intero art. 1136 c.c. privilegia il criterio della maggioranza del valore dell'edificio quale strumento coerente per soddisfare le esigenze condominiali (in applicazione di tale principio, Cass. II, n. 6625/2004 aveva cassata la sentenza del giudice del merito che aveva ritenuto sufficiente il raggiungimento di una maggioranza di voti favorevoli, pari ad un terzo dei presenti, unitamente alla condizione che essi rappresentassero almeno un terzo della proprietà, ritenendo del tutto irrilevante che la parte contraria alla delibera detenesse un valore della proprietà superiore a quello della maggioranza del voto personale).

In particolare, nel condominio c.d. minimo – cioè formato da due partecipanti con diritti di comproprietà paritari sui beni comuni – le regole codicistiche sul funzionamento dell'assemblea si applicano allorché quest'ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione «unanime», tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari; ove, invece, non si raggiunga l'unanimità, o perché l'assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché alla riunione – benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l'altro resti assente, è necessario adire l'autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 c.c., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (v., di recente, Cass. II, n. 5329/2017); anche nell'ipotesi di condominio costituito da due soli condomini, seppur titolari di quote diseguali, ove si debba procedere all'approvazione di deliberazioni che - come quella di nomina dell'amministratore - richiedano comunque sotto il profilo dell'elemento personale, l'approvazione con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti, ex art. 1136, comma 2, c.c., la valida espressione della volontà assembleare suppone la partecipazione di entrambi i condomini e la decisione "unanime", non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass. II, n. 16637/2020); parimenti - premesso che deve ravvisarsi un condominio minimo, per il quale opera la disciplina dettata dal codice civile in tema di funzionamento dell'assemblea condominiale, anche laddove i partecipanti siano, uno, proprietario esclusivo di un'unità immobiliare ed altri comproprietari pro indiviso delle restanti unità immobiliari comprese nell'edificio - non opera il principio di maggioranza atteso che i medesimi comproprietari, con riguardo all'elemento personale supposto dall'art. 1136 c.c., sebbene abbiano designato distinti rappresentanti, esprimono comunque un solo voto, con la conseguenza che, ove non si raggiunga l'unanimità, è necessario adire l'autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 c.c. (Cass. II, n. 15705/2020).

Premesso quanto sopra, le deliberazioni assembleari, approvate con la maggioranza di legge, sono decisioni dell'ente condominiale, vincolanti per tutti i condomini, anche se dissenzienti o assenti alla riunione, al pari di quelle adottate all'unanimità (Maglia, 465).

Quindi, i predetti condomini, dissenzienti o assenti, risultano impegnati e vincolati a rispettare le statuizioni dell'assemblea, ed eventualmente a partecipare alle spese dalla stessa approvate, e con essi lo sono pure coloro che, al momento della votazione non erano condomini, poiché gli aventi causa degli originari condomini restano vincolati alle deliberazioni assembleari legittimamente prese a suo tempo in ordine agli interessi comuni del condominio (Cass. II, n. 4542/1982).

Nonostante che l'art. 1137, comma 1, c.c. continua ad affermare che «le deliberazioni prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini», l'assunto vale anche per gli aventi causa; invero, l'accordo assembleare, oltre a produrre effetti diretti, si riverbera come proiezione nel mondo esterno, sicché si viene a porre, proprio rispetto a terzi, il successore a titolo particolare in una situazione di diritto-dovere, essendo trasferiti nella sua persona tutti i diritti (di godimento e di disponibilità della cosa) che i terzi devono rispettare e, nel contempo, tutti gli oneri, alla cui osservanza detto successore non può sottrarsi.

Costituzione

L'assemblea di condominio funziona mediante un complesso meccanismo di variabili, i cui elementi base sono sostanzialmente due: i partecipanti al condominio (condomini) ed la quota di comproprietà di spettanza di ciascuno (millesimi); questi elementi danno vita ai quorum, ossia il numero legalmente necessario per la validità delle adunanze e delle deliberazioni degli organi collegiali (va ricordato che, in materia condominiale, opera il principio maggioritario secondo cui la volontà della maggioranza vincola la minoranza).

Le maggioranze, peraltro, sono variabili, dipendendo sia dal numero della convocazione (prima o seconda), sia dalla materia della convocazione; all'interno, poi, della stessa convocazione, i quorum si distinguono in: a) costitutivo, o strutturale, ossia il numero minimo (frazione del numero complessivo dei membri dell'adunanza o del valore dell'immobile) necessario per la validità dell'adunanza stessa, e b) deliberativo, o funzionale, ossia il numero minimo (frazione del numero complessivo dei membri dell'adunanza o del valore dell'immobile) necessario per la validità delle deliberazioni (per una fattispecie di non agevole verifica di quest'ultimo, v. Cass. II, n. 1625/2007, secondo cui risultava correttamente e congruamente motivata la sentenza di merito che, a causa dell'omessa verifica del quorum costitutivo, aveva annullato la deliberazione di un condominio composto da oltre cento partecipanti, sul rilievo che, avendo avuto la riunione inizio alle ore quattordici e termine alle ore quattordici e quindici, era «contrario alla logica e al buon senso» che, in un tempo così ristretto, si fosse proceduto alla verifica della regolare costituzione dell'assemblea).

Premesso quanto sopra, si rileva che il novellato art. 1136 c.c. – come opportunamente modificato dalla l. n. 220 del 2012 – si preoccupa di definire compiutamente le modalità di costituzione dell'assemblea sia in prima sia in seconda convocazione, laddove, specie per quest'ultima, la lacuna normativa aveva provocato non pochi dubbi interpretativi con conseguente deleterie incertezze sul piano operativo (Celeste-Scarpa, 71).

In particolare, il comma 1, nella precedente versione, prevedeva che «l'assemblea è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e i due terzi dei partecipanti al condominio», mentre, il nuovo testo, riferendosi espressamente alla «assemblea in prima convocazione», mantiene, per la regolare costituzione, l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio, ma reputa sufficiente «la maggioranza dei partecipanti al condominio».

Quindi, oggi è contemplato un quorum abbassato riguardo alle teste ed invariato nel valore, volendo il legislatore del 2012 facilitare lo svolgimento dell'assemblea in prima convocazione: in pratica, per la relativa costituzione, ora è sufficiente la maggioranza dei condomini (e non più due terzi), rimanendo intatto il numero minimo dei millesimi (due terzi).

Identico risulta, invece, il testo del successivo comma 2 che ha riguardo al profilo decisionale, sancendo che «sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio»; tale quorum, ossia 500 millesimi – riferito agli intervenuti, diversamente dalla costituzione dell'assemblea che ha riguardo ai partecipanti – verrà, poi, richiamato per le statuizioni di una certa importanza, come quelle contemplate nel comma 4 dello stesso art. 1136 c.c. nonché per le c.d. innovazioni speciali di cui all'art. 1120, comma 2, c.c.

I problemi, però, nascevano per l'assemblea in seconda convocazione – che, d'altronde, risultava quella statisticamente più frequente, prevedendo maggioranze più agevolmente raggiungibili – atteso che non si fissavano regole per la sua costituzione.

La suddetta questione aveva diviso gli interpreti.

Anche la giurisprudenza non aveva offerto risposte univoche (significative delle diverse opzioni interpretative risultavano Cass. II, n. 850/1997, Cass. II, n. 3952/1994, e Cass. II, n. 1853/1968, mentre tra le pronunce di merito si segnala Trib. Roma 4 luglio 1990).

Invero, secondo la precedente versione, qualora l'assemblea in prima convocazione non potesse deliberare per mancanza del numero legale, si poteva tenere la «assemblea in seconda convocazione», purché in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima, prescrivendo solo che la relativa deliberazione era valida qualora riportasse «un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio».

Stante che, per poter discutere e prendere le relative decisioni, è necessario, oltre le maggioranze necessarie per le relative «deliberazioni», la presenza di un certo numero di condomini, poiché la regolare «costituzione» dell'assemblea è il requisito primario per la validità delle stesse deliberazioni, per l'assemblea in seconda convocazione, dunque, non era previsto alcun quorum costitutivo, sicché si opinava che l'assemblea doveva ritenersi regolarmente costituita in seconda convocazione con la presenza di tanti condomini quanti fossero sufficienti per raggiungere nella votazione la maggioranza valida per l'approvazione della deliberazione medesima; in altri termini, il fatto che il vecchio art. 1136, comma 3, c.c. nulla diceva in ordine alla regolare costituzione dell'assemblea in seconda convocazione, limitandosi a fissare la maggioranza con la quale si deliberava in tutti i casi che non fossero quelli indicati nei successivi commi 4 e 5, sembrava lasciare intendere, nel far riferimento ad una precisa maggioranza – un terzo dei partecipanti al condominio ed un terzo del valore dell'edificio – che la stessa fosse necessaria perché l'assemblea, nelle ipotesi normali, potesse considerarsi regolarmente costituita (Voi, 369; Nunziata, 33).

Atteso, poi, che il quorum costitutivo dell'assemblea in seconda convocazione era dato dalla presenza di tanti condomini sufficienti per raggiungere nella votazione la maggioranza valida per l'approvazione di una deliberazione, si era sostenuto che tale principio implicito restava valido anche per le deliberazioni indicate nei commi 4 e 5 di cui sopra, sicché, in queste materie, le relative statuizioni erano valide se la maggioranza rappresentava la metà o i due terzi dell'edificio e se era costituita dalla maggioranza degli intervenuti, che comunque dovevano rappresentare un terzo dei partecipanti al condominio.

Non erano mancato chi riteneva che i commi 4 e 5 dell'art. 1136 c.c., sotto un certo aspetto, erano una continuazione del comma 3, atteso che soltanto in questo si parlava espressamente di seconda convocazione, onde era logico applicare le disposizioni di esso quando mancasse negli altri un'apposita disciplina, per cui veniva a realizzarsi, per le varie materie, un graduale aumento del requisito numerico-quantitativo richiesto per la regolare costituzione dell'assemblea, e precisamente, per le materie di cui al comma 3, un terzo dei condomini ed un terzo del valore dell'edificio, per quelle del comma 4 un terzo dei condomini e la metà del valore, e, per quelle del comma 5, la metà più uno dei condomini ed i due terzi del valore.

Ponendo – per fortuna – fine a tali incertezze, il nuovo comma 3 prevede ora espressamente che l'assemblea in seconda convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero edificio ed un terzo dei partecipanti al condominio.

E ciò qualunque sia l'oggetto della statuizione adottata in tale assemblea, anche se il nuovo limite numerico, un terzo del valore ed un terzo delle teste, impedisce all'assemblea in seconda convocazione di aprirsi ufficialmente e financo di procedere ad una mera discussione, se del caso in attesa che qualche altro condomino, ritardatario, giunga alla riunione.

Resta il fatto che il legislatore così prevede una maggioranza di «teste» diversa per la costituzione dell'assemblea in seconda convocazione («almeno un terzo dei partecipanti al condominio») rispetto a quella contemplata per la relativa deliberazione («maggioranza degli intervenuti in assemblea»), intendendo così ancor più facilitare tali decisioni, nel senso che è oggi possibile che la maggioranza degli intervenuti in un'assemblea in seconda convocazione regolarmente costituita possa deliberare su un determinato argomento posto all'ordine del giorno, anche se il numero delle teste non rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio.

È intuitivo, comunque, che, richiedendosi per la validità della predetta costituzione, in prima e seconda convocazione, l'intervento di un determinato numero di condomini e la presenza di una data quota che rappresenti un certo valore proporzionale rispetto a quello dell'intero edificio, dovranno essere individuati nominativamente sia i condomini sia le rispettive quote millesimali, e si dovrà dar conto di tale verifica nel verbale; infatti, poiché l'individuazione nominativa dei condomini costituisce l'unico modo per accertare la corrispondenza del numero dei partecipanti e del valore delle quote alle specifiche proporzioni prescritte dal codice e, quindi, per decidere in merito alla validità della relativa costituzione, è imprescindibile che sia preventivamente vagliata la regolarità della predetta costituzione attraverso il riscontro della sussistenza del numero legale e, nel contempo, di questa operazione si dia atto analiticamente nel verbale.

Prima e seconda convocazione

Resta confermata, purtroppo, la previsione secondo la quale, qualora l'assemblea in prima convocazione non possa deliberare «per mancanza di numero legale», l'assemblea medesima delibera in seconda convocazione, non accogliendosi così le istanze di molti volte all'eliminazione della distinzione tra i due tipi di assemblee, stante che l'ipotesi della prima convocazione si rivela assai rara e, comunque, foriera di numerose incertezze operative (in pratica, si poteva limitare la convocazione ad un'unica assemblea, con una proficua semplificazione di tutti i quorum costitutivi e deliberativi).

Comunque, la prassi registra la presenza, nello stesso avviso di convocazione, di due date, immediatamente successive l'una all'altra, corrispondenti al giorno e ora in cui si dovrà tenere l'assemblea in prima convocazione, e, se del caso, in seconda convocazione (per la disciplina in materia societaria, v. l'art. 2369 c.c.): la ragione va ricercata nell'esigenza di evitare inutili duplicazioni, qualora – come spesso avviene – la riunione, indetta per una sola data in prima convocazione, non possa aver luogo per il mancato raggiungimento del più elevato quorum costitutivo richiesto dall'art. 1136 c.c.

Quando, però, i condomini, partecipanti all'assemblea riunita in prima convocazione, provvedono a deliberare, malgrado la mancanza dei partecipanti e del requisito di valore richiesti per la valida costituzione dell'assemblea, è preclusa la possibilità della riunione dell'assemblea stessa in seconda convocazione, salva l'ipotesi in cui intervengano tutti i condomini, compresi quelli che avevano preso parte alla riunione in prima convocazione, conseguendone che, al fine della revoca della deliberazione adottata in prima riunione, si deve procedere alla riconvocazione dell'assemblea con le forme e le modalità prescritte dall'art. 66 disp. att. c.c. (Cass. II, n. 1930/1982).

In proposito, si era concordi (v., tra le altre, Cass. II, n. 24132/2009) nel senso che la seconda convocazione dell'assemblea fosse condizionata dall'inutile e negativo esperimento della prima, e che la verifica di tale condizione dovesse essere espletata nella seconda convocazione, sulla base delle informazioni orali rese dall'amministratore, il cui controllo può essere svolto dagli stessi condomini, che o sono stati assenti alla prima convocazione, oppure, essendo stati presenti, sono in grado di contestare tali informazioni.

Alla luce di questo principio, quindi, la prima infruttuosa convocazione – per completo assenteismo o per difetto del quorum costitutivo (per numero di intervenuti e per valore delle rispettive quote condominiali) – risultava la conditio sine qua per poter convocare l'assemblea in seconda convocazione (Alvigini, 6).

Sembrava di capire, però, che la verbalizzazione della sola seconda convocazione, alla data prevista, rendeva evidente che la prima fosse andata deserta o non avesse potuto validamente deliberare (App. Napoli 17 settembre 1987), in quanto l'art. 1136, ultimo comma, c.c., nel testo ante Riforma, prevedeva di redigere il verbale – non delle riunioni ma – delle «deliberazioni» adottate dall'assemblea e, in mancanza di queste, per il fatto che l'assemblea era andata deserta, non si sarebbe conseguito alcun obbligo per l'amministratore se non quello di una nuova convocazione (Cass. II, n. 3862/1996, ad avviso della quale, una volta accertata la regolare costituzione dell'assemblea condominiale in prima ed in seconda convocazione, la mancata redazione del verbale attestante l'esperimento a vuoto della prima convocazione non impediva, né rendeva invalida, l'assemblea indetta in seconda convocazione).

In realtà, questo orientamento contrastava con il rilievo per cui la redazione del verbale costituiva, pur sempre, una delle prescrizioni di forma che dovevano essere comunque osservate dall'assemblea, sicché il verbale andava redatto anche quando l'assemblea non deliberava, in modo da consentire il controllo di ogni fase procedimentale per la validità dell'assemblea.

Peraltro, l'affermazione per la quale l'accertamento orale, ossia sulla base delle sole informazioni fornite dall'amministratore, in ordine alla diserzione dell'assemblea in prima convocazione, risultava in aperto contrasto con quell'indirizzo giurisprudenziale – di cui risultavano espressione Cass. II, n. 11526/1999, Cass. II, n. 5014/1999, e Cass. II, n. 810/1999 – che aveva considerato la redazione del verbale di assemblea come prescrizione di forma necessaria per la validità dell'assemblea stessa, anche nell'ipotesi che questa non fosse pervenuta ad alcuna deliberazione.

Ne conseguiva che, se la redazione del verbale era prescrizione necessaria per la validità dell'assemblea, e ciò pure nei casi di omessa deliberazione, anche l'assemblea in prima convocazione che era andata deserta doveva essere oggetto di adeguata certificazione a mezzo dello stesso verbale; quindi, la verificabilità della condizione summenzionata per la convocabilità della seconda assemblea richiedeva, pur sempre, che si accertassero, e se ne desse conto a verbale, i mancati presupposti per lo svolgimento della prima convocazione.

D'altronde, tale scelta del legislatore è confermata indirettamente dal disposto del nuovo ultimo comma dell'art. 1136 c.c., che prescrive la redazione del verbale, da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore – non più, come in precedenza, delle «deliberazioni» dell'assemblea, ma anche – delle «riunioni», nonché dal disposto del n. 7) del novellato art. 1130 c.c., in base al quale, nel registro dei verbali delle assemblee, vanno annotate, altresì, «le eventuali mancate costituzioni dell'assemblea» (segnatamente, allorché l'assemblea in prima convocazione vada deserta, c.d. verbale di diserzione).

Resta inteso, però, che l'omessa verbalizzazione della diserzione di tale assemblea non comporta l'inesistenza dell'assemblea tenutasi in seconda convocazione, ma costituirebbe soltanto un vizio procedimentale, come tale denunciabile nel termine di decadenza di trenta giorni previsto dall'art. 1137, comma 2, c.c., trascorso il quale, in difetto di impugnazione, il relativo vizio viene sanato.

Ciò costringe l'amministratore a predisporre comunque – ossia anche nella convinzione che, con tutta probabilità, si «salterà» l'assemblea – un verbale di assemblea deserta in prima convocazione, anche mediante uno «stampone» ad hoc, senza escludere una sua eventuale presenza nel giorno, ora e luogo della stessa prima convocazione qualora qualche condomino decidesse di partecipare.

Comunque, il comma 3 dell'art. 1136 c.c. – nel testo invariato anche a seguito della l. n. 220/2012 – prevede che, qualora l'assemblea in prima convocazione non possa deliberare per mancanza di numero legale, l'assemblea in seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima.

Il primo termine – «giorno successivo» – va inteso nel senso che, tra le due adunanze, debba intercorrere una giornata solare e, quindi, l'intervallo non possa essere di poche ore nell'àmbito dello stesso giorno, ma non necessariamente di ventiquattro ore (v., di recente, Cass. VI/II, n. 22685/2014, ad avviso della quale la norma di cui all'art. 1136 c.c., secondo la quale tra l'assemblea di prima e di seconda convocazione deve passare almeno un giorno, va intesa non già nel senso che debbano trascorrere ventiquattro ore, ma che la seconda assemblea debba essere tenuta, come minimo, nel giorno successivo).

Curiosamente la novella del 2012 sente il bisogno di ribadire tale concetto, inserendo il comma 4 nel corpo dell'art. 66 disp. att. c.c. – al cui commento si rinvia – secondo il quale «l'assemblea in seconda convocazione non può tenersi nello stesso giorno della prima» (Cass. II, n. 196/1976; Cass. II, n. 563/1977, ritiene valido l'accordo, non incidendo su materia sottratta alla disponibilità delle parti, con il quale tutti i condomini di un edificio stabiliscono, ai fini del calcolo delle maggioranze, di considerare l'assemblea, da tenersi in una data determinata, come riunita in seconda convocazione, pretermettendo la prima).

In quest'ottica, ad esempio, si potrebbe fissare la prima convocazione per le ore 23,00 di un giorno e la seconda convocazione per le ore 20,30 del giorno successivo, ma si deve evitare che la seconda convocazione sia di fatto un prolungamento della prima, per cui, se la prima convocazione è fissata per le ore 23,50 di un giorno, non si può fissare la seconda alle ore 0,10 del giorno successivo, in quanto la finalità della legge verrebbe sostanzialmente elusa (nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Milano 5 aprile 1990, secondo cui è invalida la deliberazione assunta nel corso di un'assemblea convocata in prima e seconda convocazione in ore diverse della medesima giornata, anziché in giorni distinti; Trib. Milano 23 febbraio 1989, ritiene siano viziate da nullità assoluta le deliberazioni assunte nel corso di assemblee le cui prima e seconda convocazione siano previste solo in ore diverse della medesima giornata, anziché in giorni distinti, mentre Trib. Napoli 9 novembre 1988, reputa configurabile un vizio di natura formale che produce la semplice annullabilità della deliberazione, conseguendone che, qualora tale deliberazione non venga impugnata nel termine di cui all'art. 1137 c.c., l'irregolarità dalla quale era affetta deve ritenersi sanata, aggiungendo che il partecipante alla suddetta irregolare assemblea che non abbia mosso alcuna obiezione al riguardo in sede di discussione, non può impugnare la deliberazione presa, ponendo a fondamento dell'opposizione la predetta irregolarità, perché con il suo comportamento ha aderito all'attuazione del procedimento irregolare di convocazione).

Se, poi, l'assemblea, benché convocata in un giorno solare, si sia aperta in ritardo alle prime ore dell'alba del giorno nel frattempo subentrato, l'ingresso nel giorno successivo non comporta alcuna violazione del diritto degli assenti ad essere convocati, poiché, se costoro fossero stati effettivamente interessati a partecipare all'assemblea, si sarebbero presentati all'ora fissata nell'avviso ed avrebbero atteso l'inizio della riunione condominiale; qualora, però, l'avviso contenga l'invito dei condomini a partecipare soltanto all'assemblea di seconda convocazione (indicando luogo, data e ora), questa diventerebbe automaticamente di prima convocazione, con le conseguenze relative alle maggioranze di cui all'art. 1136, commi 1 e 2, c.c.

Il secondo termine («non oltre dieci giorni») intende, poi, superare l'inconveniente opposto a quello fin qui esaminato: una nuova convocazione troppo lontana dalla precedente non è più una che si riallaccia a quest'ultima come invece dovrebbe, in quanto, se trascorre un notevole lasso di tempo, ad esempio, l'ordine del giorno può essere oggetto di dimenticanza.

Per completezza, va registrato che potrebbe accadere che, in prima convocazione, l'assemblea deliberi, con le apposite maggioranze, sui punti all'ordine del giorno, anche con irregolare quorum costitutivo: in questo caso, si esclude che possa tenersi regolarmente l'assemblea di seconda convocazione per la revoca delle deliberazioni adottate e, quindi, prendere nuovamente in considerazione i punti all'ordine del giorno.

Infatti, la validità della costituzione dell'assemblea costituisce il presupposto per la validità delle deliberazioni prese durante la riunione, per cui, se queste sono state adottate con la maggioranza prevista per ciascuna delle materie oggetto della gestione comune, le stesse saranno invalide qualora il numero dei partecipanti sia inferiore a quello prescritto dall'art. 1136 c.c.; in particolare, il disposto del comma 3, contemplato per la seconda convocazione, avente lo scopo di consentire la gestione condominiale anche nell'ipotesi di un parziale assenteismo o inerzia da parte dei partecipanti, prevede che l'assemblea in prima convocazione «non può deliberare» per mancanza di numero, con ovvio riferimento al numero dei partecipanti ed alla percentuale di valore occorrenti, a norma del comma 1, per la valida costituzione in prima convocazione, e tale espressione va interpretata non nel senso di impossibilità legale di deliberare.

Quindi, l'assemblea non dovrebbe deliberare, stante il divieto codicistico di farlo con un numero inferiore a quello prescritto, ma, se malgrado la «mancanza di numero legale», i partecipanti decidano ugualmente di deliberare, rimane preclusa la possibilità della riunione in seconda convocazione con il numero ridotto contemplato per quest'ultima; in pratica, se i condomini riconoscano, dopo aver deciso, che la deliberazione è invalida per quanto sopra detto, dovrà essere convocata una nuova assemblea per procedere alla revoca del provvedimento in precedenza adottato (salvo che tutti i condomini, nessuno escluso, spontaneamente o perché comunque informati, intervengano alla riunione originariamente prevista in seconda convocazione, come suggerisce Cass. II, n. 1930/1982).

Allontanamento di un condomino

I quorum di cui sopra vanno verificati al momento dell'esatta formazione dell'assemblea, ma si registrano alcune eventualità che il legislatore non ha considerato.

La problematica riguarda soprattutto l'eventuale allontanamento di alcuni degli intervenuti nel corso della riunione, in quanto va considerato assente chi, pur presente alla riunione e anche se abbia presenziato alla discussione, se ne sia allontanato (temporaneamente o definitivamente) prima dell'adozione della deliberazione.

In pratica, si ha una diminuzione della compagine condominiale assembleare (Balzani, 226), con conseguente abbassamento dell'iniziale quorum costitutivo, e, quindi, sorge il dubbio se sia necessaria o meno una nuova «conta» (la questione involge parimenti anche l'aspetto della deliberazione, con riflessi in ordine alla legittimazione all'impugnazione).

Con particolare riferimento al caso relativo alla posizione del partecipante all'assemblea allontanatosi prima della trattazione e discussione sui punti all'ordine del giorno, i giudici di legittimità, in un primo momento, avevano affermato che, ai fini della validità delle deliberazioni, poteva tenersi conto del voto del condomino che, inizialmente intervenuto, si era successivamente allontanato dichiarando espressamente di accettare quanto avrebbe deciso la maggioranza, in base alla considerazione che tale dichiarazione del condomino valeva a farlo ritenere presente al momento della votazione e favorevole alla volontà espressa dalla maggioranza con la votazione stessa (Cass. II, n. 4136/1977; Cass. II, n. 89/1967, secondo cui l'allontanamento di alcuni degli intervenuti, dopo la regolare costituzione dell'assemblea, non incide sulla determinazione del quorum costitutivo, dovendosi avere riguardo a tal fine unicamente al momento iniziale della riunione).

Mutando poi opinione, il Supremo Collegio ha correttamente affermato che lo stesso voto, purché, ovviamente, l'allontanamento del condomino titolare sia adeguatamente formalizzato nel verbale assembleare – v., però, App. Roma 15 ottobre 2003, secondo cui, in ogni caso, la mancata attestazione nel verbale del presunto allontanamento di un condomino prima della votazione non incide sulla validità della deliberazione approvata in sua assenza, qualora il quorum deliberativo risulti raggiunto anche senza il voto favorevole di tale condomino – non può essere conteggiato per la formazione della maggioranza prescritta per l'assunzione della deliberazione.

Si parte, infatti, dal presupposto che, comunque si voglia configurare il condominio, l'assemblea rappresenta il vertice dell'ente, del quale è l'unica legittimata ad esprimere la volontà nell'esercizio dei suoi poteri istituzionali di gestione, controllo e regolamentari; componenti necessari ed esclusivi di essa sono tutti i condomini, per il solo fatto di rivestire tale qualità, e in posizione di perfetta uguaglianza; le deliberazioni adottate in questo consesso assumono, conseguentemente, carattere di atti giuridici collegiali, risultanti dalla fusione delle volontà dei singoli nella manifestazione unitaria che l'ordinamento assume quale atto volitivo dell'intero corpo, immediatamente rilevante all'esterno non meno che all'interno del condominio ed obbligatorio anche per la minoranza (Cass. II, n. 4225/1985).

In particolare, si è puntualizzato (Cass. II, n. 1510/1999) come sia pienamente condivisibile, perché conforme ai principi basilari che regolano la materia della formazione della volontà degli organi collegiali, l'affermazione circa l'inammissibilità di una singola manifestazione di voto che preceda la trattazione e la discussione, le quali sono destinate appunto a consentire ad ogni partecipante di orientarsi consapevolmente in ordine alle decisioni da adottare, anche alla luce delle opinioni espresse dagli altri, in quanto la predetta deliberazione costituisce una «sintesi», e non una somma algebrica, delle volontà dei singoli.

Una quasi coeva pronuncia del giudice di legittimità consente di approfondire l'argomento: nel calcolo delle maggioranze prescritte dall'art. 1136 c.c. per l'approvazione delle deliberazioni assembleari, non si può tener conto delle adesioni espresse in un momento diverso da quello della votazione, dato che solo questa determina la fusione delle volontà dei singoli creativa dell'atto collegiale, in applicazione di un principio che, in difetto di specifiche norme sulle modalità di votazione nelle assemblee condominiali, si deve evincere dai criteri generali che regolano gli atti collegiali, i quali non possono risolversi nella mera sommatoria della volontà dei componenti del collegio, in qualunque luogo e tempo espresse, ma richiedono un'unitaria manifestazione di volontà del collegio stesso, espressa attraverso la volontà maggioritaria dei suoi componenti; del resto, i compiti dell'assemblea condominiale non si esauriscono nell'assenso o dissenso su una proposta, ma implicano, prima della votazione, un dibattito sulle questioni su cui poi deliberare, con la conseguenza che la semplice anticipazione del proprio parere del singolo partecipante non può essere intesa come un effettivo concorso alle successive determinazioni (Cass. II, n. 1208/1999).

Resta inteso che l'eventuale conferma dell'adesione alla deliberazione, da parte dei condomini che tale adesione avevano precedentemente espresso, non può valere come sanatoria dell'invalidità, ma eventualmente solo come rinuncia a farla valere, senza precludere agli altri condomini la possibilità di impugnazione.

D'altronde, opinando diversamente, si dovrebbe ammettere che la volontà dell'adunanza si possa formare anche al di fuori dell'assemblea, mediante distinti atti dei singoli condomini, in contrasto con il dettato della legge e lo spirito stesso del sistema, che non ammette deliberazione senza assemblea (per un'applicazione del principio della collegialità, v. Cass. II, n. 6366/1991, secondo cui è nulla la deliberazione che sia stata adottata dopo lo scioglimento dell'assemblea stessa e l'allontanamento di alcuni condomini, a seguito di riapertura del verbale non preceduta da una nuova rituale convocazione a norma dell'art. 66 disp. att. c.c., risultando violate sia le disposizioni sulla convocazione dell'assemblea sia il principio della collegialità della deliberazione).

Logico corollario è che il condòmino presente al momento iniziale della riunione ma assente all'atto della deliberazione è computabile nel quorum costitutivo, ma non nel quorum deliberativo (Cass. II, n. 4191/2024: nel caso di specie, si è affermato che il condomino, allontanatosi volontariamente dal luogo di svolgimento della riunione assembleare, con relativa presa d'atto a verbale, senza partecipare quindi alla votazione, deve considerarsi assente alla deliberazione, sicchè  si era cassata con rinvio la sentenza nella quale si era ritenuto, invece, che egli, avendo assistito al voto dalla soglia della porta di accesso al locale di svolgimento della riunione, risultasse solo formalmente assente e si fosse nei fatti astenuto).

In pratica, secondo quest'ultimo orientamento giurisprudenziale, i condomini che si assentano prima della votazione – ad esempio, in segno di protesta, attesa l'ora tarda a causa delle interminabili discussioni, o anche più semplicemente per espletare i propri bisogni fisiologici – devono considerarsi come non intervenuti agli effetti del calcolo del  quorum costitutivo e della formazione delle maggioranze deliberative, e quindi, in qualità di assenti, legittimati ad impugnare ogni statuizione adottata dopo il loro allontanamento (De Tilla, 1992, 310).

Quanto sopra non esclude, però, che il singolo partecipante, il quale ha la necessità di allontanarsi, possa delegare un condomino presente, incaricandolo di votare in sua vece, secondo le regole ordinarie in tema di mandato.

Ipotesi inversa è quella rappresentata dall'intervento tardivo del condomino: in tal caso, non avendo il legislatore imposto particolari formalità in ordine alle modalità della votazione, si è rilevato che, ai fini del calcolo delle maggioranze prescritte dall'art. 1136 c.c., deve tenersi conto del voto espresso dal condomino intervenuto tardivamente, purché non oltre la chiusura del processo verbale (Cass. II, n. 9130/1993).

Discussione

Il funzionamento dell'assemblea è principalmente preordinato allo scopo di produrre deliberazioni – le quali altro non sono che l'atto con cui i condomini manifestano la loro volontà – ma, al contempo, l'assemblea stessa consiste in un vero e proprio procedimento, ossia un susseguirsi preordinato di determinati atti o dichiarazioni.

Il codice civile non ha prescritto una particolare forma di tale iter – salvo espresse disposizioni specifiche eventualmente contenute nel regolamento condominiale – ma la prassi ne ha fissato, quasi in modo definitivo, le caratteristiche: al riguardo, si è soliti distinguere gli adempimenti relativi allo svolgimento dell'assemblea in quattro momenti, relativi alle formalità, rispettivamente, preliminari all'adozione della deliberazione, necessarie per l'adozione della stessa e successive all'adozione della decisione.

In realtà, si tratta di distinzioni che rivestono un valore meramente classificatorio, nel senso che possono risultare utili solo come metodo pratico-operativo o per agevolare l'analisi, in quanto è importante soltanto che siano rispettati i requisiti previsti dalla legge (al limite, può considerarsi valida anche una deliberazione presa in applicazione a diverse procedure ed in base ad un diverso ordine cronologico).

Dunque, una volta conclusi i controlli preliminari, riguardanti la verifica se i presenti abbiano diritto di intervenire all'assemblea, quale sia il loro numero e quanti millesimi rappresentino, una volta acclarata la rituale convocazione (invito a tutti i soggetti legittimati, informazione preventiva sulle materie da discutere, osservanza del termine di preavviso), una volta accertata la regolare costituzione (in prima o seconda convocazione) dell'assemblea stessa ed una volta nominato il presidente ed il segretario – tutti incombenti delineati supra – si passa al momento, per così dire, dinamico della riunione, quello che attiene allo svolgimento dell'assemblea, che registra come sue fasi imprescindibili quelle della discussione, della votazione, della decisione e della verbalizzazione.

Si è visto che, tra i compiti principali del presidente dell'assemblea, vi sia la direzione e la disciplina dell'adunanza, attività questa difficile, considerando che, nella riunione condominiale, spesso si parla troppo, a sproposito, inutilmente, si dà vita ad interventi estemporanei, si dà sfogo a rancori personali o a ripicche, si trae spunto per trattare altri argomenti anche esulanti l'edificio e la sua convivenza all'interno di esso; appare preferibile seguire la discussione delle materie così come enumerate nell'ordine del giorno contenuto nell'avviso di convocazione, previa necessaria illustrazione dell'argomento in esso contenuto, ma nulla esclude la possibilità di cambiare, trattando prima alcuni argomenti e dopo altri, stabilendo sempre il modo ed i tempi della discussione.

Orbene, tra le formalità preliminari alla discussione ed alla votazione degli argomenti posti all'ordine del giorno, non risulta, di regola, la lettura, da parte del presidente, del verbale della precedente assemblea: invero, nessuna norma di legge – a meno che non vi siano prescrizioni ad hoc contenute nel regolamento di condominio – impone tale incombente su iniziativa del medesimo presidente o a seguito di richiesta di qualche condomino, rispondendo questa attività ad esigenze di mera opportunità, secondo l'oggetto delle decisioni da adottare, la cui mancata ottemperanza, quindi, non è idonea, di per sé, a provocare l'invalidità della deliberazione presa senza il previo esame delle anteriori statuizioni e discussioni risultanti dai relativi verbali, anche se su argomenti connessi a quelli trattati nella successiva riunione.

In sede di discussione, ogni condomino ha diritto di esprimere il proprio punto di vista, invocando la parola al presidente e chiedendo che il suo parere sia messo a verbale, tuttavia il presidente ha il potere di riassumere le dichiarazioni di ognuno per evitare un appesantimento della verbalizzazione ed evitare eventuali manovre dilatorie ed ostruzionistiche; il verbale deve essere, infatti, redatto con precisione, dettato dal presidente e compilato dal segretario: si deve registrare fedelmente quanto accaduto in assemblea, ma sovente le esternazioni dei presenti si rivelano prive di senso o di consistenza, oppure conferenti ma prolisse, sicché è rimesso all'abilità e professionalità del presidente il compito di condensarle in proposte concrete e in rilievi pertinenti.

Dunque, gli argomenti posti all'ordine del giorno devono essere discussi e va riportato a verbale, in maniera sintetica, l'esito di tale discussione (oltre alla decisione eventualmente adottata).

Al riguardo, non sembrava che sussistesse, in capo ai singoli partecipanti all'adunanza, il diritto a veder riprodotta nel verbale ogni loro osservazione, richiesta o dichiarazione che esulasse dai predetti contenuti, dovendosi dare conto nel medesimo verbale soltanto delle operazioni espletate in assemblea, in forma sintetica, in modo tale da permettere la ricostruzione dei fatti, delle motivazioni delle decisioni e dei possibili dissensi (l'art. 2375 c.c., per le assemblee delle società, prevede che, «nel verbale devono essere riassunte, su richiesta dei soci, le loro dichiarazioni»); attualmente, invece, il registro delle assemblee, contemplato nell'art. 1130, n. 6), c.c., stabilisce espressamente che, in tale registro, sono anche annotate «le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno fatto richiesta».

Va, però, ricordato che, a ciascun partecipante all'assemblea di un condominio, deve riconoscersi il diritto di manifestare la propria volontà non soltanto mediante l'espressione conclusiva del voto, con assenso o dissenso sulla proposta contenuta nell'ordine del giorno, ma anche mediante l'intervento nella discussione, al fine di portare a conoscenza degli altri partecipanti le ragioni del proprio voto (perché, ad esempio, rifiuta una data proposta, approva quel rendiconto, è favorevole alla nomina di quell'amministratore, e via dicendo).

La votazione, infatti, costituisce il momento essenziale dell'adunanza, finalizzata alla formazione della volontà condominiale sulle singole questioni all'ordine del giorno, tuttavia, l'assemblea non esaurisce la sua funzione nell'espressione del voto, perché i partecipanti non sono assoggettati ad un sistema, per così dire, bloccato, che consenta di manifestare soltanto il parere favorevole o sfavorevole sui punti da decidere, ma fanno parte di un collegio, nel quale la discussione, o almeno la possibilità di dibattito delle questioni, si pone come primaria.

In altri termini, l'iter deliberativo culmina nella votazione, ma questa non può andare disgiunta dall'esigenza di mettere a punto, prima, le varie questioni, per adottare, poi, le determinazioni più opportune nell'interesse del condominio, nel quale il diritto di comproprietà concorre con quello di proprietà esclusiva dei singoli, in una posizione di equilibrio non sempre lineare nelle sue attuazioni concrete.

D'altronde, la deliberazione dell'assemblea rappresenta un atto collettivo – cioè il risultato del concorso di più volontà, espresso da ciascuno dei partecipanti e la cui somma rappresenta la maggioranza (semplice o qualificata a seconda delle materie che ne costituiscono l'oggetto) delle quote di comproprietà rispetto al totale – conclusivo di un procedimento di formazione svolto con l'osservanza di alcune regole fissate dalla legge ed insite nella natura stessa dell'atto.

Una di queste regole, non previste espressamente dalla legge, ma derivante da un principio generale secondo cui la volontà di ciascun partecipante confluente nell'atto collettivo deve essere liberamente manifestata, è che tale libera manifestazione deve essere possibile non solo nell'espressione conclusiva, ma anche nelle premesse del voto.

In quest'ordine di concetti, il presidente non può mai impedire ai condomini di esprimere, nel corso del dibattito, la loro opinione su argomenti indicati nell'avviso di convocazione, in quanto il condomino ha il diritto di rendere noto agli altri partecipanti le ragioni per cui ritiene di approvare o di rifiutare la proposta di deliberazione contenuta all'ordine del giorno (Cass. II, n. 2893/1984, che aveva ritenuto annullabile ai sensi dell'art. 1137 c.c. la deliberazione adottata in cui fosse stato menomato l'esercizio di tale potere, mentre appare eccessiva Cass. II, n. 1510/1999, secondo cui l'aver impedito al condomino la discussione di alcuni punti all'ordine del giorno comportava la nullità radicale della deliberazione assembleare, assimilabile a quella derivante dall'omessa convocazione, che poteva essere fatta valere, senza limiti di tempo, da ogni condomino, anche se presente e consenziente, specie alla luce del nuovo discrimen tra deliberazioni nulle ed annullabili, inaugurato da Cass. II, n. 31/2000, con l'avallo successivo di Cass. S.U., n. 4806/2005).

Modalità di votazione

Terminata la discussione esauriente su un punto dell'ordine del giorno, il presidente apre la votazione tra i presenti sullo stesso.

Il voto del condomino non è altro che la manifestazione di volontà su un determinato argomento, e la caratteristica del condominio è che le volontà individuali confluiscono in quella collegiale dell'assemblea e si fondono in essa.

In questo àmbito – v. supra – opera il metodo collegiale ed il principio maggioritario: da un lato, la volontà espressa con la deliberazione assembleare è svincolata da quella delle persone fisiche che l'hanno formata, ed assume carattere unitario, nel senso che la volontà è ormai collettiva, non è più la semplice somma delle singole dichiarazioni di voto, in quanto le assorbe (tale autonomia giustifica il fatto che l'invalidità di un voto non intacca l'intera deliberazione, a meno che non incida sulle maggioranze prescritte); dall'altro, la maggioranza si impone sulla minoranza, e ciò al fine pratico di assicurare il funzionamento dell'istituto del condominio e di adeguare lo stesso alle mutevoli esigenze, prossime o future, della vita condominiale (se fosse necessario il consenso unanime per la validità delle deliberazioni, si verificherebbe la paralisi, rimanendo condizionati all'arbitrio o al capriccio del singolo che, con il suo veto, imporrebbe il mantenimento dello status quo a fronte della necessità di un cambiamento).

La votazione avviene, di regola, per alzata di mano, ma nulla esclude che sia fatta anche a scrutinio segreto, ossia con le schede (per la negativa, si sono però espressi Trib. Milano 9 novembre 1992, e Trib. Napoli 7 giugno 1967).

Resta inteso che va considerata valida la deliberazione adottata con votazione svoltasi in maniera anche irregolare o atipica qualora risultino essere stati comunque osservati i quorum richiesti per la costituzione dell'assemblea e per il tipo di deliberazione approvata (nell'affermare il suindicato principio, Cass. II, n. 4531/2003, ha ritenuto legittima l'approvazione del bilancio consuntivo complessivo da parte delle assemblee di due distinti condominii, anziché dell'assemblea dell'unico condominio tra di essi costituendo, poiché in base alla somma del valore dei millesimi, risultavano essere stati rispettati i due quorum nel caso richiesti).

La questione si ripropone soprattutto per le decisioni riguardanti persone, in ordine alle quali spesso è opportuna una certa riservatezza, al fine di preservare il voto da condizionamenti di vario genere, come nel caso, ad esempio, della nomina e revoca dell'amministratore o del licenziamento del portiere (Rezzonico-Rezzonico, 566); tuttavia, il sistema misto adottato dal nostro codice, ossia per teste e per valore, preclude di fatto l'adozione di un voto segreto, nel senso che, dal verbale, devono emergere il nome dei votanti con il valore dei millesimi a ciascuno attribuito, e ciò per una serie di motivi: a) il principio della doppia maggioranza contiene in sé l'impossibilità di rendere la «testa», cioè il condomino, del tutto autonomo (salvo il caso in cui le quote siano eguali per tutti); b) l'individuazione dei consenzienti, degli astenuti e dei dissenzienti rileva per la legittimazione all'impugnativa e per la diversa decorrenza del relativo termine di cui all'art. 1137 c.c. (ovviamente, per le deliberazioni annullabili); c) la stessa identificazione, per quanto concerne in particolare coloro che non hanno votato a favore della deliberazione, è condizione per l'esercizio del diritto di dissentire dalla lite ai sensi dell'art. 1132 c.c.; d) la votazione segreta impedisce di verificare eventuali posizioni di conflitto di interessi del condomino votante con quelli generali del condominio.

Quindi, si può ritenere che la procedura corretta richiede che l'espressione del voto debba essere: 1) per voto palese (per quanto sopra esposto), 2) per appello nominale (per evidenziare il numero dei condomini votanti ed il valore millesimale dei valori espressi, al fine di individuare, tra l'altro, i condomini in potenziale conflitto di interessi), 3) in base alla presenza in assemblea (escludendo, ad esempio, il voto per corrispondenza, che peraltro non garantisce la simultaneità), 4) per espressa dichiarazione verbale (non potendo trovare ingresso il c.d. voto in bianco e, al contempo, non essendo necessaria la sottoscrizione confermativa del voto), 5) univoco (in relazione a ciascun argomento posto all'ordine del giorno è consentita una manifestazione del voto che sia o di approvazione o di disapprovazione, anche allo scopo di verificare la legittimazione all'impugnazione della deliberazione, mentre la posizione dell'astenuto è stata risolta positivamente dal novellato comma 2 dell'art. 1137 c.c.).

Se un condomino è proprietario di più unità immobiliari nello stabile condominiale, non gli spetta un voto plurimo, perché, altrimenti, potrebbe diventare il padrone dispotico dell'edificio, soffocando la voce e le esigenze della minoranza: egli avrà, invece, diritto ad un solo voto, ma la sua maggiore influenza si esplicherà nella formazione del quorum, rappresentando, ovviamente, un maggior valore espresso in millesimi.

Ciò ha trovato conferma in una sentenza del Supremo Collegio (Cass. II, n. 6671/1988), secondo la quale l'art. 1136 c.c., facendo riferimento, per l'approvazione delle deliberazioni assembleari, ad un determinato numero dei partecipanti al condominio e ad un determinato valore dell'edificio rappresentato dalle rispettive quote, comporta che ogni condomino intervenuto possa esprimere un solo voto – ed analogamente va considerata la posizione degli astenuti e degli assenti – qualunque sia l'entità della quota che rappresenta ed indipendentemente dal fatto che questa sia costituita da una sola o da più unità immobiliari, stante l'autonoma rilevanza attribuita al voto personale rispetto al valore, sia pure minimo, della quota rappresentata dal singolo condomino.

Sempre sotto il profilo numerico, qualora un'unità immobiliare sia in proprietà di più persone – si pensi ad un appartamento in comunione tra due coniugi o tra quattro fratelli (che possono, d'altronde, avere un solo rappresentante in assemblea, ex art. 67, comma 1, disp. att. c.c.) – esse tutte insieme contano per uno, in quanto ciascuno dei condomini conta solo per un voto anche se è proprietario di una pluralità di unità immobiliari dello stabile condominiale; se si opina diversamente, non si spiegherebbe la ragione per cui il codice ha accoppiato, e, nello stesso tempo, contrapposto, il criterio dei valori (desumibile, di regola, dalle tabelle millesimali allegate al regolamento di condominio) a quello numerico.

Un solo voto spetta, inoltre, all'usufruttuario o al nudo proprietario, con riferimento alle singole votazioni a cui sono chiamati a partecipare, anche se entrambi sono intervenuti in assemblea (art. 67, commi 6 e 7, disp. att. c.c.); in caso di locazione, potranno intervenire sia il conduttore, per le deliberazioni relative al servizio di riscaldamento, sia il locatore, per gli altri punti posti all'ordine del giorno (Scarpa, 2013, 509): qui, due persone rappresentano la stessa unità immobiliare, ma il campo di rappresentanza è ben distinto, perché è specifico quello dell'inquilino e più ampio quello del proprietario (art. 10 l. 27 luglio 1978, n. 392).

Computo dei voti

La magistratura di vertice ha avuto modo di elaborare alcuni principi fondamentali a proposito del calcolo dei voti in sede deliberativa (principi validi per il raggiungimento di qualsiasi maggioranza, ordinaria o speciale, delineata infra).

La deliberazione assembleare può, ovviamente, articolarsi in diversi capi, oggetto di distinti argomenti all'ordine del giorno, sicché vengono a cumularsi più atti deliberativi per ciascuno dei quali il quorum va autonomamente accertato; pertanto, per la validità delle deliberazioni, il profilo della maggioranza necessaria per l'approvazione delle stesse deve essere valutato sempre con riferimento al loro specifico oggetto, essendo irrilevante la circostanza, estrinseca ed accidentale, che essa sia stata presa nella stessa adunanza in cui sia venuto in discussione anche un argomento che richieda una maggioranza più elevata; e, d'altronde, non avrebbe alcuna giustificazione logica il ritenere che un oggetto, per la cui approvazione non sia richiesta dalla legge una maggioranza qualificata, debba essere approvato con tale maggioranza solo perché nell'ordine del giorno si accompagna ad un altro argomento, per la cui approvazione tale maggioranza è, invece, richiesta (Cass. II, n. 3680/1995; Cass. II, n. 1435/1966).

Si è sopra evidenziato che l'applicazione, per la validità delle deliberazioni assembleari, del metodo collegiale e del principio maggioritario comporta che il voto del singolo tende alla formazione della volontà del condominio, con la conseguenza che le volontà individuali confluiscono in quella collettiva ed in essa si fondono, e che la volontà manifestata con la deliberazione assembleare assume carattere unitario e risulta svincolata dalla volontà delle persone che l'hanno formata.

Conflitto di interessi

È legittimo il dubbio se l'eventuale nullità dei voti, se non incidono sulle maggioranze richieste dalla legge, diano lo stesso luogo all'invalidità delle deliberazioni adottate.

Tale questione è stata soprattutto affrontata nell'ipotesi del condomino che si trova in conflitto di interessi (Scarpa, 1998, 137; Guida, 36) ed abbia nonostante ciò votato, e nella deliberazione assembleare, il cui quorum, formalmente rispettoso dell'art. 1136 c.c., sia stato in realtà raggiunto attraverso l'intervento di quel condomino che non aveva diritto a partecipare alla votazione.

Posto che anche i condomini che versano in situazione di conflitto di interessi con il condominio dovrebbero essere convocati, avendo il diritto di partecipare all'assemblea, pur dovendo poi astenersi al momento della votazione relativamente a quegli argomenti dell'ordine del giorno su cui esiste il contrasto, la risposta della giurisprudenza è stata generalmente nel senso che la deliberazione, avente ad oggetto materia in cui sussiste potenziale conflitto di interessi tra condominio e condomino, è stata considerata legittima quando la maggioranza si era raggiunta anche scomputando il voto del condomino confliggente (Cass. II, n. 10683/2002, secondo la quale, ai fini del computo delle maggioranze dell'assemblea, non si deve tener conto del voto del condomino titolare, in relazione all'oggetto della deliberazione da adottare, di un interesse particolare contrastante, ancorché solo virtualmente, con quello del condominio, così estensivamente interpretata la norma dettata, in tema di società per azioni, dall'art. 2373 c.c., che inibisce il diritto di voto al socio in conflitto di interesse con la società, ricorrendo in entrambe le fattispecie la medesima ratio, consistente nell'attribuire carattere di priorità all'interesse collettivo rispetto a quello individuale; Cass. II, n. 6853/2001; Cass. II, n. 7226/1997; contra, Cass. II, n. 1201/2002; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Genova 26 settembre 2003; Trib. Pescara 3 luglio 2003; Trib. Chieti 11 ottobre 2000; App. Milano, 5 maggio 1998).

Riguardo alle singole ipotesi conflittuali, ad esempio, si è chiarito (Cass. II, n. 13011/2013) che, in tema di deliberazioni dell'assemblea di condominio, nella specie relativo ad edificio destinato all'esercizio di attività imprenditoriale, non dà luogo, di per sé, a conflitto di interessi la coincidenza, in capo ad uno dei partecipanti al voto, delle posizioni di condomino di maggioranza, amministratore del condominio e gestore dell'impresa ivi esercitata, non determinando tale situazione, caratterizzata dalla compresenza di distinti rapporti, una sicura incompatibilità con gli interessi degli altri condomini alla corretta amministrazione del condominio; si è aggiunto che sussiste il conflitto di interessi ove sia dedotta e dimostrata in concreto una sicura divergenza tra specifiche ragioni personali di determinati singoli condomini, il cui voto abbia concorso a determinare la necessaria maggioranza ed un parimenti specifico contrario interesse istituzionale del condominio (Cass. II, n. 10754/2011, riguardo alla deliberazione di sistemazione del tetto e ripulitura del canale di gronda, motivatamente apprezzati nella sentenza impugnata come attività inquadrabili nella manutenzione ordinaria del fabbricato e non coinvolgenti la responsabilità del costruttore – anche condomino votante – per presunti vizi dell'edificio, tra l'altro in assenza di specifica contestazione di difetti costruttivi); e ancora, non è configurabile un conflitto di interessi tra il singolo condomino ed il condominio qualora venga dedotta una mera ipotesi astratta e non sia possibile identificare, in concreto, una sicura divergenza tra le ragioni personali del condomino e l'interesse istituzionale comune (Cass. II, n. 3944/2002: nella specie, si era escluso ha escluso che potesse in concreto configurarsi un conflitto tra un singolo condomino e l'interesse collettivo degli altri per il solo fatto che il predetto condomino godeva di una disciplina di ripartizione delle spese comuni in misura diversa a quella proporzionale alla sua proprietà individuale); nell'ipotesi, poi, di conflitto di interessi fra un condomino e il condominio, qualora il condomino confliggente sia stato delegato da altro condomino ad esprimere il voto in assemblea, si è evidenziato che la situazione di conflitto che lo riguarda non è estensibile aprioristicamente al rappresentato, ma soltanto allorché si accerti in concreto che il delegante non era a conoscenza di tale situazione, dovendosi, in caso contrario, presumere che il delegante, nel conferire il mandato, abbia valutato anche il proprio interesse – non personale ma quale componente della collettività – e l'abbia ritenuto conforme a quello portato dal delegato (Cass. II, n. 22234/2004: nella specie, si era cassata la sentenza impugnata che, senza compiere in proposito alcuna specifica indagine, aveva esteso in maniera automatica la situazione di conflitto in cui versava il condomino- amministratore, a quella dei condomini che avevano delegato il primo ad esprimere la loro volontà in ordine alla nomina dell'amministratore; cui adde Cass. II, n. 10683/2002, aggiungendo che non è applicabile, al riguardo, l'art. 1394 c.c., il quale prevede la legittimazione del solo rappresentato a dedurre il conflitto, atteso che quest'ultimo non verte, nella specie, tra l'interesse personale del rappresentato e quello, pure personale, del rappresentante, ma tra quest'ultimo e quello della collettività, onde ogni partecipe di questa è legittimato a farlo valere nel comune interesse).

Degno di nota, al riguardo, il recente chiarimento dei giudici di Piazza Cavour (Cass. II, 12377/2023), ad avviso dei quali il conflitto di interessi che la legge, a determinate condizioni, prende in considerazione come causa di annullamento della delibera assembleare è quello rinvenibile tra coloro che, partecipando al voto, concorrono alla formazione della volontà collettiva, mentre deve escludersi la configurabilità di tale conflitto con riguardo all'amministratore di condominio, atteso che quest'ultimo presenzia ma non partecipa all'assemblea e non ha diritto di voto, salva l'ipotesi che sia egli stesso condomino (nella specie, si era confermata la sentenza di merito che aveva escluso la configurabilità di una situazione di conflitto di interessi tra il condominio ed il suo amministratore, socio e amministratore unico della società aggiudicataria dei lavori deliberati dall'assemblea).

Al riguardo, si pone, invece, in consapevole contrasto con l'orientamento maggioritario, la recente decisione (Cass. II, n. 19131/2015), ad avviso della quale le maggioranze necessarie per approvare le deliberazioni sono inderogabilmente quelle previste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell'intero edificio, sia ai fini del quorum costitutivo sia di quello deliberativo, «compresi i condomini in potenziale conflitto di interesse con il condominio», i quali possono (e non debbono) astenersi dall'esercitare il diritto di voto, ferma la possibilità per ciascun partecipante di ricorrere all'autorità giudiziaria in caso di mancato raggiungimento della maggioranza necessaria per impossibilità di funzionamento del collegio

(v., da ultimo, in senso conforme, Cass. VI/II, n. 1849/2018).

Si è, invece, ritenuto che, in tema di condominio, quando si fa riferimento al valore dell'edificio, come nell'art. 1136 c.c., dovrebbe essere presa in considerazione solo quella parte che residua dopo la sottrazione delle carature millesimali attribuite al condomino confliggente; del resto, l'esclusione dal computo del quorum deliberativo delle predette carature può farsi derivare a contrario dal comma 4 dell'art. 2373 c.c., dove appunto si prevede che la quota del socio in conflitto debba essere calcolata nel quorum costitutivo; in buona sostanza, il condomino confliggente, che si astiene dal votare, va però computato tra i presenti alla riunione per la regolare costituzione dell'assemblea (Izzo, 2002, 721).

È vero che così si giunge sostanzialmente ad abbassare il quorum deliberativo previsto dalla legge, consentendo alla minoranza dei partecipanti di prendere decisioni (talvolta rilevanti e) vincolanti per l'intera collettività, ma sono proprio i condomini non portatori di un interesse conflittuale a soddisfare più serenamente l'interesse del condominio, interpretando meglio le esigenze generali rispetto ad un condomino di maggioranza fuorviato dal proprio personale tornaconto; altrimenti, nell'ipotesi in cui sia richiesto un numero di voti che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio ex art. 1136, comma 4, c.c. per resistere alla domanda di un condomino, che da solo già possiede oltre la metà della caratura millesimale del complesso immobiliare, si paralizzerebbe in sostanza ogni deliberazione dell'assemblea sul punto, essendo di fatto impossibile raggiungere la maggioranza richiesta se computata sulla base dell'intero valore dell'edificio e non sul valore delle quote di proprietà dei residui condomini, detratti cioè i voti del confliggente (non si nasconde, tuttavia, che, anche non tenendo conto dei millesimi attribuiti al condomino in conflitto, questi potrebbe comunque bloccare l'assemblea semplicemente non presentandosi e, quindi, non consentendo il raggiungimento del quorum costitutivo per la riunione condominiale).

Per completezza, vediamo ora cosa succede nell'ipotesi in cui il condomino, regolarmente convocato, computato nel quorum costitutivo dell'assemblea – anziché astenersi – abbia ugualmente espresso il proprio voto versando in una situazione di conflitto di interessi con il condominio.

Peraltro, anche qualora tale posizione di conflitto sia verificabile ex ante, non sembra che il presidente della riunione condominiale possa escludere il confliggente dalla votazione, come se la situazione in oggetto configurasse un caso di sospensione del diritto di voto; semmai il presidente potrebbe avere un potere di ammonimento nei confronti del condomino in conflitto di interessi, mentre non sembra corretto che il primo possa sottrarre dai voti raccolti a favore della deliberazione assembleare quelli manifestati dal secondo, e pertanto dichiarare approvata (o respinta) la proposta decisione a seconda del quorum così acclarato senza tener conto delle carature millesimali del confliggente (una cosa è il potere di invito, altra è la possibilità di alterare materialmente i risultati della votazione, arrogandosi prerogative demandate soltanto al magistrato).

Appare corretto, dunque, configurare incoercibile il comportamento del condomino, nel senso che, se questi versa in una posizione di conflitto con il condominio, dovrebbe astenersi, ma se non ottempera, nessuno può impedirgli di votare lo stesso (l'astensione dal voto rappresenta, in altri termini, la conseguenza di una spontanea iniziativa del condomino interessato); del resto, l'esclusione del confliggente dal voto comporterebbe l'esercizio di una valutazione circa l'esistenza di una situazione di conflitto di interessi tra condomino e condominio, che, talvolta, si rivela molto delicata, per cui è preferibile rimetterla al giudice competente in sede di un (eventuale) giudizio di impugnazione della deliberazione assunta con tale voto.

Se, invece, si vietasse al singolo partecipante di votare sulla semplice altrui affermazione che versa in una situazione confliggente, si darebbe àdito a condotte strumentali, o potrebbero legittimarsi atteggiamenti ostruzionistici, come nel caso della minoranza che, per paralizzare i lavori assembleari, invochi l'esclusione dal voto della maggioranza dei condomini, accusandola di avere un interesse in conflitto con quello del condominio.

In quest'ottica, va letto il principio affermato dai magistrati di Piazza Cavour (Cass. II, n. 15360/2001), secondo i quali, in materia di condominio, in difetto di una specifica disposizione normativa che inibisca la partecipazione del condomino dichiaratosi dissenziente rispetto all'instaurazione di una lite giudiziaria, alle successive deliberazioni assembleari concernenti il prosieguo della controversia, non può essere legittimamente disconosciuto al suddetto condomino il diritto di manifestare la propria volontà nell'assemblea e di concorrere, quindi, al pari degli altri e continuando a sostenere la propria originaria avversa opinione, alla formazione della volontà comune sullo specifico argomento dell'abbandono della lite; nè può dedursi al riguardo — pur nella riconosciuta estensibilità al condominio del disposto dell'art. 2373 c.c. di portata generale in materia societaria — un'astratta ipotesi di conflitto di interessi, in quanto questo va dedotto in concreto e può essere riconosciuto soltanto ove risulti dimostrata una sicura divergenza tra specifiche ragioni personali di determinati singoli condomini, il cui voto abbia concorso a determinare la maggioranza assembleare ed un parimenti specifico contrario interesse istituzionale del condominio.

Prova di resistenza

Ammesso che il condomino confliggente possa votare e lo abbia fatto, secondo il paradigma dell'art. 2373 c.c. richiamato per relationem dalla norma dell'art. 1136 c.c. e, dunque, mutuando, in forza della eadem ratio sopra indicata, i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di società, il magistrato, nel caso di impugnativa della deliberazione condominiale per difetto di quorum, è tenuto ad effettuare la c.d. prova di resistenza, e cioè vagliare se, espunto il voto del singolo partecipante che avrebbe dovuto astenersi, sia stata ugualmente raggiunta la maggioranza richiesta dalla legge; in altri termini, l'annullamento della deliberazione, nel caso di trasgressione del divieto de quo, dipenderà dalla decisività del voto espresso dal condomino confliggente.

Allargando il discorso, può succedere che il regolamento di condominio preveda che determinati soggetti non possano essere delegati dal condomino che non vuole partecipare direttamente all'assemblea (ad esempio, l'amministratore), o che ciascun condomino non possa avere più di un dato numero di deleghe (ad esempio, tre), oppure che la delega debba essere rilasciata solo a determinate persone (ad esempio, un condomino); può, altresì, succedere che si proceda alle votazioni, che tali prescrizioni non siano rispettate ed i voti vengano conteggiati nell'approvazione della deliberazione.

In questo caso – come nell'ipotesi sopra esaminata del conflitto di interessi (De Rentiis, 62; Ditta, 2002, 1225) – si può conservare valore alla deliberazione adottata, estrapolando dal relativo computo delle maggioranze il voto non valido: atteso che, nell'àmbito condominiale, si applica la doppia maggioranza, si deve togliere dal computo il valore espresso in millesimi e la «testa» del soggetto partecipante, e va verificato il raggiungimento o meno del quorum prescritto per quella decisione (del resto, non appare ragionevole invalidare una deliberazione quando il quorum sia stato comunque, e magari ampiamente, raggiunto).

In altri termini, il procedimento si denomina come sottoposizione alla prova di resistenza, in quanto si esamina se la deliberazione «resiste» alla sottrazione del voto di cui sopra, attuandosi una verifica della sussistenza del quorum necessario all'approvazione, dopo che, dalla maggioranza conseguita in apparenza, siano stati sottratti i millesimi appartenenti al condomino in posizione, per così dire, viziata; quindi, se è stato raggiunto in ogni caso il quorum - si pensi alle maggioranze qualificate di cui ai commi 4 e 5 dell'art. 1136 c.c. – i voti invalidi vitiantur sed non vitiant, mentre, se manca la maggioranza per il loro venir meno, la relativa deliberazione sarà impugnabile per la quota determinante del voto del condomino confliggente.

Tale prova è prevista in materia societaria, dove l'art. 2373 c.c., nello stabilire che il socio in conflitto di interessi partecipa al raggiungimento del quorum costitutivo, ma non a quello deliberativo, non potendosi computare il suo voto nelle maggioranze richieste per la validità delle deliberazioni, ma può ben operare analogamente in materia di condominio nel caso del condomino in conflitto di interessi o portatore di deleghe oltre quelle previste.

Ragionando diversamente si corre il rischio di paralizzare ogni possibilità deliberativa dell'assemblea, quando, ad esempio, i millesimi del condomino confliggente siano di un certo rilievo, per cui il congelamento del suo voto finisce per impedire ogni decisione.

Del resto, il codice, con la predetta norma, esige soltanto il rispetto del quorum deliberativo – a seconda degli affari decisi e del tipo di convocazione – raggiunto il quale è irrilevante la posizione di ciascun condomino, sicché la deliberazione è validamente adottata anche senza l'apporto del voto in contestazione.

In quest'ordine di concetti, si è statuito (Cass. II, n. 28763/2017; Cass. II, n. 11943/2003) che, in tema di condominio negli edifici, la partecipazione ad un'assemblea di un soggetto estraneo oppure privo di legittimazione non si riflette sulla validità della costituzione dell'assemblea e delle decisioni in tale sede assunte, qualora risulti che quella partecipazione non ha influito sulla maggioranza richiesta e sul quorum prescritto, né sullo svolgimento della discussione e sull'esito della votazione.

Sembra porsi in controtendenza una recente pronuncia della magistratura di vertice (Cass. II, n. 8015/2017), secondo la quale la clausola del regolamento, volta a limitare il potere dei condomini di farsi rappresentare nelle assemblee, è inderogabile, in quanto posta a presidio della superiore esigenza di garantire l'effettività del dibattito e la concreta collegialità delle assemblee, nell'interesse comune dei partecipanti, considerati nel loro complesso e singolarmente, sicché la partecipazione di un rappresentante fornito di un numero di deleghe superiore a quello consentito da tale regolamento, comportando un vizio nel procedimento di formazione della relativa delibera, dà luogo ad un'ipotesi di annullabilità stessa, «senza che possa rilevare il carattere determinante del voto espresso dal delegato per il raggiungimento della maggioranza occorrente per l'approvazione della stessa delibera».

Tuttavia, è soprattutto la seconda parte della massima a destare preoccupazione, laddove esclude la possibilità di un'eventuale sanatoria anche allorché la violazione della disposizione regolamentare non abbia, comunque, precluso il conseguimento del relativo quorum approvativo maggioritario, valorizzando in modo eccessivo il ruolo e la funzione dell'apporto del singolo partecipante alla formazione della volontà dell'ente collettivo.

È vero che tale apporto può emergere solo all'esito del confronto dialettico espresso nelle sede a ciò deputata dell'assemblea, avvalorando l'erroneità della tesi alternativa che, riduttivamente, limita il rilievo di tale contributo in termini esclusivamente numerici con riferimento al conseguimento del quorum richiesto per la singola decisione; tuttavia, si ritiene di escludere che il deliberato possa considerarsi invalido anche quando la prescritta maggioranza sia stata comunque raggiunta, ossia pur prescindendo dalla considerazione della partecipazione non rispettosa del dato regolamentare.

Condominio parziale

Qualora si è in presenza di dati beni, servizi e impianti goduti ed utilizzati solo da alcuni condomini, la formazione della maggioranza, per la validità delle relative deliberazioni, deve essere calcolata con riferimento ai soli proprietari interessati (Cass. II, n. 7885/1994, ad avviso della quale, nell'ipotesi di cui sopra, «la composizione del collegio e delle maggioranze si modifica in relazione alla titolarità delle parti comuni che della delibera formano oggetto»; in senso conforme, da ultimo, Cass. II, n. 791/2020; sul versante della giurisprudenza di merito, v. Trib. Piacenza 22 maggio 2001).

D'altronde, anche se la legge non ha previsto la questione inerente alla costituzione dell'assemblea ed alla formazione delle maggioranze per i provvedimenti da prendersi su parti comuni ad un numero limitato di condomini, il principio secondo cui, per le deliberazioni concernenti le parti dell'edificio per le quali sussista una comunione di proprietà o di godimento soltanto tra alcuni dei condomini, alla formazione della maggioranza potranno partecipare soltanto i proprietari interessati ai predetti provvedimenti, è giustificato anche dal fatto che sarebbe difficile costituire in pratica l'assemblea per deliberazioni che riguardano soltanto una parte dei condomini, nonché dal fatto che sarebbe illogico attribuire ai condomini privi di interesse il potere di contribuire alla formazione di maggioranze su problemi che non li riguardano (Cass. II, n. 697/2000, la quale ha espresso il principio generale secondo cui, nell'ipotesi di convocazione di un'unica assemblea allo scopo di decidere su di una serie di questioni, alcune delle quali riguardanti solo singoli condomini – convocazione sicuramente valida, in quanto non vietata da alcuna norma – i condomini eventualmente legittimati su di un determinato argomento che non li riguardi, non possono, attraverso la partecipazione alla discussione che precede quella votazione, influire sull'esito della stessa).

Ne consegue che, quando si è in presenza di gruppi diversi di elementi condominiali serviti da parti, impianti e servizi comuni differenti, si devono formare le maggioranze ristrette al gruppo interessato (Batà, 232) – il caso classico è quello dell'edificio diviso in un corpo di fabbrica centrale e due ali, in cui si abbiano tre scale e tre ascensori, con netta separazione degli appartamenti serviti dalle singole scale e dai singoli ascensori – anche se, spesso, le adunanze dell'assemblea sono generali, con la convocazione cioè di tutti i condomini, per cui sarà, poi, nella discussione dei particolari affari inerenti le comunioni parziali, che si porrà il problema della partecipazione al voto soltanto dei diretti interessati, senza contare, talvolta, le estreme difficoltà per determinare l'effettivo interesse che ciascun condomino può avere sulle parti comuni.

Si pensi all'ipotesi – molto frequente nella pratica – dell'impianto di ascensore, che costituisce un'innovazione comportante una spesa gravosa e suscettibile di utilizzazione separata: in tal caso, la maggioranza per deliberare l'istituzione del nuovo servizio dovrebbe essere formata avuto riguardo ai soli condomini interessati, ossia coloro al servizio delle cui cose (piani, appartamenti, locali) l'impianto è destinato, e, in definitiva, coloro che ne diventeranno soli condomini contribuendo a loro spese alla realizzazione, miglioramento ed eventuale ricostruzione.

In questa prospettiva, i proprietari delle cantine, o di unità immobiliari siti nel piano interrato, o di negozi posti al piano terra, o di appartamenti in altra ala dell'edificio serviti da altro distinto impianto di ascensore, non dovrebbero avere alcun diritto di intervenire all'assemblea chiamata a deliberare su tale innovazione che, appunto, è destinata ad un'utilizzazione separata, non interessa le cose di cui sono proprietari esclusivi e non li ostacola nel godimento delle cose comuni (diverso, ovviamente, il caso in cui l'innovazione, pur interessando solo alcuni condomini, alteri le strutture generali dell'edificio).

Sarebbe, infatti, contrastante con il combinato disposto degli artt. 1121 e 1123, comma 3, c.c., il consentire ad un gruppo di condomini, che nessuna utilità o interesse abbiano all'installazione di un nuovo servizio o impianto di ascensore, di riscaldamento, di aria condizionata – e lo stesso dicasi per qualsiasi intervento volto alla conservazione del bene, come, ad esempio, rispettivamente, la sostituzione della cabina, della caldaia, del motore – il diritto di impedire ad altro gruppo di condomini di minoranza l'introduzione di nuovi impianti o servizi che solo a questi ultimi possono essere di grande vantaggio o utilità.

Dunque, alle deliberazioni di cui sopra non dovranno essere chiamati a partecipare «tutti» i proprietari delle unità immobiliari dell'edificio condominiale, ma solo coloro al servizio dei cui appartamenti il servizio o impianto è destinato, ossia coloro che sono tenuti a contribuire alle spese necessarie, mentre gli altri partecipanti al condominio, non avendo alcun interesse alla decisione, non avranno diritto di essere convocati per la riunione indetta per queste statuizioni e, se convocati per altra ragione, non potranno essere calcolati per il raggiungimento delle maggioranze richieste dalla norma in esame.

Tali principi risultano scolpiti in una recente decisione dei giudici di Piazza Cavour (Cass. II, n. 4127/2016), secondo la quale – sul presupposto che sussiste il condominio parziale ex lege, in base alla previsione di cui all'art. 1123, comma 3, c.c., ogni qualvolta un bene, rientrante tra quelli ex art. 1117 c.c., sia destinato, per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, al servizio e/o al godimento esclusivo di una parte soltanto dell'edificio condominiale, e che tale figura risponde alla ratio di semplificare i rapporti gestori interni alla collettività condominiale – il quorum, costitutivo e deliberativo, dell'assemblea nel cui ordine del giorno risultino capi afferenti la comunione di determinati beni o servizi limitati solo ad alcuni condomini, va calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate.

Quorum deliberativi

Una volta delineate le regole perché l'assemblea condominiale possa validamente costituirsi, il novellato art. 1136 c.c. contempla i vari quorum sul versante deliberativo, in parte reiterando le precedenti previsioni ed in parte ammodernando il vecchio testo, soprattutto mediante un'opera di coordinamento con le disposizioni di nuovo conio: in tal modo, si prescrivono specifiche maggioranze assembleari, di volta in volta differenti a seconda della natura degli affari oggetto della discussione o della convocazione in cui la votazione viene fatta.

Più nel dettaglio, per quanto riguarda l'assemblea in prima convocazione, il comma 2 stabilisce – come prima – che sono da considerarsi valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti «la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio», mentre, relativamente all'assemblea in seconda convocazione, il successivo comma 3, in fondo – innovando parzialmente – stabilisce che la deliberazione possa considerarsi valida se approvata dalla «maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio» (da segnalare che, da ultimo, è sufficiente, in via agevolativa, tale maggioranza per il c.d. superbonus 110% nell'edilizia finalizzato al risparmio energetico, in forza dell'art. 119 del d.l. n. 34/2020, convertito in l. n. 77/2020, come modificato dall'art. 63 del d.l. n. 104/2020, convertito in l. n. 126/2020, con riferimento all'approvazione degli interventi nonché degli eventuali finanziamenti, l'adesione per l'opzione per la cessione o per lo sconto in fattura).

A ben vedere, ora si fa riferimento agli intervenuti alla riunione (Donadoni, 287; Salciarini 2002, 137), laddove il vecchio testo si correlava ad «un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio», e tale modifica va letta nell'ottica di dare maggiore rilevanza alla partecipazione diretta dei condomini alle riunioni.

Orbene, tale maggioranza «semplice» è richiesta per un primo gruppo di affari, che riguardano l'ordinaria amministrazione e la normale gestione dei beni, degli impianti e dei servizi comuni, l'approvazione del bilancio preventivo e consuntivo nonché della relativa ripartizione delle spese tra i vari condomini, il rendiconto annuale dell'amministratore, l'impiego di eventuali residui attivi di gestione, le riparazioni straordinarie che non siano di grande entità, la costituzione del fondo speciale obbligatorio, e, in buona sostanza, quant'altro non risulta compreso negli argomenti per cui occorre una speciale maggioranza (Nasini 2013, 438).

In particolare, gli atti di ordinaria amministrazione sono quelli volti alla conservazione della cosa comune, come riparazioni, manutenzioni, provvedimenti di prevenzione e difesa, nonché alla sua normale utilizzazione, che spesso implicano una spesa ma che possono anche prescindere dall'effettuazione della stessa (tra le pronunce di merito che hanno affrontato fattispecie peculiari, v. Trib. Cagliari 6 febbraio 2004; Trib. Sanremo 23 febbraio 1999; Trib. Foggia 25 marzo 1994; Trib. Torino 16 marzo 1981).

Tanto per fare qualche esempio, la giurisprudenza ha ritenuto che possa disporsi a maggioranza semplice l'uso indiretto della cosa comune, mediante locazione, quando non sia possibile l'uso diretto dello stesso bene per tutti i condomini proporzionalmente alla loro quota, promiscuamente oppure con il sistema di turni temporali o del frazionamento di spazi (Cass. II, n. 4131/2001; Cass. II, n. 10446/1998, secondo la quale la conclusione del contratto di locazione di un appartamento condominiale è da considerarsi atto di amministrazione ordinaria, essendo possibile conseguire la finalità del «miglior godimento delle cose comuni» anche attraverso l'accrescimento dell'utilità del bene mediante la sua utilizzazione indiretta, come la locazione o l'affitto, conseguendone che, ove l'amministratore abbia locato il bene condominiale anche in assenza di un preventivo mandato che lo abilitasse a tanto, deve ritenersi valida la ratifica del suddetto contratto di locazione disposta dall'assemblea con deliberazione adottata a maggioranza semplice; Cass. II, n. 6010/1984; Trib. Bologna 9 agosto 1999); parimenti per l'approvazione di una deliberazione con la quale si affitta ad un condomino un locale comune ove è sistemato l'impianto di riscaldamento, con affidamento allo stesso della gestione del servizio (Cass. II, n. 8622/1998; Cass. II, n. 270/1976); e lo stesso dicasi per l'autorizzazione da parte dell'assemblea ai condomini proprietari di autoveicoli di sostare nel cortile comune, incidendo la relativa decisione solo sul modo di utilizzazione del cortile senza cambiarne la destinazione (Cass. II, n. 2464/1968).

Inoltre, il quorum qualificato di cui al citato comma 2, ossia la maggioranza degli intervenuti all'assemblea rappresentanti almeno la metà del valore dell'edificio, veniva richiesto, nella precedente versione, per quattro tipi di deliberazioni, e precisamente quelle che riguardavano: la nomina e la revoca dell'amministratore (art. 1129, commi 1 e 2, c.c.) – la stessa maggioranza prevista per tale nomina è, oggi, richiamata dall'art. 1130-bis c.c., per la nomina di «un revisore che verifichi la contabilità del condominio» – le liti attive o passive relative a materie che esorbitavano dalle attribuzioni di quest'ultimo (artt. 1130 e 1131, comma 3, c.c.), la ricostruzione dell'edificio (art. 1128, comma 2, c.c.), nonché le riparazioni di straordinaria entità (art. 1135, comma 1, n. 4, c.c.).

Nell'attuale testo, i 500 millesimi e la maggioranza degli intervenuti sono prescritti – oltre che per le deliberazioni di cui sopra – anche per ulteriori quattro tipi di decisioni, e segnatamente:

a) art. 1117-quater c.c., ossia allorché l'assemblea, sollecitata dall'amministratore o dal singolo condomino, statuisce in merito alla cessazione di «attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni»;

b) art. 1120, comma 2, c.c., ossia le innovazioni c.d. speciali, pur nel rispetto della normativa di settore, nel dettaglio: 1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti, 2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico, per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune, e 3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze;

c) art. 1122-ter c.c., ossia l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di «impianti volti a consentire la videosorveglianza» su di esse;

d) art. 1135, comma 3, c.c., ossia quando l'assemblea autorizza l'amministratore «a partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è ubicato».

La stessa maggioranza, ossia i 500 millesimi, si evince dal sistema della Riforma anche in altre ipotesi non espressamente richiamate dal comma 4 dell'art. 1136 c.c. (De Tilla, 1996, 56), e cioè per approvare o modificare il regolamento di condominio (art. 1138, comma 3, c.c.), per lo scioglimento del condominio qualora un gruppo di edifici possa dividersi in «parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi» (art. 61, comma 1, disp. att. c.c.), per rettificare o modificare i valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nella tabella millesimale in determinati casi (art. 69, comma 1, disp. att. c.c.), per chiedere all'amministratore l'attivazione di un sito internet intestato al condominio (art. 71-ter disp. att. c.c.), per autorizzare l'amministratore a partecipare al procedimento di mediazione (art. 71-quater, comma 3, disp. att. c.c.), nonché per approvare l'accordo conciliativo al termine del medesimo procedimento di mediazione (art. 71-quater, comma 5, disp. att. c.c.).

In forza del successivo comma 5 dell'art. 1136 c.c., è rimasta, invece, la maggioranza qualificata correlata «ad un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio – laddove, in precedenza, si faceva riferimento alla «maggioranza dei partecipanti al condominio» – per le sole deliberazioni concernenti le innovazioni, per così dire, ordinarie di cui al comma 1 dell'art. 1120 c.c., ossia quelle «dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni» (Santarsiere, 288), per lo scioglimento del condominio «qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini» (art. 62, comma 2, disp. att. c.c.), nonché per quelle contemplate dall'art. 1122-bis, comma 3, c.c. ossia nell'ipotesi in cui il singolo intenda realizzare impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva o per la produzione di energia da fonti rinnovabili, e l'assemblea prescriva «adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio», provveda, «a richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto», e subordini «l'esecuzione alla prestazione, da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali».

Nel caso in cui non sia il singolo ma l'organo gestorio ad assumere iniziative in tal senso, il legislatore del 2012 ha introdotto l'art. 155-bis disp. att. c.c. – inserito nelle «disposizioni transitorie» del libro III del codice civile ma di non agevole applicazione pratica – secondo il quale «l'assemblea, ai fini dell'adeguamento degli impianti non centralizzati di cui all'articolo 1122-bis, primo comma, del codice, già esistenti alla data di entrata in vigore del predetto articolo, adotta le necessarie prescrizioni con le maggioranze di cui all'articolo 1136, commi primo, secondo e terzo, del codice» civile medesimo.

Non vengono elencate, come sarebbe stato opportuno, nel corpo del novellato art. 1136 c.c. – probabilmente, per un difetto di coordinamento, avendo la norma subìto variazioni nel passaggio tra i due rami del Parlamento – le deliberazioni di cui all'art. 1117-ter c.c. allorchè si richiede l'elevato numero di voti, che «rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio», per l'approvazione di decisioni mediante le quali, per soddisfare esigenze di interesse condominiale, si decidono «modificazioni delle destinazioni d'uso» delle parti comuni dell'edificio.

Diritto transitorio

La Riforma in genere, e gli artt. 1120 e 1136 c.c. in particolare, sono intervenuti modificando i quorum costitutivi e deliberativi (quanto a teste o/e millesimi) di molte deliberazioni già contemplate nell'impianto codicistico, sicché le relative maggioranze potrebbero variare dal momento di adozione della statuizione dell'organo gestorio al momento dell'eventuale sentenza conclusiva del giudizio di impugnazione sulla stessa statuizione.

Essendo variati i quorum deliberativi, il problema di diritto transitorio riguarda se lo scrutinio di validità o invalidità della deliberazione debba essere correlato al momento dell'emissione del provvedimento assembleare oppure giudiziale.

La soluzione va rinvenuta nel primo corno dell'alternativa, trattandosi di norme di diritto sostanziale: nulla quaestio per le disposizioni che innalzano i quorum - si pensi alle opere volte all'eliminazione delle barriere architettoniche (da un terzo alla metà) – perché una deliberazione non rispettosa del dettato legislativo al momento dell'adozione, a fortiori lo sarà al momento della sentenza; invece, laddove si preveda un abbassamento del quorum – si pensi all'installazione di impianti di videosorveglianza (dall'unanimità o due terzi, alla metà) – potrebbe accadere che la deliberazione, contra legem al momento dell'adozione, sia annullata dal giudice, anche se, all'atto della sentenza, la stessa deliberazione si rivela in linea con il nuovo precetto incentivante introdotto dal legislatore del 2012 (è preferibile che, in questo caso, l'assemblea revochi la precedente deliberazione e, entrata in vigore la Riforma, ne adotti un'altra, di contenuto identico ma conforme alla maggioranza legale).

Necessità del consenso unanime

Si reputa che occorra il consenso dell'unanimità dei partecipanti al condominio – anche se non mancano, sul punto, opinioni discordi – per: a) la formazione di un nuovo regolamento di condominio o la modificazione di quello esistente, che implichino variazioni nei diritti costituiti o acquisiti sulle cose e sui servizi comuni, e del potere di disporre da parte dei singoli condomini sulle parti di loro proprietà esclusiva (art. 1138, penultimo comma, c.c.); b) la modificazione del regolamento di condominio inerente ai valori proporzionali delle varie quote, a meno che occorra correggere errori, o quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edifico, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici oppure di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, sia alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino (art. 69, comma 1, disp. att. c.c.); c) le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, o che ne alterino il decoro architettonico, che rendano taluni parti dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino (art. 1120, comma 4, c.c.); d) la sopraelevazione che possa pregiudicare le condizioni statiche o l'aspetto architettonico dell'edificio, o che arrechi una notevole diminuzione di aria e luce ai piani sottostanti (art. 1127, commi 2 e 3, c.c.); e) la ricostruzione dell'edificio quando esso sia perito totalmente, o per una parte superiore ai tre quarti del suo valore, salvo disposizioni contrarie contenute nel regolamento di condominio (art. 1128, comma 1, c.c.); f) gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sulle cose comuni, nonché le locazioni di durata superiore a nove anni (art. 1108, comma 3, c.c.); g) la ripartizione delle spese secondo criteri diversi da quelli legali, e l'esonero di un condomino dalla relativa contribuzione (art. 1123, comma 1, c.c.).

In quest'ordine di concetti, si è, di recente, statuito (Cass. II, n. 20612/2017) che la deliberazione condominiale che accerti, a maggioranza, l'àmbito dei beni comuni e l'estensione delle proprietà esclusive, in deroga all'art. 1117 c.c., è nulla, perché inidonea a comportare l'acquisto a titolo derivativo di tali diritti, non essendo sufficiente, all'uopo, un atto meramente ricognitivo ed occorrendo, al contrario, l'accordo di tutti i comproprietari espresso in forma scritta; di contro, la deliberazione assembleare che adibisce l'area cortiliva a parcheggio e assegna i singoli posti auto non determina la divisione del bene comune, limitandosi a renderne più ordinato e razionale l'uso paritario, sicché essa non richiede il consenso di tutti i condomini, né attribuisce agli assegnatari il possesso esclusivo della porzione loro assegnata (Cass. II, n. 6573/2015).

E ancora, le clausole dei regolamenti condominiali, indipendentemente dalla loro fonte, hanno natura contrattuale soltanto se siano limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusiva o comuni, oppure siano attributive ad alcuni condomini i maggiori diritti rispetto ad altri, con la conseguenza che solo per esse è richiesto il consenso unanime per la loro modifica, mentre è sufficiente una deliberazione assembleare adottata con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 2, c.c. per la modifica delle previsioni che si limitino a disciplinare l'uso dei beni comuni, anche se contenute nel regolamento predisposto dall'originario proprietario o dai condomini con consenso totalitario (Cass. S.U., n. 943/1999).

In tema di tabelle millesimali allegate al regolamento condominiale, si era, poi, affermato, sia pure in fattispecie ante Riforma del 2013 (Cass. II, n. 11960/2004), che qualora abbiano natura convenzionale – in quanto predisposte dall'unico originario proprietario ed accettate dagli iniziali acquirenti delle singole unità ovvero abbiano formato oggetto di accordo da parte di tutti i condomini – possono, nell'àmbito dell'autonomia privata, fissare criteri di ripartizione delle spese comuni anche diversi da quelli stabiliti dalla legge ed essere modificate con il consenso unanime dei condomini o per atto dell'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 69 disp. att. c.c.; ove, invece, abbiano natura non convenzionale ma deliberativa – perché approvate con deliberazione dell'assemblea condominiale – le tabelle millesimali, che devono necessariamente contenere criteri di ripartizione delle spese conformi a quelli legali ed a tali criteri devono uniformarsi nei casi di revisione, possono essere modificate dall'assemblea con la maggioranza stabilita dal comma 2 dell'art. 1136 c.c. (in relazione all'art. 1138, comma 3, c.c.) ovvero con atto dell'autorità giudiziaria ex art. 69 disp. att. citato; ne consegue che, mentre è affetta da nullità la deliberazione che modifichi le tabelle millesimali convenzionali adottata dall'assemblea senza il consenso unanime dei condomini o se non siano stati convocati tutti i condomini, è valida la deliberazione modificativa della tabella millesimale di natura non convenzionale adottata dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal comma 2 dell'art. 1136 c.c.

Infine, riguardo alle spese, sul presupposto che l'obbligo di pagare i contributi condominiali trova il suo fondamento nell'essere il condomino comproprietario dei beni alla cui conservazione e manutenzione deve contribuire, si è ritenuto invalida la norma del regolamento condominiale non contrattuale che – al di là dell'unanime consenso di tutti i condomini – ponga a carico del condomino con il meccanismo della deliberazione assembleare oneri non previsti dalla legge (Cass. II, n. 8490/2005: fattispecie in tema di contribuzione alle spese per lavori di giardinaggio eseguiti dal condominio su terreni solo in possesso dello stesso e non di proprietà comune).

Derogabilità delle maggioranze legali

L'art. 1136 c.c. stabilisce, dunque, le maggioranze richieste per la validità delle deliberazioni: tale norma ha carattere assolutamente inderogabile in forza del disposto dell'art. 1138, penultimo comma, c.c., nel senso che non può essere derogata nemmeno sulla base dell'accordo unanime di tutti i partecipanti al condominio (Capponi, 459), anche per la ragione che le maggioranze necessarie alle deliberazioni riguardano soprattutto interessi collettivi dell'intero condominio come ente.

A questo punto, ci si è chiesti se il divieto di deroga delle maggioranze legali valesse solo per quelle inferiori o superiori, oppure per entrambe.

In realtà, si è sostenuto in dottrina che non si possa attribuire validità a norme regolamentari che stabiliscano qualsiasi quorum deliberativo differente da quelli legali (Massacci, 413), poiché, se, da un lato, il legislatore, per evidenti motivi di garanzia, ha inteso evitare l'approvazione di deliberazioni con maggioranze inferiori da quelle da lui stesso fissate, dall'altro, per non paralizzare l'attività dell'organo gestorio, non ha permesso nemmeno maggioranze superiori, e comunque eccessivamente gravose per il funzionamento del condominio

Anche la giurisprudenza è stata di questa opinione (Cass. II, n. 2155/1966), cioè che l'inderogabilità dell'art. 1136 c.c., ai sensi del successivo art. 1138, debba essere intesa nel senso che il divieto di pattuire delle maggioranze diverse da quelle legali riguarda non solo maggioranze inferiori, ma anche superiori (nella stessa lunghezza d'onda, v., nella giurisprudenza di merito, Trib. Lecco 12 aprile 1999, secondo cui, poiché non sono derogabili dal regolamento condominiale, anche se di natura contrattuale, le disposizioni concernenti la composizione ed il funzionamento dell'assemblea, è nulla per contrarietà a norme imperative ex artt. 1136 e 1138 c.c. la clausola che, inserita in tutti i contratti di acquisto dall'originario unico proprietario costruttore e, quindi, parificabile al regolamento contrattuale, preveda una maggioranza di due terzi delle quote condominiali per la deliberazione di opere di manutenzione straordinaria, conseguendone che devono trovare applicazione le maggioranze previste dall'art. 1136 c.c.; cui adde Trib. Cagliari 5 settembre 1988).

Illuminanti, al riguardo, le precisazioni offerte dai giudici di Piazza Cavour in ordine ai termini generali della problematica de qua; si premette che l'art. 1138, penultimo comma, c.c. contempla due distinte disposizioni: l'una generica, l'altra specifica; la prima esclude che i regolamenti di condominio possano menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e la seconda dichiara inderogabili, in nessun caso, le disposizioni di cui agli artt. 1119,1120,1129,1131,1132,1136 e 1137 c.c.; si ammette che il regolamento contrattuale possa sottoporre a limitazioni l'esercizio dei poteri e delle facoltà, che normalmente caratterizzano il contenuto del diritto di proprietà, tanto sulle parti comuni, quanto sui piani o porzioni di piano; per contro, si esclude che lo stesso regolamento possa derogare alle disposizioni riguardanti l'organizzazione del gruppo, ossia la dinamica dell'amministrazione e della gestione del condominio (Cass. II, n. 7894/1994).

Su tali premesse, i giudici di legittimità ribadiscono l'assunto che le stesse limitazioni riguardano la possibilità, da parte del regolamento contrattuale, di derogare alla composizione dell'assemblea, cui devono partecipare tutti i condomini; che il legislatore abbia sancito l'assoluta inderogabilità delle disposizioni concernenti la composizione ed il funzionamento dell'assemblea da parte di qualunque regolamento, maggioritario o contrattuale, si argomenta, innanzitutto, dal tenore letterale della norma, che si esprime in termini categorici («in nessun caso possono derogare») e prevede in generale i regolamenti, e non solo i regolamenti approvati a maggioranza, ricordati nel comma precedente.

D'altronde, l'interpretazione letterale è confortata da argomenti sistematici di considerevole importanza; la prima e la seconda parte del comma 4 dell'art. 1138 c.c. (vecchio testo), invero, non contemplano disposizioni omogenee: l'autonomia privata può rinunciare al diritto di proprietà (quando è consentito), o fissare limitazioni ragguardevoli al suo esercizio, mediante la costituzione di diritti reali frazionari, per contro, l'autonomia privata, almeno di regola, non può derogare alle norme riguardanti agli organi collegiali, che specificamente tutelano le minoranze, alle cui garanzie non possono abdicare neppure gli interessati; una cosa è la rinuncia alla proprietà, o la limitazione al suo esercizio, mediante la costituzione di diritti reali frazionari, altro è il travisamento e l'alterazione della natura delle facoltà e dei poteri inerenti alla partecipazione all'organo collegiale, cui per legge è affidata la gestione delle parti comuni.

Pertanto, è vero che l'assemblea – ma lo stesso dicasi dei regolamenti, che sono le leggi interne che si possono votare a maggioranza – ha poteri non solo di gestione ma anche di organizzazione interna del condominio, ma è altrettanto vero che gli stessi non possono giungere fino a dettare il modo di formazione della volontà collettiva; un organismo come l'assemblea, quindi, è in grado di regolare la propria attività futura, ma non la propria composizione ed il modo stesso in cui si forma la propria voce – addirittura, senza il voto di tutti i suoi componenti – sicché le maggioranze di cui all'art. 1136 c.c. non potranno essere modificate né in un senso né in un altro, cioè né per attenuarle né per accrescerle (non è, quindi, consentita alcuna analogia con quanto disposto dagli artt. 2368 e 2369 c.c. in tema di assemblea delle società).

Nello stesso ordine di idee, non deve ritenersi valido un regolamento di condominio, anche se di carattere contrattuale, che si accontenti della sola maggioranza dei valori o dei numeri, oppure che ammetta la validità dell'assemblea in prima convocazione prescindendo dai quorum previsti, in quanto – lo si ripete – la norma in esame è inderogabile anche da parte dell'unanimità dei condomini.

Un'altra pronuncia del Supremo Collegio, più risalente nel tempo, si è occupata di un regolamento formato nel lontano 1923, rilevando che le norme sulle maggioranze riguardo al numero dei condomini e ai millesimi rappresentati non sono derogabili da clausole regolamentari, nemmeno se si tratti di regolamenti contrattuali e nemmeno se tali clausole siano contenute in un regolamento redatto prima dell'entrata in vigore del codice civile del 1940, inefficaci, infatti, per effetto dell'applicazione dell'art. 155, ultimo comma, disp. att. c.c. (Cass. II, n. 2427/1967, la quale ha considerato illegittima la clausola che fissava la validità delle deliberazioni delle assemblee unicamente con riferimento ai valori delle quote dei votanti, negando efficacia al correlativo criterio del numero dei partecipanti alle assemblee).

In buona sostanza, il legislatore italiano ha dosato così minutamente i quorum delle assemblee, quanto a validità della costituzione e deliberazione, da ritenere che una diversa disciplina possa danneggiare il governo del condominio; d'altronde, costituisce preminente interesse dell'ordinamento che i condominii, così diffusi da coprire una larghissima area della proprietà edilizia, siano governati tutti analogamente, ossia con assemblee che si formino e decidano secondo regole uguali in tutto il territorio nazionale.

Singole decisioni assembleari

Nomina dell'amministratore

Il comma 4 dell'art. 1136 c.c. contempla la maggioranza qualificata del comma 2 – ossia numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio – in primis per «le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore».

In ordine al raggiungimento di tale maggioranza, era intervenuta espressamente una pronuncia del Supremo Collegio, per la quale relativamente alle deliberazioni dell'assemblea in seconda convocazione concernenti le materie previste nel comma 4 dell'art. 1136 c.c., il richiamo della maggioranza stabilita nel comma 2 di detto articolo non valeva ad estendere il quorum costitutivo dell'assemblea in prima convocazione, ma importava che, per l'approvazione di esse, fosse richiesta una maggioranza che rappresenti almeno metà del valore dell'edificio e che fosse costituita dalla maggioranza degli intervenuti e da almeno un terzo dei partecipanti al condominio (Cass. II, n. 901/1980).

Per quanto concerne in particolare la nomina dell'amministratore, il pensiero corre sùbito al disposto dell'art. 1129 c.c. il quale, al comma 1, prescrive che, quando i condomini sono più di otto, se l'assemblea non vi provvede, la nomina dell'amministratore è fatta dall'autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini (le novità apportate dalla l. n. 220 del 2012 sono consistite, per un verso, nell'innalzare la soglia legale dagli iniziali quattro condomini e, per altro verso, nel legittimare anche l'amministratore dimissionario ad adire il magistrato).

Mette punto rammentare che l'art. 1138 c.c. elenca una serie di disposizioni, relative all'ordinamento condominiale, ivi comprese quelle concernenti la nomina (e la revoca) dell'amministratore, la cui inderogabilità è assoluta, sicché la disciplina non può subire deroghe o modifiche neppure in base a regolamenti condominiali, ancorché contrattuali, o ad altre convenzioni intercorse tra le parti.

In questa prospettiva, ove una clausola regolamentare preveda la non obbligatorietà della nomina dell'amministratore, essa sarà inefficace sin dall'inizio se i condomini, intesi appunto come proprietari pro indiviso delle parti dell'edificio, siano originariamente almeno nove, e, diversamente, diventa inefficace nel momento in cui i condomini raggiungano tale numero (Cass. II, n. 2155/1966); parimenti, è stata considerata nulla la clausola che, in contrasto con quanto stabilisce l'art. 1129 c.c. riguardo alla competenza assembleare circa la nomina dell'amministratore ed alla durata dell'incarico, riservi ad un determinato soggetto – di solito, il costruttore dell'edificio – per un tempo indeterminato, la carica di amministratore del condominio (Cass. II, n. 13011/2013).

Di regola, la nomina dell'amministratore avviene con deliberazione dell'assemblea, ma può avvenire, con pari efficacia, anche in modo diverso, come, ad esempio, in forza di un accordo tra i partecipanti ed un contratto tra loro e l'amministratore, soprattutto quando è fissato un corrispettivo per l'espletamento dell'incarico, e talvolta, la persona dell'amministratore è precisata dal proprietario unico dell'edificio nei singoli contratti di alienazione dei piani o appartamenti.

In fattispecie anteriori all'entrata in vigore della l. n. 220/2012, si è statuito (Cass. II, n. 2242/2016; Cass. II, n. 3296/1996; Cass. II, n. 1791/1993) che la nomina dell'amministratore del condominio è soggetta all'applicazione dell'art. 1392 c.c., sicché, salvo siano prescritte forme particolari e solenni per il contratto che il rappresentante deve concludere, la procura di conferimento del potere di rappresentanza può essere verbale o tacita, e può risultare, indipendentemente dalla formale investitura assembleare e dall'annotazione nello speciale registro di cui all'art. 1129 c.c., dal comportamento concludente dei condomini, che abbiano considerato l'amministratore tale a tutti gli effetti, rivolgendosi a lui abitualmente in detta veste, senza metterne in discussione i poteri di gestione e di rappresentanza del condominio.

D'altronde, l'art. 1129, comma 1, c.c., prescrivendo che, quando i condomini sono più di otto, l'assemblea nomina un amministratore, sembra prescindere del tutto dal sistema di votazione, cioè dalle condizioni di validità delle deliberazioni di nomina (unanimità, maggioranza semplice o qualificata), ed impone soltanto un obbligo (si parla, al riguardo, di istituzionalizzazione della figura dell'amministratore, tanto che, in caso di inerzia del supremo organo gestorio, può intervenire in supplenza il giudice); le predette condizioni – necessarie anche per la revoca e, secondo l'opinione dominante anche per la conferma, v. appresso – sono, invece, stabilite dal successivo art. 1136, commi 2 e 4, c.c., per il quale sono valide le deliberazioni approvate, appunto, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio.

La prospettiva sembra mutata a seguito della Riforma del 2013, nel senso di ritenere la nomina dell'amministratore debba ritenersi realizzata, con la derivante efficacia nei confronti dei terzi, anche ai fini della rappresentanza processuale dell'ente, solo dal momento in cui sia adottata la relativa deliberazione dell'assemblea nelle forme di cui all'art. 1129 c.c.

In altri termini, non dovrebbe più rilevare il dato che l'amministratore possa essere nominato pure mediante una manifestazione di volontà diversa dall'espressa investitura nell'ufficio da parte dell'assemblea: la formale deliberazione di nomina, nelle modalità supposte dall'art. 1129, comma 1, c.c., soddisfa, infatti, le esigenze di certezza e di affidamento avvertite dagli estranei che debbano negoziare con il condominio o agire in giudizio nei suoi confronti; il terzo che vuol far valere in giudizio un diritto nei confronti del condominio ha, quindi, l'onere di chiamare in giudizio colui che ne ha la rappresentanza sostanziale secondo la deliberazione dell'assemblea dei condomini, e non può tener conto di risultanze derivanti da documenti diversi dal relativo verbale (e ciò a fortiori, a seguito degli obblighi di informazione, di trasparenza e di completezza, cui è ora vincolato l'amministratore al momento stesso del conferimento dell'incarico).

Per completezza, va rilevato che, anche nei c.d. piccoli condominii, vale a dire quelli con solo otto partecipanti od un numero inferiore di essi, l'assemblea, sebbene non obbligata, può nominare un amministratore, restando inteso che il mandato ad amministrare viene conferito dall'assemblea e non dai singoli condomini, nei confronti dei quali, quindi, l'amministratore conserva una posizione di piena ed assoluta autonomia.

Vi è, tuttavia, disputa se debba applicarsi la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, commi 2 e 4, c.c.; il quorum più elevato, però, sarà comunque inapplicabile qualora i partecipanti dovessero essere soltanto due, non essendo, infatti, possibile ottenere una maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio, per cui, ai fini della nomina dell'amministratore, sarà necessaria l'unanimità dei consensi (la predetta maggioranza potrebbe non essere raggiungibile anche quando la maggioranza numerica dei condomini non rappresenti almeno la metà dell'edificio).

Al riguardo, la giurisprudenza si era mostrata per la negativa, nel senso che operavano le regole generali della comunione previste dagli artt. 1105 e 1106 c.c., e cioè sarà sufficiente la semplice maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote (Cass. II, n. 24/1966; Cass. II, n. 2246/1961; Cass. II, n. 1450/1950).

Più di recente – specie sull'abbrivio di Cass. S.U., n. 2046/2006 si è, invece, dell'avviso per cui, instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali e riscontrandosi la medesima situazione nel condominio c.d. minimo, ne discende che anche rispetto a quest'ultimo trova applicazione, sia per l'organizzazione interna dell'assemblea sia per le situazioni soggettive dei partecipanti, la disciplina di cui agli artt. 1117 ss. c.c., potendo pertanto in tal caso i condomini, in applicazione del principio maggioritario ed anche se in numero inferiore, rispettivamente, a quattro (ora otto) e dieci, nominare un amministratore ed approvare un regolamento (Cass. II, n. 20771/2017).

Sul punto, la dottrina si presenta divisa: per la positiva, si sottolinea che, anche quando la nomina dell'amministratore sia facoltativa, questi, una volta nominato, ha necessariamente i poteri che la legge gli attribuisce ex artt. 1130 e 1131 c.c., sicché la sua nomina, per essere valida, deve avvenire nel modo e nelle forme prescritte dalla legge, e cioè dal comma 4 dell'art. 1136 c.c. (Salis 1962, 301), mentre, in senso contrario, si è ritenuto che, non essendo operante l'art. 1129 c.c., la normativa applicabile è solo quella della comunione, sia pure in senso restrittivo, in quanto la nomina dell'amministratore, ove non sia obbligatoria, toglie ai condomini una delle potestà caratteristiche attinenti al diritto condominiale, vale a dire quella dell'amministrazione diretta (Peretti Griva, 403).

Resta il fatto che si registrano ancora due situazioni che sfuggono all'esplicita regolamentazione dell'art. 1129 c.c., ossia l'ipotesi dell'amministratore da nominare in un edificio in cui il numero dei condomini sia inferiore a nove, e l'ipotesi, all'inverso, in cui, pur essendo i partecipanti più di tutti, gli stessi concordino sulla superfluità di nominare l'amministratore, nel qual caso, ferma la possibilità sempre di sperimentare la strada della nomina giudiziale, il punto di riferimento nei rapporti con i soggetti esterni al condominio dovrebbe individuarsi nella «persona che svolge funzioni analoghe a quelle dell'amministratore» contemplata dall'art. 1129, comma 6, c.c. (Colonna, 333).

Conferma dell'amministratore

Il comma 4 dell'art. 1136 c.c., imponendo maggioranze qualificate, si riferisce soltanto alla «nomina» ed alla «revoca» dell'amministratore, nulla statuendo in ordine alla sua «conferma», ancora prevista invece nell'art. 1135, n. 1), c.c.

Sul punto, si poteva opinare che, per la conferma dell'amministratore, poteva bastare la maggioranza prevista dal comma 3 dell'art. 1136 c.c. – ossia il voto favorevole di un terzo dei partecipanti al condominio che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio – giacché il quorum qualificato di cui al successivo comma 4 (che richiamando il comma 2, impone il raggiungimento di un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio) era espressamente prescritto solo per la nomina – oltre che per la revoca – dell'amministratore.

In realtà, allo scadere del mandato, l'assemblea è tenuta a nominare l'amministratore, o nella persona di un soggetto nuovo, vale a dire diverso dal precedente, oppure quest'ultimo, se intende ribadirgli la fiducia concessa; ma anche la conferma si riduce ad una nomina, in quanto con la stessa viene conferito il potere di gestione delle parti comuni per l'ulteriore e successivo anno e non può considerare un atto di ordinaria amministrazione.

Quindi, trattandosi nel caso di conferma pur sempre di un atto di nomina, con gli stessi effetti, ma avente ad oggetto la stessa persona fisica del medesimo amministratore già in carica, la giurisprudenza è orientata nel senso che siano prescritte le stesse maggioranze qualificate previste per la nomina (Cass. II, n. 71/1980; Cass. II, n. 3797/1979; Cass. II, n. 2246/1961).

Anche a seguito dell'entrata in vigore della Riforma del 2013, ci si è interrogati se, per la nomina dell'amministratore già in carica, al termine del biennio di durata dell'incarico dato dal meccanismo di cui al comma 10 dell'art. 1129 c.c., sia sufficiente la maggioranza semplice di cui al comma 3 dell'art. 1136 c.c. oppure occorra la maggioranza qualificata di cui al comma 4 del medesimo art. 1136.

Tuttavia, a fortiori nel ridisegnato sistema di durata e di rinnovo dell'incarico di amministratore, gli stessi presupposti di validità (e, dunque, pure gli stessi quorum) che condizionano la nomina dell'amministratore sembrano vincolare altresì la conferma dell'amministratore dopo la scadenza dell'iniziale mandato, rivelando le due deliberazioni contenuto ed effetti giuridici eguali, e differendo soltanto nella circostanza che la conferma riguarda persona già in carica mentre la nomina riguarda una persona nuova (per spunti argomentativi, v. Cass. II, n. 4269/1994; Cass. II, n. 3797/1978).

Al riguardo, i giudici di merito non si rivelano concordi: alcuni ritengono che, per la conferma dell'amministratore in carica, sia sufficiente la maggioranza ordinaria prevista dall'art. 1136, comma 3, c.c., in quanto la conferma dell'amministratore in carica è fattispecie diversa da quella della nomina e della revoca, per le quali, invece, è richiesta la maggioranza qualificata prevista dal comma 4 della stessa norma, sicché la rielezione dell'amministratore nella carica precedentemente ricoperta può essere deliberata con voti favorevoli che rappresentano almeno un terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio (Trib. Roma 15 maggio 2009); altri, invece, opinano che il quorum previsto dall'art. 1136, comma 4, c.c. sia applicabile sia all'ipotesi di nomina iniziale sia a quella di conferma successiva dell'amministratore di condominio, in quanto trattasi in tutti e due i casi di scelta del rappresentante amministratore anche se con riferimento a due diversi momenti dell'istituto condominiale, quello del venir in essere del condominio e quello dello sviluppo della sua esistenza (Trib. Milano 17 giugno 1991; Trib. Pavia 23 maggio 1988; Trib. Monza 19 febbraio 1986).

Revoca dell'amministratore

Il comma 4 dell'art. 1136 c.c. prescrive la maggioranza qualificata anche per la revoca dell'amministratore: invero, il precedente art. 1129 c.c. – come fortemente implementato dalla Riforma del 2013 – prevede, al comma 11, che, tra i poteri dell'assemblea, vi sia anche quello di revocare in qualunque momento l'amministratore in carica.

A ben vedere, tale capoverso reitera la previsione secondo la quale la revoca dell'amministratore possa essere deliberata «con la maggioranza prevista per la sua nomina oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio»; quest'ultima espressione ha lasciato alquanto perplessi gli interpreti (Cirla-Rota, 179, secondo i quali il regolamento può modificare soltanto il procedimento di revoca, e non anche i quorum occorrenti per provvedervi), atteso che i quorum in tale materia risultano inderogabili in forza del richiamo operato dall'art. 1138, comma 4, c.c. all'intero art. 1129 c.c., sicché è ragionevole ritenere che il regolamento di condominio possa soltanto prevedere diverse «modalità» per decidere la revoca di un amministratore (ad esempio, sentirlo a sua difesa nell'assemblea convocata per la sua destituzione, laddove regole di buona educazione, di solito, sconsigliano la presenza dello stesso amministratore ogniqualvolta si discuta del suo operato al fine di lasciare i condomini liberi di esprimere le loro opinioni).

La questione più discussa è se all'amministratore revocato, con le maggioranze prescritte, spetti la retribuzione pattuita per tutto l'anno di gestione o unicamente i ratei oppure un indennizzo.

Si ritiene che l'amministratore non abbia diritto al risarcimento dei danni anche quando la stessa avvenga senza giusta causa: invero, l'esame analitico delle norme contenute nell'art. 1129 c.c. porta alla conclusione che nessun limite sia posto al potere dell'assemblea, neppure quando l'attività dell'amministratore sia retribuita, con la conseguenza che, pur quando la revoca sia immotivata o supportata da motivazioni insufficienti, nulla è dovuto all'amministratore sotto il profilo risarcitorio.

Il comma 11 del disposto in oggetto stabilisce, infatti, che l'amministratore può essere revocato «in ogni tempo» dall'assemblea – si parla anche di recesso unilaterale ad nutumsenza distinguere se trattasi di funzione esercitata con retribuzione o meno, e senza prescrivere che debbano ricorrere giustificati motivi perché la revoca sia legittima (v., tra le altre, Cass. II, n. 1865/1968, la quale ritiene incensurabile in sede di legittimità l'apprezzamento di fatto compiuto dalla maggioranza in ordine alla deliberazione di revoca dell'amministratore, nemmeno quando si deduca che, mediante la revoca, siano state violate le norme sul rapporto sostanziale di mandato, salvo che la deliberazione stessa sia viziata da eccesso di potere; Cass. II, n. 2155/1966).

In particolare, i giudici di legittimità hanno statuito che la revoca dell'amministratore di un condominio può avvenire in qualsiasi tempo e non richiede la menzione o la sussistenza di una giusta causa, dato che il rapporto tra amministratore ed assemblea riposa esclusivamente sulla fiducia che i partecipanti al condominio nutrono nei suoi confronti; venuta meno tale fiducia, manca il fondamento stesso della permanenza in carica dell'amministratore, il quale, con l'adozione della deliberazione di revoca, perde ogni potere inerente alle sue mansioni ed è tenuto, tra l'altro, a restituire ogni cosa di pertinenza del condominio; in mancanza, è legittima la richiesta al giudice competente di adottare un provvedimento d'urgenza a norma dell'art. 700 c.p.c., mentre non è applicabile l'art. 1105, ultimo comma, c.c., in quanto la mancata esecuzione della deliberazione – che a tenore della norma anzidetta giustifica il ricorso all'autorità giudiziaria (Tribunale in camera di consiglio) – deve dipendere da incuria o resistenza del partecipante o dei partecipanti alla comunione, e non dal comportamento di un soggetto diverso (Cass. II, n. 11472/1991).

Per fare qualche esempio, la revoca da parte dell'assemblea può trarre ragione – oltre che, ovviamente, dalle «gravi irregolarità», ora menzionate nel comma 12 dell'art. 1129 c.c., che legittimerebbero il ricorso al giudice – da validi motivi, quali il disordine nella tenuta delle scritture contabili, la trasandatezza nella gestione, ecc.; può, altresì, essere fondata sul sopravvenire di una causa ostativa alla nomina; può trattarsi, infine, di mera opportunità, come nel caso di comportamento scorretto nei confronti dei condomini, di situazione di tensione con alcuni di loro, e quant'altro; in ogni caso, stante l'ampiezza del dato testuale, tale revoca è valida anche se non risulta sorretta da alcuna motivazione (Lazzaro-Stingardini, 79).

Nei confronti dell'amministratore, quindi, non c'è alcun impegno da chi lo ha voluto o preposto, che possa resistere al potere di rompere il rapporto ad libitum, nel senso che nulla può costringere a conservare un mandato – di cui anche fosse pattuita l'irrevocabilità (art. 1723 c.c.) – quando cessa la fiducia del mandante; nei rapporti interni, i condomini possono obbligarsi vicendevolmente a non revocare l'amministratore per un certo periodo di tempo, ma se alcuni di loro, con la maggioranza prescritta dalla legge, abbiano deliberato all'esterno, vale a dire nei confronti di quel terzo che è l'amministratore, di revocarlo, il predetto obbligo reciproco interno non può togliere efficacia alla deliberazione.

Il comma 11 dello stesso articolo, allorché conferisce all'autorità giudiziaria, su istanza di ciascun condomino, il potere di revoca dell'amministratore, specifica, invece, i casi nei quali codesto potere può essere esercitato, contrapponendo, quindi, tale ipotesi a quella disciplina nel capoverso precedente, in cui appunto nessun limite è posto dal legislatore; se, dunque, non vi sono condizioni cui è subordinata la legittimità della revoca assembleare, non è ipotizzabile un risarcimento del danno, che nella specie conseguirebbe ad un comportamento legittimo, essendo evidente che una responsabilità per comportamento legittimo intanto può essere ipotizzata, in quanto sia espressamente prevista dalla legge.

Giova ricordare, in proposito, che, a norma dell'art. 1709 c.c., il mandato si presume oneroso e l'art. 1724 c.c., in caso di revoca del mandato prima della scadenza del termine, obbliga il mandante a risarcire il danno sofferto dal mandatario «salvo che ricorra una giusta causa», mentre analoga disciplina, sotto il profilo risarcitorio, si trova sostanzialmente negli artt. 2259 e 2383, comma 3, c.c. in tema di revoca degli amministratori della società semplice e per azioni, mentre nulla dispone la disciplina in materia di condominio (anche se ora l'art. 1129, penultimo comma, c.c. richiama, per quanto non espressamente previsto, le disposizioni del mandato).

Ora, l'espresso riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in ipotesi precise – come quella di cui all'art. 1131, ultimo comma, c.c., qualora ma questa volta a carico dell'amministratore che non adempie all'obbligo di dare senza indugio notizia all'assemblea dei condomini dei provvedimenti giudiziari a lui notificati ma esorbitanti dal contenuto delle sue attribuzioni, o quella contemplata nell'art. 69, comma 2, disp. att. c.c., nel caso in cui lo stesso amministratore non informi dell'assemblea di un'azione volta alla revisione della tabella millesimale – inducono a ritenere che l'incarico fiduciario, conferito dall'assemblea all'amministratore, possa essere sempre revocato dalla stessa assemblea senza addurre giustificazione alcuna e, quindi, senza esporre il condominio ad una responsabilità per il risarcimento danni qualora la revoca non venga giustificata (ovviamente non spetteranno all'amministratore né preavviso né indennità di anzianità, non essendo egli un lavoratore dipendente, ma solo un professionista autonomo che cura gli interessi dell'ente condominiale).

Un altro orientamento (Branca, 561) ritiene, al contrario, che soltanto quando vi siano giusti motivi, tali da rendere incompatibile che l'amministratore permanga nella mansione affidatagli, la revoca infra l'anno è giustificata, essendovi una colpa addebitabile al mandatario, per cui, anche se l'incarico era retribuito, nulla gli è dovuto (ma lo stesso discorso dovrebbe riguardare l'amministratore che rinuncia senza giusta causa al mandato, potendo questa volta il condominio-mandante avanzare pretese risarcitorie).

In ordine all'ammontare dei danni, considerando l'espletamento di un'attività professionale talvolta complessa – con predisposizione di mezzi e conseguenti spese, spesso anche rilevanti, sostenute in previsione della durata del mandato – alcuni lo limitano al solo lucro mancato, cioè alle mensilità che lo stesso avrebbe conseguito fino alla scadenza del termine annuale, e, in pratica, il guadagno su cui l'amministratore poteva contare quando aveva accettato l'incarico, in quanto egli avrebbe potuto impegnarsi in altro lavoro e nessuno dovrebbe lavorare gratuitamente, così conciliando, da una parte, l'interesse dell'assemblea di liberarsi di una persona non più gradita e, dall'altra parte, quello dell'amministratore di poter contare sull'indennizzo che aveva già messo nel suo bilancio di previsione (Visco 1976, 389); altri, invece, ritengono che i predetti danni debbano essere liquidati secondo il comune criterio del damnum emergens e del lucrum cessans, restando esclusi, salvo il caso di dolo, i danni imprevedibili, trattandosi di responsabilità contrattuale, e includendovi anche quelli non patrimoniali ai sensi dell'art. 185 c.p., se la revoca risulti ingiuriosa sì da giustificare una condanna penale (Peretti Griva, 410).

Così ragionando, però, l'esercizio del potere di revoca assembleare sarebbe praticamente limitato, in quanto, sia pure in via indiretta, si riconosce all'amministratore il diritto di rimanere in carica quando manchino «giusti motivi» per una revoca ante tempus, e, addirittura, il diritto al risarcimento del danno per l'esercizio, da parte dell'assemblea, di un potere certamente legittimo, perché riconosciuto dalla legge, e non subordinato alla dimostrazione dell'esistenza di una valida ragione; senza contare che il richiedere, da parte dell'assemblea, giustificazioni per la revoca del mandato prima del termine dello stesso, non solo complicherebbe le cose, ma porterebbe necessariamente a verbalizzare addebiti, o critiche, all'operato dell'amministratore – scelto, molto spesso, tra gli stessi partecipanti, in forza di un incarico fiduciario dato senza troppe formalità – «suscettibili di invelenire quei dissensi o disaccordi purtroppo connaturali alla gran parte dei condominii, favorendo l'insorgere di controversie giudiziarie dannose per tutti» (così Salis 1967, 52).

Resta inteso che – comunque si voglia risolvere la questione risarcitoria in caso di recesso immotivato – l'amministratore condominiale, anticipatamente revocato dall'assemblea, non ha diritto al pagamento dell'intero compenso stabilito per la normale durata dell'incarico, ma alla minor somma liquidata in proporzione al tempo di effettiva esecuzione del mandato (si segnala anche Cass. II, n. 2214/1976, secondo cui l'amministratore che, cessato dalla carica per scadenza del termine previsto dall'art. 1129 c.c., continui ad esercitare i suoi poteri ad interim, sino a che sia sostituito da altro amministratore, ha diritto, per il periodo di interinato, ad essere compensato secondo i criteri stabiliti per il periodo precedente).

Liti attive

Il comma 4 dell'art. 1136 c.c. prevede il quorum qualificato del comma 2 (anche) per le deliberazioni riguardanti «le liti attive e passive che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore».

Infatti, l'art. 1131 c.c. – invariato anche alla luce della l. n. 220/2012 e al cui commento si rinvia – disciplina la rappresentanza del condominio nel processo, specificando che, nell'àmbito delle attribuzioni stabilite dal disposto del precedente art. 1130 o dei maggiori poteri eventualmente conferitigli dal regolamento condominiale o dall'assemblea, è l'amministratore ad assumere la rappresentanza dei condomini ed è a lui attribuita la potestà di agire in giudizio sia contro i condomini che contro i terzi; correlativamente, egli, secondo la previsione del comma 2 dell'art. 1131 c.c., può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio.

In generale, può, quindi, affermarsi che la legittimazione dell'amministratore resta circoscritta alle questioni che attengono alle parti comuni dell'edificio, in esse ricomprendendosi non soltanto quelle la cui comproprietà spetta a tutti i condomini, ma anche quelle che, pur appartenendo in via esclusiva ad uno od a taluni di essi, sono tuttavia poste al servizio di tutti, e, come tali, ricomprese nella gestione dell'amministratore; resta, così, esclusa la legittimazione dell'amministratore – tanto per fare qualche esempio – in caso di violazione delle distanze legali che riguardino proprietà esclusive (Cass. II, n. 2656/1964), o di azione contrattuale di garanzia per vizi della cosa venduta exartt. 1490 ss. c.c. (Cass. II, n. 7527/1983; Cass. II, n. 6370/1979), oppure di azione di risarcimento per sopraelevazione effettuata da un condomino (Cass. II, n. 1068/1968).

Tuttavia, è possibile che i singoli condomini conferiscano all'amministratore – anche attraverso il meccanismo della deliberazione assembleare – il potere di agire per la tutela delle cose di proprietà esclusiva: in tal caso, però, la legittimazione di quello trova esclusivo fondamento nell'espresso mandato conferitogli dai predetti condomini, sicché, ove lo stesso sia dato in sede assembleare, è necessaria la sottoscrizione del relativo verbale da parte di tutti i partecipanti, stante che il conferimento del mandato deve essere rivestito della forma scritta (Cass. II, n. 4623/1984); tale verbale viene cosí ad integrare gli estremi dell'atto scritto richiesto dall'art. 77 c.p.c., senza necessità che la suddetta sottoscrizione sia autenticata da un notaio (Cass. II, n. 2401/1988); una fattispecie particolare può configurarsi nel caso di responsabilità contrattuale del costruttore per vizi riguardanti le parti ed i servizi comuni di un edificio condominiale – a differenza che in quella di responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c. – dove la legittimazione attiva spetta soltanto ai singoli condomini, nei cui confronti il costruttore si è obbligato, e l'amministratore del condominio può validamente agire soltanto in base ad uno specifico mandato conferitogli dai singoli condomini (Cass. II, n. 3500/1987; Cass. II, n. 1912/1985).

Per quanto riguarda, in particolare, le liti attive, abbiamo visto che, ai sensi dell'art. 1131, comma 1, c.c., i poteri processuali dell'amministratore coincidono con la sfera delle sue attribuzioni sostanziali (salvo che più ampi poteri non gli derivino dal regolamento condominiale o da un'apposita determinazione assembleare): quindi, l'amministratore è legittimato al promovimento del giudizio soltanto con riferimento a quelle azioni che costituiscono diretta esplicazione delle sue attribuzioni ordinarie, peraltro notevolmente implementate con l'entrata in vigore della Riforma del 2013.

Nelle ipotesi in cui, invece, il merito della controversia esuli dalla sfera di attribuzioni precisate dal precedente art. 1130 c.c., e comunque attenga ad obblighi esclusivi dei singoli condomini, la predetta rappresentanza processuale attiva dell'amministratore è esclusa (Cass. II, n. 9378/1997), e resta subordinata all'esistenza di una manifestazione di volontà dei condomini, sia che essa venga esternata nel regolamento condominiale, sia che risulti contenuta in un'apposita deliberazione assembleare adottata con la maggioranza qualificata di cui sopra (Cass. II, n. 1705/1984).

Si pensi alle azioni reali, come quelle di revindica, che esulano dall'àmbito degli atti meramente conservativi, al cui compimento l'amministratore è legittimato per espressa previsione di legge ex art. 1130, n. 4), c.c. (Cass. II, n. 840/1998; Cass. II, n. 4856/1993; Cass. II, n. 4530/1993; quando, invece, non si tratta di revindica, ma di una domanda rivolta al conservare il corretto diritto di uso sulla parte comune, secondo la sua funzione e l'originaria destinazione, sussiste l'autonoma legittimazione dell'amministratore, v. Cass. II, n. 13102/1997, in materia di escavazione del sottosuolo effettuata da alcuni condomini, proprietari dei locali sotterranei, per l'ampliamento ed unificazione degli stessi), oppure come quelle volte a denunziare la violazione delle distanze legali tra costruzioni, essendo dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità ed al contenuto dei diritti dei condomini sulle parti comuni dell'edificio (Cass. S.U., n. 10615/1996), oppure come quelle tese ad esercitare la actio confessoria servitutis in favore del condominio e nei confronti di un terzo (Cass. II, n. 9573/1997), oppure come quelle qualificabili come actio negatoria servitutis (Cass. II, n. 12557/1992; Cass. II, n. 1547/1981, circa l'azione diretta ad escludere l'assoggettamento di un androne dell'edificio condominiale al servizio di un vano), nonché si pensi ad alcune azioni risarcitorie (v., tra le altre, Cass. II, n. 4679/1992 circa la domanda di risarcimento danni conseguenti al deprezzamento delle parti comuni dell'immobile condominiale che, non essendo diretta alla conservazione dello stabile, resta nell'esclusiva disponibilità dei singoli condomini).

Venendo a fattispecie più recenti – a titolo meramente esemplificativo – si è riconosciuta sussistente la legittimazione autonoma dell'amministratore: riguardo ad azione di ripristino dei luoghi e di risarcimento dei danni nei confronti dell'autore e dell'acquirente di un manufatto che abbia abusivamente occupato una porzione di area (Cass. II, n. 16230/2011); al fine di promuovere azione di responsabilità, ai sensi dell'art. 1669 c.c., nei confronti del costruttore a tutela dell'edificio nella sua unitarietà, e non invece al fine di proporre, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, le azioni risarcitorie per i danni subiti nelle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva (Cass. II, n. 22656/2010); per instaurare un giudizio volto alla rimozione di finestre aperte abusivamente, in contrasto con il regolamento, sulla facciata dello stabile condominiale (Cass. II, n. 14626/2010); per tutte le azioni volte a realizzare la tutela delle parti comuni, fra le quali quelle di natura risarcitoria, con esclusione soltanto delle azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui si riferiscono (Cass. II, n. 23065/2009); con riferimento alla richiesta di misure cautelari inerenti alle parti comuni (Cass. II, n. 24391/2008); al fine di esercitare l'azione di reintegrazione nel possesso in relazione ad un'area destinata ad un diritto di uso comune da parte dei condomini (Cass. II, n. 16631/2007); per ottenere la cessazione degli abusi posti in essere da un condomino, consistenti nell'inosservanza degli orari stabiliti dal regolamento per lo scuotimento dalle finestre delle tovaglie e per la battitura dei tappeti (Cass. II, n. 14735/2006).

Di contro, è stata negata la legittimazione processuale dell'amministratore, in difetto di apposita autorizzazione dell'assemblea: in ordine ad una controversia riguardante i crediti contestati del precedente amministratore revocato (Cass. II, n. 2179/2011); per le azioni reali nei confronti dei terzi a difesa dei diritti dei condomini sulle parti comuni, o tendenti a statuizioni relative alla titolarità ed al contenuto dei diritti medesimi, quale l'accertamento della comunione del diritto reale d'uso costituito con atto pubblico dal venditore-costruttore (Cass. II, n. 24764/2005; Cass. II, n. 5147/2003).

Liti passive

Più semplice appare il discorso per quel che concerne la legittimazione passiva: ai sensi del comma 2 dell'art. 1131 c.c., l'amministratore può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente «le parti comuni dell'edificio», sicché, a differenza della legittimazione attiva, che è – di regola, salvo ampliamenti da parte dell'assemblea – limitata alle questioni connesse alle sue funzioni istituzionali ex art. 1130 c.c., quella passiva riveste una portata generale; nel caso in cui, quindi, il condominio assuma le vesti di convenuto, rispetto ad azioni promosse da terzi o da alcuno dei condomini che investano interessi comuni, l'amministratore è passivamente legittimato a stare in giudizio, senza bisogno di alcuna autorizzazione da parte dell'assemblea.

Pertanto, ai fini dell'esatta individuazione della legittimazione passiva dell'amministratore, occorre soltanto stabilire se la controversia coinvolga interessi concernenti beni, impianti o servizi comuni dell'edificio condominiale, poiché, se, invece, la lite attenga ad interessi individuali o afferisca alle singole proprietà, verrebbe meno la rappresentanza processuale dell'amministratore, e la domanda de qua andrebbe proposta nei confronti del singolo partecipante al condominio.

Va precisato, però, che la giurisprudenza tende ad interpretare estensivamente il concetto di «parti comuni» di cui all'art. 1131 citato, da intendersi non in senso meramente materiale, ma come attinente anche a tutti i rapporti giuridici connessi all'esistenza di parti comuni dell'edificio; in questa prospettiva, l'amministratore ha la legittimazione passiva con riferimento ad azioni (anche di carattere reale) che abbiano ad oggetto parti materiali comunque destinate all'uso comune dei condomini, anche se appartenenti alla proprietà esclusiva ad uno solo dei condomini o ad un terzo, ed anche se ubicate all'esterno dello stabile condominiale; o relativamente a rapporti giuridici originati dall'esistenza delle dette parti comuni, in quanto attinenti all'organizzazione ed all'amministrazione del condominio, nonché al regime dei servizi comuni; o nei giudizi relativi alle ripartizione delle spese per le cose e gli impianti comuni promossi dal condomino dissenziente dalla relativa deliberazione assembleare; oppure ogni qual volta venga in rilievo l'interesse comune dei partecipanti alla comunione, in antitesi con l'interesse individuale di un singolo condomino o di un terzo estraneo alla comunione (v., ex multis, Cass. II, n. 7359/1996; Cass. II, n. 8198/1990; Cass. II, n. 145/1985; Cass. II, n. 3571/1975).

Pertanto, circa i rapporti con l'assemblea, la legittimazione passiva dell'amministratore non è subordinata ad alcuna delibera autorizzativa, purché sempre la controversia attenga a questioni concernenti gli interessi della collettività dei condomini; o esiste o non esiste ab initio, in quanto il criterio discretivo è rappresentato soltanto, rispettivamente, dall'inerenza o meno della lite a tematiche che afferiscano a beni, impianti o servizi comuni; ne consegue che risulta irrilevante sia la mancanza di una deliberazione assembleare diretta ad autorizzare la costituzione in giudizio dell'amministratore, sia l'invalidità di un'eventuale deliberazione in tal senso, in quanto situazioni che sono insuscettibili di far venir meno la predetta legittimazione.

Rilevante è stato, sul punto, l'intervento del massimo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 18331/2010), il quale ha ritenuto che l'amministratore convenuto possa certamente in modo autonomo costituirsi in giudizio, così come impugnare la sentenza sfavorevole al condominio, è ciò nel quadro generale di tutela urgente di quell'interesse comune che è alla base della sua qualifica e della legittimazione passiva di cui è investito; tuttavia, l'operato dell'amministratore deve poi essere sempre ratificato dall'assemblea, in quanto unica titolare del relativo potere, e tale ratifica vale a sanare retroattivamente la costituzione processuale dell'amministratore sprovvisto di autorizzazione dell'assemblea.

Si è acutamente osservato (Vidiri, 189) che questo ormai stabilizzato indirizzo giurisprudenziale, il quale subordina la legittimazione processuale passiva dell'amministratore alla volontà dell'assemblea, dovrebbe indurre, per coerenza, ad abbandonare ogni tesi che individua nell'amministratore stesso un ufficio privato o una rappresentanza necessaria ex lege, ed a propendere convintamente per l'assimilazione del rapporto tra amministratore e condominio ad un mandato collettivo, con conseguente ampia derogabilità della disciplina legale da parte dall'autonomia privata.

Si è, altresì, sottolineato (Poli, 504) che la lettera dell'art. 1131 c.c. non dia conforto alla sussistenza di tale preteso obbligo per l'amministratore di munirsi in ogni caso della previa deliberazione autorizzativa dell'assemblea ai fini della costituzione in giudizio, e, anzi, il dovere dell'amministratore di fornire «senza indugio notizia all'assemblea dei condomini» dell'insaturazione di giudizi nei confronti del condominio, che esorbitino dalle sue attribuzioni sostanziali (art. 1131, comma 3, c.c.) farebbe presupporre una costituzione in giudizio già avvenuta.

Ad ogni buon conto, più di recente, gli stessi giudici di legittimità (segnatamente, Cass. II, n. 1451/2014) hanno circoscritto la portata operativa del decisum delle Sezioni Unite, riguardo alla regola della necessità dell'autorizzazione o della ratifica assembleare per la costituzione in giudizio dell'amministratore, riferendolo soltanto alle cause che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore, ai sensi dell'art. 1131, commi 2 e 3, c.c., ad esempio, accordando all'amministratore la legittimazione ad agire per l'esecuzione di una deliberazione assembleare o a resistere all'impugnazione di una deliberazione da parte del condomino, senza la necessità di avallo dell'assemblea, oppure riconoscendo all'amministratore, in quanto tenuto a curare l'osservanza del regolamento di condominio ex art. 1130, comma 1, c.c., la legittimazione ad agire ed a resistere in giudizio per ottenere che un condomino non adibisca la propria unità immobiliare ad attività vietata dal regolamento contrattuale, senza la necessità di alcuna specifica deliberazione assembleare assunta con la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c., la quale sarebbe richiesta, appunto, unicamente per le liti attive e passive esorbitanti dalle incombenze proprie dell'amministratore stesso.

Ricostruzione dell'edificio

Come terza ipotesi in cui è prescritto il quorum qualificato, il comma 4 dell'art. 1136 c.c. contempla le deliberazioni che concernono «la ricostruzione dell'edificio».

Nello specifico, se l'edificio condominiale perisce interamente o per una parte che rappresenti i tre quarti del suo valore, l'art. 1128 c.c. – al cui commento si rinvia – prevede che ciascuno dei condomini può richiedere la vendita all'asta del suolo e dei materiali, salvo sia stato diversamente convenuto (comma 1), e che l'indennità corrisposta per l'assicurazione relativa alle parti comuni venga destinata alla ricostruzione di queste (comma 3); qualora, invece, sussista il perimento di una parte minore di tre quarti, l'assemblea dei condomini delibera circa la ricostruzione delle parti comuni dell'edificio, e ciascuno è tenuto a concorrervi in proporzione dei suoi diritti sulle parti stesse (comma 2), a meno che il condomino non intenda partecipare alla ricostruzione dell'edificio, perché in questo caso è obbligato a cedere agli altri condomini i suoi diritti anche sulle parti di sua esclusiva proprietà, secondo la stima che ne sarà fatta, salvo che non preferisca cedere i diritti stessi ad alcuni soltanto dei condomini (comma 4).

Sul punto, va, preliminarmente, precisato (Salis 1978, 469; Visco 1968, 321) che la «ricostruzione» va distinta dalla riparazione, in quanto la prima tende sostituire un oggetto che sia venuto meno con un altro mentre la seconda è volta a conservare una cosa che ancora sussiste, e che il «perimento» dell'edificio (o di parte di esso) deve essere ascritto al caso fortuito o a forza maggiore (si pensi alla caduta di un fulmine, ad un terremoto, ad un'alluvione, ad un incendio, ad uno scoppio, ad un evento bellico), deve essere cioè determinato da fatti o eventi accidentali che non dipendono dalla volontà dell'uomo (condomino o terzo), imputabile a condotte colpose o dolose (nel qual caso sussiste l'obbligo dei relativi responsabili di assumere il relativo onere).

La magistratura di vertice ha, tuttavia, puntualizzato che la norma suddetta non può trovare applicazione, di regola, nell'ipotesi di demolizione dell'edificio a scopo di ricostruzione, salvo il caso che le demolizioni si siano rese necessarie per evitare crolli conseguenti alla vetustà dell'edificio, che avrebbero potuto cagionare danni a persone o cose, perché, in tale ipotesi, il perimento dell'edificio si verifica a seguito di rovina per vetustà di entità tale da rendere necessaria la demolizione delle parti pericolanti e deve trovare applicazione la disciplina del citato art. 1128 (Cass. II, n. 4102/1980).

Quindi, qualora vi sia stata la rovina dell'edificio o di una parte equivalente ai tre quarti del valore, ciascuno dei condomini ha la facoltà di chiedere la vendita all'asta del suolo e dei materiali – il cui ricavato sarà ripartito tra i condomini in proporzione alle rispettive quote di proprietà – perciò l'assemblea del condominio può deliberare la ricostruzione del fabbricato solo se sussista il consenso unanime di tutti i partecipanti, essendo sufficiente il veto di uno solo per condurre alla predetta vendita.

Si è correttamente stabilito che, nell'ipotesi di totale distruzione di un edificio condominiale, venuto meno il presupposto del condominio, l'assemblea degli ex condomini, in quanto tale, non possa deliberare la ricostruzione dell'immobile vincolando i dissenzienti a contribuire alle relative spese, sicché una deliberazione in tal senso ha il valore di un atto negoziale vincolante nei soli riguardi di coloro che l'hanno posta in essere, e gli ex condomini assenti o dissenzienti non hanno alcun interesse ad impugnarla, salvo il loro obbligo, a norma dell'art. 1128, ultimo comma, c.c., ove non abbiano chiesto la vendita all'asta dell'area e dei materiali di risulta ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, di cedere agli altri ex condomini i loro diritti sulla proprietà comune ed individuale, con facoltà di preferirne soltanto alcuni di essi (Cass. II, n. 4900/1987).

Allorché, invece, il perimento afferisca ad una parte minore dei tre quarti dell'edificio, l'assemblea può decidere la ricostruzione delle parti comuni, con le maggioranze qualificate contemplate dall'art. 1136, commi 2 e 4, c.c. per le «riparazioni straordinarie di notevole entità», ossia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio (Cass. II, n. 12204/1997, per una particolare fattispecie relativa all'art. 12 della l. 14 maggio 1981, n. 219, disciplinante le ricostruzioni dopo il sisma del 1980).

In un'altra decisione, i giudici di legittimità, premesso che, qualora il perimento di un edificio non raggiunga i tre quarti del suo valore, ciascun condomino può esigere che le parti comuni crollate siano ricostruite, in tal caso, l'assemblea, anche se in essa si abbia il voto favorevole della maggioranza qualificata di cui all'art. 1136 c.c., non possa decidere la totale demolizione dell'edificio e la sua ricostruzione ex novo oppure la vendita del suolo e dei suoi materiali, ma deve deliberare la ricostruzione delle parti comuni (Cass. II, n. 2767/1968).

Per calcolare l'entità della parte distrutta e verificare se essa costituisca o meno i tre quarti del fabbricato, si può fare il rapporto tra il valore attuale dell'edificio parzialmente distrutto ed il valore che esso aveva prima della distruzione, per cui va accertato se il valore della parte superstite sia o meno superiore alla quarta parte del valore che l'edificio aveva in precedenza, escludendo, di preferenza, il valore del suolo – la norma fa, infatti, riferimento al «valore dell'edificio» – perché, specie nelle zone centrali delle grandi città, ove il valore del terreno è rilevante, potrebbe accadere che il valore dell'intero edificio perito non raggiunga i tre quarti dell'analogo valore comprendente il suolo.

L'adozione della deliberazione di cui sopra comporterà l'obbligo dei condomini di concorrere alla spesa in proporzione dei diritti che ciascuno ha sulle parti comuni da ricostruire – il restauro di eventuali parti di proprietà esclusiva saranno, ovviamente, a carico di ciascun proprietario – detratte le eventuali indennità corrisposte per l'assicurazione delle parti comuni (obbligatoriamente reimpiegate per tale ricostruzione) e salva la liberatoria di cui sopra prevista per il condomino dissenziente.

In tale contesto, si è sottolineato che l'art. 1136 c.c., nella parte in cui menziona le deliberazioni dell'assemblea concernenti la ricostruzione dell'edificio, va interpretato con riferimento alle norme sostanziali di cui agli artt. 1124,1125 e 1128 c.c., le quali disciplinano unicamente la ricostruzione delle parti comuni dell'edificio condominiale, conseguendone che l'assemblea non possa deliberare a maggioranza la ricostruzione dell'intero edificio condominiale, compresa le parti di proprietà esclusiva, vincolando i condomini dissenzienti a sostenerne le spese (Cass. II, n. 4777/1978).

Ciò, però, non esclude che, nel caso in cui l'edificio condominiale sia perito per meno di tre quarti, la mancanza della deliberazione assembleare di ricostruzione delle parti comuni prevista dall'art. 1128, comma 2, c.c. – o, addirittura, l'esistenza di una deliberazione contraria – che i singoli condomini possano ricostruire le loro unità immobiliari parzialmente perite, e, conseguentemente, le parti comuni necessarie al godimento di esse, non potendo negare a chi aveva il diritto di mantenere la sua costruzione sul suolo (quale comproprietario dello stesso, o, in caso di diversa previsione del titolo, quale titolare di un diritto di superficie), il potere di riedificarla ai sensi dell'art. 1102 c.c., salvi il rispetto delle caratteristiche statico-tecniche preesistenti, così da non impedire agli altri condomini – che non abbiano ceduto i propri diritti ai sensi del comma 4 dell'art. 1128 citato – di usare parimenti delle parti comuni secondo il proprio diritto, ed il divieto di attuare innovazioni, per le quali è indispensabile la deliberazione assembleare da adottarsi con la maggioranza qualificata prevista dal comma 5 dell'art. 1136 c.c. (Cass. II, n. 5762/1980).

Resta inteso che, sempre nel caso di perimento parziale nei limiti di cui sopra, l'assemblea condominiale, se delibera la ricostruzione, rimane pur sempre libera di decidere, nella pienezza dei suoi poteri discrezionali, «circa» la medesima – come testualmente si esprime il comma 2 dell'art. 1128 c.c. – e cioè sulle concrete modalità (tecniche, statiche ed estetiche), sui tempi e sulle spese della ricostruzione, senza che il giudice, dopo aver dichiarato nulla la deliberazione assembleare di demolizione di un edificio solo parzialmente distrutto, possa egli stesso ordinare la ricostruzione delle parti comuni perite, fissando le modalità ed i termini entro cui tale ricostruzione debba essere realizzata, oppure sindacando il merito, l'opportunità e l'equità della deliberazione.

Circa i rapporti tra le attribuzioni dell'assemblea ed i poteri del giudice, si è statuito (Cass. II, n. 5762/1980) che nel caso in cui sia impossibile acquisire una deliberazione dell'assemblea dei condomini – da adottarsi con la maggioranza qualificata prescritta dal comma 2 dell'art. 1136 c.c. – che autorizzi, ai sensi dell'art. 1128, comma 2, c.c., la ricostruzione delle parti comuni dell'edificio perito per meno di tre quarti del suo valore, non è consentito il ricorso all'autorità giudiziaria ai sensi del comma 4 dell'art. 1105 c.c., trattandosi di controversia sull'esistenza e sull'estensione dei diritti soggettivi – necessariamente coinvolti dal contrasto in ordine alla ricostruzione delle parti comuni – la quale deve essere decisa in sede contenziosa.

Comunque, secondo gli ermellini (Cass. II, n. 4414/1977), nel conflitto tra il condomino che vuole costruire l'edificio demolito ed il condomino che vi si oppone, deve prevalere la volontà del primo, in applicazione estensiva dell'ultimo comma dell'art. 1128 c.c., secondo il quale il condomino che non intende partecipare alla ricostruzione è tenuto a cedere agli altri condomini i propri diritti anche sulle parti di sua esclusiva proprietà.

Comunque, per effetto del crollo, residua e sopravvive soltanto un regime di comunione pro indiviso tra gli ex condomini sull'area e sui materiali di risulta, in ragione dell'entità della quota a ciascuno di essi appartenente sull'edificio distrutto; va, tuttavia, registrata una valutazione parzialmente differente della fattispecie, la quale pone l'attenzione sull'influenza spiegata, nella situazione conseguente al perimento, dall'antecedente situazione di condominialità (Cass. II, n. 1375/1979, ad avviso della quale la situazione giuridica degli ex condomini, nei rapporti fra loro e riguardo al suolo condominiale ed ai materiali di risulta, è condizionata dal preesistente diritto di proprietà condominiale, suscettibile di reviviscenza ove l'edificio venga ricostruito).

Sul versante dottrinale, alcuni sono favorevoli all'applicazione della disciplina della comunione (Branca, 535, e Salis 1959, 384), mentre altri (Peretti Griva, 159), sono più propensi per la permanenza del condominio).

Riparazioni straordinarie di notevole entità

A norma del comma 4 dell'art. 1136 c.c. – sul punto invariato anche a seguito della l. n. 220/2012 – le deliberazioni che concernono «riparazioni straordinarie di notevole entità» devono essere sempre prese con la maggioranza stabilita dal comma 2 del medesimo art. 1136 c.c., ossia, sia in prima che in seconda convocazione, con la maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno la metà del valore dell'edificio, mentre per le opere di manutenzione straordinaria, che comportano una spesa di «normale entità», è sufficiente, in seconda convocazione, un quorum che rappresenti un terzo dei condomini ed un terzo del valore dell'edificio.

Secondo i giudici di legittimità (Cass. II, n. 517/1982), anche l'eventuale sostituzione dell'appaltatore deve essere deliberata con la prima maggioranza qualificata di cui sopra, stante l'elemento essenziale di tale designazione, e considerate le rimarchevoli conseguenze, nei riguardi del condominio, ricollegabili alla puntuale esecuzione o meno del contratto di appalto, mentre alcuni ritengono che lo stesso quorum debba essere rispettato tanto nel caso di deliberazione che approvi la futura esecuzione di lavori tanto nel caso di deliberazione che, recepitone il costo finale, ne detti i criteri di ripartizione.

Anche con riguardo alle zone della Basilicata e della Campania colpite dal terremoto del novembre 1980, le deliberazioni delle assemblee, concernenti riparazioni straordinarie di notevole entità, devono essere approvate con la maggioranza prevista dai commi 2 e 4 dell'art. 1136 c.c. – maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio – atteso che l'eccezionale criterio adottato dall'ordinanza 6 gennaio 1981, n. 80 del Commissario governativo – maggioranza semplice degli intervenuti all'assemblea a prescindere dal valore delle quote – trova applicazione soltanto per le deliberazioni relative a limitati interventi di riparazione per riportare in condizioni di abitabilità le unità immobiliari lievemente danneggiate dal sisma, al fine di richiedere il contributo statale (Cass. II, n. 6671/1988).

In ordine al requisito della «notevole entità», nel silenzio del legislatore al riguardo – a parte il caso della ricostruzione dell'edificio (analizzato supra) pure richiamato nel predetto comma 4 – stabilire se una spesa sia o meno di notevole entità, comporta una valutazione non agevole (Salciarini 2010, 23); potrebbe essere utile il criterio dell'ammontare oggettivo della somma occorrente, del rapporto tra la stessa ed il costo delle comuni riparazioni straordinarie, dell'incidenza della spesa in relazione al valore economico della proprietà comune, dell'entità dell'esborso ricadente sui singoli condomini (si pensi alle spese per il rifacimento di una facciata dell'edificio condominiale).

Al riguardo, i magistrati del Palazzaccio hanno chiarito che, in tema di riparazione di un edificio condominiale, l'individuazione della «notevole entità» delle riparazioni straordinarie – la cui approvazione esige, ai sensi del comma 4 dell'art. 1136 c.c., la maggioranza qualificata indicata nel capoverso – deve ritenersi affidata, in assenza di un criterio normativo, alla valutazione discrezionale del giudice del merito; in proposito, i criteri della proporzionalità tra la spesa ed il valore dell'edificio e la ripartizione di tale costo tra i condomini configurano non un vincolo ed un limite della discrezionalità, bensì un ulteriore ed eventuale elemento di giudizio, nel senso della possibilità per il giudice di tener conto, nei casi dubbi, oltre che dei dati di immediato rilievo, cioè dell'ammontare complessivo dell'esborso occorrente per la realizzazione delle opere, anche del rapporto tra quei tre elementi (costo delle opere, valore dell'edificio ed entità della spesa ricadente sui singoli condomini) quando quel dato, per la sua entità, non appaia risolutivo (Cass. II, n. 810/1999; cui adde, più di recente, Cass. II, n. 26168/2009, la quale ha ribadito che, al fine di accertare se ricorre l'ipotesi di «riparazioni straordinarie di notevole entità», per la cui deliberazione assembleare di approvazione il comma 4 dell'art. 1136 c.c. richiede in ogni caso la maggioranza qualificata di cui al comma 2 della stessa norma, ossia la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio, devono essere utilizzati i criteri dell'ammontare della spesa, del suo rapporto con il valore dell'edificio, nonché della ricaduta economica sui singoli condomini).

Ne consegue la legittimità della maggiore incidenza riconosciuta all'uno piuttosto che all'altro degli elementi di giudizio, e della sufficienza, ai fini del corretto adempimento dell'obbligo di motivazione, delle risultanze reputate determinanti in ordine alla valutazione della sussistenza della «notevole entità» della spesa deliberata (in senso conforme, v. anche Cass. II, n. 15/1982).

In quest'ordine di concetti, si è statuito (Cass. II, n. 26733/2008) che l'individuazione, agli effetti dell'art. 1136, comma 4, c.c., della «notevole entità» delle riparazioni straordinarie è rimessa, in assenza di un criterio normativo, alla valutazione discrezionale del giudice di merito, che può tenere conto senza esserne vincolato, oltre che dell'ammontare complessivo dell'esborso necessario, anche del rapporto tra tale costo, il valore dell'edificio e la spesa proporzionalmente ricadente sui singoli condomini.

Destinazione delle parti comuni

Innovando rispetto al passato, il comma 4 dell'art. 1136 c.c. fa rientrare, all'interno delle deliberazioni che scontano l'elevato quorum di almeno la metà del valore dell'edificio, le deliberazioni di cui all'art. 1117-quater c.c. – anch'esso introdotto dalla novella del 2012 – che disciplina la «tutela delle destinazioni d'uso».

Tale disposto stabilisce che, nelle ipotesi in cui si concretizzino attività che incidono negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, possano diffidare l'esecutore e possano chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie, aggiungendo che l'assemblea decide in merito alla cessazione di tali attività, appunto, «con la maggioranza prevista dal secondo comma dell'articolo 1136» c.c.

Si tratta pur sempre di un'attività giudiziaria volta alla difesa delle parti comuni dell'edificio, anche se ci si muove in un'ottica sicuramente più pregnante di quella delineata dall'art. 1102 c.c. (norma, quest'ultima, tutt'ora applicabile in materia condominiale, in forza dell'immutato rinvio di cui all'art. 1139 c.c.).

Dunque, l'attuale testo prevede solo l'ipotesi di «attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni», stabilendo che «l'amministratore o i condomini, anche singolarmente» – non contemplando più, come prima, il conduttore – possano «diffidare l'esecutore» e, in caso di persistenza della violazione della suddetta destinazione nonostante la diffida, possano «chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie».

I presupposti per l'operatività della suddetta norma, dunque, sono che l'attività – proveniente, di regola, da un condomino – «incida negativamente e in modo sostanziale» della destinazione d'uso delle parti comuni, intendendo riferirsi a condotte non saltuarie o episodiche, a pregiudizi non lievi, ma apprezzabili e percepibili, nonché ad un peggioramento rilevante, concreto ed effettivo, e non meramente potenziale (si pensi al parcheggio di una roulotte nella rampa di accesso ai garage); al contrario, la suddetta attività dovrebbe considerarsi permessa in quanto rientrante nelle facoltà del singolo ai sensi dell'art. 1102 c.c., che menziona, appunto, il duplice limite di non alterare la destinazione della cosa comune e di rispettare il pari uso degli altri condomini (su quest'ultimo, v., ex multis, Cass. II, n. 14107/2012; Cass. II, n. 13874/2010; Cass. II, n. 12873/2005).

In particolare, per quanto concerne il condomino, la previsione appare superflua, salvo aver precisato che l'iniziativa spetta al partecipante – probabilmente, quello maggiormente leso dall'attività che incidono negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni – «anche singolarmente», ossia la possibilità di diffidare (in maniera ferma e risoluta) il contravventore e, in caso di inottemperanza all'invito a desistere dalla condotta illecita (ed a rimettere in pristino la situazione alterata), di sollecitare l'amministratore affinchè quest'ultimo convochi l'assemblea per adottare le opportune decisioni (l'inadempimento, da parte dell'amministratore, dell'obbligo di convocare l'assemblea esporrebbe il primo alla destituzione giudiziaria ai sensi dell'art. 1129, comma 12, n. 1, c.c.).

In altri termini, la norma in commento legittima l'iniziativa di ciascun condomino, indipendentemente dalla sua caratura millesimale, volta, da un lato, ad avvertire l'esecutore in ordine all'illecito in atto e, dall'altro, in caso di inosservanza di quest'ultimo, a farsi promotore, per il tramite dell'amministratore, del coinvolgimento del supremo organo gestorio sulla questione, laddove l'art. 66, comma 1, disp. att. c.c. (testo invariato) subordina quest'ultima evenienza alla sussistenza di determinati requisiti, ossia quando ne è fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio.

Ad ogni buon conto, in ordine al riconoscimento delle «azioni giudiziarie» promuovibili dal singolo (De Tilla 1994, 235), il disposto si rivela in linea con l'opinione secondo la quale il diritto di ciascun condomino investe la cosa comune nella sua interezza, sia pur con il limite del concorrente diritto altrui.

La giurisprudenza, in proposito, è pacifica nel senso che anche un solo condomino può proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune, senza, peraltro, che si renda necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti (v., ex multis, Cass. S.U., n. 25454/2013; Cass. II, n. 18485/2010; Cass. II, n. 10478/1998; Cass. II, n. 13064/1995; Cass. II, n. 6119/1994).

Parimenti, l'amministratore può diffidare il condomino contravventore e, in difetto di desistenza da parte di quest'ultimo, convocare l'assemblea al riguardo; anche qui il riferimento ad eventuali «azioni giudiziarie» sembra ultroneo, non rinvenendosi altra chance per l'amministratore, che non può ovviamente farsi giustizia da sé – concretandosi, altrimenti, in un esercizio arbitrario delle proprie ragioni) – di far cessare il comportamento del trasgressore se non quello di ricorrere al magistrato.

In precedenza, nessuno dubitava che rientrasse nelle attribuzioni dell'amministratore il potere di «disciplinare l'uso delle cose comuni ... in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a tutti i condomini» ai sensi dell'art. 1130, n. 2), c.c. (Cimatti, 29; Mirenda, 380).

Parimenti, lo stesso amministratore, senza bisogno di alcuna deliberazione autorizzativa in tal senso, è legittimato a «compiere gli conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio» in forza dell'artt. 1130, n. 4), c.c. anche mediante azioni cautelari e d'urgenza (v., tra le altre, Cass. II, n. 21826/2013; Cass. II, n. 24391/2008; Cass. II, n. 16631/2007; Cass. II, n. 7063/2002; Cass. II, n. 13611/2000).

Tuttavia, appare penalizzante la previsione, contenuta nel comma 1 in fine del citato art. 1117-quater c.c., secondo la quale «l'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell'articolo 1136» – ossia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio – laddove tale decisione rientra, di regola, negli affari di ordinaria amministrazione, tanto più che potrebbe trattarsi semplicemente di far osservare una disposizione del regolamento di condominio che contempli una determinata destinazione d'uso della cosa comune, per la quale addirittura l'amministratore può agire in giudizio, senza bisogno di alcuna autorizzazione assembleare, rientrando, tra i suoi compiti come delineati dall'art. 1130, n. 1), c.c., anche quello di «curare l'osservanza del regolamento di condominio» (v., di recente, Cass. II, n. 1451/2014; Cass. II, n. 13689/2011, che ha fatto rientrare nei poteri dell'amministratore, anche ai sensi dell'art. 1133 c.c., l'invito ad un condomino, mediante lettera raccomandata con determinazione di un termine per l'adempimento, al rispetto del divieto regolamentare; Cass. II, n. 21841/2010; Cass. II, n. 14735/2006, la quale ha ricompreso nelle facoltà del medesimo amministratore anche quella di irrogare sanzioni pecuniarie ex art. 70 disp. att. c.c. ai condomini responsabili delle violazioni del regolamento, se quest'ultimo ne preveda la possibilità).

Può opinarsi, al riguardo, che la necessità del «passaggio assembleare» e, quindi, l'impossibilità per l'amministratore di agire direttamente in giudizio, siano giustificati per il fatto che trattasi di attività che incidono «negativamente ed in modo sostanziale» sulle destinazioni d'uso delle parti comuni dell'edificio, nella speranza che, accertato il disturbo pregiudizievole alla maggioranza dei condomini, il condomino autore della violazione possa convincersi a porre rimedio, evitando un'azione giudiziaria nei suoi confronti; laddove, invece, si concretizzino in attività saltuarie o poco pregiudizievoli – si pensi al semplice gioco del pallone nel cortile comune – non c'è bisogno che l'assemblea deliberi in merito alla cessazione, anche se sarebbe logico pensare il contrario, ossia che, quando la condotta è più grave e il trasgressore rimanga inerte, è consentito all'amministratore di rivolgersi sùbito e direttamente al magistrato, mentre, allorché è più lieve, ci si possa permettere il lusso di invocare il parere dell'assemblea (comunque, alla luce delle recenti modifiche introdotte dal d.l. n. 145 del 2013, convertito nella l. n. 9 del 2014, per le infrazioni al regolamento, l'amministratore deve sempre rivolgersi all'assemblea per irrogare le sanzioni pecuniarie di cui all'art. 70 disp. att. c.c., prevedendosi sempre il quorum deliberativo di cui all'art. 1136, comma 2, c.c.).

Fatto sta che, sull'eventuale azione giudiziaria, la norma de qua stabilisce che «l'assemblea delibera in merito», correndosi il rischio concreto che l'assemblea, con la maggioranza correlata alla metà del valore dell'edificio, avalli la condotta (asseritamente abusiva o, comunque, contra ius) del singolo che incide negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni dell'edificio, finendo, quindi, per mutare quella destinazione d'uso delle stesse parti che, in forza del disposto del precedente art. 1117-ter c.c., era possibile approvare, da parte della medesima compagine condominiale, soltanto con la maggioranza dei quattro quinti del valore dell'edificio e con un iter assembleare assai rigoroso.

In buona sostanza, mediante l'iniziativa eversiva del singolo, complice la maggioranza assembleare, si realizza lo stesso risultato – ossia, la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio – che, difficilmente, la stessa assemblea riuscirebbe a raggiungere.

Di certo, un'eventuale decisione negativa farebbe venire meno la legittimazione processuale attiva di quell'amministratore che abbia optato, di sua iniziativa, per la via giudiziaria, ma non quella del condomino, che rimane concorrente, secondo il noto principio secondo il quale, nel condominio di edifici, che costituisce un ente di gestione, l'esistenza dell'organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, né quindi del potere di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall'amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell'amministratore stesso che vi abbia fatto acquiescenza (v., ex plurimis, Cass. II, n. 6480/1998; Cass. II, n. 8257/1997; Cass. II, n. 2393/1994).

In concreto, non sembra che l'art. 1117-quater c.c. abbia configurato una sorta di filtro assembleare per il condomino, nel senso che, per l'azione di quest'ultimo, sia pregiudiziale la valutazione della maggioranza condominiale in ordine all'incidenza pregiudizievole sulla destinazione d'uso delle parti comuni; l'eventuale deliberazione positiva, fallito ogni tentativo di risoluzione bonaria della vicenda, autorizza sicuramente l'amministratore ad agire giudizialmente, ma quella negativa – o parimenti il mancato raggiungimento del prescritto quorum – non preclude al singolo di rivolgersi al magistrato per far cessare l'attività asseritamente molesta messa in atto dall'esecutore (già sordo a qualsiasi monito).

Nulla esclude che quest'ultimo, oltre a non adeguarsi alle diffide (del condomino o dell'amministratore) ed a rimanere insensibile ai richiami all'ordine (da parte dell'assemblea), impugni addirittura l'eventuale deliberazione, sostenendo che il consesso assembleare avrebbe errato nel ritenere lesiva la sua condotta, ma è ovvio che così si espone ad una probabile domanda riconvenzionale del condominio, che invochi un giudizio sull'operato indisciplinato del singolo e, conseguentemente, un ordine di inibizione.

Comunque, anche se non più previsto espressamente – essendo stato soppresso il relativo emendamento nella versione definitiva dell'articolo in commento – non è ovviamente esclusa la possibilità, sia per il condomino sia per l'amministratore, di ricorrere al giudice per ottenere un provvedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.c., sempre che ne ricorrano i presupposti del pregiudizio imminente ed irreparabile connesso alla condotta del trasgressore, come non è escluso che il giudice, ordinando la cessazione dell'attività, condanni il responsabile alla riduzione nello status quo ante ed all'eventuale risarcimento dei danni.

Per completezza, va segnalato che l'art. 1136 c.c. – così come novellato dalla l. n. 220/2012 – non richiama l'art. 1117-ter c.c., che si occupa delle «modificazioni delle destinazioni d'uso» delle parti comuni dell'edificio, in particolare stabilendo che, al fine di soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea possa provvedervi «con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio» (quorum, quest'ultimo, mai visto nella materia condominiale).

Innovazioni ordinarie

Il novellato art. 1136 c.c., al comma 4, prevede la maggioranza di «almeno la metà del valore dell'edificio» per le innovazioni c.d. agevolate contemplate nel comma 2 dell'art. 1120 c.c., mentre, al comma 5, mantiene quella di «almeno i due terzi del valore dell'edificio» per le innovazioni c.d. ordinarie previste nel comma 1 dello stesso art. 1120 c.c.

In effetti, quest'ultimo disposto si presenta notevolmente arricchito riguardo al precedente testo codicistico del 1942; peraltro, l'art. 1120 c.c. – al cui commento si rinvia – è forse quello che, più di ogni altro, ha interessato l'intervento del legislatore speciale negli ultimi anni, al fine di adattare l'edificio urbano alle attuali esigenze di natura sociale, che travalicano gli stessi confini della compagine condominiale.

Nello specifico, il comma 1 mantiene intatta la sua portata precettiva, secondo la quale i condomini, con la maggioranza indicata appunto dal comma 5 dell'art. 1136 c.c., possono disporre tutte le innovazioni «dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni».

Pertanto, sotto il profilo del quorum, si richiede l'approvazione «con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio», laddove il vecchio testo faceva riferimento, invece, alla «maggioranza dei partecipanti al condominio»; in concreto – salvo quanto appresso in ordine alle innovazioni c.d. speciali (agevolate o sociali) – si richiedono quorum più elevati rispetto a quelli previsti nei commi precedenti del novellato art. 1136 c.c., correlati ad un terzo o alla metà del valore dell'edificio.

Resta inteso che la deliberazione autorizzante l'innovazione, che non abbia osservato la summenzionata maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 5, c.c. è annullabile e, quindi, impugnabile esclusivamente da coloro che non hanno concorso a formare la volontà assembleare – condomini dissenzienti, astenuti o assenti – e solo nel termine di decadenza di trenta giorni; in difetto di impugnativa dei predetti condomini e della conseguente sentenza di annullamento da parte del giudice, la deliberazione che ha approvato l'innovazione è vincolante per tutti i partecipanti al condominio – a stretto rigore, è immediatamente efficace anche in pendenza di opposizione, finché il magistrato non adotti il provvedimento di sospensione ex art. 1137, comma 3, c.c. – sicché gli stessi sono tenuti a partecipare alle spese previste per la relativa iniziativa, ripartendosi le stesse secondo i dettami di cui all'art. 1123, comma 1, c.c., che espressamente prevede che «le spese necessarie .... per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione» (diversa è, invece, la disciplina per le innovazioni «gravose o voluttuarie» di cui all'art. 1121 c.c., il cui testo non è stato oggetto di modifiche ad opera della l. n. 220/2012).

La Riforma del 2013, tuttavia, continua a non dare alcuna definizione del concetto di «innovazione», limitandosi a stabilirne finalità e scopi – le stesse devono, appunto, essere «dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggiore rendimento delle cose comuni» – salvo indicare, per così dire in negativo, quelle vietate (v. appresso), e prevedere, nel successivo art. 1121, quelle gravose e voluttuarie, perciò non resta che verificare come la giurisprudenza abbia individuato i requisiti fondamentali di tale figura, anche al fine di distinguere da quegli interventi che non necessitano della maggioranza qualificata (Cirla 2005, 69).

Si può convenire che l'innovazione, secondo il suo significato etimologico, evoca un quid novi, che si traduce, dal punto di vista oggettivo, in una modificazione della cosa comune, mediante aggiunte materiali, quindi, non solo trasformazioni della cosa, ma anche costruzioni ex novo (Triola 2007, 237; Chiocca, 295) – ad esempio, l'allargamento del portone di ingresso da pedonale a carrabile, la realizzazione di un manufatto, la demolizione di un muro, lo scavo nel giardino, e così via – o mutamenti della destinazione funzionale – si pensi al cortile da stenditoio a parcheggio di autovetture, al tetto in lastrico solare, ecc. – e si connota, dal punto di vista soggettivo, dall'interesse per la stessa innovazione da parte della maggioranza dei partecipanti al condominio (Ribaldone 2010, 291; Nicoletti, 5).

Dunque, la cosa comune, a seguito dell'innovazione, si presenta «nuova» poiché, quale che sia l'intervento operato, è stata trasformata nella sostanza, alterata la sua entità, cambiata la sua originaria funzione, accresciuto il suo reddito, il suo valore di scambio e la sua utilità, modificata la sua consistenza materiale, utilizzata per fini diversi – v., ex multis, Cass. II, n. 4330/2013; Cass. II, n. 940/2013; Cass. II, n. 18052/2012; Cass. II, n. 15460/2002; Cass. II, n. 11936/1999; Cass. II, n. 8622/1998; Cass. II, n. 240/1997 – e, al contempo, l'iniziativa deve giovare a tutti i condomini, essendo volta ad un miglioramento della cosa stessa, considerando anche lo stato particolare dell'edificio.

In quest'ottica – ad esempio – si è affermato (Cass. II, n. 3509/2015) che la deliberazione assembleare che ordini la chiusura del cancello carraio dell'area cortilizia, previa consegna del telecomando di apertura ad ogni condomino, non dispone un'innovazione e non necessita di maggioranza qualificata, ai sensi dell'art. 1120 c.c., in quanto non muta la destinazione del bene comune, ma ne disciplina l'uso in senso migliorativo, impedendo ai terzi estranei l'indiscriminato accesso all'area condominiale.

Riguardo al discrimen rispetto al disposto dell'art. 1102 c.c., si è, di recente, puntualizzato (Cass. II, n. 20712/2017) che le innovazioni di cui all'art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dalla prima norma, sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull'essenza della cosa comune, alterandone l'originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l'aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l'interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell'assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte.

Il suddetto «miglioramento» – da intendersi lato sensu, comprendendosi in tale concetto anche la maggiore comodità ed il maggior rendimento – deve sussistere almeno in teoria, altrimenti l'innovazione rischierebbe di danneggiare la cosa comune (un intervento sulle finestre delle scale volto a dare alle stesse più luce potrebbe, ad esempio, renderle impraticabili per l'eccessivo freddo attesa l'esposizione ai venti ed alle intemperie); lo stesso miglioramento può essere anche futuro o sperato, purché rappresenti una concreta possibilità: non si pretende la certezza o la probabilità ma, al contempo, la maggioranza non potrebbe imporre ai dissenzienti qualsiasi capriccio.

Inoltre, l'innovazione deve essere «diretta a ...», nel senso che la maggioranza assembleare – non ostacolata dall'eventuale dissenso del singolo – ha discrezionalità nello scegliere quale miglioramento ritiene più opportuno, anche se l'opzione potrebbe apparire meno conveniente di altre (Cass. II, n. 5028/1996; Cass. II, n. 2746/1989); il merito della decisione è insindacabile dal magistrato che valuta solo la contrarietà alla legge o al regolamento condominiale, ma non può sostituirsi all'organo gestorio provvedendo in modo diverso da come deciso.

Al riguardo, non è rilevante il carattere della stabilità e della permanenza, potendosi trattare di interventi a carattere temporaneo, purché non siano meramente finalizzati a disciplinare le modalità d'uso della cosa comune (ad esempio, la modifica dell'uso turnario di utilizzo del cortile comune per parcheggiarvi le autovetture) o non si sostanzino in un'attività comportamentale necessariamente saltuaria (come lo stendimento dei panni nel terrazzo condominiale).

L'innovazione in oggetto non deve, però, riguardare solo le «cose» comuni intese in senso stretto (ad esempio, scale, portone, muri, cortile, lastrico solare, ecc.): la stessa può interessare anche gli «impianti» comuni – si pensi all'impianto di illuminazione o al citofono – nonché i «servizi» condominiali – si pensi al servizio di portierato, e ciò sia nel senso dell'istituzione sia della soppressione – i quali, in quanto diretti a scopi di utilità comune, apportano maggior valore all'intero immobile, e ciò al fine di permettere una gestione dinamica degli stessi ed approvare nuove forme di utilizzazione per ammodernare l'edificio; non è, infatti, concepibile prevedere una sorta di intangibilità delle condizioni esistenti, precludendo alla maggioranza dei condomini di adattarsi alle nuove e diversificate esigenze della vita sociale, tenendo conto, altresì, dei progressi della tecnica, come è inconcepibile impedire la sostituzione degli impianti e dei servizi esistenti allorché si rivelino inidonei a soddisfare il miglior godimento delle singole unità abitative.

Innovazioni sociali

Il comma 4 dell'art. 1136 c.c. prevede il quorum agevolato di soli 500 millesimi per le deliberazioni contemplate nel comma 2 dell'art. 1120 c.c.

In effetti, dopo il comma 1 dell'art. 1120 c.c., la Riforma del 2013 ha introdotto due capoversi, che si occupano delle innovazioni di interesse sociale o, comunque, volte a recepire le moderne tecnologie finalizzate al complessivo miglioramento della qualità della vita, da un lato, specificando quali interventi nell'edificio meritano una particolare agevolazione e, dall'altro, prescrivendo modalità più stringenti per l'adozione delle relative deliberazioni (Rinaldi, 285; Bordolli 2012, 2168).

Sotto il profilo della descrizione degli interventi facilitati, il comma 2 stabilisce, in un'ottica di semplificazione ed uniformità – registrando, in passato, solo episodici interventi legislativi per tentare di risolvere ed incentivare questioni settoriali – che i condomini, appunto con la maggioranza di cui al comma 2 dell'art. 1136 c.c., possono disporre le innovazioni che, «nel rispetto della normativa di settore» (specificazione forse pleonastica, essendo pacifico che non possa deliberarsi contra legem), hanno ad oggetto, nel dettaglio: 1) le opere volte a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti; 2) gli interventi per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia alternativa; 3) l'installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo.

Il nuovo disposto del comma 2 dell'art. 1120 c.c. ha, però, necessitato un'opera di coordinamento da parte del legislatore, opportunamente modificando le disposizioni normative, aventi ad oggetto i summenzionati interventi, che si erano stratificate nel tempo.

Segnatamente, l'art. 27 dispone che, all'art. 2, comma 1, della l. 9 gennaio 1989, n. 13 – recante «Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati» – le parole «con le maggioranze previste dall'articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile» sono sostituite dalle seguenti: «con le maggioranze previste dal secondo comma dell'articolo 1120 del codice civile».

Pertanto, per quanto concerne la realizzazione di opere volte al superamento delle barriere architettoniche, si provvede ad elevare l'originario quorum connesso alla maggioranza ordinaria in seconda convocazione (un terzo) a quello attuale (metà), rendendo così ancora più difficoltosa l'effettiva tutela della mobilità dei portatori di handicap all'interno dell'edificio, peraltro in aperta controtendenza con le recenti affermazioni della giurisprudenza che, nell'ottica di una lettura costituzionalmente orientata di tali disposizioni, intravede nell'àmbito dell'edificio in condominio un'applicazione del principio di solidarietà (per alcune recenti pronunce sull'argomento, v. Cass. II, n. 7938/2017; Cass. VI/II, n. 6129/2017; Cass. II, n. 3858/2013; Cass. II, n. 28920/2011; Cass. II, n. 20902/2010; Cass. II, n. 14384/2004).

Il successivo art. 28 stabilisce, nel comma 1, che, all'art. 26, comma 2, della l. 9 gennaio 1991, n. 10 – recante «Norme per l'attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia» – avente ad oggetto, tra l'altro, la trasformazione dell'impianto di riscaldamento da centralizzato in impianti autonomi a gas metano, le parole «semplice delle quote millesimali rappresentate dagli intervenuti in assemblea», sono sostituite dalle seguenti: «degli intervenuti, con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio».

In precedenza, il quorum era, quindi, basato esclusivamente sulle quote millesimali e non anche sul numero dei partecipanti, in difformità del disposto di cui all'art. 1136 c.c. (Terzago 1991, 423; Scripelliti, 455), sicché si poteva consentire ad un solo condomino, portatore del richiesto numero di millesimi, il diritto di disporre in senso favorevole (o sfavorevole) alla trasformazione dell'impianto di riscaldamento, con il paradossale effetto che la minoranza numerica (anche se non millesimale) si sarebbe imposta sulla maggioranza (peraltro, l'aggettivo «semplice» introdotto dall'art. 7, comma 1-bis, del d.lgs. n. 311 del 2006, aveva dato luogo a contrastanti interpretazioni); attualmente, per la valida approvazione di tale trasformazione, si fa espresso richiamo anche agli «intervenuti» alla riunione, essendo sufficiente, per il resto, il quorum correlato ad «un terzo del valore dell'edificio» (inspiegabilmente inferiore a quello di tutte le altre innovazioni c.d. speciali sopra elencate).

Nel comma 2 del medesimo art. 28, si prevede che, all'art. 26, comma 5, della l. 9 gennaio 1991, n. 10, le parole «l'assemblea di condominio decide a maggioranza, in deroga agli articoli 1120 e 1136 del codice civile» sono sostituite dalle seguenti: «l'assemblea di condominio delibera con le maggioranze previste dal secondo comma dell'articolo 1120 del codice civile» (correlate, quindi, sia alle teste sia ai millesimi); ci si riferisce, in particolare, alle modifiche da apportare agli impianti di riscaldamento centralizzato già esistenti, in modo da consentire l'adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore per ogni singola unità immobiliare che, attualmente, necessitano il consenso di tanti condomini rappresentanti almeno la metà del valore dell'edificio (anche qui, inspiegabilmente, con una maggioranza più elevata rispetto al passato e, addirittura, superiore a quella che consente la ben più incisiva trasformazione dell'impianto di riscaldamento da centralizzato in autonomo).

Conclude l'attività conformatrice l'art. 29 del testo di riforma, secondo il quale, all'art. 2-bis, comma 13, del d.l. 23 gennaio 2001, n. 5 – recante «Disposizioni urgenti per il differimento dei termini in materia di trasmissioni radiotelevisive e digitali, nonché per il risanamento di impianti radiotelevisivi», convertito, con modificazioni, dalla l. 20 marzo 2001, n. 66 – le parole: «l'articolo 1136, terzo comma, dello stesso codice», sono sostituite dalle seguenti: «l'articolo 1120, secondo comma, dello stesso codice».

La disposizione ha per oggetto le opere di installazione di nuovi impianti, sia di emissione e/o ripetizione sia di ricezione, volte a favorire lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie di radiodiffusione da satellite, e, anche in questa ipotesi, per apporre le antenne paraboliche di carattere «collettivo», l'assemblea registra l'innalzamento del quorum da un terzo alla metà del valore dell'edificio (resta pur sempre l'equivoco atteggiarsi di tali innovazioni come «necessarie»; in dottrina, Viganò, 145; Nasini 2001, 513).

Ad ogni buon conto, si è dato atto che la legislazione speciale successiva all'entrata in vigore del codice civile del 1942 aveva previsto maggioranze agevolate, nonostante trattavasi di lavori certamente «innovativi»: d'altronde, tale previsione, da parte del patrio legislatore, si poneva nell'ottica di facilitare interventi diretti all'approvazione di opere, ritenute meritevoli, sulle parti comuni del fabbricato condominiale (si pensi alla realizzazione di parcheggi), oppure dirette a conformare la proprietà condominiale a specifici interessi pubblici (quali, ad esempio, il contenimento del consumo energetico a proposito della trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato).

Resta il fatto, tuttavia, che, nelle specifiche ipotesi sopra menzionate – eliminazione delle barriere architettoniche, sistemi di contabilizzazione del calore, antenne satellitari collettive, ecc. – si registra un preoccupante dietrofront rispetto alle leggi speciali che avevano abbassato i quorum per la realizzazione di opere caratterizzate da un marcato rilievo sociale, passando da maggioranze tutto sommato abbordabili ad altre non sempre agevolmente raggiungibili.

Sul versante operativo, il comma 3 del novellato art. 1120 c.c., prescrive che, in ordine all'adozione delle deliberazioni di cui al capoverso precedente, l'amministratore è tenuto a convocare l'assemblea entro trenta giorni dalla richiesta anche di un solo condomino interessato; la richiesta di quest'ultimo «deve contenere l'indicazione del contenuto specifico e delle modalità di esecuzione degli interventi proposti» e, in mancanza, «l'amministratore deve invitare senza indugio il condomino proponente a fornire le necessarie integrazioni».

Viene così contemplato un onere dell'amministratore connesso alla sollecitazione del condomino interessato, sollecitazione che, però, deve essere corredata da tutte le informazioni utili per l'adozione dell'intervento strutturale di cui trattasi (fermo pur sempre il termine ordinario di cinque giorni per la relativa convocazione di cui all'art. 66, comma 3, disp. att. c.c.).

Innovazioni vietate

Il novellato art. 1120 c.c. continua a riportare il disposto dell'ultimo comma – che ora, a seguito delle modifiche sopra riportate, è diventato il quarto – secondo il quale rimangono vietate le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico, oppure che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino.

Ad esempio, va considerata innovazione vietata l'assegnazione, in via esclusiva e per un tempo indefinito, di posti auto all'interno di un'area condominiale, in quanto determina una limitazione dell'uso e del godimento che gli altri condomini hanno diritto di esercitare sul bene comune, con conseguente nullità della relativa delibera (Cass. II, n. 11034/2016).

Rispettati i limiti di cui sopra, «tutte le innovazioni» sono permesse (Coppolino, 25), purché si tratti di interventi tesi «al miglior godimento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni» (v. supra): un divieto, per così dire, implicito può rinvenirsi, quindi, nello stesso disposto del comma 1 dell'art. 1120 c.c., ossia qualora non vi sia alcun miglioramento (nemmeno potenziale) della cosa comune a seguito dell'innovazione, o il danno che l'accompagna sia superiore all'utilità arrecata.

Il legislatore del 2012, in tal modo, ha confermato l'apposizione di limiti ben precisi alle decisioni dell'assemblea, anche se adottate con i quorum elevati di cui al comma 5 dell'art. 1136 c.c. (Sutti, 187); tali limiti generali dovrebbero ritenersi operanti anche per le innovazioni c.d. speciali elencate nei tre numeri del comma 2 del novellato art. 1120, salvo sempre lo scontato «rispetto della normativa di settore».

Non si nasconde che, talvolta, il richiamo ai suddetti limiti finisce, in pratica, per scoraggiare la realizzazione di queste ultime innovazioni all'interno dell'edificio urbano, nonostante il legislatore le consideri meritevoli di apprezzamento e di tutela, sicché spetta, di volta in volta, all'interprete verificare, nella fattispecie concreta, se il richiamo alla norma dell'art. 1120, comma 4, c.c. valga a paralizzare in senso assoluto le innovazioni o, piuttosto, se quel richiamo debba essere, almeno in parte, rivitalizzato, nello sforzo di armonizzarlo con le finalità incentivanti che hanno sorretto il legislatore (si pensi, tra tutte, alle opere volte a favorire l'accesso e la mobilità dei portatori di handicap).

Comunque, con tale disposto, si è inteso chiaramente salvaguardare i diritti della collettività e dei singoli partecipanti del condominio da eventuali abusi della maggioranza: in altri termini, quest'ultima può approvare qualsiasi innovazione, purché diretta a migliorare la cosa comune o il godimento della stessa, ma non può danneggiare né le parti comuni né gli interessi collettivi dei condomini.

A fortiori, il divieto di realizzare le innovazioni si applica allorquando gli interventi, pur riguardando «parti comuni dell'edificio» – perché, se eseguite all'interno della proprietà esclusiva, sono disciplinate dall'art. 1122 c.c., che, peraltro, ora fa riferimento agli stessi limiti – arrechino pregiudizi nella sfera dei diritti propri dei singoli partecipanti: è, infatti, ovvio che il legislatore, tutelando il condomino nell'utilizzo dei beni comuni, che non devono, a seguito delle predette innovazioni, essere «inservibili all'uso o al godimento» del singolo, a maggior ragione ha inteso salvaguardare quest'ultimo – salvo, ovviamente, il suo consenso, v. appresso – qualora l'iniziativa della maggioranza provochi ingerenze dannose nelle cose di sua esclusiva proprietà; in altri termini, per quanto lieve sia la lesione della proprietà esclusiva, la stessa è pur sempre illegittima, sicché il beneficio della collettività non rende mai lecito il sacrificio del diritto del singolo (in ordine al concetto di inservibilità, v. Cass. II, n. 15308/2011, ad avviso della quale, nell'identificazione del limite all'immutazione della cosa comune, lo stesso non può consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua normale utilizzazione, coessenziale al concetto di innovazione, ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità).

Resta, tuttavia, aperto il problema di stabilire se la norma sulle innovazioni di cui all'art. 1120, comma 4, c.c. sia inderogabile o, detto diversamente, se il divieto ivi contenuto possa essere oggetto di disposizione da parte dei condomini.

A ben vedere, l'intero art. 1120 c.c. è richiamato nel penultimo comma dell'art. 1138 c.c., segno che una disposizione del regolamento assembleare non può derogarvi – ad esempio, prevedendo maggioranze diverse da quelle stabilite dall'art. 1136, comma 5, c.c. (v. supra) – ma resta il dubbio se tale deroga possa essere introdotta con l'unanimità dei consensi, non essendo ovviamente sufficiente la maggioranza, pur qualificata, contemplata per le innovazioni, attraverso un regolamento di natura contrattuale o una deliberazione totalitaria.

Orbene, l'art. 1120 c.c. pone, al comma 4, un duplice divieto alla realizzazione delle innovazioni (Batà, 1081): si contemplano, infatti, innovazioni vietate perché pregiudizievoli alla collettività (in quanto lesive della stabilità, della sicurezza e del decoro del fabbricato) ed innovazioni vietate perché cagionano un danno al condomino (in quanto rendono talune parti dell'edificio inservibili al suo uso).

Nel secondo caso, trattandosi di beni disponibili dal singolo, quest'ultimo può disporne per contratto, come può rinunciarvi – ad esempio, accettando limitazioni al godimento del cortile in favore della sua proprietà esclusiva – atteso peraltro che, in forza dell'art. 1117 c.c., la stessa proprietà delle parti comuni può essere esclusa dal titolo; nel primo caso, al contrario, siamo in presenza di beni collettivi: qui, il legislatore ha stabilito che, per la particolare rilevanza di questi beni (stabilità, sicurezza, decoro), neanche la maggioranza può disporre e che il singolo, in quanto il valore del bene collettivo si riflette su quello individuale, possa dolersene, impugnando la relativa deliberazione.

Al riguardo, però, è necessaria una puntualizzazione perché, a stretto rigore, quello che è precluso alla maggioranza potrebbe essere consentito alla totalità dei partecipanti.

Occorre, quindi, distinguere all'interno dei suddetti beni collettivi: invero, devono considerarsi vietate quelle innovazioni che cagionino o possano cagionare danno all'esistenza stessa dell'edificio, pregiudicandone la statica e la tranquilla abitabilità – in quest'ultimo concetto, potrebbe ricomprendersi il pericolo per la salute dei condomini – in quanto ciò urta con le norme di ordine pubblico, rendendo nulle ex art. 1343 c.c. le relative deliberazioni autorizzative; peraltro, se si consentisse ai condomini di compiere opere suscettibili di arrecare pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell'edificio, ciò equivarrebbe a negare l'obbligo alla conservazione delle cose comuni, atteso che l'esistenza di queste è strettamente connessa all'esistenza dell'edificio di cui fanno parte.

Un discorso a parte deve, invece, farsi riguardo al decoro architettonico (Petrolati, 45), stante che addirittura la maggioranza assembleare (nemmeno qualificata), argomentando dal combinato disposto dei commi 1 e 3 dell'art. 1138 c.c. (rimasto invariato sul punto), è in grado di dettare norme per la sua tutela; in altri termini, non si ritiene che il divieto di innovazioni che alterino il decoro architettonico sia da ricollegare anche alla tutela di un interesse generale dei cittadini, a che non si turbi l'euritmia architettonica degli edifici, con quello privato; in pratica, se tutta la collettività condominiale approva una deliberazione che deturpa l'edificio, impudet sibi, a meno che non si debba ottemperare nel caso di specie a direttive informate a superiori interessi pubblici a tutela del patrimonio artistico, ma tale tutela opererebbe sul diverso livello amministrativo; pertanto, i condomini potrebbero, con un negozio con cui prendono parte tutti, disporre di modificare il prospetto dell'edificio alterandone il decoro architettonico (per esempio, per ragioni climatiche, possono decidere di chiudere i balconi della facciata con verande a vetri, pregiudicando l'estetica del fabbricato).

Pertanto, si reputa che le innovazioni c.d. vietate possano essere approvate con il consenso di tutti i partecipanti al condominio, salvo quelle che arrecano pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, perché, in tale caso, il divieto assume carattere assoluto che non può essere superato neppure con il voto unanime della totalità dei condomini: invero, non si tratta tanto di salvaguardare l'aspetto estetico dell'immobile, né di garantire ad ogni partecipante un pari godimento ed uso delle cose comuni, ma di tutelare l'esistenza materiale dello stabile che potrebbe essere gravemente minata da opere innovative eseguite sullo stesso (una cosa è l'essere dell'edificio, altro è il suo modo di apparire).

Impianti di videosorveglianza

Salvo l'ipotesi residuale contemplata dall'art. 1135, comma 3, c.c., l'ultima deliberazione assembleare che sconta la maggioranza qualificata della metà del valore dell'edificio, come prescritto dal comma 4 dell'art. 1136 c.c., è quella di cui all'art. 1122-ter c.c. – al cui commento si rinvia – il quale si occupa degli «impianti di videosorveglianza sulle parti comuni» dell'edificio.

Nello specifico, tale ultimo disposto prevede che le deliberazioni concernenti «l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse» sono approvate appunto dall'assemblea con la maggioranza di cui al comma 2 del citato art. 1136.

Siamo in presenza di una disposizione che non compariva nel testo licenziato nella seduta del 26 gennaio 2011 di Palazzo Madama e che avrebbe potuto trovare tranquilla collocazione all'interno dell'art. 1120 c.c., costituendo necessariamente un'innovazione e, in particolare, nell'elenco di cui al comma 2 – v. supra – che menziona quegli interventi strutturali e funzionali dell'edificio condominiale che la Riforma ha considerato meritevoli di incentivazione, tanto più che si contempla lo stesso quorum, ossia l'approvazione «con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio».

Afferendo a beni di una particolare rilevanza (financo costituzionale), forse il legislatore ha ritenuto opportuno dedicarvi un'apposita norma, anche se la collocazione sistematica non appare felice, perché posta dopo l'art. 1122 c.c., che si occupa delle «opere su parti di proprietà o uso individuale», e dopo l'art. 1122-bis c.c., che disciplina la realizzazione di «impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili», e, quindi, di iniziative pur sempre da parte del singolo, laddove, nella fattispecie in esame, trattasi di deliberazioni adottate dall'assemblea che interessano le parti comuni dell'edificio.

Va, preliminarmente, segnalato che la norma de qua si riferisce alla «installazione sulle parti comuni dell'edificio» di impianti volti a permettere la videosorveglianza su di esse, ossia sulle medesime parti comuni: in tal modo, la Riforma ha inteso senz'altro disciplinare la decisione adottata dall'assemblea condominiale, restando esclusa l'iniziativa intrapresa dal singolo, per controllare l'accesso privato anche se la telecamera è apposta sulle parti comuni, ma è ragionevole ritenere che, purché oggetto della ripresa siano solo le parti comuni («... volti a consentire ...»), sia indifferente che il suddetto impianto venga posto su una parte comune (ad esempio, il muro perimetrale) o su una porzione di proprietà esclusiva (si pensi al balcone di un condomino); in altri termini, secondo un'interpretazione meno formalistica, quello che è importante è l'oggetto del controllo a distanza e non l'effettivo posizionamento del dispositivo.

Comunque, nella problematica concernente l'installazione di videocamere sui luoghi comuni, coesistono due contrapposti interessi, entrambi potenzialmente coinvolti dal funzionamento di questi impianti (Tortorici 2009, 12; Nasini 2009, 235): da un lato, l'esigenza diretta a preservare la sicurezza delle persone (a fronte di aggressioni, scippi, rapine, ecc.) e la tutela dei beni comuni (a fronte di atti di vandalismo, danneggiamenti, furti, effrazioni, ecc.), e, dall'altro, la preoccupazione che i trattamenti effettuati, nel rendere più agevolmente conoscibili le informazioni relative alla vita privata di chi abita nel condominio e lo frequenta saltuariamente o quotidianamente, oppure alle abitudini individuali e familiari, siano idonei ad incidere sulla libertà degli interessati di muoversi, non controllati, all'interno delle aree comuni.

La questione si presentava alquanto delicata in àmbito condominiale (Policella, 2125; Bordolli 2005, 73) e, purtroppo, il Garante della privacy non era intervenuto in modo risolutivo al fine di sciogliere i vari dubbi che insorgevano nella pratica applicazione: invero, con il provvedimento generale del 29 aprile 2010, emesso a causa del forte aumento di sistemi di videosorveglianza ed alla luce dei numerosi interventi legislativi adottati in materia, si erano introdotte nuove regole volte alla protezione dei dati personali nel caso di installazione di telecamere – cartelli visibili anche quando il sistema era attivo in orario notturno, cartelli appositi per segnalare il collegamento con le forze di polizia, obbligo di verifica preliminare per sistemi tecnologicamente avanzati, conservazione delle registrazioni per massimo 24 ore tranne alcuni casi, e quant'altro – tuttavia, per quanto concerne l'approvazione delle decisioni assembleari aventi ad oggetto l'utilizzo di «impianti volti a consentire la videosorveglianza sulle parti comuni dell'edificio», non si era presa ancora una netta posizione.

Relativamente alle riprese nelle aree condominiali – quali portoni d'ingresso, androni, cortili, scale, aree di accesso a parcheggi o dedicate a servizi comuni, ecc. – si ricorda che tale specifica ipotesi era stata già oggetto di una segnalazione da parte del Garante della privacy al Governo ed al Parlamento nel 2008: segnatamente, si era constatato che la disciplina codicistica non consentiva, nemmeno per analogia, di individuare quali fossero i soggetti, abitanti nel condominio, che avessero diritto di voto per la deliberazione relativa all'installazione di telecamere che riprendessero le aree comuni, potendo in astratto vantare una legittimazione al riguardo sia i titolari di diritti reali o personali concernenti le porzioni solitarie comprese nel fabbricato, sia ancora coloro che soltanto frequentavano abitualmente l'edificio per vincoli familiari o per motivi di lavoro, né la normativa chiariva – per quel che più interessa in questa sede – se occorresse l'unanimità dei partecipanti al condominio, o se fosse sufficiente una qualche maggioranza dei votanti.

La problematica de qua va, però, correttamente impostata sotto un duplice profilo.

Sotto un primo aspetto – tutela civilistica – appare indubbio che l'installazione di videocamere sui luoghi comuni, deliberata dall'assemblea dei condomini, trattandosi di impianto prima non esistente – peraltro di una certa rilevanza, non tanto sotto il profilo della consistenza materiale quanto piuttosto dell'importanza giuridica – costituisca un'innovazione ai sensi dell'art. 1120, comma 1, c.c. da approvarsi con le maggioranze qualificate di cui all'attuale art. 1122-ter c.c., in deroga a quelle ordinarie contemplate nel comma 5 dell'art. 1136 c.c., che richiedono i due terzi del valore dell'edificio, ma pur sempre in linea con le innovazioni c.d. incentivate elencate nel comma 2 del medesimo art. 1120.

È, comunque, pacifica l'utilità, all'interno dell'edificio in regime di condominio, soprattutto con riferimento all'incremento della sicurezza, di un sistema di videosorveglianza, grazie al quale la proprietà è costantemente monitorata (Ribaldone, 2009, 227); peraltro, il valore della «sicurezza» dello stabile è apprezzato dallo stesso codice civile che lo individua tra i criteri di pregiudizio previsti dall'ultimo comma dell'art. 1120 c.c., con lo scopo di interdire eventuali innovazioni sui beni ed impianti comuni, nel senso che le suddette innovazioni trovano un limite invalicabile, considerandosi vietate e, quindi, non realizzabili nemmeno con il consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio, qualora attentino alla sicurezza, intesa lato sensu, appunto contro terzi (ad esempio, ladri) o cose (si pensi a intemperie, alluvioni, incendi).

Scontata l'utilità di tali sistemi di videocamere, poteva sorgere il problema se, per decidere l'installazione all'interno del condominio, dovessero essere coinvolti anche i conduttori.

A questa domanda ha dato indiretta risposta il legislatore del 2012, perché, parlando di «deliberazioni» nel disposto del nuovo art. 1122-ter c.c., ha inteso escludere che, alla relativa decisione, possano partecipare soggetti diversi dai condomini, ossia dai proprietari di unità immobiliari facenti parte il condominio interessato (si pensi ai conduttori, pur interessati alle riprese da parte dell'impianto di videosorveglianza).

Inoltre, lo stesso legislatore, con una soluzione tranchant, ha reputato sufficiente la maggioranza di 500 millesimi, non considerando necessario l'ordinario quorum delle innovazioni, né a fortiori l'unanimità del consenso di tutti i partecipanti al condominio (nel regime antecedente alla Riforma, la giurisprudenza di merito si era orientata, invece, nel senso della necessità della decisione unanime per approvare l'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni, conseguendone la nullità di una deliberazione adottata a maggioranza anche se qualificata, v. Trib. Salerno 14 dicembre 2010; cui adde Trib. Varese 16 giugno 2011, precisando che, nel caso in cui la decisione sia deliberata all'unanimità dai condomini, si perfeziona un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti).

Resta inteso che, costituendo pur sempre un'innovazione, sia pur agevolata, le relative spese dovranno essere ripartite secondo i criteri ordinari di cui all'art. 1123, comma 1, c.c., salva l'esistenza del c.d. condominio parziale, ossia l'ipotesi che l'impianto de quo abbia un angolo di visuale ristretto solo ad una parte dell'edificio (ad esempio, al garage in cui hanno i boxes soltanto alcuni condomini).

Sotto il secondo aspetto – tutela della riservatezza – va evidenziato che, attraverso la videosorveglianza, viene effettuata una vera e propria «raccolta» di informazioni (consistenti nelle immagini riprese dalle apparecchiature), riferibili ai frequentatori del fabbricato (condomini, conduttori e/o estranei), e che, attraverso detta operazione, si pone in essere un «trattamento» di dati il quale, in quanto tale, deve essere sottoposto alle regole del Codice della privacy (aspetto, questo, non affrontato dalla Riforma): invero, l'impianto di videosorveglianza voluto dall'assemblea, per distanza, angolo visuale e qualità degli strumenti di ripresa, consente di rendere identificabili le persone inquadrate, sicché le registrazioni effettuate tramite l'uso delle telecamere contiene dati di carattere personale, qual è innegabilmente il dato dell'immagine, idoneo a contraddistinguere l'aspetto fisico di un soggetto con modalità tali da permetterne il riconoscimento.

Orbene, i due valori contrapposti – da una parte, la protezione della proprietà e la sicurezza degli abitanti e, dall'altra, la difesa della riservatezza – devono armonizzarsi (art. 2 Codice della privacy), preservando e contemperando equamente i rispettivi interessi, non sempre naturalmente convergenti.

Preliminarmente, nell'effettuazione delle operazioni materiali di videosorveglianza, in quanto comportante un trattamento di dati, il relativo servizio deve essere effettuato nel rispetto della legge (c.d. principio di liceità), non solo settoriale, ossia riguardo al Codice sulla privacy, ma anche con riferimento a qualsiasi norma presente nell'ordinamento e concernente questa materia.

Al contempo, è necessario che l'installazione di un sistema di videosorveglianza sia conforme ai principi di necessità, proporzionalità e finalità, in violazione dei quali il trattamento dei dati diviene illegittimo: pertanto, in ordine ai profili di eventuale illegittimità della deliberazione assembleare che approva l'installazione del relativo impianto, quest'ultima, pur immune da vizi sul versante civilistico (perché rispettosa dei quorum di cui al nuovo 1122-ter c.c.), potrebbe risultare invalida, per violazione di norme imperative, per quanto riguarda la privacy, con possibili interventi caducatori dell'autorità giudiziaria (in sede di impugnazione) per difetto dei presupposti legittimanti, o eventuali statuizioni correttive dello stesso Garante per omessi adempimenti tecnici (ad esempio, prescrivendo un restringimento dell'angolo di visuale).

Analizziamo, dunque, le possibili conseguenze dei suddetti principi in materia di privacy.

Va premesso, innanzitutto, che, nella fattispecie, viene stabilito un vincolo per il cittadino, sicché si impone l'esclusione di qualsiasi uso superfluo od eccessivo del sistema, ad esempio, evitando l'utilizzazione di dati che rendano possibile l'identificazione delle persone quando ciò non sia strettamente «necessario» (c.d. principio di necessità), impedendo l'ingrandimento delle immagini, e predisponendo un automatismo che cancelli periodicamente i dati eventualmente registrati.

In quest'ottica, una pronuncia di merito (Trib. Nola 3 febbraio 2009) ha ritenuto illegittima l'installazione di un sistema di videosorveglianza riprendente parti comuni di un condominio, perché, in base alla disciplina di riferimento, va evitata la rilevazione di dati in aree o attività che non sono soggette a concreti pericoli o per le quali non ricorre un'effettiva esigenza di deterrenza.

Inoltre, il sistema di videosorveglianza può essere effettuato solo se è «proporzionato» rispetto al reale rischio presente in determinati luoghi, per esempio, precludendo che vengano effettuate riprese video su aree che non sono soggette a pericoli concreti, o che le telecamere siano installate solo per meri fini di apparenza o di prestigio, ma, soprattutto, gli impianti di videosorveglianza devono essere attivati soltanto quando altre misure siano ponderatamente valutate insufficienti o inattuabili (c.d. principio di proporzionalità); pertanto, occorre prima valutare altri idonei accorgimenti, quali controlli da parte di addetti, sistemi di allarme, misure di protezione degli ingressi, abilitazioni agli ingressi, evitando di adottare la scelta semplicemente meno costosa, o meno complicata, o di più rapida attuazione.

La ripresa delle immagini deve, poi, avvenire per scopi determinati, espliciti e legittimi, senza che il titolare del trattamento possa porsi finalità che esulano dalla sua pertinenza; ciò avviene, per esempio, quando soggetti privati intendano perseguire scopi di sicurezza pubblica o di prevenzione/accertamento dei reati, che, invece, competono solo agli organi giudiziari o alle forze di polizia (c.d. principio di finalità).

Infine, una volta approvata l'installazione delle videocamere sui luoghi comuni, nel rispetto dei principi generali di cui sopra, e considerate, soprattutto, le soluzioni pratiche adottate in tale prospettiva, nell'espletamento del relativo servizio, vanno individuate una serie di formalità il cui adempimento si rende necessario affinché il trattamento possa essere qualificato come lecito.

È necessario, innanzitutto, che gli interessati siano informati che stanno per accedere o che si trovano in una zona videosorvegliata, e dell'eventuale registrazione; a tal fine, deve essere rilasciata un'informativa contenente gli elementi previsti dall'art. 13 del Codice della privacy e, per agevolare tale adempimento, il Garante ha predisposto un cartello semplificato, la cui installazione deve considerare la natura dei luoghi e le specifiche modalità di effettuazione delle riprese (per esempio, tale cartello deve avere un formato ed un posizionamento chiaramente visibile).

In secondo luogo, i privati – quali sono, senza dubbio, i condomini – possono trattare dati personali solo se vi è il consenso preventivo espresso dall'interessato; tuttavia, atteso che l'utilizzazione di impianti di videosorveglianza riguarda, solitamente, un insieme indistinto di persone, ciò comporta una sensibile limitazione nella possibilità di raccogliere il suddetto consenso – che, peraltro, è valido solo se espresso e documentato per iscritto – anche perché i prefissi scopi di deterrenza mal si conciliano con richieste di esplicita accettazione delle riprese; l'impasse viene superata attraverso l'adozione del principio del c.d. bilanciamento di interessi (art. 24, comma 1, lett. g, del Codice), in attuazione del quale, qualora il trattamento sia effettuato nell'intento di perseguire un legittimo interesse, configurato nel fine della tutela delle persone e della proprietà, la rilevazione delle immagini può avvenire by-passando il consenso, sia del terzo frequentatore dello stabile, sia della minoranza dissenziente nella deliberazione di approvazione del relativo impianto (nulla quaestio, invece, per i condomini che hanno votano a favore).

Pertanto, i condomini, per rispettare i due livelli di liceità della deliberazione sopra evidenziati, devono valutare, in via preventiva, l'adozione di tali ultime misure di salvaguardia e, una volta constatata la loro inadeguatezza, statuire in assemblea l'approvazione di un sistema di videosorveglianza – attualmente con il quorum agevolato di cui al comma 2 dell'art. 1136 c.c., espressamente richiamato dall'art. 1122-ter c.c. – osservando, nella fase attuativa, soprattutto tramite l'amministratore, tutti gli adempimenti prescritti.

Impianti radiotelevisivi e fotovoltaici

Il comma 5 dell'art. 1136 c.c. prevede, infine, che scontano la maggioranza dei due terzi del valore dell'edificio le deliberazioni contemplate nell'art. 1122-bis, comma 3, c.c.

L'art. 1122-bis c.c. – al cui commento si rinvia – si occupa, con una disciplina molto articolata, degli «impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili»: in tal modo, il legislatore del 2012 tenta di regolamentare le modalità di esecuzione di tali impianti in àmbito privato, nella prospettiva evidente di favorirne lo sviluppo (mediante modifiche alle parti comuni ed accessi agli appartamenti esclusivi), laddove forse sarebbe stato preferibile anche incentivare le realizzazioni di natura comune, al fine soprattutto di tutelare l'estetica dell'edificio e, al contempo, comportare risparmi di spesa (Celeste 2013, 119).

Passando in rassegna le singole disposizioni, il comma 1 del nuovo art. 1122-bis c.c. prevede che le installazioni di impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione per le singole utenze, sono realizzati in modo da recare il minor pregiudizio alle parti comuni e alle unità immobiliari di proprietà individuale, preservando in ogni caso il decoro architettonico dell'edificio, salvo quanto previsto in materia di reti pubbliche.

Rispetto alla più stringente disposizione contenuta nel precedente art. 1122 c.c., la norma de qua – «in modo da recar il minor pregiudizio ...» – pur nell'adeguata ponderazione dei contrapposti interessi proprietari, inquadra la facoltà, in capo al condomino, di installazione dell'antenna nell'amplissimo diritto primario, riconosciuto dall'art. 21 Cost., alla libera manifestazione del pensiero attraverso qualsiasi mezzo di diffusione, spettante ad ogni cittadino, sia come «soggetto attivo» della manifestazione stessa (diritto alla diffusione), sia come «destinatario» della manifestazione del pensiero altrui (diritto all'informazione); quindi, in questa ipotesi, un pregiudizio è pur sempre contemplato, ma si vuole che sia più limitato, ma anche rispetto al disposto generale dell'art. 1102 c.c. – che vieta l'uso della cosa comune, purché non si alteri la destinazione e non si impedisca il pari uso degli altri partecipanti – il precetto in commento appare più blando, nel senso che si tollera un certo sacrificio, purché questo non sia significativo, rilevante o grave (argomentando, anche di recente, da Cass. II, n. 31101/2023, secondo cui, in tema di servitù di passaggio di antenna a favore di radioamatore, il diritto all'installazione dell'impianto sulla proprietà esclusiva altrui deriva direttamente dall'art. 21 Cost., di talché, nei casi in cui quest'ultimo non possa utilizzare spazi propri o comuni vi è l'obbligo, da parte dei proprietari di un immobile, di consentire la collocazione di antenne sulle porzioni in loro dominio esclusivo, senza diritto all'indennizzo e senza previa autorizzazione scritta, ma nei limiti del rispetto dei diritti proprietari, ai sensi dell'art. 91, comma 3, 92, comma 7, e 209, comma 2, d.lgs. n. 259/2003).

Da segnalare, inoltre, che il suddetto comma 1, sempre in raffronto con l'art. 1122 c.c. – che si preoccupa del danno cagionato (solo) alle «parti comuni» da parte delle opere eseguite nell'interno dell'appartamento del singolo – ha riguardo anche al pregiudizio che l'installazione degli impianti de quibus possano arrecare (anche) alle «unità immobiliari di proprietà esclusiva» (tradizionalmente, disciplinate dalla normativa in materia di vicinato).

Si aggiunge, al nuovo comma 2, che deve considerarsi consentita l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio di singole unità del condominio sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato.

Premesso che un pannello «fotovoltaico» è quello che produce energia elettrica, convertendo le radiazioni solari in energia elettrica, mentre il pannello «solare» serve, invece, per riscaldare l'acqua – terminologia tecnica che, nel linguaggio comune, genera non poca confusione – si osserva che, in questa ipotesi, si consente l'installazione del relativo impianto non solo sulle «parti di proprietà individuale» ma anche sul «lastrico solare» e su «ogni altra idonea superficie comune» (pure se, di solito, orientate a sud, per captare meglio i raggi solari), purché siano «destinati» al servizio di singole unità del condominio: dunque, gli impianti de quibus sono pur sempre finalizzati a coprire il fabbisogno dell'appartamento privato, ma la collocazione può essere disposta anche sulle parti comuni dell'edificio – ad esempio, il dispositivo può essere posizionato sul lastrico solare, beneficiandone, però, un qualsiasi appartamento sottostante – laddove nell'ottica del (preesistente) art. 1102 c.c., essendo quasi sempre limitato lo spazio a disposizione del singolo, questi poteva usarle, purché ciò non impedisse agli altri condomini di fare parimenti uso di un'eguale superficie utile per l'installazione dei moduli fotovoltaici e non si alterasse la destinazione del lastrico solare o del tetto comune (Celeste 2013, 42).

La Riforma del 2013 si preoccupa di cosa succede qualora le installazioni di impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, da parte dei singoli, provochino interferenze in ordine al godimento delle parti comuni dell'edificio ad opera degli altri partecipanti.

Se ne occupa segnatamente il comma 3 dell'art. 1122-bis c.c. – richiamato appunto dal comma 5 dell'art. 1136 c.c. – nel senso che, qualora si rendano necessarie «modificazioni delle parti comuni», l'interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi; l'assemblea può prescrivere, con la maggioranza di almeno due terzi del valore dell'edificio, «adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele» a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio e, ai fini dell'installazione degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, provvede, a richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto; inoltre, l'assemblea, con la medesima maggioranza, può altresì subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte dell'interessato, di «idonea garanzia per i danni eventuali».

In particolare, si stabilisce che, «qualora si rendano necessarie modificazioni delle parti comuni, l'interessato ne dà comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi» (Nicola, 351); si nota sùbito che, in questa fattispecie, la comunicazione all'amministratore, da parte del soggetto interessato, è molto più dettagliata di quella che compare nel comma 2 dell'art. 1122 c.c., dove, nel caso di opere eseguite all'interno dell'unità immobiliare di proprietà esclusiva, il condomino era tenuto soltanto a dare «preventiva notizia all'amministratore» medesimo, e ciò al chiaro fine di far adottare all'assemblea tutte le decisioni di cui appresso; peraltro, non trattandosi di «opere», ma di impianti, qualora non si verificassero le interferenze di cui sopra – limitate alle «modificazioni» alle parti comuni, da intendersi rilevanti e non concernenti, ad esempio, il mero passaggio di un filo – la relativa iniziativa non sembra nemmeno soggetta alla «preventiva» notizia all'amministratore.

Va rimarcato, altresì, che, in tutto il testo della norma in commento, il legislatore riformatore utilizza il termine «interessato», anziché quello di «condomino», quasi a sottolineare che gli impianti de quibus siano appannaggio di chiunque abiti nell'edificio; d'altronde, specie riguardo agli impianti radiotelevisivi, la giurisprudenza si è recentemente orientata nel senso di ravvisare, nell'installazione dell'antenna, un diritto soggettivo perfetto di natura «personale» (v., tra le altre, Cass. II, n. 12295/2003), e su tale presupposto, si è affermato che il titolare, in virtù della norma che lo autorizza, può esercitarlo indipendentemente dalla qualità di condomino, per il solo fatto di essere o di diventare utente radiotelevisivo, sicché spetta anche al detentore qualificato, conduttore o comodatario, dell'alloggio ed a chiunque vi abiti a qualunque titolo (v., sul versante della giurisprudenza di merito, Pret. Salerno-Eboli 24 ottobre 1990); quindi, a tale soggetto interessato, in quanto utente delle trasmissioni televisive, deve riconoscersi il potere autonomo – ossia indipendentemente dalla mediazione del proprietario o dell'usufruttuario – nei confronti di chi, condominio o singolo, ha la disponibilità di diritto o/e di fatto del tetto, del lastrico o del terrazzo di copertura dell'edificio, di installarvi e mantenervi l'antenna, e di esercitare tutte le facoltà finalizzate e connesse alla concreta attuazione della ricezione televisiva.

Del resto, sia la l. n. 554 del 1940, sia il d.P.R. n. 156 del 1973, sia la l. n. 249 del 1997, parlano di «utente», espressione, questa, che dovrebbe comprendere qualsiasi occupante legittimo dell'unità immobiliare: in pratica, il servizio televisivo o radiofonico, a cui è preordinata l'installazione delle antenne, non costituisce un'utilità oggettiva ed immanente del «fondo», ma appare piuttosto un'utilità personale, un vantaggio per il patrimonio culturale dell'utente.

Si potrebbe, addirittura, sostenere che la disposizione di cui sopra riguardi anche i terzi estranei alla compagine condominiale: invero, il nuovo comma 2 dell'art. 1120 c.c. stabilisce che i condomini, con il quorum di cui al comma 2 dell'art. 1136 c.c., possano disporre le innovazioni che hanno ad oggetto – tra l'altro – le opere e gli interventi previsti «per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune»; quest'ultimo inciso dovrebbe riferirsi alla facoltà, in capo ai condomini, di cedere in uso le parti comuni (non utilizzate per altri scopi o per tale funzione appositamente riconvertite) appunto a terzi estranei, di regola, a fronte del pagamento di un corrispettivo, mediante un contratto di locazione o la concessione di un diritto di superficie.

Ad ogni buon conto, puntualmente e ritualmente convocata dal medesimo amministratore, l'assemblea può prescrivere, con l'elevata maggioranza di cui al comma 5 dell'art. 1136 c.c. – ossia il quorum delle innovazioni («maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi dell'edificio») – al fine di contemperare i contrapposti interessi, «adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio» (è soprattutto l'aspetto estetico quello che interessa il posizionamento di antenne nei balconi degli appartamenti di proprietà esclusiva, ma va adeguatamente valutato, altresì, se la struttura possa sopportare il peso dei vari manufatti e dispositivi).

Con particolare riguardo agli impianti fotovoltaici destinati al servizio di singole unità, la stessa assemblea «provvede, a richiesta degli interessati, a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto»; quindi, si contempla la possibilità che vi sia una pluralità di soggetti e si ponga questione di ripartire gli spazi in comune in relazione al numero degli impianti, e si impone il rispetto delle disposizioni regolamentari disciplinanti sul punto, salvo rifarsi ad una consuetudine vigente al riguardo (peraltro, l'inciso «a richiesta», farebbe pensare ad una facoltà, nel senso che, se nessuno degli interessati si attiva, il singolo possa intraprendere la relativa iniziativa, a meno che l'uso promiscuo sia impossibile e allora va pensata l'ipotesi di un eventuale uso indiretto).

A scopo eminentemente cautelativo, l'assemblea, con la maggioranza qualificata di cui sopra, «può altresì subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali»; salva quest'ultima ipotesi relativa ad un provvedimento ad hoc da parte del supremo organo gestorio, le iniziative dell'amministratore e, a seguire, dell'assemblea, non sembrano condizioni di legittimità dell'installazione ad opera del singolo, nel senso che se l'amministratore non convoca l'assemblea o se questa non adotta alcuna decisione, il condomino può procedere lo stesso alla relativa esecuzione.

L'ultimo comma della norma in commento prevede l'eventualità che le realizzazioni di cui sopra possano comportare invadenze nella proprietà privata altrui, sancendo che «l'accesso alle unità immobiliari di proprietà individuale deve essere consentito ove necessario per la progettazione e per l'esecuzione delle opere», da intendersi sempre quelle contemplate nell'art. 1122-bis c.c., ossia gli impianti singoli di ricezione televisiva e quelli fotovoltaici (il precedente testo approvato al Senato prescriveva che, «in caso di impedimento all'accesso o di richiesta di garanzia eccessivamente onerosa, l'autorità giudiziaria provvede anche in via d'urgenza»).

Tale risultato poteva, peraltro, ottenersi mediante un'applicazione analogica dell'art. 843, comma 1, c.c. – sia pure concepito nell'àmbito di fondi finitimi, secondo il quale «il proprietario deve permettere l'accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che venga riconosciuta la necessità, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera del vicino oppure comune»; la giurisprudenza di merito, proprio in base al citato art. 843, aveva ammesso il passaggio attraverso la proprietà altrui finalizzato alla manutenzione ed alla riparazione dell'antenna, posta sul tetto dell'edificio, per il tempo strettamente necessario ai lavori, specie se mancava una via di accesso alternativa praticabile (Trib. Cagliari 21 gennaio 2003).

D'altronde, già sul versante della legislazione speciale di settore, precisamente con la l. 6 maggio 1940, n. 554 – recante la «Disciplina degli aerei esterni per audizioni radiofoniche» – si stabiliva che i proprietari di un appartamento non potevano opporsi all'installazione, nella loro proprietà, di antenne destinate al funzionamento di apparecchi radiofonici appartenenti agli abitanti dello stabile (art. 1), e si prescriveva che, per l'impianto di tali «aerei», l'utente non doveva ottenere il consenso del proprietario dello stabile o dei condomini (art. 2).

Successivamente, con il d.P.R. 29 marzo 1973 n. 156 – contenente la «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni» – si contemplavano anche le antenne televisive private e le antenne di radiodiffusione (artt. 232 e 397), prevedendo un circostanziato elenco di limitazioni legali alla proprietà, e precisamente: a) in tali impianti, anche senza il consenso del proprietario e senza corrispondergli alcuna indennità, i fili o cavi senza appoggio potevano passare sia al di sopra della proprietà sia dinanzi ai lati degli edifici ove non vi fossero finestre o altre aperture praticabili, b) il predetto proprietario o il condominio non poteva «opporsi» all'appoggio di antenne, di sostegni, ed al passaggio di condutture, fili o qualsiasi altro impianto nell'immobile di sua proprietà occorrente per soddisfare le richieste degli utenti, purché tali installazioni fossero collocate in modo tale da non impedire il libero uso della cosa secondo la sua destinazione, e c) il proprietario doveva «sopportare» il transito nel suo locale da parte dell'esercente il servizio, che dimostrasse la necessità di accedervi per l'installazione e riparazione degli impianti di cui sopra.

È seguito il d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259 – c.d. Codice delle comunicazioni elettroniche – che, all'art. 209, comma 1, ha ribadito che i proprietari non potevano opporsi all'installazione sulla loro proprietà di antenne appartenenti agli abitanti dell'edificio destinate alla ricezione dei servizi di teleradiodiffusione (per approfondimenti della tematica, Celeste 1999, 198).

In quest'ottica, si è affermato (Cass. I, n. 16865/2017) che, riguardo ad un edificio in condominio ed all'installazione di apparecchi per la ricezione di programmi radiotelevisivi, il diritto di collocare nell'altrui proprietà antenne televisive, riconosciuto dagli artt. 1 e 3 della l. n. 554/1940 nonché art. 231 del d.P.R. n. 156/1973, è subordinato all'impossibilità per l'utente, onerato della corrispondente dimostrazione, di utilizzare spazi propri o condominiali, giacché altrimenti sarebbe ingiustificato il sacrificio imposto ai proprietari

L'art. 1122-bis c.c. puntualizza, infine, che, comunque, non sono soggetti ad autorizzazione gli impianti destinati alle singole unità abitative – si pensi alla parabola installata nel proprio balcone – nel senso che il singolo può provvedere alla loro realizzazione, ovviamente a sue spese, senza il nulla osta assembleare, purché rispetti i limiti del comma 1, ossia rechi minor pregiudizio alle parti comuni ed alle unità immobiliari esclusive, nonché preservi il decoro architettonico dell'edificio; a ben vedere, la previsione appare null'altro che un'applicazione delle norme generali di cui agli artt. 1102 e 1122 c.c., nel senso che, per quanto concerne le opere eseguite all'interno delle proprie unità abitative, il singolo non doveva invocare alcuna autorizzazione, a meno che non si volesse far riferimento a quelle clausole regolamentari in forza delle quali, per l'esecuzione delle opere de quibus, era stabilito il previo placet dell'assemblea o dell'amministratore, così ribadendo l'inefficacia sopravvenuta di queste limitazioni (va solo evidenziato che il riferimento alle sole unità «abitative» potrebbe far sorgere il dubbio che la norma de qua non debba operare per uffici, negozi, ecc., ma tale limitazione non sembra agevolmente spiegabile).

Verbalizzazione della riunione

Il codice civile detta solo una concisa norma relativamente al verbale dell'assemblea condominiale: l'ultimo comma dell'art. 1136 c.c. stabilisce, infatti, soltanto che «delle riunioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore».

Le modifiche introdotte sul punto dalla l. n. 220/2012 riguardano, direttamente, l'oggetto della verbalizzazione, che prima faceva riferimento alle sole «deliberazioni» e, indirettamente, lo stesso «registro dei verbali delle assemblee» – rientrante tra le attribuzioni dell'amministratore, come delineate in maniera particolareggiata dal novellato art. 1130, n. 7), c.c. – in cui devono, altresì, essere annotate anche «le eventuali mancate costituzioni ... nonché le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno fatto richiesta» (pertanto, va considerata cum grano salis App. Milano 18 settembre 1992, ad avviso della quale, avendo il verbale la sola funzione di documentare la valida costituzione dell'organo, la formazione ed il contenuto della volontà condominiale espressa attraverso le assunte deliberazioni, non sussisteva alcun obbligo ex lege e, specularmente, alcun diritto dei condomini di veder riprodotte nel verbale ogni loro osservazione, richiesta o dichiarazione che esulasse dai suddetti contenuti).

In effetti, il contenuto del verbale va necessariamente correlato all'intero iter, al procedere, allo svolgimento della stessa assemblea (Cirla 2013, 76): il verbale deve, quindi, anche riportare le verifiche preliminari nonché la fase centrale dell'adunanza (discussione e votazione), in quanto il processo di verbalizzazione inizia con la costituzione dell'assemblea e termina con la dichiarazione di chiusura della riunione (detto anche «scioglimento dell'assemblea»).

Il verbale costituisce, infatti, il resoconto scritto di tutto quanto è stato fatto e detto in assemblea, e corrisponde, grosso modo, al verbale dell'udienza del processo civile di cui agli artt. 126 e 130 c.p.c.

È vero che, nel verbale, è sufficiente che sia indicato il processo formativo della volontà assembleare, specificando nominativamente i condomini intervenuti, i millesimi rappresentati, gli argomenti trattati e le singole decisioni prese, ma è altrettanto vero che il verbale deve essere una fedele trasposizione per iscritto di ogni momento degno di interesse dell'assemblea condominiale, nel quale vanno annotate non solo le deliberazioni adottate dalla maggioranza, ma anche tutti gli accadimenti che si verificano durante la riunione e che sono pertinenti con la stessa (ad esempio, l'indicazione dell'ora di inizio e di fine riunione, l'annotazione che un partecipante presente si allontana, la dichiarazione rivolta dall'amministratore ai condomini, l'intervento personale di un condomino in precedenza rappresentato per delega, ecc.).

Dalla prassi si può enucleare una sorta di decalogo – il cui rispetto risulta spesso agevolato dall'utilizzo di moduli prestampati – che stabilisce i requisiti contenutistici che deve avere il verbale dell'assemblea condominiale:

a) luogo (città, edificio, locale), data dell'assemblea (giorno, mese, anno) ed orario di convocazione;

b) specificazione se assemblea tenuta in prima o in seconda convocazione e, in questo secondo caso, riferimento alla data della prima ed alle ragioni che hanno impedito lo svolgimento della stessa;

c) menzione della regolarità della convocazione, indicando le modalità di ricevimento dei relativi avvisi, per esempio, per apposito elenco fatto «girare» tra gli abitanti dello stabile, lettera semplice, lettera raccomandata, cartello apposto in portineria, fax, PEC, e quant'altro (questi documenti rimarranno agli atti dell'assemblea quali prove necessarie della ritualità della stessa);

d) elenco nominativo dei soggetti intervenuti in assemblea, con specificazione se di persona o per delega (che dovrà essere allegata al verbale, specie adesso che è richiesta la forma scritta ex art. 67, comma 1, disp. att. c.c.), e, a fianco, i rispettivi valori millesimali;

e) trascrizione dell'ordine del giorno come si ricava dall'avviso di convocazione;

f) nomina del presidente e del segretario dell'assemblea (per acclamazione, appello nominale o schede segrete);

g) dichiarazione, da parte del primo, di validità dell'assemblea, previa verifica della regolarità dei predetti adempimenti preliminari e constatazione del quorum necessario per la costituzione;

h) lettura dei singoli punti all'ordine del giorno ed apertura della discussione sugli stessi;

i) riassunto di tale discussione, inserendo a verbale, a seguito di richiesta dei condomini interessati, le loro dichiarazioni attinenti all'argomento trattato (pur dovendo rispettare il fine di costituire il resoconto completo, si opta per un criterio di redazione sintetico piuttosto che analitico);

l) sottoposizione a votazione delle singole proposte decisorie, indicando il metodo seguito per la votazione ed i voti riportati per ciascuna proposta;

m) compiuto lo scrutinio, proclamazione del risultato della votazione, con menzione dell'approvazione o meno della proposta messa ai voti (e degli eventuali provvedimenti adottati in conseguenza della stessa), specificando i condomini (e relativi millesimi) favorevoli, contrari, astenuti (in quest'ultimo caso, volontariamente o a seguito di conflitto di interessi);

n) registrazione puntuale di eventuali allontanamenti (temporanei o definitivi) di qualche partecipante prima dell'inizio di date votazioni;

o) annotazione o menzione di eventuali allegati (come dichiarazioni unilaterali, produzione, conteggi, capitolati, preventivi, ecc.), da far parte integrante del verbale, purché vi sia un preciso e perfetto collegamento tra il verbale ed i medesimi allegati;

p) lettura ai condomini presenti del verbale (da redigersi in carta semplice) ad opera del segretario, e sottoscrizione dello stesso anche da parte del presidente (non necessariamente in ciascun foglio di cui è composto);

q) dichiarazione di quest'ultimo della fine della riunione e dello scioglimento dell'assemblea, che preclude qualsiasi altra discussione, votazione o deliberazione, ad esempio, per quanto riguarda i condomini arrivati in ritardo (lo scioglimento della riunione sarà adottato, ovviamente, anche quando l'assemblea non possa dirsi validamente costituita, con la necessità di rimandarla alla successiva convocazione o ad una nuova).

Assemblea deserta

Premesso che la redazione del processo verbale delle deliberazioni condominiali consacra la determinazione volitiva (della maggioranza o della totalità) del consesso assembleare, dalla predetta funzione documentale si ricava anche il contenuto minimo che tale verbale deve possedere; in buona sostanza, stante che la funzione del verbale è soprattutto quella di documentare la valida costituzione dell'assemblea, la formazione della volontà dell'organo gestorio ed il contenuto della decisione adottata, nel predetto verbale dovranno essere riportati gli elementi indispensabili per verificare la validità della costituzione dell'assemblea e delle sue deliberazioni.

Comunemente, si riteneva l'inesistenza dell'obbligo di verbalizzazione quando l'assemblea, pur regolarmente costituita, non pervenisse ad alcuna deliberazione, deducendo l'inesistenza dell'obbligo di comunicazione del verbale assembleare da parte dell'amministratore, e la carenza dell'interesse processuale e sostanziale al riguardo, in quanto la mancata verbalizzazione rendeva prive di giuridico effetto nei confronti del condomino assente le deliberazioni eventualmente adottate.

In parole povere, qualora l'assemblea non adottava alcuna decisione, non vi poteva essere dissenso da tutelare con il diritto di impugnativa di cui all'art. 1137 c.c., stante appunto l'inesistenza di un atto deliberativo idoneo a ledere qualsivoglia situazione giuridica.

Questione connessa era quella inerente all'obbligo o meno di redigere il verbale qualora si accertasse che l'assemblea in prima convocazione non si era tenuta per difetto del numero legale previsto dall'art. 1136, comma 1, c.c. (c.d. verbale di diserzione), sia quando ciò derivasse dalla completa assenza dei condomini, sia che dipendesse dall'insufficiente partecipazione degli interessati.

La prassi, sul punto, era nel senso di negare tale obbligo, stante la mancata influenza sulla validità ed efficacia delle deliberazioni adottate in seconda convocazione (Pironti, 2975): invero, la mancata costituzione per difetto del quorum dell'assemblea in prima convocazione non era che il presupposto di fatto affinché si svolgesse l'assemblea in seconda convocazione, presupposto che avrebbe potuto essere dimostrato, se contestato, con qualsiasi mezzo probatorio (di solito, l'amministratore, anziché redigere un apposito verbale, quando si apriva la seduta in seconda convocazione, faceva questa premessa: «poiché la prima convocazione, che era stata convocata per il giorno .... è andata deserta per mancanza del numero legale, ....»).

Del resto, anche la giurisprudenza di legittimità era costante nel senso che l'omessa redazione del verbale che consacrava la mancata riunione dell'assemblea in prima convocazione non impediva che si tenesse l'assemblea in prima convocazione, né la rendesse invalida (v., tra le altre, Cass. II, n. 3862/1996; Cass. II, n. 590/1980), in quanto la relativa verbalizzazione era necessaria soltanto quando si dovessero registrare le deliberazioni prese e non quando le deliberazioni non risultassero adottate (in senso conforme alcune pronunce di merito, tra le quali si segnalano Trib. Bologna 8 gennaio 1992, e Trib. Napoli 12 maggio 1989).

Infatti, in tema di assemblea condominiale, la sua seconda convocazione era condizionata dall'inutile e negativo esperimento della prima, sia per completa assenza dei condomini, sia per insufficiente partecipazione degli stessi in relazione al numero ed al valore delle quote; la verifica di tale condizione poteva essere espletata nella seconda convocazione, sulla base delle informazioni orali rese dall'amministratore, il cui controllo poteva essere svolto dagli stessi condomini, che o erano assenti alla prima convocazione o, essendo stati presenti, erano in grado di contestare tali informazioni.

D'altronde, non si riusciva a comprendere che cosa potesse farsene di una notizia di tal fatta, ossia dell'adunanza andata deserta, il condomino assente, posto che egli, come tutti gli altri condomini, con l'avviso di convocazione a suo tempo diramato a cura dell'amministratore, era stato convenientemente e tempestivamente notiziato dell'ora e del giorno in cui avrebbe avuto luogo la seconda convocazione, con le seguenti varianti, ben note, circa i diversi criteri, più semplici ed agevoli, di formazione delle maggioranze e di approvazione delle deliberazioni, o, comunque, di formazione delle decisioni.

Mutando opinione, gli ermellini (Cass. II, n. 5014/1999), sul presupposto che la redazione del verbale costituisce una delle prescrizioni di forma, che devono essere osservate dall'assemblea al pari delle altre formalità richieste dal procedimento collegiale – avviso di convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione, ecc. – e la cui inosservanza importa l'impugnabilità della deliberazione per vizio di forma (in quanto presa non in conformità alla legge ex art. 1137 c.c.), ha ritenuto che, una volta convocata l'assemblea, occorre dare conto, tramite la verbalizzazione, di tutte le attività compiute – anche se non si sono perfezionate – per permettere a tutti i condomini, compresi quelli dissenzienti ed assenti, di controllare lo svolgimento del procedimento collegiale e di assumere le opportune iniziative.

In pratica, stante che la redazione del verbale raffigura un momento necessario del procedimento collegiale, ed atteso che la mancata o l'irregolare redazione raffigura uno dei vizi di forma, che legittima l'impugnazione, ne consegue che, alla predetta verbalizzazione, deve procedersi sempre, anche quando l'assemblea non si sia regolarmente costituita o non abbia deliberato, trovando ciò conferma, attualmente, nella nuova versione dell'art. 1130, n. 7), c.c. che, all'interno del registro dei verbali delle assemblee, prescrive che siano annotate, altresì, «le eventuali mancate costituzioni» (Nucera, 437).

Pure in quest'ultimo caso, infatti, sussiste la necessità di dare conto delle attività afferenti alla vita del collegio e di consentire il controllo di ogni fase procedimentale: convocata l'assemblea, si rende necessario documentare tutte le attività che si sono svolte nella riunione condominiale, comprese quelle che non si sono perfezionate; invero, i condomini – come hanno interesse ad impugnare una deliberazione approvata a conclusione di un procedimento viziato – potrebbero avere interesse a denunciare ed a far accertare l'irregolarità dell'interruzione di un procedimento, che invece era valido e che doveva portarsi a compimento.

Pertanto, atteso che la consacrazione delle operazioni collegiali in un verbale assembleare è ritenuta indispensabile alle sentite esigenze di certezza e trasparenza dell'organizzazione condominiale, deve essere redatto sempre il predetto verbale anche quando l'organo gestorio non perfeziona alcun deliberato, conseguendone che le risultanze e le discussioni emerse in seno all'assemblea devono obbligatoriamente essere relazionate per iscritto anche qualora non racchiudano o non concretizzino statuizioni decisorie.

Identificazione dei partecipanti

Va registrato che, spesso, per ragioni di opportunità, ossia per evitare operazioni macchinose e verbali troppo dettagliati, e sul presupposto che non esistono norme che esplicitamente impongono l'individuazione nominativa dei votanti e la relativa trascrizione a verbale, si suole omettere l'indicazione, per ogni votazione, del nome dei condomini dissenzienti, assenzienti e astenuti (l'inconveniente sopra lamentato si supera, invece, mediante una verifica accurata ed una compilazione fedele di quanto effettivamente è avvenuto durante la riunione).

Ora, è vero che la norma citata non dice espressamente che, ai fini della validità delle deliberazioni adottate, devono individuarsi, riproducendoli nel predetto verbale, i nomi dei singoli partecipanti alla votazione, assenzienti e dissenzienti, ed i valori delle rispettive quote millesimali, tuttavia l'individuazione di tali partecipanti è certamente essenziale (critico, in dottrina, De Paola, 40).

Ripercorriamo l'iter argomentativo seguito dai giudici di legittimità (segnatamente espresso da Cass. II, n. 810/1999): l'art. 1136 c.c. dispone, ai commi 2, 3, 4 e 5, che le deliberazioni delle assemblee devono approvarsi con un numero di voti che rappresenti la maggioranza, semplice o qualificata, dei partecipanti al condominio intervenuti alla riunione e del valore dell'edificio, e che delle dette deliberazioni deve redigersi il verbale; nelle maggioranze richieste per la validità dell'approvazione delle deliberazioni – come per la validità della costituzione stessa dell'assemblea – convergono l'elemento personale (i partecipanti al condominio) e quello reale (la quota proporzionale dell'edificio espresso in millesimi che può variare in relazione al valore delle singole unità immobiliari), ed il potere di impugnazione è riservato ai condomini dissenzienti (art. 1137 c.c.); sotto il primo profilo, è indispensabile individuare nominatim i condomini assenzienti e dissenzienti al fine della verifica dell'esistenza della maggioranza prescritta con riferimento all'elemento reale; la verifica dell'esistenza o meno del quorum prescritto con riferimento al valore dell'edificio postula, dunque, l'indicazione nominativa dei condomini che hanno approvato la deliberazione; quanto all'altro profilo, il voto produce effetti rilevanti oltre la deliberazione, essendone consentita l'impugnazione ai condomini dissenzienti – ed agli assenti, che peraltro già risultano individuati all'esito delle operazioni preliminari dirette alla verifica della regolare costituzione dell'assemblea – così che occorre, fin dal momento dell'espressione del voto, indicare i partecipanti al condominio legittimati ad impugnare la deliberazione.

Si è aggiunto, poi, che non mancano altre ragioni per le quali si rende necessaria l'identificazione dei condomini assenzienti e dissenzienti: segnatamente in considerazione dell'innegabile interesse dei partecipanti a valutare l'esistenza di un eventuale conflitto di interessi, possibile solo con l'individuazione della manifestazione del voto, atteso che, mancando questa, non è dato conoscere se i voti, favorevoli o contrari, provengano da differenti valutazioni dell'interesse comune o da uno proprio dei singoli con quello configgente (in quest'ottica, Cass. II, n. 10329/1998, ha annullato la deliberazione il cui verbale dava atto del risultato della votazione in base al numero dei votanti, senza indicare analiticamente i nomi dei partecipanti ed il valore della loro proprietà in millesimi; Cass. II, n. 697/2000, ha puntualizzato che non può essere attribuita efficacia sanante alla mancata constatazione, immediatamente, in sede di assemblea, dell'inesistenza di tale quorum da parte del condomino dissenziente, a carico del quale non è stabilito, al riguardo, alcun onere a pena di decadenza; tra le pronunce di merito, si segnala Trib. Genova 29 giugno 1999, che ha considerato colpite dal vizio di annullabilità le deliberazioni il cui verbale contenesse solo i nominativi dei partecipanti, senza le relative quote millesimali ed una specie di indice delle deliberazioni prese, indicate con i termini «si approva o non si approva»).

Infatti, se non si identificano nominativamente i condomini assenzienti e dissenzienti, non è dato conoscere se i relativi voti, favorevoli o contrari, provengano – non da differenti valutazioni dell'interesse comune, ma – da un interesse proprio dei singoli in contrasto con quello della collettività; in altri termini, non si è in grado di verificare se alcuni dei partecipanti abbiano votato in funzione di interessi estranei al condominio, ad esempio, per favorire esclusivamente le proprietà esclusive poste al di fuori dell'edificio condominiale (Rispoli, 1297).

Di recente, la giurisprudenza si è assestata su posizioni meno rigide (Cass. II, n. 24132/1999), statuendo che il verbale dell'assemblea, ai fini della verifica dei quorum prescritti dall'art. 1136 c.c., deve contenere l'elenco nominativo dei condomini intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi di quelli assenzienti o dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, tuttavia, dovendo il verbale attestare quanto avviene in assemblea, la mancata indicazione del totale dei partecipanti al condominio non incide sulla validità del verbale se a tale ricognizione e rilevazione non abbia proceduto l'assemblea, giacché tale incompletezza non diminuisce la possibilità di un controllo aliunde della regolarità del procedimento e delle deliberazioni assunte (v., altresì, Cass. II, n. 18192/2009; tra le pronunce di merito, si segnalano: Trib. Ariano Irpino 15 novembre 2005; Trib. Verona 22 giugno 2004, nella specie, da un'analisi complessiva della stessa e dei suoi allegati – di cui, uno, recante l'elenco dei presenti e degli assenti con l'indicazione dei millesimi di pertinenza e, l'altro, l'elenco delle deleghe – risultava comunque possibile desumere il raggiungimento della maggioranza richiesta, mediante una semplice sottrazione aritmetica dei millesimi facenti capo ai condomini dissenzienti analiticamente indicati, ed in assenza di astenuti; ad avviso di App. Roma 15 ottobre 2003, qualora nel verbale dell'assemblea siano indicati i nominativi dei condomini presenti, di persona o per delega, con le rispettive quote millesimali, non occorre che risulti anche la specifica indicazione dei condomini favorevoli ad una determinata deliberazione, ove questa sia stata approvata con il voto favorevole di tutti i partecipanti all'assemblea con la sola eccezione di un condomino, presente per delega, del quale sia stato specificato il nominativo).

Sul versante dottrinale (Salciarini 2009, 22), ad esempio, si è ritenuta comunque valida la deliberazione il cui verbale, ancorché non riportava l'indicazione nominativa dei condomini che avevano votato a favore, conteneva, però, l'elenco di tutti i condomini presenti, personalmente o per delega, con i relativi millesimi, e nel contempo recava l'indicazione, nominativa, dei condomini che avevano votato contro e del valore complessivo delle quote millesimali di cui gli uni e gli altri erano portatori, perché tali dati consentivano di stabilire con sicurezza, per differenza, quanti e quali condomini hanno espresso voto favorevole ed il valore dell'edificio da essi rappresentato, nonché di verificare che la deliberazione stessa avesse in effetti superato il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c.

Modalità di redazione del verbale

Il verbale assembleare non va confuso con la deliberazione, che costituisce un fatto che esiste a prescindere dal verbale e, per ipotesi, potrebbe esistere un verbale di un'adunanza che non contenga alcuna decisione; di regola, però, lo stesso costituisce il mezzo (molto rigoroso) che è volto ad esprimere e riprodurre la volontà dell'assemblea e, nel contempo, a permettere agli assenti (ai quali sarà comunicato) di sapere con precisione il contenuto delle decisioni adottate nonché gli elementi indispensabili per la verifica della costituzione assembleare e del raggiungimento dei quorum prescritti, e ciò è importante soprattutto qualora si voglia impugnare la deliberazione presa (Maglia-Brunetti, 561).

Non vi sono prescrizioni di legge che richiedono particolari requisiti nella redazione da parte del segretario, purché sia scritto, senza correzioni, abrasioni, spazi in bianco, trasporti a margine, in lingua italiana (v., però, Trib. Rovereto 25 luglio 2005, secondo il quale la maggioranza assembleare di un condominio posto all'interno della Repubblica italiana, nella specie nel Trentino-Alto Adige, può validamente deliberare che il verbale, in quanto atto privato e non pubblico, sia redatto in una lingua diversa dall'italiano, segnatamente, in tedesco); comunque, si esclude qualsiasi onere di vidimazione o/e bollatura (sul punto, una datata circolare del Ministero delle Finanze del 15 dicembre 1956).

Una volta che il verbale sia stato sottoscritto dal presidente, lo stesso non può essere più variato, salva l'esistenza di errori materiali o di calcolo, che vanno rilevati dal solo presidente in calce al verbale stesso, sottoscritto nuovamente, conservando però la leggibilità del testo originario e la chiara imputabilità agli autori della correzione medesima (Baldacci, 15; Meo, 6).

In quest'ottica, desta perplessità quanto statuito, di recente, dagli ermellini (Cass. II, n. 6552/2015), i quali, ribadito il principio secondo cui il verbale dell'assemblea, ai fini della verifica dei quorum prescritti dall'art. 1136 c.c., deve contenere l'elenco dei condomini intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi di quelli assenzienti o dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, rimanendo comunque valido ove, pur riportando l'indicazione nominativa dei soli partecipanti astenuti o che abbiano votato contro, consenta di stabilire per differenza coloro che hanno votato a favore, ha aggiunto che tale scrutinio di validità dell'adottata delibera non può essere inficiato neppure qualora risulti la correzione del verbale effettuata dopo la conclusione dell'assemblea, allo scopo di eliminare gli errori relativi al computo dei millesimi ed ai condomini effettivamente presenti all'adunanza. . In linea con tale impostazione soft, si è, da ultimo, affermato (Cass. II, n. 40827/2021) che, sebbene il relativo verbale dovrebbe contenere l'elenco nominativo dei condomini intervenuti, indicando assenti e dissenzienti, nonché il valore delle rispettive quote, la mancanza di tale indicazione non incide sulla validità della delibera, ove a tale incompletezza possa rimediarsi mediante un controllo aliunde della regolarità del procedimento, sicché non è annullabile la deliberazione il cui verbale, ancorché non riporti l'indicazione nominativa dei condomini che hanno votato a favore, cionondimeno contenga l'elenco di tutti i condomini presenti, con i relativi millesimi e rechi, altresì, l'indicazione nominativa di quelli che si sono astenuti e di quelli che hanno votato contro, nonché del valore complessivo delle rispettive quote millesimali, consentendo tali dati di stabilire con sicurezza, per differenza, quanti e quali condomini hanno espresso voto favorevole, nonché di verificare che la deliberazione assunta abbia superato il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c.

Per individuare alcune istruzioni operative per la redazione, si possono mutuare, in proposito, le norme contenute nell'art. 46 disp. att. c.p.c. – dedicato alla forma degli atti giudiziari – secondo il quale i processi verbali e gli atti giudiziari devono essere scritti «in carattere chiaro e facilmente leggibile, in continuazione, senza spazi in bianco e senza alterazioni o abrasioni», (mentre) «le aggiunte, soppressioni o modificazioni eventuali debbono essere fatte in calce all'atto, con nota di richiamo senza cancellare la parte soppressa o modificata».

Sull'argomento, una non recente, ma sempre attuale, pronuncia della magistratura di vertice (Cass. II, n. 3727/1968) ha escluso che il verbale dell'assemblea condominiale debba essere redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuire al verbale pubblica fede, in quanto tale esigenza è prevista soltanto, giusta il comma 2 dell'art. 2375 c.c., per le deliberazioni adottate dalle assemblee straordinarie delle società, mentre per le assemblee ordinarie non è, invece, prescritto che il verbale sia redatto da un notaio e quando questo non interviene, il verbale è validamente compilato dal presidente dell'assemblea e dal segretario (art. 2375, comma 1, c.c.); a fortiori, tale principio è applicabile ai verbali delle deliberazioni condominiali, rispetto alle quali il legislatore non ha nemmeno creduto opportuno formulare una disposizione analoga a quella dettata in tema di società, segno, questo, che in nessun caso la presenza del notaio è condizione di validità delle deliberazioni prese dall'assemblea dei condomini.

Ovviamente, il verbale redatto da un notaio avrebbe la capacità di soddisfare particolari requisiti di forma – scrittura privata autenticata o atto pubblico – eventualmente necessari per il raggiungimento di date finalità giuridiche (per esempio, la trascrizione); il notaio, però, manterrebbe la veste di segretario, rimanendo necessaria la presenza di un presidente.

Momento di redazione del verbale

È oggetto di discussione se la redazione del verbale debba essere contestuale all'assemblea o se possa essere differita ad un momento successivo.

Posto che il verbale non debba essere «approvato» dall'assemblea, non essendo oggetto di deliberazione e costituendo solo una mera documentazione dell'adunanza, si ritiene, però, deprecabile la prassi di prendere in assemblea soltanto alcuni appunti durante la discussione, per poi, nei giorni seguenti, redigere il verbale della riunione – o, addirittura, convalidarlo in una successiva seduta – perché il verbale di assemblea deve essere compilato «seduta stante» e non successivamente (anche se, poi, compilato dalle persone all'uopo incaricate dalla volontà unanime degli intervenuti alla riunione); lo stesso verbale, infatti, serve per documentare quanto si è fatto e detto nella riunione, ed una sua redazione successiva potrebbe far sorgere dubbi per lo spostamento del giorno della redazione, agli effetti dell'eventuale impugnativa, in quanto il termine decorre sempre dalla data della riunione per i condomini presenti.

Va, però, registrato che è stata ritenuta valida la deliberazione di un'assemblea condominiale, anche se il risultato della relativa operazione di voto era stato riportato in un separato allegato verbale, poiché il predetto allegato faceva parte del verbale stesso (Cass. II, n. 202/1966), e, nello stesso senso, a fronte della doglianza relativa alla mancata indicazione del verbale degli intervenuti e dei millesimi da essi rappresentati, si è considerato decisivo il rilievo che il predetto verbale fosse integrato da un foglio allegato nel quale era stata presa nota degli intervenuti e dei rispettivi millesimi, foglio sottoscritto dagli stessi partecipanti alla riunione (Cass. II, n. 240/1967).

Si è visto sopra che l'ultimo comma dell'art. 1136 c.c. adopera l'espressione (poco categorica) «si redige», e non quella (più vincolante) «deve redigersi»: in pratica, il verbale non è imposto, né viene sanzionata la sua mancanza (l'art. 2375 c.c., per le società commerciali, prevede invece che «le deliberazioni dell'assemblea devono constare da verbale», per un'evidente certezza della volontà sociale).

Funzione probatoria del verbale

Si è posta la questione se la verbalizzazione sia un requisito di validità delle deliberazioni, oppure se l'atto scritto sia prescritto ai soli fini della prova dell'esistenza della relativa decisione assembleare.

In altri termini, si tratta di acclarare se il verbale assolva una funzione costitutiva, essendo un elemento essenziale del procedimento di formazione della volontà collettiva, oppure abbia una funzione meramente probatoria, essendo prescritto per ragioni di opportunità affinché il contenuto della deliberazione resti fissato in modo irrevocabile e rappresenti la prova attendibile dello svolgimento dei fatti avvenuti in assemblea.

La giurisprudenza è orientata, sia pure con qualche diversa sfumatura, in quest'ultimo senso.

Invero, si ritiene che la redazione per iscritto non sia prescritta a pena di nullità (Cass. II, n. 4615/1980; Cass. II, n. 882/1970), essendo richiesta solo ad probationem, in quanto la mancanza del processo verbale rende la deliberazione inopponibile al condomino assente, che non abbia partecipato alla sua elaborazione ed alla sua approvazione, ma non impedisce affatto la conoscenza aliunde e l'esecuzione della deliberazione anche da parte sua.

In una curiosa fattispecie penale, si è di recente statuito (Cass. pen. V, n. 34800/2019) che l’aver causato la sospensione dell'assemblea condominiale, per aver strappato ed ingoiato il verbale di assemblea, costituisce reato di violenza privata.

Forma scritta ad substantiam

La forma scritta è, invece, da reputarsi necessaria nel caso in cui la deliberazione incida su diritti immobiliari, per cui sarebbe richiesta ad substantiam.

In quest'ottica, sul presupposto che, in materia di condominio degli edifici, il diritto di ciascun condomino sulle parti di proprietà comune può trovare limitazioni soltanto in forza del titolo di acquisto o di convenzioni, si è statuito (Cass. II, n. 16228/2006) che la deliberazione assembleare che, nel destinare un'area comune a parcheggio di autovetture, ne disciplini l'uso escludendo uno dei condomini, è nulla se il relativo verbale non è sottoscritto da tutti i condomini, atteso che la relativa determinazione, modificando il regolamento condominiale, produce vincoli di natura reale su beni immobili ed è, pertanto, soggetta all'onere della forma scritta ad substantiam (cui adde Cass. II, n. 2747/1978, in tema di costituzione di servitù riguardanti le proprietà comuni o esclusive).

In un caso particolare, riguardante una deliberazione dell'assemblea condominiale innovativa dell'uso delle cose comuni – nella specie, modifica del sistema di illuminazione delle scale – si è affermato che la stessa non può evincersi da presunzioni, ma deve risultare da un documento scritto ad substantiam se incida su diritti immobiliari (rinuncia, ratifica di negozio avente ad oggetto un diritto immobiliare, procura per lo stesso negozio, et similia), o, negli altri casi, da un documento scritto ad probationem, quale appunto il processo verbale di cui all'ultimo comma dell'art. 1136 c.c. (Cass. II, n. 2696/1976).

In un'altra fattispecie, i magistrati del Palazzaccio (Cass. II, n. 2132/1995) hanno avuto modo di precisare come la rinuncia del diritto di pretendere l'osservanza delle distanze legali tra una preesistente veduta del proprietario di un'unità immobiliare dell'edificio comune ed una nuova costruzione condominiale, richiede la forma scritta ad substantiam, ai sensi dell'art. 1350 c.c., ma questa può essere espressa anche nel verbale dell'assemblea del condominio sottoscritto dal rinunciante.

E ancora, il Supremo Collegio ha sostenuto che la dichiarazione del condomino soccombente di non voler avvalersi dell'impugnazione avverso la sentenza emessa nei confronti suoi, del condominio e degli altri condomini, è validamente resa, con effetti preclusivi della proponibilità del gravame, nel corso di un'assemblea, senza necessità che il verbale nel quale essa viene riportata sia sottoscritto dal condomino, giacchè la dichiarazione di voler prestare acquiescenza ad una sentenza, potendo essere resa anche tacitamente, non è soggetta al requisito della forma scritta, mentre la sottoscrizione del verbale assembleare da parte dei condomini è necessaria solo quando la deliberazione abbia il contenuto di un contratto per il quale sia richiesto ad substantiam il suddetto requisito (nel caso di specie, affrontato da Cass. II, n. 8079/1995, la proposizione che «per quanto di sua competenza non appellerà in giudizio», nonostante l'imperfezione formale, aveva espresso in modo univoco la volontà di accettare la decisione e di non voler impugnare).

Facendo un parallelo con il settore societario, si osserva che, per il condominio, l'art. 1137 c.c. si limita a stabilire la vincolatività delle deliberazioni prese ai sensi delle disposizioni precedenti, senza accennare all'obbligatorietà dell'atto scritto, mentre, per le società, si richiede espressamente la verbalizzazione ex art. 2375 c.c.

È ovvio che se la deliberazione sia eseguita senza contestazioni da tutti (amministratore e condomini), la stessa dovrà essere considerata valida tra gli stessi, e ciò potrà avvenire nel caso di decisioni semplici, che non incidano in modo rilevante nella sfera dei singoli, oppure immediate, che sono destinate ad esaurire la propria efficacia in breve tempo.

Ciò, tuttavia, non toglie che soltanto con la verbalizzazione le deliberazioni assembleari possono acquisire certezza giuridica, obbligando l'amministratore ad eseguirle, consentendo agli assenti in un breve termine di decadenza di impugnarle nel caso di eventuali invalidità, e prevenendo possibili contrasti tra i singoli partecipanti in ordine alla gestione condominiale.

L'opportunità di tale redazione si coglie anche nella necessità di evitare alcune manovre ostruzionistiche che potrebbero verificarsi al fine di distruggere l'effetto giuridico di una decisione non gradita; invero, la mancanza di un processo verbale dà luogo inevitabilmente ad una situazione di incertezza, che spesso si riflette sulla ricostruzione dell'espressione della volontà assembleare (si pensi alla questione se era stato mandato all'amministratore di acquistare una nuova caldaia per l'impianto di riscaldamento centralizzato, oppure se si era dato semplicemente l'incarico allo stesso di acquisire le offerte da sottoporre successivamente all'approvazione dell'assemblea).

Del resto, il fatto che l'art. 1136, ultimo comma, c.c. prescriva la trascrizione della deliberazione nel registro tenuto dall'amministratore implica che le decisioni siano prese per iscritto, non potendo all'evidenza trascriversi un atto non scritto.

Verbale in versione informatica

Si potrebbe opinare che possa redigersi il processo verbale dell'assemblea, in alternativa al cartaceo, come documento informatico, a condizione che venga sottoscritto dal presidente e dal segretario con le loro firme elettroniche, avanzate o digitali; al riguardo, per «documento informatico», non deve intendersi solo il documento redatto tramite il computer, potendo anche essere un file video o audio, costituendo, infatti, il suddetto documento «la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti» (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 82/2005).

In questa prospettiva, le riunioni condominiali potrebbero essere registrate in formato video o audio, a condizione che siano apposte sul file digitale le firme elettroniche del presidente e del segretario; per problemi di privacy, sarebbe meglio, però, ottenere il previo consenso al relativo trattamento dei dati personali da parte dei presenti (condomini o loro delegati) alla riunione, a meno che un'apposita disposizione del regolamento legittimi tale modalità di registrazione.

In proposito, il recente vademecum emanato dal Garante della privacy in data 10 ottobre 2013 puntualizza che «l'assemblea condominiale può essere videoregistrata, ma solo con il consenso informato di tutti i partecipanti», aggiungendo che «la documentazione, su qualsiasi supporto, deve essere conservata al riparo da accessi indebiti».

Il file in tal modo sottoscritto digitalmente avrebbe l'efficacia della scrittura privata come il processo verbale di tipo cartaceo, con il vantaggio di ridurre i tempi di redazione del relativo documento e di evitare i rischi di un'errata o infedele trascrizione del medesimo documento; non si nasconde, però, che potrebbero verificarsi problemi pratici nell'eventualità che il processo verbale assembleare rappresentato dal documento informatico debba essere esibito a terzi, ad esempio, all'autorità giudiziaria per dimostrare il contenuto di una deliberazione adottata in quella riunione o all'istituto bancario per provare l'autorizzazione all'amministratore ad aprire il conto corrente.

Valore privilegiato del verbale

In ordine all'efficacia giuridica del verbale, va ricordato che l'art. 63, comma 1, disp. att. c.c. – invariato sul punto anche a seguito della Riforma del 2013 – relativo alla richiesta di decreto ingiuntivo nei confronti dei condomini morosi per il pagamento dei contributi condominiali, conferisce al verbale della deliberazione di un'assemblea condominiale attinente allo stato di ripartizione dei contributi, non già la forza di titolo esecutivo, ma un valore probatorio privilegiato – corrispondente a quello dei documenti esemplificativamente elencati nell'art. 642, comma 1, c.p.c. – il quale vincola, su domanda, il giudice dell'ingiunzione alla concessione della clausola di immediata esecutività (v., per tutte, Cass. II, n. 1588/1972; nella giurisprudenza di merito, v. Giud. pace Foggia 25 maggio 2002; Trib. Roma 5 aprile 1985); la peculiarità qui sta nel fatto che la dichiarazione della provvisoria esecutività è vincolante per il giudice ed avviene in base ad un titolo non proveniente dal debitore, ma dal creditore, e cioè il condominio (v. anche Cass. II, n. 9787/1997).

Si tratta di un privilegio eccezionale, concesso agli amministratori dei condominii, che trova pochi riscontri nel nostro ordinamento, poiché, a quanto consta, lo stesso conosce pochissimi casi di decreti ingiuntivi ex lege, che prescindano cioè dal «pericolo di grave pregiudizio nel ritardo» cui l'art. 642 c.p.c. subordina la concessione della clausola di provvisoria esecuzione in sede di emanazione del decreto stesso; si è voluto facilitare l'ordinaria gestione del condominio, che potrebbe risultare difficoltosa se si dovesse attendere, per la riscossione dei contributi dai condomini morosi, l'esito di un ordinario giudizio di cognizione, e che potrebbe essere nel frattempo assicurata soltanto attraverso le anticipazioni da parte dei condomini puntuali nei relativi pagamenti (la stessa Corte cost., n. 40/1988, ha escluso il contrasto di tale disposizione con l'art. 24 Cost.).

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ammissibile che l'amministratore possa richiedere un decreto ingiuntivo non provvisoriamente esecutivo per i contributi dovuti da un condomino moroso – non sulla base dello stato di ripartizione approvato dall'assemblea, ma – in base a prospetti mensili delle spese condominiali non contestati (Cass. II, n. 15017/2000; Cass. II, n. 3296/1996; tra le pronunce di merito, si segnala App. Napoli 25 gennaio 2012, secondo la quale il verbale di un'assemblea contenente l'indicazione delle spese occorrenti per la conservazione o l'uso delle parti comuni costituisce prova scritta idonea per ottenere decreto ingiuntivo, pur in mancanza dello stato di ripartizione delle medesime, necessario per l'ulteriore fine di ottenere anche la clausola di provvisoria esecuzione del provvedimento, ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c.; cui adde Giud. pace Castellammare di Stabia 20 settembre 2005).

La suddetta richiesta di decreto ingiuntivo può, altresì, essere fondata sul verbale di deliberazione assembleare, alla quale acceda una dichiarazione di scienza – confessione – o di volontà – negozio unilaterale recettizio – di quel condomino, relativa ad un saldo debito di precedenti gestioni o della gestione alla quale si riferisce la deliberazione, indipendentemente dall'accettazione del condominio quale parte diretta destinataria (Cass. II, n. 1588/1972).

Verbale come titolo negoziale

Le varie manifestazioni di volontà nell'assemblea condominiale non si sommano, ma si fondono, in base al principio maggioritario, in modo che la volontà della maggioranza diventa la volontà di tutti: mediante la deliberazione, la collettività condominiale esteriorizza la sua volontà, rendendola nota e operante (anche nei confronti della minoranza e dei terzi), ed il verbale ha la funzione strumentale di rappresentare tale volontà, documentandone il processo formativo.

Si è affermato (Cass. II, n. 3317/1968) che un verbale di assemblea condominiale, ove sia utilizzato al preciso scopo di manifestare per iscritto una volontà contrattuale degli intervenuti (o di alcuni di essi) e sia sottoscritto da costoro, vale a conferire alla convenzione la forma che sia richiesta ad substantiam.

In altri termini, se per il negozio sia richiesta tale forma scritta, in tanto è soddisfatto il requisito formale, in quanto le parti abbiano proceduto alla sottoscrizione del predetto verbale, poiché, ove lo scritto sia prescritto ad substantiam, la sottoscrizione è essenziale ai fini dell'operatività e dell'efficacia della manifestazione di volontà negoziale (Perrone).

Ne consegue che la sottoscrizione del presidente e del segretario, se sufficienti a conferire validità alla deliberazione assembleare, non possono essere valida espressione della volontà contrattuale dei condomini, non essendo idonee ad integrare il sopraindicato requisito di forma relativamente a negozi di cui siano parti altri soggetti (Cass. II, n. 4480/1981; tra le pronunce di merito, v. Trib. Milano 2 aprile 2003, secondo cui la deliberazione che, in contrasto con la clausola contrattuale del regolamento che vieti l'uso a parcheggio del cortile comune, costituisca in favore di alcuni condomini diritti esclusivi di parcheggio, è nulla ove non sia materialmente sottoscritta da tutti i condomini, non essendo sufficiente ad integrare la forma scritta richiesta ad substantiam per gli atti costitutivi di diritti reali il verbale che riporta il consenso unanime dei partecipanti all'assemblea, sottoscritto dal solo presidente e dal segretario).

Di contro, l'omessa sottoscrizione del verbale dell'assemblea ad opera del presidente non costituisce causa di annullabilità della deliberazione, non esistendo – neppure a seguito della novella introdotta dalla l. n. 220/2012 – alcuna disposizione che prescriva, a pena di invalidità, tale adempimento, dovendosi presumere che l'organo collegiale agisca sotto la direzione del presidente ed assolvendo la sottoscrizione del verbale unicamente la funzione di imprimere ad esso il valore probatorio di scrittura privata con riguardo alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori (Cass. VI/II, n. 27163/2017, la quale aveva cassato la decisione di merito che, in presenza di una clausola regolamentare impositiva dell'obbligo di nomina di un presidente dell'assemblea, aveva ritenuto invalido il verbale della riunione privo della sottoscrizione del presidente nominato, sebbene redatto sotto la direzione del medesimo).

Ad avviso degli ermellini (Cass. II, n. 5759/1980), una deliberazione condominiale può avere rilevanza di atto di natura negoziale, e, in particolare, di atto di ricognizione di debito da parte del condominio nei confronti di un terzo (nella specie, fornitore del combustibile per l'impianto di riscaldamento); dal canto suo, si è ravvisato (Cass. II, n. 2297/1996) nel verbale dell'assemblea condominiale, sottoscritto da tutti i condomini, una transazione tra un condomino ed il condominio (v. anche Cass. II, n. 747/1973, la quale impone la sottoscrizione di tutti i condomini del verbale che rappresenta la deliberazione modificante un precedente regolamento condominiale di natura contrattuale).

Peraltro – secondo il Supremo Collegio – se la deliberazione condominiale esprime la volontà negoziale, la stessa deve essere interpretata secondo i criteri ermeneutici previsti dagli artt. 1362 ss. c.c. (Cass. II, n. 2101/1997); in particolare, si è statuito che debba essere privilegiato, innanzitutto, l'elemento letterale, e quindi, nel caso in cui esso si appalesi insufficiente, gli altri criteri interpretativi sussidiari indicati dalla legge, tra cui quelli della valutazione del comportamento delle parti (Cass. II, n. 28763/2017).

Strumenti di impugnazione del verbale

Può capitare che non vi sia una perfetta corrispondenza tra il contenuto del verbale e le dichiarazioni di volontà espresse in assemblea (ad esempio, si potrebbe omettere una parte essenziale della deliberazione, oppure potrebbe figurare come assenziente chi invece ha espresso voto contrario, o viceversa).

Sorge, quindi, la necessità di dare la prova dell'omissione o dell'errore nella trascrizione nel verbale assembleare delle volontà manifestate dai partecipanti alla riunione condominiale (in argomento, v. Trib. Milano 19 ottobre 2004, ad avviso del quale l'erronea indicazione a verbale della presenza di un condomino invece assente, non costituisce vizio invalidante della deliberazione, posto che non ne preclude l'impugnazione, tanto più laddove, anche detraendo la presenza del suddetto condomino, non vengano meno né il quorum costitutivo, né quello deliberativo).

In quest'ordine di concetti, se, nella verbalizzazione, si è incorsi in un errore materiale, questo potrà essere corretto, mentre, se non si è dato atto di alcune dichiarazioni degli intervenuti, si dovrà impugnare quanto risultante dalla decisione assembleare, in quanto il verbale dell'assemblea è una fonte di prova contestabile con qualunque mezzo; in altri termini, la redazione per iscritto del verbale delle riunioni condominiali assolve ad una funzione meramente probatoria – eccettuato il caso di deliberazione che contenga atti di disposizione di diritti immobiliari – conseguendone che le eventuali irregolarità formali non comportano l'invalidità della deliberazione, poiché il testo scritto offre esclusivamente una prova presuntiva che non impedisce al condomino dissenziente, il quale impugni la deliberazione contestandone la rispondenza a verità, di fornirne la relativa dimostrazione (fattispecie affrontata da Trib. Milano 24 luglio 1997).

Il verbale non ha, di regola, efficacia costitutiva – v. supra – nel senso che la mancata redazione di esso non porta all'inesistenza della deliberazione come se tamquam non esset, per la semplice ragione che la legge non ha imposto, sotto pena di nullità, l'osservanza di quella determinata forma, salvo verificare volta per volta l'oggetto della deliberazione per determinare gli effetti che l'inosservanza della forma scritta produce (si pensi ai diritti reali immobiliari).

Al riguardo, il Supremo Collegio (Cass. VI/II, n. 16774/2015; Cass. II, n. 11526/1999; Cass. II, n. 12119/1992), nella parte del verbale che indicava la presenza, di persona o per delega, dei condomini, ha ripetutamente rilevato che il verbale dell'assemblea offre una prova presuntiva dei fatti che afferma in essa essersi verificati, e dunque spetta al condomino il quale impugna la deliberazione assembleare, contestando la rispondenza a verità di quanto riferito nel relativo verbale, di provare il suo assunto.

È, quindi, sufficiente che il verbale dell'assemblea sia sottoscritto dal presidente e dal segretario – ossia dai soggetti che, nell'assemblea, hanno avuto posizioni di direzione, responsabilità o iniziativa – che, in tal modo, attestano, sino a prova contraria, la veridicità di quanto contenuto nel documento; in particolare, si è precisato che la verbalizzazione assume un valore di semplice scrittura privata, idonea a fondare una presunzione di verità di quanto da essa risulta, potendo tale presunzione essere vinta con qualsiasi mezzo di prova (in fondo, il presidente ed il segretario non sono pubblici ufficiali, ma semplici soggetti privati che agiscono in forza ad un mandato ricevuto dalla maggioranza dei presenti).

L'omessa indicazione, poi, dell'ora e del luogo della convocazione nel verbale dell'assemblea non costituiscono vizi invalidanti della deliberazione, in quanto siffatti elementi non sono affatto richiesti a pena di nullità o di annullabilità (così Trib. Trani 29 novembre 1984), né dalla loro mancanza potrebbe derivare l'impossibilità o la difficoltà di ricostruzione dei fatti storici documentati dal verbale, e, comunque, in difetto di contrarie risultanze del verbale stesso, va ritenuto che il luogo e l'ora in cui si è tenuta l'assemblea siano quelli indicati nell'avviso di convocazione.

Dunque, la sottoscrizione degli altri partecipanti alla riunione non è necessaria, ma non è affatto vietata: se ciò avviene, il documento, se non disconosciuto, può far fede della provenienza della scrittura stessa e del suo contenuto nei confronti dei condomini presenti alla riunione.

La Corte di Cassazione ha affermato, sul punto, che, poiché la deliberazione condominiale deve risultare in forma documentale ai sensi dell'art. 1136, ultimo comma, c.c., è inammissibile la prova testimoniale diretta a dimostrare una volontà assembleare difforme da quella risultante dal verbale stesso (Cass. II, n. 2101/1997; nella giurisprudenza di merito, v. App. Roma 15 ottobre 2003).

In realtà, l'affermazione secondo cui la documentazione a verbale sia prevista ad probationem non sembra da intendersi in senso tecnico, in quanto dovrebbe escludersi l'applicazione dei limiti alla prova per testi o per presunzioni di cui all'art. 2725 c.c., senza contare che le presunzioni dovrebbero ammettersi solo se gravi, precise e concordanti, elementi difficilmente riscontrabili nel verbale dell'assemblea condominiale (nel senso, invece, che la deliberazione dell'assemblea non può risultare da presunzioni, v. Cass. II, n. 2969/1976, riguardo ad una deliberazione che modificava il sistema di illuminazione delle scale).

Ovviamente, qui il discorso si sposta sull'estrema difficoltà in concreto della dimostrazione dei fatti che vengono lamentati, in quanto spesso accade che, all'assemblea, siano presenti soltanto condomini e talvolta l'amministratore; esclusa la capacità a testimoniare sia dei primi (stante l'incompatibilità tra la posizione processuale di parte in capo al condomino, tanto che ha la legittimazione a spiegare intervento nel giudizio, e quella di testimone, v. Cass. II, n. 17925/2007; Cass. II, n. 6483/1997), sia del secondo (in forza della sua qualità di legale rappresentante del condominio convenuto nel giudizio di impugnazione della deliberazione condominiale), si pone il problema pratico del soggetto, presente alla riunione, che possa dare la prova che sia del caso necessaria (si può pensare ad un familiare del condomino purché non comproprietario dell'unità immobiliare, ad un ospite, al conduttore); altro discorso, poi, attiene all'attendibilità del teste, che è cosa – diversa dalla capacità a testimoniare – afferente alla veridicità della deposizione, e che dovrà essere valutata alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza delle dichiarazioni, le possibili contraddizioni, ecc.), e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alla qualità personale, ai rapporti con le parti, ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite).

Non è, comunque, necessaria l'impugnativa di falso (Grassi, 225), volta a tutelare la buona fede solo per togliere ad un atto pubblico o ad una scrittura privata l'idoneità a far fede ed a servire quale prova di determinati atti o rapporti.

Invero, non può ritenersi che il presidente (e, a maggior ragione, l'amministratore) imprimano al verbale, anche se firmato da altri condomini, quell'impronta di autenticità, non impugnabile se non con la querela di falso che caratterizza le scritture pubbliche ed alcune scritture private; peraltro, anche per gli atti pubblici che fanno fede fino a querela di falso, tale efficacia probatoria è circoscritta alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato ed ai fatti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ma non si estende mai al contenuto sostanziale delle dichiarazioni rese dalle parti, sicché la verità ed esattezza delle stesse può essere contrastata con tutti i mezzi consentiti dalla legge; negli stessi termini, le scritture private riconosciute fanno prova fino a querela di falso unicamente della provenienza delle dichiarazioni da parte di chi le ha firmate, ma non anche della veridicità del contenuto, che può essere sempre disconosciuta (così Cass. II, n. 747/1973, in relazione ad asserite copie di verbali di assemblee condominiali i cui originali risultavano privi delle sottoscrizioni del presidente e del segretario).

Tali principi sono stati, di recente, ribaditi dai giudici di Piazza Cavour (Cass. VI/II, n. 11375/2017), i quali hanno statuito che il verbale di un'assemblea condominiale, munito di sottoscrizione del presidente e del segretario, ha natura di scrittura privata, sicché il valore di prova legale è limitato alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori e non si estende al contenuto della scrittura medesima, per impugnare la cui veridicità non occorre la proposizione di querela di falso, potendosi far ricorso ad ogni mezzo di prova; nella fattispecie esaminata, si era confermata la decisione di merito, che aveva negato legittimazione all'impugnazione ex art. 1137 c.c. ad un condomino che, pur avendo evidenziato di avere espresso, in sede assembleare, voto contrario alla deliberazione impugnata, non aveva tuttavia articolato alcuna deduzione istruttoria volta a sovvertire le risultanze del relativo verbale che, diversamente, ne riportava l'approvazione senza dissensi; ricordando che, comunque, incombe sul condomino che impugni la deliberazione assembleare l'onere di superare la presunzione di verità di quanto risulta dal relativo verbale (v., da ultimo, Cass. II, n. 23903/2016), si era evidenziato, nello specifico, che il ricorrente non aveva fatto riferimento nel ricorso per cassazione ad alcuna sua specifica deduzione istruttoria volta a sovvertire le risultanze del verbale che riportava la sua approvazione senza dissensi della delibera; lo stesso ricorrente aveva, altresì, allegato soltanto l'omesso esame – non di un fatto storico, ma – di un elemento istruttorio (il CD-rom audio della riunione), peraltro prospettandone una valenza non decisiva, in quanto da esso si traeva pur sempre che non vi era stata «votazione», il che contrastava con il dato documentale che registrava l'approvazione della delibera, e comunque quanto sopra non sarebbe valso a giustificare la mancata espressione sia pur soltanto di un dissenso preventivo nell'àmbito delle discussioni preliminari da parte del condomino presente in assemblea.

Trascrizione del verbale nel registro

Il verbale dell'assemblea va, infine, trascritto in un apposito registro tenuto dall'amministratore; recita, infatti, l'ultimo comma dell'art. 1136 c.c. (così come novellato dalla l. n. 220/2012): «delle riunioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore».

Lo scopo della trascrizione è quello di permettere la conservazione precisa in ordine cronologico delle deliberazioni assembleari risultanti dai verbali (Riccio, 309); non deve essere vidimato, anche se, ai fini di una buona tenuta, appare opportuno – a meno che non vi siano apposite disposizioni del regolamento di condominio che lo impongano – che le pagine siano numerate progressivamente senza lacune di sorta.

Resta inteso che la formalità della trascrizione non incide minimamente né sulla validità del verbale, né tanto meno sulla validità della deliberazione.

Tale registro va, però, distinto da quelli, pur rientranti tra gli obblighi dell'amministratore, come ora delineati dall'art. 1130, n. 6) e 7), c.c., ossia il registro dell'anagrafe condominiale, il registro di nomina e revoca dell'amministratore, e il registro di contabilità, la cui non corretta tenuta rientra tra le «gravi irregolarità» che giustificano la revoca giudiziaria dell'amministratore in virtù dell'art. 1129, comma 12, n. 7), c.c.

Dunque, l'art. 1136, ultimo comma, c.c. prevede che le decisioni assembleari siano verbalizzate e, quindi, trascritte nell'apposito registro tenuto dall'amministratore, ma nulla esclude, però, che la verbalizzazione avvenga direttamente nel registro.

In altri termini, circa il momento temporale della trascrizione, si possono fare due ipotesi: nella prima, più frequente, il verbale si confeziona in assemblea, poi viene dattilografato, e infine inserito nel registro; nella seconda, più rara, il processo verbale è redatto direttamente nel registro, per cui il registro viene portato in assemblea e consegnato al presidente della stessa.

L'ultima ipotesi non pone problemi, mentre dubbi potrebbero sorgere nella prima, stante che il legislatore non ha prescritto alcun termine entro il quale deve operarsi la predetta trascrizione (che, al limite, potrebbe intervenire anche dopo una successiva deliberazione); in ogni caso, sembra che agli assenti, ai fini della decorrenza del termine di cui all'art. 1137 c.c., debba essere inviata copia estratta dall'originale del processo verbale anziché del registro (che non è altro che il documento di un documento).

In ordine alle modalità di trascrizione, non è superfluo ricordare che il predetto verbale deve essere trascritto integralmente, mediante o copiatura fedele del testo del verbale o allegazione del verbale originale, con gli eventuali errori, omissioni e/o imprecisioni; l'amministratore, quindi, non può portare variazioni, correggere errori di calcolo, aggiungere rettifiche o togliere imprecisioni; trascrivere, infatti, significa riportare nel registro il processo verbale sottoscritto dal presidente e dal segretario (Cass. II, n. 2297/1996); unico rimedio, in questi casi, è l'intervento correttivo, da parte del presidente e del segretario, del verbale originario, salvo ed impregiudicato il diritto di impugnazione da parte del condomino interessato.

Per completezza, va esaminata la questione connessa alle responsabilità dell'amministratore in caso di omessa o parziale trascrizione, stante che la tenuta del registro rientra nei compiti dell'amministratore stesso.

Al riguardo, sul presupposto che il rapporto tra condominio e amministratore si possa configurare come mandato con rappresentanza (art. 1710 c.c.), si ritiene che l'amministratore non abbia solo l'obbligo di procurarsi una copia della deliberazione adottata dall'assemblea, ma risponda per il principio generale del neminem laedere, ogni qual volta un condomino o un terzo subiscano un danno a seguito della consultazione del registro nel quale i processi verbali siano stati trascritti solo in parte o, addirittura, completamente omessi; si pensi al caso del futuro acquirente di un'unità immobiliare facente parte dello stabile condominiale interessato a consultare i verbali precedenti al suo acquisto, a meno che l'amministratore abbia consegnato al predetto terzo l'originale dei verbali, o, nell'ipotesi di contrasto tra questi ultimi e quelli trascritti nel registro, abbia consegnato il tutto al terzo.

Comunicazione del verbale agli assenti

La l. n. 220/2012 – a parte la problematica della forma di introduzione del giudizio – mantiene sostanzialmente la portata precettiva dell'art. 1137 c.c. (al cui commento si rinvia).

Il vecchio testo, al comma 3, prevedeva che il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono «dalla data della deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti», mentre la nuova versione, al comma 2, prescrive che, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino assente, dissenziente o astenuto è legittimato ad adire l'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e «dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti».

Il legislatore, dunque, ha sempre a cuore le fondamentali esigenze di certezza delle situazioni giuridiche nascenti dagli atti di gestione del condominio, per cui, decorso il termine perentorio ivi previsto, la validità della deliberazione – di regola, salva l'ipotesi eccezionale della nullità – non potrebbe essere più messa in discussione, con le immaginabili conseguenze in ordine all'affidamento su di essa da parte dei condomini e dei terzi.

Si conferma che il termine decorre dalla data di «deliberazione» per i dissenzienti e per gli astenuti, e dalla data di «comunicazione» per gli assenti alla riunione: riguardo a questi ultimi, si è mantenuta la terminologia usata dal vecchio testo dell'art. 1137 c.c., non prescrivendo, quindi, alcuna forma particolare.

Dunque, del verbale assembleare va fatta comunicazione ai condomini «assenti», cioè a coloro che non hanno partecipato – ovviamente, neanche per delega – alla riunione condominiale, anche se comunemente si ritiene opportuno e consigliabile che si faccia pervenire copia del verbale stesso a «tutti» i condomini (specie ai dissenzienti, ossia potenzialmente a coloro che sarebbero maggiormente interessati ad impugnare la deliberazione, al fine di far decorrere quanto prima il termine per l'impugnazione).

L'obbligo della comunicazione deve correlarsi alla necessità di conoscenza di un atto vincolante per tutti i partecipanti al condominio, che ne restano impegnati, e che devono avere, soprattutto qualora non presenti alla riunione nella quale è stata adottata una determinata decisione (pregiudizievole ai loro interessi), la possibilità di contestarlo.

L'art. 1137, comma 2, c.c. riconosce la legittimazione ad impugnare, oltre che ai condomini che hanno partecipato all'assemblea ma hanno espresso voto contrario alla deliberazione – situazione estesa dalla Riforma agli astenuti – anche a quelli assenti, cioè a quelli che non hanno partecipato alla riunione in cui si è adottata la deliberazione medesima.

La predetta comunicazione va effettuata pure se l'assenza sia solo parziale, nel caso cioè in cui il condomino si sia allontanato per parte della riunione, in quanto, in relazione a tale parte, il condomino allontanato va considerato «assente»; in altri termini, deve essere ritenuto tale chi, pur presente alla riunione, anche se abbia presenziato alla discussione, se ne sia allontanato – temporaneamente o definitivamente – prima dell'adozione della deliberazione (v. supra).

Con particolare riferimento agli assenti, si evidenzia che il summenzionato comma 2 dell'art. 1137 c.c. tuttora non prescrive alcuna forma particolare per la comunicazione idonea a far decorrere il predetto termine per l'impugnazione (Pacetti, 33), anche se la prassi, sul punto, ha individuato sostanzialmente tre forme di comunicazione: consegna a mano con sottoscrizione di ricevuta, invio per raccomandata – con o senza ricevuta di ritorno – e notifica tramite ufficiale giudiziario.

Sul punto, sono intervenuti di recente i giudici della Consulta (Corte Cost., n. 52/2014), i quali hanno dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1137,1334 e 1335 c.c., in riferimento all'art. 24 Cost., nella parte in cui non prevedono che la comunicazione della deliberazione assembleare che, nei confronti dei condomini assenti alla relativa seduta, determina il decorso iniziale del termine di trenta giorni per impugnare, sia presidiata dalle medesime garanzie di conoscibilità dell'atto previste per la notificazione degli atti processuali.

Di solito, si ha riguardo alla copia fotostatica del verbale, il cui originale viene conservato nel registro tenuto dall'amministratore ai sensi del novellato art. 1130, n. 7), c.c., ma nulla esclude che l'amministratore possa anche trascriverne il contenuto in altri fogli ed inviare quest'ultimo documento ai condomini, possibilmente sottoscrivendolo al fine di attestarne l'autenticità della provenienza e della conformità.

Il verbale da comunicare ai condomini potrebbe anche essere composto da più fogli, secondo la durata della riunione e la complessità degli argomenti trattati, e parimenti potrebbe registrare l'allegazione di documenti vari (ad esempio, il parere di un legale, il bilancio preventivo, il capitolato dei lavori, la bozza di una transazione).

Qualora la trasmissione del verbale avvenga mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, tale forma di comunicazione offre garanzie di certezza in ordine al recapito dello stesso, producendo in giudizio, se la circostanza è contestata, la relativa cartolina; con ciò non si esclude la possibilità della circolazione presso ogni unità immobiliare di un foglio da parte del portiere, sul quale ciascun condomino possa apporre la propria firma, mentre non basterebbe un avviso affisso in portineria, che potrebbe anche non essere notato e letto da tutti gli interessati (ad esempio, perché accedono alle loro abitazioni, usando l'ascensore direttamente dal garage sito nel piano interrato, ossia senza transitare nell'androne ove è sita la guardiola del portiere).

In questa prospettiva, se, da un lato, stante il tenore della suddetta norma, non appare corretto opinare che il termine di decadenza in esame possa decorrere anche a prescindere dalla predetta comunicazione, per effetto di una conoscenza avuta aliunde, dall'altro lato, non dovrebbe ritenersi per forza obbligatoria la trasmissione di copia del verbale dell'assemblea che ha adottato la deliberazione da impugnare.

In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che l'esigenza della comunicazione, pur non implicando l'obbligo di dare al condomino assente notizie sui requisiti formali della deliberazione, deve reputarsi soddisfatta solo quando la deliberazione stessa sia comunicata in modo tale che il destinatario, anche non avendo partecipato all'assemblea, «possa avere compiuta conoscenza ed apprezzarne il contenuto in maniera adeguata alla tutela delle sue ragioni» (così la remota Cass. II, n. 1375/1966; cui adde Cass. II, n. 701/1969).

D'altronde, una mera conoscenza di fatto non potrebbe sostituire la conoscenza che la legge reputa rilevante solo se ricollegabile ad una comunicazione ad hoc (Cass. II, n. 1716/1975, che ha ritenuto correttamente avvenuta tale comunicazione quando il condomino assente l'avesse esplicitamente ammessa).

A tali fini, non è necessario che la comunicazione avvenga mediante lettera raccomandata, essendo sufficiente la lettera semplice, tenendo conto, però, che l'esercizio non tempestivo dell'impugnazione integra una vicenda estintiva del relativo diritto, che deve essere provata da chi l'eccepisce (art. 2697, comma 2, c.c.), sicché, qualora la comunicazione sia avvenuta con la seconda modalità, il condominio potrebbe avere difficoltà a far valere la decadenza di cui all'art. 1137, comma 2, c.c.

Ad ogni buon conto, si è precisato (Cass. II, n. 16081/2016) che la produzione delle delibere assembleari a corredo di una domanda monitoria avverso un condomino non è idonea a soddisfare l'onere di comunicazione agli assenti ex art. 1137 c.c., né comporta il sorgere della presunzione di conoscenza ai sensi dell'art. 1335 c.c., che postula il recapito all'indirizzo del condomino del verbale contenente le decisioni dell'assemblea, né, comunque, obbliga quest'ultimo ad attivarsi per acquisire e conoscere il testo delle deliberazioni stesse, la cui conoscibilità, pertanto, non è ancorata alla data di notificazione del decreto ingiuntivo.

In generale, si reputa opportuno che la comunicazione sia il più tempestiva possibile, e ciò al fine di far decorrere sùbito il termine di trenta giorni per l'impugnazione della deliberazione di cui all'art. 1137 c.c.; in realtà, non esiste un termine obbligatorio per tale comunicazione, che, pertanto, può essere fatta in ogni tempo, anche se è ovvio che, senza comunicazione agli assenti, la deliberazione potrà sempre essere impugnata da questi ultimi.

Sulla diligenza in capo ai condomini assenti, si vedano le recenti puntualizzazioni dei giudici di Piazza Cavour (Cass. II, n. 29386/2011), ad avviso dei quali, ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione delle deliberazioni, in capo al condomino assente non può essere posto il dovere di attivarsi per conoscere le decisioni adottate dall'assemblea ove difetti la prova dell'avvenuto recapito, al suo indirizzo, del verbale che le contenga, giacché soltanto in forza di detto recapito sorge la presunzione, iuris tantum, di conoscenza posta dall'art. 1335 c.c. e non già dal mancato esercizio, da parte dello stesso destinatario del verbale assembleare, della diligenza nel seguire l'andamento della gestione comune e nel documentarsi su di essa (tra le pronunce di merito, v. Trib. Roma 19 novembre 1985, secondo cui l'obbligo di trasmissione al condomino del verbale dell'assemblea e di ogni sua parte integrante è strumentale all'esercizio della facoltà di impugnazione).

L'organo deputato a tale comunicazione è l'amministratore, che, infatti, non solo deve dare esecuzione alla volontà assembleare espressa attraverso le deliberazioni – tanto che ciascun condomino può, ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., ricorrere al giudice in caso di omessa esecuzione – ma deve anche comunicarla agli assenti.

Resta inteso che la mancanza o l'irregolarità della comunicazione all'assente non sono suscettibili di inficiare in alcun modo la validità della deliberazione, ma rilevano soltanto in relazione al decorso del termine per la relativa impugnazione; al procedimento formativo della volontà collegiale è, infatti, del tutto estranea la comunicazione della deliberazione assembleare, che è un atto preordinato soltanto a dare notizia agli assenti del contenuto della deliberazione stessa ai fini della decorrenza del termine per impugnarla (Cass. II, n. 1507/1974; nella giurisprudenza di merito, v. App. Milano 22 luglio 1997).

In ordine alla prova, richiamando quanto affermato in tema di invio dell'avviso di convocazione dell'assemblea, ai sensi dell'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. – al cui commento si rinvia – l'onere di dimostrare che la comunicazione del verbale assembleare sia stata tempestivamente trasmessa e la comunicazione abbia avuto «buon fine» spetta al condominio.

Tale prova può essere raggiunta con ogni mezzo, anche per presunzioni, aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 2728 c.c. (Cass. II, n. 22240/2013).

Comunque, si ritiene che, con la prova dell'avvenuto recapito, all'indirizzo del condomino assente, della lettera raccomandata contenente il verbale dell'assemblea condominiale, sorge in capo al destinatario la presunzione, iuris tantum, di conoscenza posta dall'art. 1335 c.c. e, conseguentemente, scatta il dies a quo per l'impugnazione della deliberazione stessa, ai sensi dell'art. 1137 c.c.; in pratica, si tende ad applicare, alla comunicazione del verbale assembleare al condomino assente, la disciplina contemplata per gli atti unilaterali recettizi di cui al citato art. 1335 (a tenore del quale «la proposta, l'accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia»).

In proposito, va però registrato un recente arresto dei giudici di legittimità (Cass. II, n. 25791/2016), secondo il quale, ai fini del decorso del termine di impugnazione contemplato nel suddetto art. 1137 c.c., la comunicazione, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, del verbale assembleare al condomino assente all'adunanza si ha per eseguita, in caso di mancato reperimento del destinatario da parte dell'agente postale, decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell'avviso di giacenza o, se anteriore, da quella di ritiro del piego, in applicazione analogica dell'art. 8, comma 4, della l. n. 890/1982, onde garantire il bilanciamento tra l'interesse del notificante e quello del destinatario in assenza di una disposizione espressa, non potendo la presunzione di cui all'art. 1335 c.c. operare relativamente ad un avviso – come quello di giacenza – di tentativo di consegna, che non pone il destinatario nella condizione di conoscere il contenuto dell'atto indirizzatogli.

Nulla esclude, ovviamente, che il regolamento di condominio prescriva determinate forme per la comunicazione del verbale assembleare, al fine di rafforzare la garanzia che la comunicazione sia effettuata preventivamente a tutti i condomini: in questo caso, le disposizioni specifiche devono essere rispettate nei confronti di ciascun condomino, con la conseguenza, in caso di violazione, dell'annullabilità delle deliberazioni così viziate.

Comunque, alla luce della perenne conflittualità condominiale e stanti le sempre più numerose impugnazioni «strumentali», sembra preferibile che la comunicazione sia comunque «scritta», ossia rivesta la stessa forma dell'atto (verbale) il cui contenuto viene portato a conoscenza del destinatario, e, in proposito, potrebbero mutuarsi le prescrizioni contenute nel novellato art. 66, comma 3, disp. att. c.c. il quale, sia pure riguardo all'avviso di convocazione per l'assemblea condominiale, prevede che lo stesso sia comunicato unicamente «a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano».

Anche il sito internet di cui al nuovo art. 71-ter disp. att. c.c. – attivato su richiesta dell'assemblea, con le maggioranze contemplate nell'art. 1136, comma 2, c.c. – potrebbe, in futuro, consentire agli amministratori di pubblicare i dati condominiali, rendendoli così immediatamente disponibili online e consultabili in tempo reale ai propri condomini, con un notevole risparmio di tempo e denaro.

In particolare, una sezione ad hoc potrebbe interessare le riunioni dell'assemblea con i relativi verbali che, una volta scannerizzato il cartaceo e messo in rete in formato pdf, potrebbero risultare agevolmente scaricabili (anche dagli assenti) con un'operazione di download; ma il problema è sempre lo stesso, ossia la prova dell'avvenuta ricezione, nel senso che, essendoci incertezza in ordine a quest'ultima, non si saprebbe quando decorrono i termini per l'impugnazione della relativa deliberazione ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c.

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La dialettica degli opposti e la promozione dell'innovazione tecnologica (tutela del diritto alla salute del cittadino e libertà di iniziativa economica dell'impresa). Le «innovazioni necessarie», di cui all'art. 2-bis, 13º comma, l. 20 marzo 2001 n. 66, in Arch. loc. 2002, 145; Visco, La ricostruzione degli edifici condominiali distrutti da eventi bellici, in Nuovo dir. 1968, 321; Visco, Le case in condominio, Milano, 1976; Vitiello, L'installazione dell'ascensore in immobile condominiale tra innovazioni e modificazioni della cosa comune, in Arch. loc. 2000, 440; Voi, Brevi note in tema di convocazione e costituzione dell'assemblea di condominio, in Arch. loc. 1997, 369; Zaccagnini, Le funzioni dell'amministratore in sede di assemblea condominiale, in Nuovo dir. 1972, 465.

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