Disp. Att. Trans. Codice Civile - 30/03/1942 - n. 318 art. 62[I]. La disposizione del primo comma dell'articolo precedente si applica anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall'articolo 1117 del codice. [II]. Qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, lo scioglimento del condominio deve essere deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal quinto comma dell'articolo 1136 del codice stesso. InquadramentoL'art. 61 disp. att. c.c. – disposizione non oggetto di modifica alcuna ad opera della l. n. 220 del 2012 – prevede che, qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio possa essere sciolto ed i comproprietari di ciascuna parte possano costituirsi in autonomo condominio; tale scioglimento è deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal comma 2 dell'art. 1136 c.c. (e, cioè, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio), oppure è disposto dall'autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell'edificio della quale si chiede la separazione. La previsione è da leggere in maniera coordinata con il successivo art. 62 disp. att. c.c. – anch'esso non toccato dal Legislatore della novella – il quale prevede che la medesima facoltà di scioglimento può essere esercitata anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall'art. 1117 c.c., avendo altresì la cura di precisare che, qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, la maggioranza assembleare all'uopo richiesta varia in aumento, dacché per deliberare lo scioglimento occorre la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 5, c.c. e, cioè, un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio (la stessa maggioranza richiesta, cioè, per le innovazioni ordinarie dall'art. 1120, comma 1, c.c.). Le due disposizioni, tuttavia, oltre a regolare il fenomeno dello scioglimento del condominio, hanno fornito agli interpreti il necessario sostengo normativo alla teorica del supercondominio. Nascita e «morte» del condominioIl condominio, come noto, nasce spontaneamente (automaticamente, verrebbe da dire), per il semplice fatto della coesistenza di proprietà individuali e comuni all'interno del medesimo conglomerato edilizio: precisazione, questa doverosa giacché, se, un tempo, l'unico fenomeno riconosciuto come riconducibile all'istituto disciplinato dagli artt. 1117-1139 c.c. era il condominio cd. verticale, le innovative tecniche costruttive, le esigenze del mercato e le nuove frontiere dell'urbanizzazione hanno portato la giurisprudenza ad ampliare sempre più il novero delle fattispecie a quelle stesse norme (almeno teoricamente) riconducibili, tanto da «costringere» il legislatore della novella ad introdurre, nel codice civile, l'art. 1117-bis (a mente del quale le disposizioni in questione si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c.) Si pensi al caso, per l'appunto, del supercondominio (certamente il fenomeno più conosciuto ed «abusato» a fini classificatori), ma anche al cd. condominio orizzontale: in considerazione del rapporto di accessorietà necessaria che lega le parti comuni dell'edificio alle proprietà singole, delle quali le prime rendono possibile l'esistenza stessa o l'uso, infatti, chiarisce Cass. II, n. 27260/2016 che la condominialità non è esclusa per il solo fatto che le costruzioni siano realizzate, anziché come porzioni di piano l'una sull'altra (condominio verticale), quali proprietà singole in sequenza (villette a schiera, condominio in orizzontale), poiché la nozione di condominio è configurabile anche nel caso di immobili adiacenti orizzontalmente in senso proprio, purché dotati delle strutture portanti e degli impianti essenziali indicati dall'art. 1117 c.c.(cfr. anche, più recentemente, Cass. II, n. 11729/2019 e Trib. Rimini, 27 luglio 2023). Nel medesimo senso Cass. II, n. 18344/2015, per cui, la condominialità di un seminterrato non è esclusa per il solo fatto che le costruzioni sovrastanti siano realizzate, anziché come porzioni di piano l'una sull'altra (condominio verticale), quali proprietà singole in sequenza (villette a schiera, condominio in orizzontale), poiché – riprendendo esattamente i medesimi termini della pronunzia appena sopra richiamata – la nozione di condominio è configurabile anche nel caso di immobili adiacenti orizzontalmente in senso proprio, purché dotati delle strutture portanti e degli impianti essenziali indicati dal citato art. 1117. Discussa era, al contrario, la natura dei consorzi di urbanizzazione, istituti atipici con aspetti sia associativi che di realità, (derivanti, questi ultimi, dall'osservanza di obblighi propter rem o dalle costituzioni di reciproche servitù) giacché da tale ibrida composizione si era fatta derivare, in assenza di specificazione all'interno dell'atto costitutivo, un'altalenante applicazione ora delle norme in materia di condominio, ora delle disposizioni in tema di associazioni non riconosciute, sia pure con preferenza per le prime: ai consorzi costituiti tra proprietari di immobili per la gestione delle parti e dei servizi comuni di una zona residenziale – si legge in Cass. II, n. 3665/2001; Cass. II, n. 6966/2002 – si applicano le disposizioni in materia di condominio, con esclusione, proprio laddove esista una specifica disciplina in tema di condominio (art. 1139 c.c.), delle norme sulla comunione; analogamente rinviava alla normativa condominiale Cass. II, n. 4125/2003 in tema di consorzi di urbanizzazione finalizzati alla costruzione, manutenzione e ripristino di opere stradali, nonché di quelle per la distribuzione dell'acqua e dell'energia elettrica. Dal che si è però infine tratta la conclusione per cui nei consorzi di urbanizzazione per la disciplina dei beni in proprietà comune ai consorziati, e posti al servizio delle proprietà esclusive dei medesimi, in difetto di diversa disciplina contenuta nell'atto costitutivo o nello statuto, dovessero trovare applicazione le norme sul condominio (Cass. II, n. 20989/2014). Più in generale, dunque, il nesso di condominialità, presupposto dalla regola di attribuzione di cui all'art. 1117 c.c., è ravvisabile in molteplici tipologie costruttive, purché le diverse parti siano dotate di strutture portanti e di impianti essenziali comuni, se il contrario non risulta dal titolo; nesso configurabile anche per un insieme di edifici indipendenti, ovvero quando manchi un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, ciò ricavandosi dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., che consentono lo scioglimento del condominio nel caso in cui un gruppo di edifici si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di "edifici autonomi", anche se che restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall'articolo 1117 c.c. (Cass. II, n. 23001/2019). L'attuale formulazione dell'art. 1117-bis c.c. non dovrebbe più consentire dubbi circa la riconducibilità alle previsioni di cui al Capo II, Titolo VII, del Libro III del codice civile di tutte le situazioni in cui più edifici o più condominii abbiano parti comuni. Sicché – tornando al tema principale – il condominio, ripetendo una fortunata «formula» giurisprudenziale, nasce ipso iure et facto, senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni, nel momento in cui l'originario costruttore di un edificio diviso per piani o porzioni di piano aliena a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata Cass. II, n. 27636/2018), così perdendo, in quello stesso momento, la qualità di proprietario esclusivo delle pertinenze e delle cose e dei servizi comuni dell'edificio e costituendo la nomina dell'amministratore, l'approvazione del regolamento e la determinazione delle quote millesimali soltanto strumenti per la gestione degli interessi comuni e l'osservanza degli obblighi connessi al preesistente rapporto di comunione che di essi costituisce la fonte (Cass. VI-II, n. 7743/2017; Cass. II, n. 26766/2014). Principio che ben si adatta alle varie ipotesi sottoposte al vaglio della giurisprudenza: così, in tema di cooperative edilizie a contributo erariale, ex artt. 201 ss. del r.d. n. 1165/1938, Cass. II, n. 17031/2006 chiarisce che la stipula del mutuo individuale – determinando l'acquisto della proprietà dell'alloggio da parte del socio assegnatario, che assume la qualità di semplice mutuatario dell'ente erogatore del mutuo – comporta la nascita del condominio fra gli assegnatari acquirenti, atteso che l'edificio passa dal regime di proprietà indivisa a quello di proprietà frazionata (con l’ulteriore conseguenza che ne discende – evidenziata da Cass. II, n. 23876/2021 - per cui gli alloggi costruiti in esubero rispetto al numero dei soci, ovvero non ancora assegnati, non entrano a far parte del condominio costituito tra i soci medesimi, non essendo parti comuni dell'edificio, restando piuttosto, in assenza di un titolo che li attribuisca a tutti o ad alcuni dei condomini, in proprietà della cooperativa). In senso contrario, però, Cass. II, n. 1499/2022 ritiene che, nella fase intercorrente tra la stipula del mutuo individuale (che determina l'acquisto della proprietà dell'alloggio da parte del socio) e il momento in cui tutti gli alloggi sono riscattati a seguito dell'ammortamento dei mutui erogati agli assegnatari, si configura un condominio speciale, la cui disciplina è dettata non già dagli artt. 1117 e ss. c.c., bensì dalle norme del r.d. n. 1165/1938 (con la conseguenza che nel suddetto periodo, i contributi per le opere di manutenzione ed il funzionamento dei servizi comuni devono essere versati alla cooperativa stessa, e, per essa, al suo legale rappresentante. Tale potere gestorio dell'immobile, in capo alla cooperativa, cessa con l'estinzione del mutuo frazionato, che condiziona il riscatto dell'immobile e la costituzione del condominio ordinario); così nel caso del supercondominio, laddove Cass. II, n. 1344/2018 (nonché, più recentemente, Cass. II, n. 32237/2019 e Cass. II, n. 23153/2023) chiarisce che anch'esso viene in essere ipso iure et facto, senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà (né dell'originario costruttore, né dei proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio) o tanto meno di approvazioni assembleari, essendo sufficiente che i singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune alcuni impianti e servizi (sul punto si tornerà infra), rientranti nell'ambito di applicazione dell'art. 1117 c.c., legati da un vincolo di accessorietà ad ognuno degli edifici medesimi (conforme App. Palermo, 26 luglio 2023; Trib. Roma, 13 aprile 2017; Trib. Milano, 13 febbraio 2014). Precisa ulteriormente il concetto Cass. II, n. 19939/2012, il quale evidenzia come non sia necessaria la manifestazione di volontà dell'originario costruttore, né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, versandosi in presenza di una fattispecie legale, in cui una pluralità di edifici, costituiti o meno in distinti condomini, sono ricompresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall'esistenza di talune cose, impianti e servizi comuni (quali il viale di accesso, le zone verdi, l'impianto di illuminazione, la guardiola del portiere, il servizio di portierato, ecc.) in rapporto di accessorietà con i fabbricati, cui si applicano in pieno le norme sul condominio, anziché quelle sulla comunione. Ancora più estesi i contorni del fenomeno per Cass. II, n. 27360/2016, per la quale sussiste il condominio non solo nel caso delle unità abitative costruite a schiera, ma anche quando manchi un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, non potendo essere esclusa la condominialità neppure per un insieme di edifici indipendenti, giacché, secondo quanto si desume dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c. (che consentono lo scioglimento del condominio nel caso in cui un gruppo di edifici si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi), è possibile la costituzione ab origine di un condominio fra fabbricati a sé stanti, aventi in comune solo alcuni elementi, o locali, o servizi o impianti condominiali; dunque, per i complessi immobiliari, che comprendono più edifici, seppure autonomi, è rimessa all'autonomia privata la scelta se dare luogo alla formazione di un unico condominio, oppure di distinti condomini per ogni fabbricato. Diversamente, invece, il legislatore si preoccupa di disciplinare in vario modo la «fine» del rapporto condominiale: nel codice civile, dettando una apposita disciplina per il caso di divisione di una o più parti comuni (art. 1119 c.c.) – limitatamente alle quali, solo, il regime condominiale viene meno – ovvero per il caso di perimento dell'edificio (art. 1128 c.c.) e, nelle disposizioni di attuazione, prevedendo, per l'appunto, la possibilità di scioglimento di esso, sia che riguardi un edificio unico, che una pluralità di edifici legati tra loro dalla contitolarità di beni e servizi comuni. La spiegazione è da rinvenire nella considerazione per cui mentre nella comunione, la divisione – ossia l'atto di ripartizione del bene comune tra i compartecipi, che trasforma le quote della comunione in singole porzioni di proprietà esclusiva – rappresenta una fase, per così dire, fisiologica, essendone la sua naturale evoluzione e conclusione (il diritto di chiedere lo scioglimento della comunione rappresenta, infatti, un diritto potestativo di ciascun comunista, che può essere sempre esercitato dai compartecipi, salvo che la comunione abbia ad oggetto beni che, se divisi, cesserebbero di servire all'uso cui sono destinati ovvero che sia stato convenzionalmente contemplato un divieto – che, a propria volta, non può però superare i dieci anni o i cinque, ove tale previsione sia contenuta in una disposizione testamentaria), uno degli elementi distintivi del condominio è la sua indivisibilità (Celeste, 2017). Tale sfavore si coglie, peraltro, anche nelle maggioranze richieste, diverse nel caso del condominio rispetto alla comunione ordinaria: mentre in questo caso, infatti, l'art. 1111, comma 1, c.c. attribuisce a ciascuno dei partecipanti il diritto di domandare «sempre», da solo, lo scioglimento della comunione, anche in sede giudiziaria, l'art. 61, comma 2, disp. att. c.c. subordina lo scioglimento «stragiudiziale» del condominio ad una maggioranza corposa (quella prescritta, cioè, dall'art. 1136, comma 2, c.c.) che diventa ancora più robusta (la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio, ex art. 1136, comma 5, c.c.) qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini; ove, poi, lo scioglimento sia invocato in sede giudiziaria, la domanda deve provenire da almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell'edificio della quale si chiede la separazione. Le previsioni in commento hanno, peraltro, natura eccezionale, in quanto derogano al principio secondo il quale la divisione può essere attuata solo con il consenso unanime dei condomini e non possono essere pertanto utilizzate, analogicamente, per attuare l'inversa ipotesi di fusione in un unico condominio di più edifici autonomi (Cass. II, n. 11276/1995). Il diritto di chiedere lo scioglimento del condominio (al pari di quello di chiedere lo scioglimento della comunione) è un diritto potestativo, che, alle condizioni previste dalle disposizioni in esame, può essere comunque sempre esercitato dai compartecipi, salvo che non sia stato convenzionalmente contemplato un divieto che, però, non può superare i dieci anni o i cinque ove tale previsione sia contenuta in una disposizione testamentaria (cfr. art. 1111, comma 2, c.c.); lo scioglimento è, tuttavia, precluso se abbia ad oggetto beni che, se divisi, cesserebbero di servire all'uso cui sono destinati (cfr. anche Trib. Roma, 3 febbraio 1994). Da osservare che la seconda evenienza innanzi descritta – quella afferente, cioè, la richiesta di divisione in sede giudiziaria – è ammessa, però, solo ove non ricorrano le condizioni previste dall'art. 62, comma 2, disp. att. c.c. e, dunque non occorrano interventi di modifica o ristrutturazione: l'autorità giudiziaria – precisa Cass. II, n. 27507/2011) – può infatti disporre lo scioglimento del condominio solo quando un complesso immobiliare sia suscettibile di divisione, senza che si debba attuare una diversa ristrutturazione, in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, pur potendo rimanere in comune tra gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall'art. 1117 c.c.in quanto, ove la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e siano necessarie opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, lo scioglimento del condominio, e la costituzione di più condomini separati, possono essere approvati solo dall'assemblea condominiale con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell'edificio. Lo scioglimento del condominio implica la sua divisione (o frazionamento) in parti o edifici autonomi ed in ciò si coglie, dunque, la differenza rispetto al – meno invasivo – fenomeno disciplinato dall'art. 1119 c.c.: mentre quest'ultimo si attua, infatti, mediante il frazionamento materiale di una parte comune in tante porzioni quanti sono i condomini che la richiedono, lo scioglimento normalmente si attua (argomentando a contrario dall'art. 62, comma 2, disp. att. c.c.), senza la realizzazione di innovazioni o mutamenti sostanziali. Lo scioglimento si attua, cioè, allorché «le parti dell'edificio o degli edifici, che ne è o ne sono oggetto, abbiano o possano avere una loro autonomia, di guisa che per ciascuna di esse si può costituire un nuovo condominio o un condominio separato (Branca, 418). L'Autore, per esemplificare fa il caso di un condominio composto di tre edifici separati, integralmente appartenenti, ciascuno, ad un solo proprietario, i quali, a seguito dello scioglimento, assurgono ad entità autonome, ciascuna passibile, di assumere, a propria volta, la natura di condominio a sé stante (si tratta di una eventualità, ma non di un percorso obbligato, giacché l'art. 61 disp. att. c.c. ipotizza la ricostituzione, a seguito dello scioglimento, di un nuovo condominio, solo quale possibilità. In senso conforme cfr. anche Cass. II, n. 3102/1993, per cui a seguito dello scioglimento possono risultare sia due, o più, edifici che, in autonomia strutturale, hanno le caratteristiche di ulteriori e separati condomini, sia edifici in proprietà esclusiva). Rinviando funditus al relativo commento, va comunque osservato come Cass. II, n. 4014/2020 ha chiarito che, in tema di divisione di beni comuni, gli artt. 1119 e 1112 c.c. hanno una "ratio" diversa e forniscono differenti tutele: il primo contempla una forma di protezione rafforzata dei diritti dei condomini, in omaggio al minor "favor" del legislatore per la divisione condominiale e, conseguentemente, contiene la prescrizione dell'unanimità e la tutela del mero comodo godimento del bene, in relazione alle parti di proprietà esclusiva; il secondo costituisce un'eccezione alla regola generale della divisione della comunione disposta dall'art. 1111 c.c., tutela la destinazione d'uso del bene e, per questo, ammette che la divisione sia richiedibile anche da uno solo dei comproprietari, con la sola subordinazione della stessa alla valutazione giudiziale che il bene, anche se diviso, manterrà l'idoneità all'uso a cui è stato destinato. Il concetto di «edifici autonomi»L'art. 61 disp. att. c.c. pone, quale precondizione per poter procedere allo scioglimento del condominio, che a seguito della divisione, l'edificio o il gruppo di edifici, appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi, si possa dividere in «parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi». È dunque necessario comprendere a cosa si debba fare riferimento con l'espressione «edificio autonomo». In realtà la norma è di difficile comprensione se rapportata al concetto di «gruppo di edifici» pure dalla stessa menzionato quale realtà suscettibile di essere divisa (Dogliotti-Figone, 21). Sembra essersi al cospetto, infatti, di un'ambiguità sintattica, poiché si condiziona lo scioglimento del condominio al fatto che l'edificio o il gruppo di edifici si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, mentre in un «gruppo di edifici» ogni manufatto già costituisce una parte a sé stante, dotata di una sua autonomia e, dunque, non sussisterebbe difficoltà alcuna alo scioglimento del condominio ed alla costituzione di tanti condominii autonomi, quanti sono gli edifici. Si fa inoltre notare che, per lo scioglimento del condominio ad opera dell'autorità giudiziaria, l'art. 61, comma 2, richiede la domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell'edificio di cui si chiede la separazione mentre, per il gruppo di edifici, non si potrebbe parlare di parte dell'edificio, bensì di edificio tout court (Celeste, 2017). Si è allora suggerito di intendere l'espressione in esame non già in senso di edificio strutturalmente autonomi in senso tecnico (quale fisicamente isolato e staticamente autonomo, così Peretti Griva, 55), ma in senso atecnico, quale edificio idoneo a costituire esso stesso un autonomo condominio, dunque chiaramente separato dallo spazio esterno che lo circonda (che pure potrebbe essere «riempito» da edifici adiacenti) medianti muri perimetrali. Il significato di «edificio autonomo», va ricercato nel medesimo concetto di condominio, in funzione del quale la norma è posta, per limitarne il campo di estensione: esso va dunque interpretato nel senso di autonomia condominiale. Posizioni similari sono state raggiunte in giurisprudenza, essendosi (Cass. II, n. 21686/2014; Cass. II, n. 24380/2010) affermato che il tenore della norma, riferito all'espressione “edifici autonomi” esclude di per sé che il risultato della separazione si concreti in una autonomia meramente amministrativa giacché, più che ad un concetto di gestione, il termine “edificio” va riferito ad una costruzione, la quale, per dare luogo alla costituzione di più condomini, dev'essere suscettibile di divisione in parti distinte aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere contabile o amministrativo; la sola estensione che può consentirsi a tale interpretazione è quella prevista dall'art. 62, comma 1, disp. att. c.c., il quale fa riferimento all'art 1117 c.c. (parti comuni dell'edificio in quanto destinate in modo permanente al servizio generale e alla conservazione dell'immobile, riguardato sia nel suo complesso unitario che netta separazione di edifici autonomi), giacché in questo ultimo caso, l'istituzione di nuovi condominii non è impedita dalla permanenza in comune delle cose indicate dall'art. 1117 cit., la cui disciplina d'uso potrà formare oggetto di particolare regolamentazione riferita alle spese e agli oneri relativi (cfr. anche Cass. VI-2, n. 16385/2018, la quale evidenzia come la disciplina della suddivisione di un condominio in più condomini separati, regolata dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., si può attuare quando il palazzo oggetto dell'iniziale divisione possa essere scisso in parti che abbiano caratteristiche tipiche degli edifici autonomi, anche se parte degli stessi resta in comune con la struttura originaria con elementi comuni tra i vari palazzi tra le parti indicate dall'art. 1117 c.c., dovendosi escludere la ricorrenza del fenomeno in esame allorché la divisione avvenga a fini meramente amministrativi o fiscali). Al di fuori di tali interferenze di carattere amministrativo espressamente previste dalla legge, se la separazione del complesso immobiliare non può attuarsi se non mediante interferenze ben più gravi, interessanti la sfera giuridica propria di altri condominii, alla cui proprietà verrebbero ad imporsi limitazioni, servitù o altri oneri di carattere reale, deve escludersi che l'edificio scorporando possa avere una propria autonomia strutturale, pur essendo eventualmente autonoma la funzionalità di esso riferita alla sua destinazione e gestione amministrativa (nella specie, la pronuncia di merito, uniformandosi agli enunciati principi di diritto, aveva correttamente escluso la possibilità di costituire delle porzioni immobiliari aventi la caratteristica di edifici strutturalmente autonomi, in considerazione dello stato dei luoghi, caratterizzato da sovrapposizioni ai vari piani e da interferenze di natura strutturale ricollegabili, tra l'altro, alle intersezioni della scala condominiale nella proprietà di un condomino e della fossa dell'ascensore condominiale rispetto al piano terra di quest'ultimo; la valutazione espressa al riguardo dal giudice appariva, d'altronde, conforme alle obiettive risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, da cui era emerso che, pur possedendo un dato stabile un elevato grado di autonomia non solo di destinazione ma anche funzionale – in considerazione dell'accesso indipendente, degli allacciamenti e contatori distinti alla rete dell'acqua potabile, del gas e dell'energia elettrica nonché dell'assenza di comunicazioni tra le due porzioni ideali in cui lo stabile andrebbe diviso – il corpo di fabbrica condominiale presentava una serie di interferenze materiali e strutturali, intese come confinanza all'interno dello stesso piano tra le unità rispettivamente di proprietà esclusiva e sovrapposizioni di porzioni di edificio, su piani sovrastanti, di unità di proprietà esclusiva dei vari condomini; ne conseguiva che la presenza di siffatte interferenze materiali, involgenti elementi strutturali essenziali – quali le fondazioni, la facciata, il perimetro – risultava di per sé ostativa alla possibilità di pervenire alla costituzione di due parti di edificio indipendenti, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale). Sostanzialmente nei medesimi termini, Cass. II, n. 1964/1963 e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Bergamo, 16 dicembre 2002 (che ha dichiarato lo scioglimento della comunione condominiale dei fabbricati di proprietà degli attori, quali corpi autonomi dal punto di vista strutturale e statico, trattandosi di edifici interi dal piano terra sino all'ultimo piano, con autonomi impianti di servizi – energia elettrica, riscaldamento, acquedotto, fognatura – e privi di compenetrazioni di altre proprietà comuni o individuali, pur nella permanenza della comunione con gli originari comproprietari di alcuni beni ex art. 1117 c.c., tra cui il portone e l'androne di ingresso, il cortile interno e l'impianto fognario di smaltimento delle acque meteoriche). Si rimarca, ulteriormente, in dottrina (Celeste, 2017) che il testo dell'art. 62, comma 2, cit. sembra comunque contraddire tanto l'assunto che l'autonomia fisica («le caratteristiche degli edifici autonomi») costituisca il presupposto materiale e giuridico per addivenire alla separazione, quanto il concetto stesso di autonomia, intesa come costruzione indipendente; invero, dalla competenza riconosciuta all'assemblea di deliberare lo scioglimento de quo «qualora non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose ed occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze dei condomini», potrebbe desumersi la competenza dell'organo collegiale di decidere l'esecuzione di lavori necessari a determinare l'autonomia fisica che non esiste, ossia la competenza di decidere l'esecuzione delle opere indispensabili per creare ex novo l'indipendenza materiale del caseggiato; al contempo, l'ammissibilità della separazione, anche se tra gli originari partecipanti restano in comune alcune cose elencate nell'art. 1117 c.c., sembra negare in radice la stessa rilevanza dell'autonomia dell'edificio, perché consente la separazione quando, a rigore, l'indipendenza vera e propria non si riscontra; resta inteso che, se le caratteristiche di edifici autonomi non sussistono, l'assemblea non possa decidere le opere necessarie a realizzare tale autonomia, sicché, quando il comma 2 dell'art. 62 cit. parla di «opere di modifica e di sistemazione diversa», sembra riferirsi piuttosto a quei lavori di aggiustamento e di rifinitura che agevolano l'uso e la gestione separati, quando l'indipendenza di fatto tra le costruzioni esiste, senza determinare la trasformazione ed il mutamento radicali. Tale essendo, comunque, la nozione di edificio autonomo assunta in giurisprudenza, residua allora il problema della disciplina applicabile alle parti comuni a seguito dello scioglimento del gruppo di edifici: questione che, in realtà, il Legislatore della Riforma consente di risolvere nel senso dell'applicazione delle norme sul condominio, in applicazione diretta dell'art. 1117-bis c.c., ma che era stata affrontata e dipanata allo stesso modo dalla giurisprudenza precedente alla novella. Chiara in tal senso Cass. II, n. 3102/1993 la ebbe quale ad affermare che nel caso di sostituzione di più condomini separati ad un unico preesistente condominio, va sempre applicata, alle cose indicate dall'art. 1117 c.c. e rimaste in comunione al servizio di tutti, la disciplina del condominio negli edifici, anche nei casi in cui, a seguito dello scioglimento del condominio, i singoli immobili siano rimasti in proprietà solitaria; sicché, nel caso di divisione di un edificio soggetto al regime del condominio in porzioni aventi le caratteristiche di edifici autonomi, sulle parti rimaste in comproprietà degli originari partecipanti nonostante lo scioglimento del condominio, in difetto di espresso mutamento del titolo, continua ad applicarsi la disciplina del condominio di edifici (da tale principio la Corte ha fatto discendere la conseguenza per cui il tratto di accesso, racchiuso dalle costruzioni in proprietà esclusiva e destinato a dare ad esse il passaggio, in quanto compreso nella comproprietà ex art. 1117 c.c., viene usato jure proprietatis e non jure servitutis dai comproprietari, i quali possono pertanto procedere all'apertura di nuove porte attraverso il muro delimitante i fabbricati insistenti sull'accesso medesimo, quale legittima utilizzazione della cosa comune a norma dell'art. 1102 c.c.). D'altra parte, si osserva (Dogliotti-Figone, 23), uno scioglimento di tal fatta ridonda in ogni caso in un'ipotesi di supercondominio (beni e servizi destinati al godimento di più edifici autonomi), con conseguente applicabilità della relativa disciplina (per l'appunto, quella condominiale. I modi di scioglimento del condominioNella ricorrenza del presupposto di cui si è dato conto nel paragrafo che precede (possibilità di scioglimento con contestuale costituzione di «edifici autonomi»), il Legislatore «disegna» un percorso doppio attraverso cui procedere: uno di carattere assembleare ed uno di natura giudiziaria. In particolare – come innanzi anticipato – l'art. 61, comma 2, disp. att. c.c. stabilisce che il summenzionato scioglimento può essere deliberato dall'assemblea dei condomini, in deroga rispetto al consenso unanime richiesto per i partecipanti alla comunione (cfr. artt. 1108 e 1111 c.c.), con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. (e, cioè, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edifici) ovvero, qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, lo scioglimento del condominio deve essere deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal comma 5 dell'art. 1136 c.c. e, dunque, la maggioranza degli intervenuti che rappresenti i due terzi del valore dell'edificio (ipotesi, questa, contemplata dall'art. 62, comma 2, disp. att. c.c.). La convocazione segue le regole ordinarie, non essendo previste modalità peculiari quali, ad esempio, quelle fissate dall'art. 1117-ter c.c.: la Riforma ha rappresentato, sotto questo profilo, un'occasione persa, giacché la delibera deve disciplinare anche la sorte e la destinazione delle cose comuni, la ripartizione di quelle di cui è possibile effettuare la separazione ed il distacco, la regolamentazione dello stato giuridico di quelle rimaste in comunione (art. 62, comma 1, disp. att. c.c.), la determinazione delle opere indispensabili, ove occorrano, per la modifica dello stato delle cose, nonché la diversa sistemazione dei locali e delle dipendenze. che può avvenire ad opera dell'amministratore (evidentemente in quanto sensibilizzato dai condomini), oppure per iniziativa dei condomini stessi. Va da sé, che una convocazione «rinforzata» – quale quella prevista per il mutamento delle destinazioni d'uso delle parti comuni – avrebbe consentito alla compagine condominiale di meglio comprendere l'importanza dell'atto a compiersi e, soprattutto, di preparare al dettaglio il contenuto accessorio di cui si è detto. Precisa, inoltre, Cass. II, n. 4439/1982, che la delibera, ove adottata, ha carattere ricognitivo. Ove l'assemblea non raggiunga le maggioranze prescritte, i partecipanti che siano interessati allo scioglimento del condominio possono proporre domanda all'Autorità giudiziaria: a parte un'isolata opinione dottrinaria (Visco, 715), che sostiene la riconducibilità dell'azione de qua nell'ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione (sicché la domanda dovrebbe essere introdotta con ricorso e decisa dal Tribunale con decreto motivato in camera di consiglio), si ritiene generalmente che l'azione per lo scioglimento del condominio abbia natura contenziosa (App. Venezia, 25 ottobre 1960), giacché la decisione che lo conclude è destinata ad incidere in modo definitivo sui diritti soggettivi dei singoli condomini. Il giudizio va pertanto intrapreso contro le persone degli altri condomini (da qualificarsi, peraltro, come litisconsorti necessari) e non nei confronti dell'amministratore, privo di legittimazione processuale passiva, vertendosi in materia di diritti soggettivi esclusivi: la separazione del condominio in più distinti condominii implica necessariamente, infatti, la ridefinizione dei diritti di comproprietà spettanti ad ogni singolo condomino sulle parti comuni, incidendo su situazioni giuridiche soggettive, la cui tutela appare estranea alla sfera dei poteri rappresentativi dell'amministratore e, soprattutto, viene a determinare, nell'ambito dell'originaria comunione, l'insorgere di centri di interesse differenziati e potenzialmente contrapposti, la cui rappresentanza non può logicamente essere demandata unitariamente al medesimo amministratore. Conforme in tal senso Cass. II, n. 1460/2008, la quale ha chiarito che la rappresentanza attribuita all'amministratore del condominio dall'art. 1131, comma 2, c.c., rispetto a qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio, non si estende all'azione di scioglimento del condominio prevista dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c. la quale, avendo ad oggetto la modificazione di un diritto reale, si svolge in un giudizio al quale debbono partecipare tutti i soggetti che per le rispettive quote ne sono titolari, ossia i condomini del precedente condominio complesso. Nel medesimo senso Cass. II, n. 4655/1998, la quale evidenzia come l'art. 784 c.p.c. sia norma speciale rispetto all'art. 1131, comma 2, c.c. e pertanto, malgrado quest'ultima disposizione conferisca all'amministratore di condominio la legittimazione passiva per qualunque azione, se un condomino chiede lo scioglimento della comunione su un bene comune e la conseguente modifica dell'uso di esso, è necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, onde tutelare più intensamente le loro ragioni nella trasformazione delle rispettive facoltà di godimento. Del medesimo avviso la giurisprudenza di merito, facendo applicazione dei principi generali in tema di azioni divisorie, che non potrebbero raggiungere il loro scopo – e cioè, trasformare i diritti dei singoli comunisti su quote ideali in diritti di proprietà individuale ed esclusiva su singoli beni – se non sono promosse nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione: pertanto, riconoscere all'amministratore la legittimazione passiva anche in tale ipotesi «significherebbe attribuirgli un potere di disposizione della situazione soggettiva di un condomino di cui non è titolare neppure l'assemblea» (così Trib. Cagliari, 27 febbraio 1974, a parere del quale il disposto dell'art. 1131, comma 2, c.c. va interpretato nel senso che lo stesso è passivamente legittimato per le domande che riguardano la mera gestione delle medesime parti comuni. In termini analoghi App. Milano 2 ottobre 1987; Trib. Milano 7 novembre 1985). In merito alla qualità di litisconsorti necessari di tutti i condomini rispetto alla domanda di scioglimento del condominio, poi, essa permane in ogni grado del processo, indipendentemente dall'attività e dal comportamento di ciascuna parte, onde, se in fase di appello l'appellante non provveda alla citazione di uno o più condomini, il giudice di secondo grado è obbligato a disporre l'integrazione del contraddittorio in ottemperanza al precetto dell'art. 331 c.p.c., ancorché, già disposta in primo grado la divisione, debba soltanto pronunciare sulle spese, in quanto la causa accessoria sulle spese condivide il carattere di inscindibilità della causa principale (Cass. II, n. 8892/1987). Anche la dottrina (Celeste, 2017, 557 ed ivi altri riferimenti bibliografici) ha preso posizione nel senso di escludere, in caso di domanda di scioglimento del condominio, la legittimazione passiva dell'amministratore, essendo questa limitata ai rapporti giuridici derivanti dall'esistenza di parti comuni dell'edificio e dall'inerenza della domanda a tali parti: “in fondo, la separazione del condominio in più distinti condominii implica necessariamente la ridefinizione dei diritti di comproprietà spettanti ad ogni singolo condomino sulle parti comuni, incidendo su situazioni giuridiche soggettive, la cui tutela appare estranea alla sfera dei poteri rappresentativi dell'amministratore e, soprattutto, viene a determinare, nell'àmbito dell'originaria comunione, l'insorgere di centri di interesse differenziati e potenzialmente contrapposti, la cui rappresentanza non può logicamente essere demandata unitariamente al medesimo amministratore”. Sennonché il medesimo Autore di pone il problema anche sotto altro diverso angolo prospettico, osservando che la risposta al quesito innanzi posto è ulteriormente complicato dalla considerazione per cui lo scioglimento del condominio può essere disposto con una deliberazione assembleare non assunta con l'unanimità dei condomini: «sicché ci si può chiedere – non tanto se al predetto giudizio di scioglimento sia necessario il contraddittorio con tutti i partecipanti, quanto piuttosto – se la partecipazione al giudizio debba essere realizzata citando personalmente i condomini che non hanno avuto l'iniziativa dello scioglimento, o se sia sufficiente convenire l'amministratore, trattandosi di azione concernente “le parti comuni” ex art. 1131, comma 2, c.c.». Anche a tale “sotto-questione” viene però fornita risposta negativa, precisandosi che “la domanda incide sui diritti dei singoli condomini, in quanto l'art. 62, comma 1, disp. att. c.c. prevede la possibilità che, per effetto dello scioglimento del condominio, alcune cose cessino di essere in comunione tra gli originari condomini, mentre altri partecipanti vedrebbero ampliato il loro diritto su cose prima comuni ad un maggior numero di persone; non si vede, poi, come si possa accertare, ai sensi del comma 2 del predetto art. 62, che la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose o che occorrono opere per la sistemazione diversa degli ambienti comuni, senza sentire i condomini interessati”. Va poi immediatamente sgombrato il campo da un possibile equivoco: l'art. 62, comma 2, disp. att. c.c., diversamente dal precedente art. 61, comma 1, disp. att. c.c. non contempla la possibilità che, nel caso in cui non venga raggiunta la maggioranza indicata, sia possibile il ricorso all'Autorità Giudiziaria. Donde l'interrogativo se, in tale ipotesi e nel difetto di una espressa previsione conforme, il descritto ricorso si ammesso. Ha escluso tale possibilità, con una lontana pronunzia Trib. Napoli 2 agosto 1974, osservando come, anche ammettendo il ricorso all'autorità giudiziaria nell'ipotesi in cui la separazione non possa farsi se on adottando modifiche o realizzando opere, la sentenza sarebbe comunque inutiliter data, non potendo il magistrato adìto disporre dette innovazioni; peraltro, si osserva, riconoscendo il potere di disporre lo scioglimento del condominio per via giudiziaria anche in tale ipotesi, non vi sarebbe stato motivo di richiedere una maggioranza speciale per la delibera dell'assemblea, ben potendo la minoranza interessata allo scioglimento direttamente rivolgersi al giudice, il quale, quand'anche l'assemblea volesse decidere negativamente potrebbe optare per lo scioglimento o, ancora, potrebbe sostituirsi ad essa disponendo quelle modifiche e quelle opere necessarie perché l'edificio possa avere la necessaria autonomia. Alla stregua di una corretta interpretazione degli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., è, dunque, ragionevole ritenere che l'autorità giudiziaria possa disporre lo scioglimento di un condominio solo quando il complesso immobiliare sia suscettibile di divisione, senza che si debba attuare una diversa ristrutturazione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, mentre, laddove la divisione non sia possibile senza previa modifica dello stato delle cose mediante ristrutturazione, lo scioglimento e la costituzione di più condominii separati possono essere approvati soltanto dall'assemblea con un numero di voti che sia espressione di due terzi del valore dell'edificio e rappresenti la maggioranza degli intervenuti alla riunione (Cass. II, n. 27507/2011, cit.). La domanda di scioglimento della comunione va proposta, secondo quanto previsto dall'art. 61, comma 2, c.c. da tanti condomini che rappresentino almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell'edificio della quale si chiede la separazione, con ciò sostanzialmente fissando una condizione di procedibilità della relativa azione. Si tratta, in realtà di una doppia condizione di procedibilità, giacché anche la materia soggiace alle prescrizioni contenute nell'art. 71-quater disp. att. c.c. e, dunque, al previo esperimento del procedimento di mediazione obbligatoria. A seguito della novella introdotta dall'art. 25, della l. n. 220 del 2012 (che ha inciso non già sulle disposizioni del codice civile quanto, piuttosto, sul d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali») e del d.l. n. 69 del 2013 (c.d. «Decreto Fare», che ha reintrodotto anche in materia condominiale, a far data dal 21 settembre 2013, la mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, dopo che essa era stata «espulsa» dall'ordinamento a seguito della pronunzia della Corte cost. n. 272/2012) chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa, tra l'altro, ad una controversia in materia di condominio è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione, il quale rappresenta condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Quanto alle modalità di svolgimento del procedimento di mediazione, l'art. 71-ter disp. att. c.c. prevede, attualmente, che per “controversie in materia di condominio”, ai sensi dell'articolo 5, comma 1, del decreto legislativo n. 28 del 2010, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle disposizioni per l'attuazione del codice: quindi, tutte le controversie relative, sia agli artt. da 1117 a 1139 c.c., sia alle fattispecie disciplinate nelle disposizioni di attuazione del codice stesso, inclusa quella in esame. Per quanto concerne, poi, l'approvazione della proposta di mediazione, l'eventuale accordo conciliativo va approvato dall'assemblea condominiale con la medesima maggioranza richiesta per l'autorizzazione all'amministratore a partecipare alla mediazione e, cioè, quella prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c.: nella specie, peraltro, stante l'identità delle maggioranze prescritte dall'art. 71-quater e dall'art. 61, comma 2, disp. att., non si pone alcun problema della interferenza dell'art. 71-quater disp. att. c.c. con l'art. 1136 c.c. in termini di specialità o meno. Interessante il principio affermato da Cass. II, n. 867/2012, che rimarca che la domanda di scioglimento del condominio può essere precisata e divenire domanda di scioglimento della comunione nel corso di causa, senza che ciò integri l'ipotesi vietata di mutatio libelli, trattandosi, invece, di mera emendatio libelli, in quanto il petitum è stato modificato soltanto attraverso una diversa qualificazione giuridica, in senso restrittivo, del fatto. Ciò implica che, pur persistendo la condizione di procedibilità rappresentata dalla domanda di mediazione, ex art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, verrebbe invece meno quella rappresentata dal numero minimo di soggetti che devono agire. Ciò in quanto, a precisazione ulteriore del dettato normativo, con riferimento all'individuazione della frazione numerica richiesta dalla norma, il “terzo” dei proprietari su domanda dei quali può chiedersi la separazione di parte dell'edificio in condominio è da intendersi come riferito al numero dei comproprietari (c.d. “teste”) della parte da staccare e non alle quote da ciascuno di essi rappresentate (c.d. “millesimi”) (così Cass. II, n. 397/1974). Secondo questo orientamento, dunque, occorre attenersi alla lettera della norma e, quindi, far riferimento solo ad una percentuale numerica, senza prescrivere che coloro i quali invocano la divisione rappresentino anche un terzo del valore della porzione da separare. Tale tesi, peraltro, ritiene che dovrebbe ragionarsi in termini analoghi anche nell'ipotesi di scioglimento per delibera dell'assemblea: invero, quando quest'ultima statuisce lo scioglimento dell'originario condominio, compirebbe un atto di amministrazione, rispetto a cui il ricorso di un condomino qualunque o dei dissenzienti che non rappresentino almeno quel «terzo» di cui parla l'art. 61, comma 2, disp. att. c.c. non avrebbe alcun effetto, perché i poteri del giudice interveniente ex art. 1137 c.c. non vanno oltre il controllo di legittimità, sicché resta giustificato, al fine di stabilire il quorum necessario per la validità della delibera, il richiamo alla maggioranza stabilita dall'art. 1136, comma 2, c.c., la quale tiene conto sia del numero dei partecipanti sia del valore delle loro quote; qualora, invece, si verta nell'ipotesi dell'istanza giudiziale da parte di tale «terzo» dei condomini interessati allo scioglimento, si è fuori del campo dell'amministrazione condominiale, ossia si è in presenza di una disposizione eccezionale, cui non possono essere estesi i principi che governano il computo delle maggioranze ai fini delle attività proprie dell'assemblea. Questa opzione interpretativa è stata, però, oggetto di critica: invero, è apparsa poco persuasiva l'affermazione che, quando è l'assemblea a decidere lo scioglimento del condominio, le maggioranze in numero e valore delle quote sarebbero giustificate dalla natura della delibera (atto di «amministrazione»), mentre, quando è il giudice ad imporre lo scioglimento, la natura dell'atto muterebbe, rendendo superfluo l'elemento quantitativo (valore delle quote rappresentate dai condomini che invocano lo scioglimento), sostenendo che il concetto di «condomino» non può essere diverso da quello di «proprietario di piano o porzione di piano» (art. 1117 c.c.), essendo il «valore» di queste cose in «proprietà» a qualificare e quantificare il limite del diritto condominiale (art. 1118 c.c.); allorché il codice civile parla espressamente di «comproprietari di ciascuna parte» (art. 61, comma 1, disp. att. c.c.), riconoscendo ad essi la possibilità di «costituirsi in condominio separato», non dice qualcosa di diverso da quando riconosce al «terzo» dei suddetti condomini il potere di rivolgersi al giudice per richiedere che esso, contro il volere dell'assemblea o nella sua inerzia, imponga lo scioglimento (art. 61, comma 2, disp. att. c.c.) si aggiunge, poi, che non si riuscirebbe a comprendere perché la legge disponga che i condomini, riuniti in assemblea, possano deliberare validamente solo in quanto si raggiunga una certa maggioranza numerica e per quote, e, poi, quando una tale maggioranza si sia raggiunta, ma per respingere l'istanza di divisione, questa delibera possa essere impugnata anche da un terzo (numerico) dei partecipanti, senza tenere conto alcuno del valore delle quote che essi rappresentano (peraltro, gli altri partecipanti potrebbero rendere di fatto inoperante la pronuncia di scioglimento del condominio da parte dell'autorità giudiziaria, in quanto, forti della maggioranza in numero e valore, potrebbero non costituire un nuovo condominio). A tale tesi, se ne è affiancata una terza, secondo la quale la chiara lettera dell'art. 61 disp. att. c.c. induce a ritenere che la domanda giudiziale possa essere proposta da un terzo dei comproprietari, a prescindere dal valore delle loro quote, tuttavia, in un'ottica di maggior rispetto del sistema – che è generalmente orientato verso l'attribuzione dei diritti in relazione alla misura della quota di partecipazione, anche se, a taluni effetti, venga richiesto un concorrente numero di partecipanti – si suggerisce di considerare equivalente la domanda di un numero di proprietari inferiori al terzo, purché gli istanti rappresentino almeno un terzo della somma complessiva del valore (Celeste 2018). Segue. Gli effetti dello scioglimento del condominio Diverse le conseguenze, infine, derivanti dallo scioglimento del condominio, avuto riguardo alle parti che dovessero rimanere in comune tra gli edifici autonomi (cfr. art. 62, comma 1, disp. att. c.c.). Esse vanno anzitutto soggette alla disciplina del condominio degli edifici. Chiara in tal senso, già prima della introduzione dell'art. 1117-bis c.c. (che rende questa opzione obbligata ex lege) Cass. II, n. 3102/1993 la ebbe quale ad affermare che nel caso di sostituzione di più condomini separati ad un unico preesistente condominio, va sempre applicata, alle cose indicate dall'art. 1117 c.c. e rimaste in comunione al servizio di tutti, la disciplina del condominio negli edifici, anche nei casi in cui, a seguito dello scioglimento del condominio, i singoli immobili siano rimasti in proprietà solitaria; sicché, nel caso di divisione di un edificio soggetto al regime del condominio in porzioni aventi le caratteristiche di edifici autonomi, sulle parti rimaste in comproprietà degli originari partecipanti nonostante lo scioglimento del condominio, in difetto di espresso mutamento del titolo, continua ad applicarsi la disciplina del condominio di edifici (da tale principio la Corte ha fatto discendere la conseguenza per cui il tratto di accesso, racchiuso dalle costruzioni in proprietà esclusiva e destinato a dare ad esse il passaggio, in quanto compreso nella comproprietà ex art. 1117 c.c., viene usato jure proprietatis e non jure servitutis dai comproprietari, i quali possono pertanto procedere all'apertura di nuove porte attraverso il muro delimitante i fabbricati insistenti sull'accesso medesimo, quale legittima utilizzazione della cosa comune a norma dell'art. 1102 c.c.). Quanto, invece, alle tabelle millesimali, occorre distinguere quelle relative alle residue parti comuni da quelle relative ai «nuovi» edifici autonomi originatisi dalla divisione (ed alle porzioni separate ivi ubicate): con riferimento alle prime, Cass. II, n. 1440/1981 (e, più recentemente, Trib. Savona, 16 febbraio 2018) ha chiarito che nei casi di scioglimento del condominio mediante deliberazione della assemblea e costituzione di condominii separati con il permanere in comune fra gli originari partecipanti di alcune delle cose indicate dall'art. 1117 c.c., la disciplina condominiale unitaria persiste riguardo a dette cose, con la conseguenza che resta attribuito all'assemblea unitaria originaria – ed esula dai poteri delle assemblee dei condominii separati – il provvedere all'approvazione delle spese ad esse relative (concernenti, nella specie, gli impianti di riscaldamento, di forza motrice ed idrico) e alla loro ripartizione fra i condominii; avuto riguardo, invece, alle tabelle millesimali dei nuovi edifici, la modificazione delle tabelle comportata dalla separazione si riduce al risultato di un mero calcolo aritmetico, che non altera le proporzioni originarie tra i valori delle porzioni in proprietà individuale (Cass. II, n. 3097/1974). Artt. 61 e 62 disp. att. c.c. e supercondominio: cenniGli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., con il loro riferimento al «gruppo di edifici» ed alla possibilità di frazionamento di un edificio originariamente unico hanno fornito la base per la elaborazione della teorica del supercondominio fenomeno per indicare il quale sono state usate le espressioni più varie, quali «condominio complesso», «complesso residenziale» o «complesso immobiliare» – per indicare la pluralità degli edifici coinvolti e contrapporlo, di conseguenza, al «condominio semplice» formato da un solo edificio – ovvero «condominio orizzontale» – per indicare la circostanza che lo stesso si sviluppa in larghezza e per contrapporlo, quindi, a quello «tipico» verticale (che si sviluppa, cioè, in altezza) previsto dall'art. 1117 c.c. Con tutte tali espressione si intende fare riferimento ad una fattispecie invero unica rappresentata dalla presenza di un condominio orizzontale risultante dalla comunanza di beni o servizi tra più edifici, ciascuno dei quali ultimi, tuttavia, costituisce una struttura condominiale autonoma ed a sé stante; assolutamente chiarificatrice, riguardo al contenuto della nozione in oggetto, comunque, è stata la Suprema Corte (Cass. II, n. 7286/1996), la quale ha precisato che «la figura del supercondominio è nota. Più edifici, relativamente autonomi, quanto alla struttura materiale, e costituiti in altrettanti condomini, di fatto (o per titolo) possono essere riuniti in un condominio più ampio, perché beneficiano in comune di alcune cose, impianti e servizi. La figura del supercondominio non è incompatibile con la contestuale esistenza dei condomini autonomi, afferenti ai singoli edifici. Al contrario, i singoli edifici costituiti in altrettanti condomini vengono a formare un supercondominio quando talune cose, impianti e servizi comuni contestualmente sono legati, dalla relazione di accessorio a principale, con più edifici. Il che solitamente avviene per il viale di ingresso, l'impianto centrale per il riscaldamento o per l'acqua calda, il parcheggio e, per l'appunto, il locale per la portineria o per l'alloggio per il portiere». Chiarisce Cass. II, n. 19799/2014 che, ai fini dell'esistenza di un supercondominio non è indispensabile l'esistenza di beni comuni a più edifici, compresi in una più ampia organizzazione condominiale, ma è sufficiente la presenza di servizi comuni agli stessi, quali, nella specie, i servizi di illuminazione, di rimozione dei rifiuti e di portineria (nello stesso senso Cass. II, n. 19800/2014). Sennonché osserva criticamente (Scalettaris, 2015, 39 ss. che «quanto alla comunanza dei “servizi”, questa è sempre stata presa in considerazione solamente in associazione alle “cose” comuni, facendosi riferimento all'insieme rappresentato da “cose, impianti e servizi comuni”: gli stessi precedenti giurisprudenziali richiamati dalla sentenza in commento sono appunto in questi termini [...] in via generale, in base a quanto emerge dal quadro della disciplina della materia, deve ritenersi che la presenza di un solo servizio – nel senso che sopra si è indicato di attività diretta a soddisfare le esigenze dei condòmini – non consenta la configurazione del supercondominio [...] però [...] la sentenza in rassegna sembri fare uso dell'espressione “servizi” in un'accezione peculiare: in essa infatti si fa menzione esattamente nel medesimo senso e con lo stesso significato – come se si trattasse di elementi della medesima natura – del “servizio” di portineria e del “servizio” di illuminazione (che sono invece elementi che – come è chiaro alla luce di quanto si è osservato fino ad ora – sono certamente distinti e di natura diversa: il “servizio” di illuminazione è un preciso e determinato impianto materiale che fa parte dell'edificio, mentre il “servizio” di portineria consiste nell'attività che viene svolta dal portiere o dal custode). Proprio il fatto che nella decisione in esame si definiscano indifferentemente quali “servizi” comuni sia impianti comuni sia attività svolte in favore dei condòmini (ma comunque sempre a mezzo di beni comuni) induce a chiedersi se la sentenza – nell'indicare i “servizi” comuni – abbia inteso fare riferimento alle attività che siano espletate nel condominio attraverso l'utilizzo di una parte comune: ed in questo senso potrebbe avere un ruolo significativo il richiamo operato dalla sentenza – accanto al “servizio” di illuminazione – al “servizio” di portineria comune tra i due condominii, richiamo riferito appunto ad un'attività espletata attraverso l'utilizzo di una parte comune (il locale portineria). Ove questo fosse il senso dell'espressione “servizi” utilizzata dalla sentenza, dovrebbe allora condividersi – sulla base delle ragioni che sopra si sono segnalate – la conclusione dalla stessa indicata, in quanto diretta ad affermare la riconducibilità alla figura del supercondominio delle fattispecie caratterizzate dalla comunanza tra più condominii anche soltanto di un servizio ove questo sia prestato attraverso un impianto comune agli stessi edifici». Al pari del condominio «semplice» anche il c.d. supercondominio viene ad esistenza ipso iure et facto, se il titolo non dispone altrimenti, senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni né, tanto meno, di approvazioni assembleari, essendo all'uopo sufficiente che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati, attraverso la relazione di accessorio e principale, con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, “pro quota”, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati (cfr. supra. In termini Cass. II, n. 32237/2019). Sennonché, se tali dati sono sempre stati sostanzialmente pacifici, ben più variegate sono invece state le opinioni espresse, in passato, circa la disciplina applicabile al supercondominio: questione che, sebbene sia da ritenersi ormai superata a seguito dell'introduzione dell'art. 1117-bis c.c., merita di essere comunque illustrata, considerato che la Riforma – ancora una volta – ha fatto propri gli approdi dell'elaborazione giurisprudenziale che, in assenza di una qualsivoglia disciplina normativa della materia, aveva svolto una chiara funzione suppletiva di un poco accorto legislatore. (A) Un primo orientamento si riteneva dovessero applicarsi – con riferimento alla disciplina delle parti comuni – le disposizioni di cui agli artt. 1117 ss. c.c. e, dunque, la normativa in materia di condominio: tale impostazione trovava il proprio fondamento negli artt. 61 e 62 disp. att. c.c. ed era seguita dalla giurisprudenza pressoché dominante della Suprema Corte: «ciò non significa – si legge nella motivazione di Cass. II, n. 7286/1996, cit. – che il supercondominio debba riguardarsi come una sorta di struttura rigida, soprastante i singoli condominii: significa semplicemente che le parti necessarie per l'esistenza, o destinate al servizio o all'uso di più edifici, appartengono ai proprietari delle unita immobiliari comprese nei diversi fabbricati e vengono regolate, se il titolo non dispone altrimenti, in virtù di interpretazione estensiva ovvero in forza di integrazione analogica, dalle norme dettate in tema di condominio negli edifici». In particolare, si osservava che, giacché l'art. 61, comma 1, disp. att. c.c. prevede la possibilità di scioglimento di un condominio formato da «un gruppo di edifici» e che il successivo art. 62 disp. att. c.c. contempla la possibilità che restino in comune, dopo lo scioglimento dell'originario unico condominio, alcune delle cose indicate dall'art. 1117 c.c., dovendosi in tal caso applicare la disciplina del condominio, sarebbe stato illogico – vista l'identità della fattispecie – non applicare la medesima normativa anche nel caso di originaria pluralità ed autonomia di edifici in qualche modo «collegati» tra loro, perché serviti dalle cose e dai servizi indicati dall'art. 1117. (B) Secondo l'opposta opinione, invece, il regime delle cose e dei servizi comuni agli edifici formanti il supercondominio avrebbe dovuto essere quello proprio della comunione ordinaria, ex artt. 1100 ss. c.c. Si sosteneva, infatti, che l'art. 1117 c.c. sarebbe categorico ed estremamente chiaro nel riferire la propria disciplina ad un solo edificio; né varrebbe, si obietta, il richiamo agli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., in quanto, anche nell'ipotesi di persistenza di cose comuni pur dopo lo scioglimento del condominio (eventualità, questa, contemplata dal comma 1 della disposizione da ultimo richiamata), in assenza di un titolo contrario ed in presenza del dato letterale offerto dall'art. 1117 c.c., dovrebbe trovare applicazione la disciplina della comunione ordinaria e non quella del condominio. Sicché – con ragionamento simmetrico a quello proposto in precedenza – sarebbe stato illogico, vista l'identità della fattispecie, non applicare la medesima disciplina anche nel caso di originaria pluralità ed autonomia di edifici, in qualche modo «collegati» tra loro, perché serviti dalle cose e dai servizi indicati dall'art. 1117 c.c. «La Corte del merito – si legge in Cass. II, n. 2923/1989 – ha affermato che il complesso residenziale di Via [...], composto da quattro distinte palazzine e da terreno scoperto, costituiva un condominio unico, rappresentato, ad ogni effetto, dall'amministratore nominato dall'assemblea di tutti i condomini, con le maggioranze prescritte dalla legge [...]. Ma la ritenuta esistenza di un «unico» condominio appare in contrasto non tanto con il tenore letterale dell'art. 1138 c.c. (invocato dalla ricorrente) che, in tema di regolamento di condominio ne impone la formazione quando l'«edificio» (unico) abbia più di quattro condomini, atteso che il regime condominiale è estensibile anche a complessi immobiliari costituiti da una pluralità di edifici, come testualmente previsto dall'art. 61 disp. att. c.c., quanto alla situazione di fatto, come accertata dalla stessa corte, in conformità al regolamento, che dimostrava l'esistenza di tanti distinti condominii quante le palazzine, ognuno fornito dei propri organi rappresentativi. Invero posto che il regolamento, predisposto dall'originario unico proprietario, prevede la organizzazione autonoma dei singoli edifici e la nomina di un amministratore per le parti rimaste in comune ai quattro condominii costituiti (cd. super condominio) e cioè per il terreno non coperto dalle singole costruzioni, l'abitazione del portiere, le vie private all'interno del comprensorio ecc. deve ritenersi condivisibile l'assunto della ricorrente che ravvisa l'esistenza, su queste parti comuni, di un regime di «comunione» (articolo 1100 ss. c.c.) e non di un regime di «condominio» (art. 1117 ss. c.c.). Se infatti si ha «condominio», in senso tecnico, quando sussista proprietà esclusiva di parti determinate dell'edificio e proprietà comune di tutti i proprietari esclusivi su altre parti dello stesso edificio (arg. art. 1117 c.c.), la proprietà di più partecipanti su cose comuni (quali gli spazi liberi tra più edifici), mancando una proprietà esclusiva su talune parti di queste «cose», si atteggia a comproprietà e non a condominio». I sostenitori dell'orientamento esame, inoltre, hanno anche evidenziato come la disciplina della comunione, più «agile» e snella di quella condominiale, sarebbe stata maggiormente adatta per gestire i grandi complessi edilizi, dove il numero dei condomini è talmente elevato da rendere problematico il raggiungimento dei quorum assembleari. (C) Deve segnalarsi, infine, anche una terza posizione, intermedia tra le due precedenti – detta del «doppio regime» – la quale individuava la disciplina da applicare alle cose ed ai servizi comuni in relazione alla funzione concretamente svolta dal bene de quo: i sostenitori di tale orientamento, in particolare, osservavano come nel supercondominio esistessero alcune parti in condominio ed altre in comunione, ciascuna delle quali avrebbe dovuto essere «naturalmente» disciplinata secondo le regole che la interessano. Di particolare interesse è la riproposizione che ha fornito della tesi in commento Cass. II, n. 14791/2003 la quale, rilevato come il presupposto fondamentale perché si instauri un diritto di condominio su un bene comune vada ravvisato in quel particolare nesso che deve intercorrere tra tale bene (ovvero l'impianto o il servizio) e le unità immobiliari a proprietà solitaria, ha quindi osservato che «l'art. 1117 c.c. contempla due differenti forme di collegamento tra i piani o porzioni di piano da una parte, e le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune, dall'altra: un collegamento materiale e uno funzionale, consistente il primo nella incorporazione tra entità inscindibili, il secondo nella congiunzione tra res separabili. Il primo si manifesta come necessità per l'esistenza o per l'uso (il tetto, le fondamenta, le scale, ecc.), che rende le cose in proprietà individuale e le cose comuni inseparabili le une dalle altre, pur nella autonoma rilevanza giuridica. Il secondo nesso, che si traduce nella destinazione all'uso o al servizio, ha luogo in una unione fisica stabile tra le res, che tuttavia può essere posta nel nulla senza grave deterioramento dei beni (impianto di riscaldamento, tubature, ascensore, ecc.). Questo particolare collegamento tra i beni individuali e i beni comuni, cui l'ordinamento dà rilevanza giuridica ponendolo a fondamento del diritto di condominio è stato definito in giurisprudenza (Cass. II, n. 9096/2000) come «relazione di accessorietà», espressione che [...] racchiude in sé sia il legame funzionale che la connessione materiale, in quanto l'accezione giuridica dell'accessorietà [...] esprime, quanto ala funzione, il carattere complementare delle cose, degli impianti e dei servizi comuni rispetto ai piano o alle porzioni di piano, nel senso che ne evidenzia la mancanza di una utilità fine a se stessa, e la subordinazione strumentale delle parti comuni; esprime, inoltre, la connessione materiale, che determina la mancanza di autonomia fisica dei beni, pur non escludendo il permanere della individualità giuridica. Se ricorre una relazione di accessorietà, nel senso sopra illustrato, tra beni, impianti o servizi comuni, e beni di proprietà individuale, sui primi si instaura un diritto di condominio, mentre se tale relazione non ricorre, i beni comuni che spettino pro-quota ai titolari di proprietà individuali insistenti sui piani o porzioni di piano [...] non possono che essere oggetto di ordinaria comunione [...] Orbene, [...] se l'elemento caratterizzante dei diritto di condominio su beni, impianti o servizi comuni è rappresentato dalla esistenza della ricordata relazione di accessorietà rispetto alle proprietà solitarie, detta relazione ben può esistere – ed avere la medesima rilevanza – con riferimento non ad un solo edificio, ma a più fabbricati che nella loro individualità costituiscono autonomi condomini, e ciò senza che possa avere influenza il fatto che i condomini fossero sorti fin dall'origine autonomi o siano derivazione del frazionamento di un condominio originariamente unico». Si rinvia, per l'approfondimento del tema, al commento degli artt. 1117-bis c.c. e 67 disp. att. c.c. 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