Disp. Att. Trans. Codice Civile - 30/03/1942 - n. 318 art. 63[I]. Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore, senza bisogno di autorizzazione di questa, può ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, ed è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi. [II]. I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini. [III]. In caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l'amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato. [IV]. Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente. [V]. Chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto 1.
[1] Articolo sostituito dall'art. 18, l. 11 dicembre 2012, n. 220. Il testo precedente recitava: « - Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea , l'amministratore può ottenere decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione. - Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente. - In caso di mora nel pagamento dei contributi, che si sia protratta per un semestre, l'amministratore, se il regolamento di condominio ne contiene l'autorizzazione, può sospendere al condomino moroso l'utilizzazione dei servizi comuni che sono suscettibili di godimento separato». La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. InquadramentoLa gestione dell'azienda-condominio registra, in buona sostanza, somme in uscita e somme in entrata: da un lato, le spese condominiali, ossia gli esborsi che vengono effettuati per la manutenzione dei beni comuni e per la prestazione dei servizi essenziali, dall'altra, i contributi condominiali, vale a dire gli importi a carico di ciascun partecipante per far fronte a dette spese. A stretto rigore, quindi, allorché si parla di «spese» ci si riferisce al profilo esterno delle relazioni condominiali, riguardanti i rapporti con i terzi cui gli esborsi devono essere corrisposte, mentre, quando si parla di «contributi», è interessato il profilo interno della collettività ed è regolato dai criteri di distribuzione delle relative somme tra i singoli partecipanti al condominio. È intuitivo che tutti i condomini sono tenuti a partecipare, nella percentuale diversa a seconda dei casi – come contemplato specificatamente dagli artt. 1123,1124,1125 e 1126 c.c. (al cui commento si rinvia) – alle spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni; il suddetto obbligo non si limita, però, al dovere di rimborsare le spese deliberate e già sostenute, ma implica una necessaria anticipazione di quelle preventivate, non essendo ammissibile che all'anticipo provvedano l'amministratore o soltanto alcuni condomini di buona volontà. Non sempre succede (purtroppo) che i condomini paghino le rate spettanti o siano puntuali nei versamenti, sicché necessita un'opera di recupero coattivo dei contributi condominiali necessari per una corretta gestione condominiale. Orbene, partendo dal dettato codicistico, emerge che l'amministratore deve provvedere alla riscossione dei contributi occorrenti per la gestione del condominio (art. 1130, n. 3, c.c.); tale dovere è intimamente correlato all'obbligo di rendere il conto della propria gestione alla fine di ciascun anno (art. 1130, n. 10, c.c.); la predetta riscossione, peraltro, trova il suo fondamento nel preventivo e nello stato di ripartizione approvato dall'assemblea (art. 1135, n. 2, c.c.). Quindi, l'amministratore, se, da un lato, eroga le spese di manutenzione ordinaria e quelle relative al funzionamento dei servizi comuni essenziali (utenze, premi assicurativi, esborsi vari), dall'altro, è l'organo esattore del condominio, per cui deve curare la riscossione dei contributi necessari per tale manutenzione e funzionamento, e, qualora si verifichi una morosità da parte di qualcuno, deve agire in giudizio per il relativo pagamento (De Tilla 2000, 496). Nello specifico, la l. n. 220/2012 (entrata in vigore il 18 giugno 2013) rende più stringenti i doveri dell'amministratore di condominio in caso di morosità: in precedenza – come sopra rilevato – già l'art. 1130, n. 3), c.c. contemplava, tra le attribuzioni del suddetto amministratore, il generico obbligo di «riscuotere i contributi», mentre, il novellato art. 1129, comma 9, c.c. prevede ora, salvo che sia dispensato dall'assemblea, che lo stesso amministratore sia «tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito è esigibile, anche ai sensi dell'articolo 63, primo comma, delle disposizioni per l'attuazione» del codice civile. Si è osservato, in proposito, che il mancato rispetto del termine di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio di competenza non fa venir meno la legittimazione dell'amministratore ad agire, sia pure in ritardo, per la riscossione delle somme dovute dai condomini, né opera quale vicenda estintiva del credito; l'unica conseguenza di un promovimento dell'azione di recupero dei crediti condominiali oltre il semestre dalla chiusura dell'esercizio di riferimento, quindi, non può che essere l'eventuale responsabilità dell'amministratore nei confronti del condominio (Parini, 123). D'altro canto, lo stesso art. 1129, comma 9, c.c. ammette che l'amministratore possa essere espressamente dispensato dall'assemblea dall'agire per la riscossione entro il suddetto termine, il che, oltre a rimettere all'assemblea una sostanziale possibilità di derogare ad un'ipotesi tipizzata di revoca dell'amministratore – v. appresso – permette altresì al collegio dei condomini di ratificare il tardivo operato dell'amministratore, anche condividendo le ragioni che lo abbiano indotto a non agire tempestivamente per la condanna dei ritardatari; in tal modo, si ribadisce implicitamente pure che non rientri tra le attribuzioni dell'amministratore il potere di concedere dilazioni di pagamento ai singoli condomini, senza apposita autorizzazione dell'assemblea, avendo soltanto questa l'effettiva disponibilità delle vicende obbligatorie che si riflettono sulle sfere giuridico-patrimoniali individuali. Pertanto, l'art. 63, comma 1, disp. att. c.c. stabilisce che l'amministratore, senza bisogno di autorizzazione da parte dell'assemblea, possa ottenere un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, «per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea» (per completezza, va rammentato che lo stesso amministratore, in forza dell'art. 1130, n. 10, c.c. è ora tenuto a «redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e convocare l'assemblea per la relativa approvazione entro centottanta giorni»). Peraltro, la morosità dovrebbe essere, per così dire a monte, eliminata nel caso di opere di manutenzione straordinaria e di innovazioni, stante l'obbligo, in capo all'assemblea, in forza del riformato art. 1135, comma 1, n. 4), c.c., di costituire «obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori». Comunque, il citato art. 1129, al n. 6) del comma 12, contempla, tra le «gravi irregolarità», che giustificano la revoca giudiziaria dell'amministratore, «l'aver omesso di curare diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione coattiva», qualora sia stata promossa l'azione giudiziaria per la riscossione delle somme dovute al condominio. Peculiarità dell'obbligo contributivoDunque, in forza di tale attribuzione delineata dall'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., l'amministratore non ha bisogno di una specifica autorizzazione da parte dell'assemblea per azionare in via monitoria la procedura di riscossione nei confronti dei condomini morosi, trattandosi di controversia che rientra nelle sue normali attribuzioni, in virtù del richiamo all'art. 1130 c.c. contenuto nel successivo art. 1131 (v., tra le tante, Cass. II, n. 27292/2005; Cass. II, n. 29/2000; Cass. II, n. 14665/1999; Cass. II, n. 12125/1992; nella peculiare fattispecie degli edifici realizzati da cooperative edilizie, ove all'assegnazione dell'alloggio da parte della cooperativa segua la consegna dello stesso ai singoli assegnatari, originando, per fatto concludente, il condominio – la cui costituzione, pur presupponendo l'accordo di tutti gli interessati, non richiede alcuna forma speciale – Cass. II, n. 17581/2017 ha affermato che la legitimatio ad causam per tutte le vicende processuali relative alla regolamentazione della gestione di beni e servizi comuni ed al recupero delle quote di spesa dovute dai singoli assegnatari per la partecipazione al godimento dei servizi di comune utilità spetta all'amministratore del condominio). L'inerzia ingiustificata del rappresentante dell'ente condominiale nei confronti dei condomini morosi – come sopra rilevato – può essere fonte di sua responsabilità, attualmente sanzionata con la destituzione giudiziaria ai sensi dell'art. 1129, comma 12, n. 6), c.c. Peraltro, anche la determinazione delle concrete modalità di riscossione dei predetti contributi compete all'amministratore, e non fa parte delle attribuzioni assegnate dalla legge all'assemblea dei condomini, sicché il primo è libero di raccogliere le liquidità occorrenti per la gestione del condominio, ad esempio, presso il proprio domicilio, o tramite bonifico, o consegna al portiere, ecc. (salvo l'attuale obbligo, ex art. 1129, comma 7, c.c., di far «transitare» le somme ricevute, a qualunque titolo, dai condomini o da terzi, su uno specifico conto corrente, bancario o postale, intestato al condominio). In forza del generale disposto di cui all'art. 1182 c.c., riguardante il «luogo» dell'adempimento dell'obbligazione, la prestazione avente ad oggetto una somma di denaro, deve essere adempiuta al domicilio del creditore, ossia dell'amministratore; qualora sia stato costituito un contratto di conto corrente presso un istituto bancario o postale delegato alla medesima riscossione – come appunto impone attualmente il novellato art. 1129, comma 7, c.c. – gli importi dovranno essere versati direttamente tramite bonifico bancario o apposito bollettino. Circa il «tempo» di adempimento dell'obbligazione (art. 1183 c.c.), lo stesso sarà determinato dall'assemblea ai sensi dell'art. 1135, n. 2), c.c., la quale, approvando il preventivo della spesa ed il relativo stato di riparto, potrà altresì disporre il pagamento in un'unica soluzione, o stabilire un'idonea rateizzazione indicando il numero delle rate, l'importo corrispondente, la relativa scadenza; in difetto, rientra nei poteri dell'amministratore stabilire le scadenze e la percentuale sulla somma complessiva a carico di ciascun partecipante, tenendo conto che le spese di gestione vengono effettuate nel tempo, di volta in volta che se ne ravvisa la necessità (bollette della luce, dell'acqua, del gas, ecc.) o ne viene rivendicata la richiesta da parte di terzi (si pensi al pagamento delle fatture del fornitore del gasolio per il servizio di riscaldamento). Per completezza, va rilevato che la prescrizione del credito nei confronti di ciascun condomino inizia a decorrere soltanto dall'approvazione della deliberazione di approvazione ripartizione delle spese e non dall'esercizio di bilancio (Cass. II, n. 11981/1992); in particolare, i pagamenti periodici relativi alle spese fisse di manutenzione del fabbricato – ad esempio, quelle di pulizia – attengono all'obbligazione del singolo nei confronti della collettività condominiale e rientrano nella previsione dell'art. 2948, n. 4), c.c., e quindi sono assoggettati alla prescrizione breve quinquennale (Cass. II, n. 12596/2002); tali principi sono stati ribaditi, di recente, dai giudici di legittimità (Cass. II, n. 4489/2014), secondo i quali le spese condominiali hanno natura periodica, sicché il relativo credito è soggetto a prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 4, c.c., con decorrenza dalla delibera di approvazione del rendiconto e dello stato di riparto, costituente il titolo nei confronti del singolo condomino. Va dato atto che tale ricostruzione ha suscitato perplessità in parte della dottrina (Izzo 2006, 2801; Scalettaris, 314). A questo punto, riguardo soprattutto ai creditori, è lecito chiedersi da quando il condomino può intendersi «moroso», ossia se dal momento di esigibilità di quella spesa derivante dal vincolo obbligatorio contratto con il terzo, o se assuma rilievo, anche nei confronti del terzo, l'ultrasemestralità della mora nel pagamento, come ai fini della sospensione dalla fruizione dei servizi comuni (art. 63, comma 3, disp. att. c.c.) o dell'obbligo di agire per la riscossione dell'amministratore (art. 1129, comma 9, c.c.). Sul punto, va considerato – v. supra – che il debito per le spese condominiali è soggetto alle generali regole delle obbligazioni pecuniarie, contenute negli art. 1182, comma 3, e 1277, comma 1, c.c., per le quali le obbligazioni aventi per oggetto somme di danaro devono adempiersi al domicilio del creditore e con moneta di corso legale (salva l'applicabilità dell'art. 15, comma 4, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla l. n. 221/2012, che impone anche all'amministratore condominiale, in quanto soggetto che effettua attività di prestazione di servizi professionali, di accettare altresì pagamenti effettuati attraverso carte di debito). In quest'ordine di concetti, nell'esercizio dei suoi poteri di rappresentanza, compresi quelli correlati alla gestione amministrativa del condominio, quale, appunto, la riscossione dei contributi, l'amministratore è da reputarsi domiciliato nel luogo o ufficio a ciò specificamente destinato nell'àmbito dell'edificio in condominio; in difetto, il domicilio del condominio, che non ha una sua sede in senso, nel senso previsto dall'art. 46 c.c., coincide con quello della persona fisica dell'amministratore che lo rappresenta (Trib. Salerno 8 giugno 2010). Ai fini dell'applicabilità dell'art. 1182, comma 3, c.c., occorre convenire sulla premessa che l'obbligazione di pagamento delle spese condominiali è un'obbligazione «portabile», in quanto ha per oggetto una somma di danaro già determinata nel suo ammontare, o comunque determinabile in base ad un semplice calcolo aritmetico, sicché la mora del singolo condomino debitore si determina, ai sensi dell'art. 1219, comma 2, n. 3), c.c., alla scadenza del termine in cui il pagamento deve essere eseguito (mora ex re). Ulteriore interrogativo è fino a quando il «condomino moroso» rimane «moroso»: cioè cosa avviene se, comunicati dall'amministratore al creditore i dati del condomino a quella data moroso, quest'ultimo provveda di seguito a pagare nelle mani del primo le quote arretrate quando, semmai, il creditore abbia ormai intrapreso la sua azione diretta verso l'originario inadempiente. È, altresì, controverso come sia da qualificare («moroso», cioè, o «obbligato in regola con i pagamenti») il partecipante che avesse versato direttamente nelle mani del creditore del condominio, seppur privo di titolo esecutivo, la sua quota di contribuzione alle spese; il suddetto partecipante certamente è ancora in mora nel pagamento dei contributi condominiali, eppure ha soddisfatto quale debito pro quota che alcuni sostengono lo leghi direttamente al terzo creditore. In proposito, si è ritenuto (Cass. VIII, n. 3636/2014) che il condominio si pone, verso i terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei condomini, attinenti alle parti comuni, sicché l'amministratore è rappresentante necessario della collettività dei partecipanti, sia quale assuntore degli obblighi per la conservazione delle cose comuni, sia quale referente dei relativi pagamenti, conseguendone che non è idoneo ad estinguere il debito pro quota il pagamento eseguito dal condomino direttamente a mani del creditore del condominio, se tale creditore non è munito di titolo esecutivo verso lo stesso singolo partecipante; nella stessa ottica, sul presupposto che la deliberazione di approvazione delle spese, adottata dall'assemblea e divenuta inoppugnabile, fa sorgere l'obbligo dei condomini di pagare al condominio i contributi dovuti, rimanendo indipendenti l'obbligazione del singolo partecipante verso il condominio e le vicende delle partite debitorie del condominio verso i suoi creditori, si è affermato (Cass. II, n. 2049/2013) che il condomino non può ritardare il pagamento delle rate di spesa, in attesa dell'evolversi delle relazioni contrattuali del condominio, così riversando sugli altri condomini gli oneri del proprio ritardo nell'adempimento, né può dedurre che il pagamento sia stato effettuato direttamente al terzo, in quanto ciò altererebbe la gestione complessiva del condominio, ma deve adempiere all'obbligazione verso quest'ultimo, salva l'insorgenza, in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso nei confronti della gestione condominiale, ove residuino avanzi di cassa per mancati esborsi o per la risoluzione dei contratti precedentemente stipulati. Al riguardo, decidendo una fattispecie particolare, si è sottolineato (Cass. VI/II, n. 13234/2017) che il condominio, non partecipe ed ignaro dell'accordo simulatorio intervenuto tra un condomino e l'ex amministratore, ove deduca la simulazione delle quietanze relative all'avvenuto pagamento degli oneri condominiali è da considerarsi “terzo” rispetto a quell'accordo, con la conseguenza che può fornire la prova della simulazione “senza limiti”, ai sensi del'art. 1417 c.c., e, quindi, sia a mezzo di testimoni, sia tramite presunzioni, dovendosi, inoltre, escludere che, in dipendenza della natura di confessione stragiudiziale della quietanza, possano valere, riguardo alla sua posizione, i limiti di impugnativa della confessione stabiliti dall'art. 2732 c.c., che trovano applicazione esclusivamente nei rapporti fra il mandatario ed il preteso simulato acquirente. In ogni caso, non potrebbe affermarsi che la condizione di morosità del condomino, convenuto dal creditore senza sobbarcarsi la preventiva escussione degli altri morosi, debba sussistere soltanto al momento dell'introduzione del giudizio, incidendo essa, piuttosto, sul diritto del terzo ad ottenere una sentenza di condanna, sicché è indispensabile che la stessa permanga nel momento in cui la lite viene decisa (Scarpa, in Celeste – Scarpa 2014, 351). Momento di insorgenza del debitoTra le questioni più rilevanti nell'àmbito del peculiare obbligo di pagamento dei contributi condominiali – insorte soprattutto riguardo alla vendita medio tempore dell'unità immobiliare sita nello stabile (v. infra) – va menzionata quella dell'individuazione del momento di insorgenza dell'obbligo di contribuzione alle spese condominiali, e quindi, del soggetto tenutovi – condomino alienante o acquirente – nell'ipotesi di trasferimento di proprietà dell'appartamento (si pensi all'imputazione delle ingenti spese necessarie per il restauro della facciata dell'edificio condominiale, spese che vengono deliberate in un dato momento e la cui pratica attuazione viene differita nel tempo, oppure lavori effettuati in un dato momento ed il relativo consuntivo approvato successivamente, sicché, mutato il soggetto titolare della porzione dello stabile condominiale, va individuato su chi incombe il relativo onere contributivo). Resta inteso che l'alienante e l'acquirente possono sempre liberamente pattuire, nel contratto di compravendita di un appartamento posto in un edificio in condominio, su quale delle due parti sia destinato a ricadere l'onere per spese comuni deliberate ed ancora da eseguire. Sul punto, si registra una diversità di opinioni sul versante dottrinale (tra i contributi sull'argomento, si segnalano: Bordolli 2012, 422; Buttafava, 196; Carrato, 22; Del Chicca, 255; Monegat, 52; Nucera, 60; Santarsiere 2013, 784; Scarpa 2009, 36; Torroni, 1407; Valenti, 398). Ma anche la giurisprudenza ha registrato opinioni discordi. Una parte ha identificato tale momento con la deliberazione assembleare che approva la spesa e non ritiene, quindi, che l'obbligo dei condomini di contribuire al pagamento delle spese condominiali sorga a seguito della successiva deliberazione di ripartizione, volta soltanto a rendere liquido un debito preesistente e che può anche mancare ove esistano tabelle millesimali, per cui l'individuazione delle somme concretamente dovute dai singoli condomini è il frutto di una semplice operazione matematica (Cass. n. 15288/2005; Cass. II, n. 981/1998; Cass. II, n. 9366/1996); secondo questo orientamento, quindi, nel caso di alienazione di un appartamento, obbligato al pagamento dei contributi è il proprietario dell'unità immobiliare nel momento in cui la spesa viene deliberata; in quest'ordine di concetti, in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, qualora l'approvazione della deliberazione di esecuzione dei lavori di straordinaria manutenzione sopravvenga soltanto successivamente alla stipula della vendita, l'obbligo del pagamento delle relative quote condominiali incombe sull'acquirente, non rilevando l'esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria adottata anteriormente a tale stipula (Cass. II, n. 10235/2013); in senso conforme, v. Cass. II, n. 18793/2020, ribadendo che, ai fini dell'insorgenza del debito di contribuzione per le spese di manutenzione straordinaria di un edificio condominiale, deve farsi riferimento all'approvazione della delibera assembleare che determini l'oggetto dell'appalto da stipulare con l'impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi e il prezzo dei lavori, fissando gli elementi costitutivi fondamentali dell'opera nella loro consistenza quantitativa e qualitativa). Un altro filone giurisprudenziale reputa, invece, decisivo il momento della concreta attuazione dell'attività comportante la spesa, piuttosto che quello della preventiva approvazione e ripartizione della stessa tra i condomini, avente funzione meramente autorizzativa del compimento di una determinata attività gestionale concretamente compiuta da parte dell'amministratore e rendendo liquido un debito di cui in sede di riparto viene determinata la quota a carico di ciascun condomino (Cass. II, 23345/2008, Cass. II, n. 6323/2003; Cass. II, n. 857/2000; Cass. II, n. 4393/1997; Cass. II, n. 4467/1988); peraltro, la correlazione con il momento in cui si rende necessario eseguire i lavori per la conservazione delle parti comuni si giustifica anche poiché, in tal modo, si determina un incremento di valore del singolo appartamento, connesso all'incremento di valore dell'intero complesso immobiliare; ne derivava che, nel caso di vendita di un appartamento sito in un edificio soggetto al regime del condominio, obbligato al pagamento delle spese era il proprietario nel momento in cui vengono eseguiti i lavori (v., in particolare, Cass. II., n. 15309/2011, secondo cui, in caso di alienazione di un immobile di proprietà esclusiva in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione per riparare un danno già cagionato ad un singolo condomino, eseguiti successivamente alla compravendita, al fine dell'identificazione del soggetto obbligato alla contribuzione alle spese condominiali, deve considerarsi che l'accertamento stesso dell'emergenza conservativa o emendativa di danni a terzi, compiuto dal condominio, determina l'insorgenza dell'obbligo conservativo in capo a tutti i condomini, e pone l'eventuale successiva approvazione delle relative spese in una prospettiva meramente esecutiva ed esterna rispetto alla già compiuta individuazione della persona dell'obbligato). In una posizione intermedia, si pone un'interessante pronuncia dei giudici di legittimità (Cass. II, n. 24654/2010), ad avviso della quale la soluzione al suddetto quesito di diritto dipende, invece, dalla diversa origine della spesa alla quale il condomino deve contribuire. Invero, può trattarsi: a) di spesa necessaria alla manutenzione ordinaria, o al godimento delle parti comuni dell'edificio, o alla prestazione di servizi nell'interesse comune, oppure b) di spesa attinente a lavori che comportino un'innovazione o che, seppure diretti alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposti da una nuova normativa, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente alla manutenzione ordinaria dell'edificio. Nel primo caso, la nascita dell'obbligazione coincide con il compimento effettivo dell'attività gestionale mirante alla manutenzione, al godimento delle parti comuni dell'edificio o alla prestazione di servizi nell'interesse comune; l'obbligo insorge, ex lege, non appena si compia l'intervento nel nome di un'esigenza collettiva apprezzata dall'organo (l'amministratore), nelle cui attribuzioni rientra appunto quella di «erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni» (art. 1130, n. 3, c.c.). Diversa è, invece, per le opere di manutenzione straordinaria e per le innovazioni, le quali devono essere preventivamente determinate dall'assemblea nella loro quantità e qualità nonché nell'importo degli oneri che ne conseguono: la deliberazione condominiale che dispone l'esecuzione degli interventi assume qui valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino; in tal caso, l'obbligo di contribuire alle spese discende – non dall'esercizio della funzione amministrativa rimessa all'amministratore nel quadro delle appostazioni di somme contenute nel bilancio preventivo, ma – direttamente dalla deliberazioni dell'assemblea. Ne consegue, ad esempio, che, in caso di vendita di un'unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, o ristrutturazione oppure innovazioni, in mancanza di accordo tra le parti, nei rapporti interni tra alienante ed acquirente, è tenuto a sopportarne i relativi costi chi era proprietario al momento della deliberazione dell'assemblea, sicché, ove tali spese siano state decise prima della stipulazione del trasferimento dell'appartamento, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che tali opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, e l'acquirente ha diritto a rivalersi, nei confronti del proprio dante causa, di quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva di cui all'art. 63 disp. att. c.c. (tra le recenti pronunce di merito, che si pongono sul solco del sopra delineato orientamento, v. Trib. Roma 29 ottobre 2018). Recentemente - sia pure riguardo a fattispecie sottoposte ratione temporis al regime anteriore alla l. n. 220/2012 - i magistrati di Piazza Cavour hanno statuito che, in tema di riparto delle spese condominiali concernenti lavori di manutenzione straordinaria sulle parti comuni (nella specie, alla facciata dell'edificio), laddove, successivamente alla deliberazione assembleare che abbia disposto l'esecuzione di tali interventi, sia venduta un'unità immobiliare sita nel condominio, i costi dei lavori gravano – secondo un criterio rilevante anche nei rapporti interni tra compratore e venditore, che non si siano diversamente accordati tra di loro alla luce di patti, comunque inopponibili al condominio – su chi era proprietario dell'immobile compravenduto al momento dell'approvazione di detta deliberazione, la quale ha valore costitutivo della relativa obbligazione (Cass. II, n. 11199/2021, con conseguente diritto dell'acquirente a rivalersi nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva ex art. 63 disp. att. c.c.); né rileva, in senso contrario, che la vendita sia avvenuta prima dell'approvazione di tutti gli stati di ripartizione dei lavori, o prima che il condomino che aveva approvato la suddetta deliberazione abbia assolto integralmente ai propri oneri verso il condominio, trattandosi di circostanze ostative unicamente all'emissione, nei confronti dell'alienante – che non è più condomino – di decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c., ma non estintiva del debito originario del cedente, che rimane azionabile nei suoi confronti in sede di processo di cognizione o di ingiunzione ordinaria (Cass. VI, n. 15547/2017). In termini generali, si è, di recente, ribadito (Cass. II, n. 21094/2023) che l'obbligo del condomino di contribuire alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, nonché per la prestazione dei servizi nell'interesse comune, sorge già nel momento del compimento dell'attività di gestione (e dunque nei confronti di chi sia condomino in tale epoca), e non invece nel momento successivo in cui le stesse spese siano poi approvate e ripartite in sede di consuntivo; quanto, invece, alle spese per l'esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione delle parti comuni, esse gravano su chi sia condomino al momento dell'approvazione delle delibere che abbiano approvato l'intervento (resta inteso, in generale, ad avviso di Cass. II, n. 5704/2024, che l'onere della prova circa l'individuazione del soggetto obbligato al pagamento degli oneri impagati relativi ad un immobile fatto oggetto di vicende traslative - vendita, cessione o donazione - nel periodo di maturazione della morosità, spetta al condominio medesimo, incombendo su colui che nega tale qualità, ove la pretesa creditoria venga esercitata nei suoi confronti, la prova circa eventuali fatti modificativi o estintivi escludenti la sua responsabilità ) . . Affrontando una peculiare fattispecie, gli stessi giudici di legittimità (Cass. II, n. 20136/2017) hanno chiarito che l'iniziativa contrattuale dell'amministratore che, senza previa approvazione o successiva ratifica dell'assemblea, disponga l'esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell'edificio condominiale e conferisca altresì ad un professionista legale l'incarico di assistenza per la redazione del relativo contratto di appalto, non determina l'insorgenza di alcun obbligo di contribuzione dei condomini al riguardo, non trovando applicazione il principio secondo cui l'atto compiuto, benché irregolarmente, dall'organo di una società resta valido nei confronti dei terzi che abbiano ragionevolmente fatto affidamento sull'operato e sui poteri dello stesso, giacché i poteri dell'amministratore del condominio e dell'assemblea sono delineati con precisione dagli artt. 1130 e 1335 c.c., che limitano le attribuzioni del primo all'ordinaria amministrazione, mentre riservano alla seconda le decisioni in materia di amministrazione straordinaria; né il terzo può invocare l'eventuale carattere urgente della prestazione commissionatagli dall'amministratore, valendo tale presupposto a fondare, ex art. 1135, ultimo comma, c.c., il diritto dell'amministratore al rimborso selle spese nell'ambito interno al rapporto di mandato (nel caso concreto, si era confermata la sentenza di merito, che aveva ritenuto inopponibile al condominio il contratto con cui l'amministratore aveva autonomamente conferito ad un legale il compito di assistenza nella redazione di un contratto di appalto per lavori di manutenzione straordinaria, dell'importo di oltre duecentomila euro, determinati da un'ordinanza comunale impositiva di lavori urgenti alla facciata dell'edificio). Nella medesima prospettiva, si pone un'altra revente pronuncia del Supremo Collegio (Cass. II, n. 2807/2017), secondo cui, qualora l'amministratore, avvalendosi dei poteri di cui all'art. 1135, comma 2, c.c., abbia disposto, in assenza di previa delibera assembleare, lavori di straordinaria amministrazione, la relativa obbligazione è riferibile al condominio ove l'amministratore ne abbia speso il nome e quei lavori siano caratterizzati dall'urgenza, mentre, in mancanza di quest'ultimo requisito, non è configurabile alcun diritto di rivalsa o regresso del condominio medesimo, atteso che il relativo rapporto obbligatorio non gli è riferibile, trattandosi di atto posto in essere dell'amministratore al di fuori delle sue attribuzioni). Procedimento monitorio e giudizio ordinarioIl codice civile, accanto all'azione nelle forme ordinarie, nell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c. – inalterato sul punto anche a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 220/2012 – prevede che, per la riscossione dei contributi condominiali, l'amministratore possa ottenere decreto ingiuntivo, immediatamente esecutivo nonostante opposizione, in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea. Come l'amministratore è legittimato a promuovere il procedimento monitorio, così lo è per resistere all'opposizione al decreto ingiuntivo promossa dal condomino, e parimenti può impugnare la sentenza conclusiva di tale giudizio (in argomento, v., di recente, Cass. II, n. 16260/2016, a parere della quale l'amministratore, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea, può proporre opposizione a decreto ingiuntivo, nonché impugnare la decisione del giudice di primo grado, per tutte le controversie che rientrino nell'àmbito delle sue attribuzioni ex art. 1130 c.c., come quelle aventi ad oggetto il pagamento preteso nei confronti del condominio dal terzo creditore in adempimento di un'obbligazione assunta dal medesimo amministratore per conto dei partecipanti; cui adde Cass. II, n. 12622/2010). Al contempo, si è, di recente, precisato (Cass. VI/II, n. 15567/2018) che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo le parti legittimate possono essere soltanto colui il quale ha proposto la domanda di ingiunzione e colui contro cui tale domanda è diretta (nella specie, la Suprema Corte ha escluso la legittimazione dei singoli condomini a proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso nei confronti del condminio in una controversia relativa alla gestione di un servizio svolto nell'interesse comune). Nella stessa lunghezza d'onda, si pone un'altra recente decisione del Supremo Collegio (Cass. II, n. 1208/2017), ad avviso della quale la legittimazione ad agire per il pagamento degli oneri condominiali, nonché a proporre l'eventuale impugnazione, spetta all'amministratore e non anche ai singoli condomini, poiché il principio per cui l'esistenza dell'organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, né di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall'amministratore, non trova applicazione nelle controversie aventi ad oggetto non già un diritto comune, ma la sua gestione, ovvero l'esazione delle somme a tal fine dovute da ciascun condomino, siccome promosse per soddisfare un interesse direttamente collettivo, senza correlazione immediata con quello esclusivo di uno o più partecipanti. Si è voluto così facilitare l'ordinaria gestione del condominio, che potrebbe risultare difficoltosa se si dovesse attendere l'esito di un ordinario giudizio di cognizione, e che potrebbe essere nel frattempo assicurata soltanto attraverso le anticipazioni da parte dell'amministratore o dei condomini puntuali nei relativi pagamenti (sul versante dottrinale, Celeste 2011, 68; Santersiere 2008, 385; Redivo, 614). La provvisoria esecuzione di cui sopra consente, dunque, all'amministratore di agire rapidamente per la riscossione dei contributi e fornisce un titolo per l'iscrizione di ipoteca legale sull'appartamento del condomino moroso, evitando il pericolo di perdere la garanzia immobiliare del credito in caso di vendita successiva dell'appartamento di proprietà individuale. La norma dell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c. conferisce al verbale di deliberazione di un'assemblea condominiale attinente al predetto stato di ripartizione dei contributi, non già la forza di titolo esecutivo (Cass. II, n. 1588/1972), ma un valore probatorio privilegiato – corrispondente a quello dei documenti esemplificativamente elencati nell'art. 642, comma 1, c.p.c. – il quale vincola, su domanda, il giudice dell'ingiunzione alla concessione della clausola di immediata esecutività (Cass. II, n. 8734/1993). Resta inteso che, qualora il condomino opponente al decreto ingiuntivo ex art. 63 disp. att. c.c. per il pagamento di contributi condominiali contesti la sussistenza del debito e la documentazione posta a fondamento dell'ingiunzione – ad esempio, verbale assembleare – incombe all'amministratore del condominio, in quanto creditore e attore in senso sostanziale, l'onere di dimostrare i fatti costitutivi del credito con la produzione di tutti gli opportuni documenti (Cass. II, n. 7569/1994). D'altronde, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo che sia stato emesso nei confronti di un condomino, ancorché in difetto delle condizioni previste dall'art. 63 disp. att. c.c. – sulla base cioè dello stato di ripartizione della spesa approvato dall'assemblea – si apre un autonomo giudizio di cognizione che si svolge secondo le norme del procedimento ordinario con la conseguenza che il giudice è investito del potere-dovere di statuire nel merito della pretesa fatta valere dal condominio (Cass. II, n. 6853/2001). La peculiarità qui sta nel fatto che la dichiarazione della provvisoria esecutività è vincolante per il giudice ed avviene in base ad un titolo non proveniente dal debitore (si pensi alla cambiale), ma dal creditore, e cioè il condominio; in ogni caso, l'autorizzazione all'inizio dell'esecuzione senza l'osservanza del termine di cui all'art. 482 c.p.c. va, invece, appositamente concessa dal giudice che emette il decreto ingiuntivo, sempre che sussista il «pericolo nel ritardo» (Cass. II, n. 1161/1979). Gli stessi giudici della Consulta (Corte cost.n. 40/1988) hanno, però, escluso il contrasto di tale disposizione con l'art. 24 Cost., in quanto la previsione di un mezzo di riscossione rapido ed incisivo per le spese comuni rappresenta una risposta razionale rispetto alle peculiari esigenze della gestione condominiale, nella quale è necessario che l'amministratore possa tempestivamente disporre dei fondi destinati alle spese comuni (ripartite con deliberazione dell'assemblea), né ha l'effetto di rendere inammissibile l'opposizione proposta dal condomino, e pertanto non si traduce in una negazione o in un indebito condizionamento del diritto del singolo di agire in giudizio per contestare l'an od il quantum delle spese condominiali (v. anche Corte cost. n. 111/1992, con la quale lo stesso giudice delle leggi ha escluso che, nei confronti dei condomini inadempienti, si sia riservato un trattamento sfavorevole rispetto alle altre categorie di debitori). Resta fermo che il decreto ingiuntivo ex art. 63 disp. att. c.c. per la riscossione dei contributi può essere richiesto e pronunciato unicamente nei confronti di coloro che siano condomini al momento della proposizione del ricorso monitorio: colui che, infatti, non abbia la qualità di condomino, non è legittimato a partecipare alle assemblee e, quindi, far valere le proprie ragioni in sede di approvazione e ripartizione delle spese (Cass. II, n. 23686/2009; Cass. II, n. 23345/2008; resta inteso, ad avviso di Cass. II, n. 10081/2013, che, in presenza di una deliberazione di ripartizione dei contributi approvata dall'assemblea, il singolo condomino non può sottrarsi al pagamento delle spese a lui spettanti deducendo la mera mancanza formale delle tabelle millesimali, dovendo comunque opporsi al medesimo riparto mediante contestazione dei criteri seguiti). Presupposti per il decreto ingiuntivoSecondo l'interpretazione che pare preferibile, la portata della disposizione di cui all'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., non accennando ad alcuna distinzione, sembra possa comprendere «tutte» quelle ipotesi in cui l'obbligo dei condomini di pagare i contributi condominiali possa derivare dal bilancio preventivo, dal bilancio consuntivo, o attinenti ad un esercizio pregresso (Cass. II, n. 184/1973; Cass. II, n. 1588/1972; Cass. II, n. 993/1967); risulta, invece, criticabile la prassi di presentare, a sostegno dell'istanza di decreto ingiuntivo piani di riparto elaborati dall'amministratore, seppure con riferimento a spese approvate dall'assemblea con successiva applicazione delle tabelle millesimali. Resta inteso che, qualora le tabelle millesimali allegate al regolamento condominiale contrattuale non abbiano formato oggetto di modifica con il consenso unanime di tutti i condomini, oppure con sentenza del giudice ex art. 69 disp. att. c.c., nonostante le variazioni di consistenza o di destinazione delle singole unità immobiliari, la ripartizione delle spese condominiali va effettuata in conformità alle tabelle stesse, salva la facoltà del condomino, richiesto del pagamento della quota di pertinenza, di proporre domanda, anche riconvenzionale, di revisione o modifica delle tabelle ai sensi del citato art. 69 nei confronti di tutti i condomini (Cass. II, n. 8520/2017). È ovvio che si farà riferimento al «preventivo» soltanto fino a che l'esercizio cui tale spese attengono non sia terminato, dovendo altrimenti adire il giudice in base al «consuntivo» della gestione annuale (Cass. II, n. 3302/1993; Cass. II, n. 24299/2008, ha puntualizzato che, nelle controversie da decidere secondo equità, uno dei principi informatori della materia condominiale deve ritenersi quello relativo alla legittimità della riscossione dei contributi condominiali da parte dell'amministratore, sulla base del bilancio preventivo regolarmente approvato sino a quando questo non sia stato sostituito dal bilancio consuntivo, cassando la sentenza del giudice di pace, pronunciata secondo equità, per essersi fondata sull'opposto principio dell'illegittimità della riscossione dei contributi condominiali, ripartiti sulla base del bilancio preventivo, prima della scadenza del relativo esercizio; in proposito, Cass. VI/II, n. 21650/2013 ha precisato che la deliberazione assembleare di approvazione del bilancio preventivo di un esercizio annuale, avendo carattere generale e rivestendo una specifica finalità amministrativo-contabile, non può essere desunta, per implicito, dalla successiva deliberazione assembleare che differisca l'approvazione del bilancio consuntivo dello stesso esercizio, sia pure testualmente motivata con la “speranza” che i condomini morosi provvedessero, nel frattempo, al versamento delle quote). Sul punto, si è, di recente, sottolineato (Cass. II, n. 454/2017) che l'erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e di quelle relative ai servizi comuni essenziali non richiede la preventiva approvazione dell'assemblea, trattandosi di esborsi cui l'amministratore provvede in base ai suoi poteri e non come esecutore delle deliberazione dell'assemblea, mentre la loro approvazione è, invece, richiesta in sede di consuntivo, giacché solo con questo si accertano le spese e si approva lo stato di ripartizione definitivo, che legittima l'amministratore ad agire contro i condomini morosi per il recupero delle quote poste a loro carico (si è aggiunto, in argomento – sul presupposto che l'assemblea condominiale, stante il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciutele dall'art. 1135 c.c., può deliberare, quale organo destinato ad esprimere la volontà collettiva dei partecipanti, qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, sempreché non si tratti di provvedimenti volti a perseguire una finalità extracondominiale – che ben può essere deliberata la nomina di una commissione di condomini con l'incarico di esaminare i preventivi di spesa per l'esecuzione di lavori, le cui decisioni sono vincolanti per tutti i condomini, anche dissenzienti, solamente in quanto rimesse all'approvazione, con le maggioranze prescritte, dell'assemblea, le cui funzioni non sono delegabili ad un gruppo di condomini). Non operando – come visto – l'art. 63 disp. att. c.c. nessuna distinzione, l'amministratore può ottenere decreto di ingiunzione anche per la riscossione di contributi relativi a spese straordinarie, in base a stato di ripartizione approvato dall'assemblea o determinato dall'amministratore su delega dell'assemblea secondo criteri prefissati (Cass. II, n. 27292/2005). In relazione a tali possibili fonti di obbligo contributivo dei condomini, il legislatore ha inteso stabilire che, in tanto l'amministratore può ottenere un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo nei confronti del condomino moroso, in quanto l'assemblea, oltre ad approvare i predetti bilanci o le predette spese, abbia anche approvato il relativo stato di ripartizione, e cioè la distinzione delle stesse nei vari «capitoli» e la loro suddivisione tra i condomini. In quest'ottica, non può essere richiesta, ad esempio, la differenza tra il preventivo approvato e gli aumenti nel frattempo intervenuti, mentre, in difetto di riparto spese debitamente approvato, si dovrà ricorrere all'azione ordinaria (Cass. II, n. 4638/2001; Cass. II, n. 4393/1997; Cass. II, n. 1789/1993; Cass. II, n. 1836/1979; in argomento, di recente, Cass. II, n. 4672/2017, ha avuto modo di precisare che, in tema di riscossione degli oneri condominiali, non costituisce motivo di revoca dell'ingiunzione, ottenuta sulla base della deliberazione di approvazione di una spesa, la mancata approvazione del relativo stato di riparto, atteso che le spese deliberate dall'assemblea si ripartiscono tra i condomini secondo le tabelle millesimali, ai sensi dell'art. 1123 c.c., cosicchè ricorrono le condizioni di liquidità ed esigibilità del credito che consentono al condominio di richiederne il pagamento con procedura monitoria nei confronti del singolo condomino). Sul presupposto che la deliberazione di approvazione dello stato di ripartizione delle spese, sulla cui base l'amministratore può ottenere ingiunzione di pagamento immediatamente esecutiva, giusta l'art. 63 disp. att. c.c., deve necessariamente precedere la proposizione del ricorso ex art. 633 c.p.c., si è chiarito (Cass. II, n. 24957/2016) che, qualora, nella pendenza del giudizio di opposizione, detta deliberazione di approvazione sia sostituita con altra, adottata ai sensi dell'art. 2377 c.c., attuale ultimo comma, la sanatoria che ne discende consegue non già ad una convalida, con effetti retroattivi, dell'originaria deliberazione ma ad una rinnovazione di questa, inidonea – per ciò stesso – ad essere sottesa a quel decreto ingiuntivo, siccome formalmente assunta successivamente alla sua pronuncia. Nulla esclude che, in attesa dell'approvazione del bilancio preventivo, l'assemblea possa autorizzare l'amministratore a richiedere ai condomini pagamenti provvisori, con riserva di successivo conguaglio sulla base del bilancio approvato e tenuto conto dei valori millesimali attribuiti a ciascuna proprietà individuale (Cass. II, n. 4679/2017; Cass. II, n. 4531/2003; v., però, Cass. II, n. 1439/2015, secondo cui la deliberazione con cui l'assemblea, in mancanza di tabelle millesimali, adotti un criterio provvisorio di ripartizione delle spese tra i condomini, nell'esercizio delle attribuzioni di cui all'art. 1135, nn. 2 e 3, c.c. è annullabile, non incidendo comunque sui criteri generali dettati dall'art. 1123 c.c., con la conseguenza che la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza di trenta giorni previsto dall'art. 1137 c.c.). Stante che l'art. 63 disp. att. c.c. parla solo di «contributi» – ossia le quote delle spese condominiali gravanti sui singoli in genere contemplate dagli artt. 1123 ss. c.c. – trattandosi di norma eccezionale, è dubbio se si possa azionare il procedimento monitorio munito della clausola anche per il pagamento degli interessi legali sulla somma dovuta, o quelli maggiori previsti dal regolamento condominiale o deliberati ad hoc dalla deliberazione assembleare che ha approvato lo stato di riparto e stabilito le modalità di pagamento (a maggior ragione, deve escludersi la possibilità di chiedere giudizialmente la rivalutazione monetaria); come è dubbio che si possa azionare la via monitoria per ottenere il pagamento delle sanzioni previste per la violazione del regolamento di condominio di cui all'art. 70 disp. att. c.c. Comunque, deve ritenersi legittima la deliberazione dell'assemblea condominiale che addebiti integralmente al condomino moroso le spese legali liquidate a suo carico nel decreto ingiuntivo emesso in favore del condominio, ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c., trattandosi di atto ricognitivo di un provvedimento giudiziale provvisoriamente esecutivo (Cass. VI/II, n. 751/2016). In ordine a quali documenti l'amministratore debba allegare al ricorso per ottenere la clausola ex art. 63 disp. att. c.c. si rinvengono diverse soluzioni: oltre la produzione di copia del verbale di approvazione della spesa (firmato, di regola, dal presidente e dal segretario della relativa riunione) nonché dello stato di ripartizione con la contribuzione a carico di ciascun partecipante – o quantomeno, un estratto della stessa indicante l'onere a carico del condomino moroso – si discute se tale copia debba essere autenticata dal notaio, o vistata dall'associazione della proprietà edilizia, oppure munita della sottoscrizione dall'amministratore. Le tre soluzioni lasciano perplessi: la prima, perché la fattispecie in esame non rientra tra quelle previste dall'art. 634 c.p.c. (relative alle scritture contabili), la seconda, perché l'associazione è meramente privatistica, la terza, perché pleonastica; appare preferibile – e più semplicemente – la produzione di copia semplice dei predetti documenti, in quanto sarà poi il debitore-condomino a confrontare gli stessi con quelli nelle sue mani e da lui stesso approvati in sede assembleare. Non è inutile ricordare che copia del riparto (su cui si basa il decreto ingiuntivo) deve essere inviata dall'amministratore prima della riunione assembleare a tutti i condomini, con un congruo anticipo, al fine di dare agli stessi la possibilità di analizzare i criteri di calcolo, e, nel caso di consuntivo, di prendere visione dei documenti giustificativi di spesa (le c.d. pezze d'appoggio). In un primo momento, la giurisprudenza riteneva che tale controllo era finalizzato all'approvazione del bilancio, senza che era ammessa la possibilità per i condomini di contestare successivamente i provvedimenti adottati dalla maggioranza assembleare; in quest'ottica, una volta che vi era stata l'approvazione del consuntivo, l'amministratore era legittimato ad agire per ottenere il pagamento delle somme risultanti dal bilancio stesso, senza essere ulteriormente tenuto a sottoporre all'esame dei condomini morosi i documenti giustificativi delle spese adottate, espletandosi la relativa verifica solo in sede di approvazione del bilancio (Cass. II, n. 4751/1988). Più di recente, si è, però, affermato che ciascun comproprietario ha la facoltà di richiedere e di ottenere dall'amministratore l'esibizione dei documenti contabili in qualunque tempo, e non soltanto in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell'assemblea, e senza l'onere di specificare le ragioni della richiesta (finalizzata a prendere visione o estrarre copia dai documenti), purché l'esercizio di tale facoltà non risulti di ostacolo all'attività di amministrazione, non sia contraria ai principi di correttezza e non si risolva in un onere economico per il condominio, dovendo i costi relativi alle operazioni compiute gravare esclusivamente sui condomini richiedenti (Cass. II, n. 8460/1998). Peraltro, l'obbligo dell'amministratore di sottoporre, alla fine di ciascun anno, il conto della sua gestione all'approvazione dell'assemblea, può essere assolto senza l'osservanza di particolari formalità – analoghe a quelle previste per i bilanci delle società – essendo a tal fine sufficiente che esso, anche se non redatto in rigorosa forma contabile, contenga gli elementi essenziali occorrenti per rendere intelligibili, ai singoli condomini, le modalità d'impiego dei fondi anticipati dai medesimi per la gestione del condominio, né si richiede che queste voci siano trascritte nel verbale assembleare, o siano oggetto di analitico dibattito ed esame alla stregua della documentazione giustificativa, in quanto rientra nei poteri dell'organo deliberativo la facoltà di procedere sinteticamente all'approvazione, prestando fede ai dati forniti dall'amministratore (v., ex plurimis, Cass. II, n. 3231/1994; Cass. II, n. 5150/1982; Cass. II, n. 3936/1975). Sul punto, la Riforma del 2013 – in quest'ottica di trasparenza della gestione condominiale – ha previsto, da un lato, ai sensi dell'art. 1129, comma 2, c.c., che l'amministratore, all'atto della nomina e ad ogni rinnovo, deve indicare il locale dove si trovano i registri di cui ai nn. 6) e 7) dell'art. 1130 c.c., nonché «i giorni e le ore» in cui ogni interessato, previa richiesta, possa prenderne gratuitamente visione ed ottenere, dietro rimborso della spesa, copia firmata, e, dall'altro, ai sensi dell'art. 1130-bis, comma 1, c.c., che lo stesso amministratore debba consentire ai condomini ed ai titolari di diritti reali o di godimento sulle unità immobiliari di prendere visione dei documenti giustificativi di spesa «in ogni tempo», con possibilità di estrarne copia a proprie spese. Concessione e sospensione della provvisoria esecuzioneNella materia condominiale, si possono verificare ipotesi di provvedimenti monitori che non prevedano la clausola di provvisoria esecuzione. La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, ritenuto ammissibile che l'amministratore possa richiedere un decreto ingiuntivo non provvisoriamente esecutivo per i contributi dovuti da un condomino moroso – non sulla base dello stato di ripartizione approvato dall'assemblea, ma – in base a prospetti mensili delle spese condominiali non contestati (Cass. II, n. 4638/2001; Cass. II, n. 3296/1996; Cass. II, n. 1585/1973); in proposito, si è precisato (Cass. II, n. 8498/2012) che il nuovo amministratore di un condominio, se non autorizzato dai partecipanti alla comunione, non ha il potere di approvare incassi e spese condominiali risultanti da prospetti sintetici consegnatigli dal precedente amministratore e, pertanto, l'accettazione di tali documenti non costituisce prova idonea del debito nei confronti di quest'ultimo da parte dei condomini per l'importo corrispondente al disavanzo tra le rispettive poste contabili, spettando, invece, all'assemblea dei condomini approvare il conto consuntivo, onde confrontarlo con il preventivo ovvero valutare l'opportunità delle spese affrontate d'iniziativa dell'amministratore (nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, si era confermata la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto che la sottoscrizione del verbale di consegna della documentazione, apposta dal nuovo amministratore quand'era già immesso nell'esercizio delle sue funzioni, non integrasse una ricognizione di debito fatta dal condominio in relazione alle anticipazioni di pagamenti ascritte al precedente amministratore e risultanti dalla situazione di cassa registrata); nella stessa prospettiva, si è affermato (Cass. II, n. 10153/2011) che La deliberazione dell'assemblea di condominio che procede all'approvazione del rendiconto consuntivo emesso dall'amministratore ha valore di riconoscimento di debito solo in relazione alle poste passive specificamente indicate; pertanto, ove il rendiconto – che è soggetto al principio di cassa – evidenzi un disavanzo tra le entrate e le uscite, l'approvazione dello stesso non consente di ritenere dimostrato, in via di prova deduttiva, che la differenza sia stata versata dall'amministratore con denaro proprio, poiché la ricognizione di debito richiede un atto di volizione, da parte dell'assemblea, su un oggetto specifico posto all'esame dell'organo collegiale. Inoltre, tale richiesta di decreto ingiuntivo privo della clausola potrebbe essere fondata sul verbale di deliberazione assembleare, contenente l'indicazione delle spese occorrenti per le parti comuni (Cass. II, n. 15017/2000), alla quale acceda una dichiarazione di scienza – confessione – o di volontà – negozio unilaterale recettizio – di quel condomino, relativa ad un saldo debito di precedenti gestioni o della gestione alla quale si riferisce la deliberazione, indipendentemente dall'accettazione del condominio quale parte diretta destinataria (Cass. II, n. 1357/1977; Cass. II, n. 1588/1972); oppure, può succedere che l'amministratore non abbia formulato, nel ricorso monitorio, l'istanza di concessione della provvisoria esecutorietà del relativo decreto, sicché, in analogia con il disposto dell'art. 642, comma 1, c.p.c. – che contempla espressamente che il giudice debba provvedere «su istanza del ricorrente» – nulla osta all'emanazione del predetto decreto, ma privo di clausola. In difetto di uno stato di riparto approvato dall'assemblea, l'amministratore potrà ovviamente agire, ad esempio in base alle bollette mensili, in sede di ordinario processo di cognizione; si propone, altrimenti, la mera allegazione, in uno al verbale assembleare di approvazione, delle tabelle millesimali relative alla particolare spesa deliberata (Triola 2007, 724). In tutte le fattispecie condominiali sopra indicate, vale a dire sia nelle ipotesi di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo che in quelle sprovviste della predetta clausola, si pone per il giudice il problema – molto rilevante agli effetti pratici per quanto sopra detto – di esaminare le istanze, rispettivamente, di sospensione dell'esecuzione medesima ex art. 649 c.p.c., o di concessione della provvisoria esecuzione ai sensi dell'art. 648 c.p.c. Sotto il primo profilo, l'art. 649 c.p.c. prevede che, su istanza dell'opponente, quando ricorrano «gravi motivi», il giudice possa, con ordinanza non impugnabile, sospendere l'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo opposto concessa a norma del precedente art. 642. Non sembra che si possa escludere la possibilità di inibitoria del predetto provvedimento sulla base di un'interpretazione letterale dell'art. 649 c.p.c, che contempla esclusivamente la sospensione della provvisoria esecuzione «concessa a norma dell'art. 642» c.p.c.; l'art. 63 disp. att. c.c. – come sopra rilevato – conferisce al verbale della deliberazione assembleare attinente al predetto stato di riparto un valore probatorio privilegiato, corrispondente a quello dei documenti esemplificativamente elencati dall'art. 642 c.p.c., che vincola, su domanda, il giudice dell'ingiunzione alla concessione della clausola di immediata esecuzione. La questione nasce soprattutto dall'infelice formulazione della norma di cui all'art. 63 citato, e soprattutto dall'espressa previsione dell'esecutività dell'ingiunzione «nonostante opposizione», che potrebbe indurre a ritenere che il legislatore abbia voluto manifestare chiaramente l'intenzione di stabilire la permanenza dell'esecutività del decreto in oggetto per tutto il giudizio di opposizione. In ogni caso, va evidenziato che l'àmbito di applicabilità dell'istituto della sospensione a favore del condomino ingiunto sia, di fatto, circoscritto ad ipotesi sostanzialmente eccezionali. Si deve, infatti, considerare che la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo rappresenta il necessario riflesso del carattere esecutivo della deliberazione assembleare di approvazione dello stato di ripartizione e della sua idoneità a spiegare un'efficacia interinale anche in pendenza del giudizio di impugnazione, sicché sembra doversi escludere che possa pronunciarsi la sospensione della predetta esecutorietà fin quando la deliberazione in oggetto conservi la propria efficacia esecutiva, potendosi ammettere il provvedimento ex art. 649 c.p.c., invece, allorché sia intervenuta l'inibitoria ai sensi dell'art. 1137, comma 3, c.c. della deliberazione sulla quale si fonda il decreto. Inoltre, il riscontro di «gravi motivi» generalmente va individuato in una situazione di rilevante pregiudizio per il condomino ingiunto: in altri termini, non dovrebbero sussistere idonee garanzie, in caso di accoglimento dell'opposizione, che il danno subíto dal debitore possa essere risarcito, situazione questa difficilmente riscontrabile in concreto, stante che la composizione plurisoggettiva del condominio fa presumere un'agevole recuperabilità di eventuali esborsi sostenuti dal condomino in dipendenza della provvisoria esecuzione del decreto opposto. Sotto il secondo profilo, l'art. 648 c.p.c. prevede che il giudice, se l'opposizione al decreto ingiuntivo non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione, possa concedere, con ordinanza non impugnabile, l'esecuzione provvisoria del predetto decreto opposto. Quindi, a seguito dell'opposizione del condomino, che riconosce l'avvenuta prestazione del servizio, ma non dimostra il fatto estintivo della propria obbligazione (cioè, l'avvenuto pagamento della rata in oggetto riferita alla propria quota), sorge il legittimo interesse del condominio-ingiungente, stante la mancanza di «prova scritta», ad ottenere quanto prima, dal giudice dell'opposizione, l'autorizzazione all'esecuzione del monitorio, senza subire ulteriori differimenti ed attendere il definitivo completamento delle allegazioni di controparte. Peraltro, già una prima valutazione della pretesa del condominio, sia pure a cognizione documentale unilaterale, è già stata positivamente eseguita in sede di emissione dell'ingiunzione; il condomino, per paralizzare l'esecuzione provvisoria del decreto, dovrà allegare elementi probatori almeno pari a quelli prodotti contro di lui in sede monitoria; se non lo fa, potrà incorrere nel provvedimento ex art. 648 c.p.c., che andrà concesso tutte le volte in cui, prima di dar corso alla fase istruttoria (con eventuali prove testimoniali e produzioni di ulteriori documenti), l'opposizione non sembrerà accoglibile, mentre, al contrario, andrà negato tutte le volte in cui, in ragione delle prove scritte o di pronta soluzione offerte dall'ingiunto, l'opposizione apparirà, allo stato, fondata. Per completezza sull'argomento, va segnalato che la magistratura di vertice (Cass. III, n. 24629/2015) ha affermato che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo vertente su materie per le quali è obbligatorio l'esperimento della mediazione – la quale scatta allorquando si adottino i summenzionati provvedimenti di cui agli artt. 648 e 649 c.p.c. – grava sul debitore opponente (e non sul creditore opposto) il relativo onere, avendo questi l'interesse all'instaurazione e alla prosecuzione del processo ordinario di cognizione, a pena di improcedibilità dell'opposizione (tuttavia, tale assunto registra una certa sofferenza da parte dei giudici di merito). Profili processuali in ordine alla competenzaRiguardo all'individuazione del giudice competente sia in relazione all'azione proposta nelle forme ordinarie, che al procedimento monitorio, va premesso che la controversia in ordine alla riscossione delle quote condominiali esula dalla sfera di cognizione ratione materiae del giudice di pace (attinente alla misura e modalità d'uso dei servizi condominiali di cui all'art. 7, ultimo comma, n. 2, c.p.c.), restando la competenza sulla stessa regolata secondo gli ordinari criteri ratione valoris, e quindi, con l'istituzione del giudice unico, venuto meno il pretore, la possibilità di concorso verticale di competenza è soltanto tra il predetto giudice onorario ed il tribunale. Né può escludersi l'attuale competenza del giudice di pace in relazione alla limitazione della sua competenza alle cause relative ai beni mobili affermando che i contributi in oggetto riguardano l'edificio condominiale; in altri termini, non appare corretto inquadrare le controversie inerenti la declaratoria di debenza – o di non debenza – dei contributi condominiali sulla base dell'inerenza di dette cause all'immobile onerato dal contributo – quasi una sorta di actio negatoria - e quindi la loro insistenza nell'ambito delle c.d. controversie immobiliari, come tali escluse a contrario dalla competenza (negativa per materia) del giudice di pace di cui all'art. 7, comma 1, c.p.c. (Crescenzi, 237). È vero che si tende a configurare la natura propter rem del predetto contributo, il che importa un'oggettiva connessione tra titolarità del diritto ed obbligazione contributiva, e l'automatico trasferimento del «peso» a carico dei terzi acquirenti dell'unità immobiliare onerata (La Rocca, 191), tuttavia sembra eccessivo escludere la competenza (per valore) del magistrato onorario con riferimento alla controversia relativa a beni (contributi condominiali) avente natura mobile (somme di denaro) solo perché diretta all'attuazione di un obbligo pecuniario che sia collegato con l'immobile (edificio condominiale). D'altronde, lo stesso organo supremo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 21582/2015) ha statuito che il giudice di pace (nei limiti della sua competenza per valore) è competente in ordine alle controversie aventi ad oggetto pretese che abbiano la loro fonte in un rapporto, giuridico o di fatto, riguardante un bene immobile, salvo che la questione proprietaria non sia stata oggetto di un'esplicita richiesta di accertamento incidentale di una delle parti e sempre che tale richiesta non appaia, ictu oculi, alla luce delle evidenze probatorie, infondata e strumentale – siccome formulata in violazione dei principi di lealtà processuale – allo spostamento di competenza dal giudice di prossimità al giudice togato; nello stesso ordine di concetti, si è, più di recente, ribadito (Cass. II, n. 26261/2023) che l e controversie aventi ad oggetto la riscossione dei contributi condominiali rientrano nella competenza del giudice di pace (nei limiti della sua competenza per valore), in quanto, sebbene dirette all'attuazione di un obbligo pecuniario sinallagmaticamente collegato all'immobile, non si apprezzano differenze, n é morfologiche, n é funzionali, tra la “ misura e modalità d'uso dei servizi condominiali ” - materia devoluta alla competenza del giudice di pace dall'art. 7, comma 3, n. 2 ), c.p.c. - e d i relativi contributi. Per completezza, riguardo alla competenza territoriale, il supremo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 20076/2006), risolvendo il contrasto sorto sul punto all'interno dei giudici di legittimità, ha statuito che l'art. 23 c.p.c., il quale introduce un foro speciale esclusivo per le controversie tra condomini, stabilendo che per esse è competente il giudice del luogo in cui si trova l'immobile condominiale, trova applicazione anche alle liti tra condomino ed amministratore in ordine al pagamento dei contributi per l'utilizzazione delle cose comuni, agendo l'amministratore, nell'attività di riscossione, nella sua veste di mandatario con rappresentanza dei singoli condomini (e in tal senso va letta la modifica apportata alla suddetta norma ad opera della l. n. 220/2012); in proposito, si è opportunamente aggiunto che, in ipotesi di decreto ingiuntivo richiesto dall'amministratore di condominio nei confronti di un condomino per la riscossione dei contributi, sussiste la competenza del giudice del luogo in cui si trova l'immobile, ai sensi del citato art. 23, senza che rilevi, al fine di escludere la nullità dell'ingiunzione resa da un diverso giudice, la circostanza che l'intimato, al quale il decreto provvisoriamente esecutivo sia stato notificato unitamente al precetto, abbia dedotto, in sede di opposizione ex art. 645 c.p.c., altresì la consequenziale nullità dello stesso precetto, senza eccepire alcunché rispetto al foro relativo all'esecuzione forzata, determinato, per il distinto procedimento di opposizione, a norma degli artt. 27, comma 1, e 615, comma 1, c.p.c. (Cass. VI/II, n. 10419/2015). Premesso ciò, va operata una distinzione tra giudizi ordinari e procedure monitorie. Per quanto concerne i giudizi ordinari, occorre esaminare separatamente i casi in cui ad iniziare l'azione è l'amministratore, creditore, da quelli in cui l'iniziativa è assunta dal condomino, presunto debitore; nulla esclude, infatti, che l'azione giudiziaria possa essere instaurata dallo stesso condomino che, pervenuta la richiesta da parte dell'amministratore di provvedere al pagamento delle quote di che trattasi, o anche venuto semplicemente a conoscenza dell'addebito a suo carico delle quote stesse, promuova un giudizio in cui, al contrario, si accerti di non essere obbligato ad adempiere. Nella prima ipotesi, l'amministratore, nell'individuare il giudice competente, non può derogare alle norme generali, e, per la relativa determinazione, deve fare riferimento all'ammontare della somma oggetto della domanda: così la competenza è ripartita soltanto tra il giudice di pace (fino a cinquemila euro ex art. 7 c.p.c.) ed il tribunale (importo superiore a tale limite ex art. 9 c.p.c.). Nella seconda ipotesi, in cui la domanda è proposta dal condomino che ritiene di non essere obbligato alla corresponsione di quanto richiestogli – per fatti diversi dalle ipotesi di insussistenza o di già avvenuta estinzione della relativa obbligazione – occorre accertare se, alla base del rifiuto di pagamento, sussista o meno la volontà (anche implicita) di impugnare (o porre comunque in discussione) la deliberazione con la quale l'assemblea ha provveduto alla ripartizione della spesa tra i condomini; il problema, invece, non si pone qualora il condomino opponente non ponga in discussione la deliberazione assembleare con la quale si è provveduto alla ripartizione della spesa totale, ad esempio, quando eccepisca soltanto di aver pagato la quota richiestagli, o nell'ipotesi in cui si limiti a dedurre di non essere il proprietario dell'unità immobiliare cui la quota medesima si riferisce. Più nel dettaglio, riguardo alla domanda di annullamento di una deliberazione relativa alla ripartizione tra i condomini di una spesa, esattamente circoscritta nel suo ammontare, si discute se la competenza per valore si determini – quando non sono in discussione i criteri generali astrattamente stabiliti per la ripartizione delle spese tra i condomini – a norma degli artt. 11 e 14 c.p.c. in base al valore complessivo della somma da ripartire oppure in base al valore della singola quota del condomino che ha assunto l'iniziativa giudiziaria. Per un verso, si è rilevato che l'art. 12, comma 1, c.p.c. – secondo cui il valore delle cause relative all'esistenza, alla validità o alla risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio si determina in base a quella parte del rapporto che sia in contestazione – subisce deroga quando il giudice sia chiamato ad esaminare, con efficacia di giudicato, le questioni relative all'esistenza o alla validità dell'intero rapporto; pertanto, nella controversia promossa da un condomino, che agisca nei confronti di un condominio per sentir dichiarare l'inesistenza del suo obbligo personale di pagare la quota a suo carico della spesa decisa ed approvata in via generale per tutti i condomini dall'assemblea, sull'assunto dell'invalidità della relativa deliberazione per violazione degli artt. 1136 e 1137 c.c., la contestazione deve intendersi estesa necessariamente all'invalidità dell'intero rapporto, il cui valore è, pertanto, quello da prendere in considerazione ai fini della determinazione della competenza, atteso che il thema decidendum non riguarda l'obbligo del singolo condomino, bensì l'intera spesa oggetto della deliberazione, la cui validità non può essere riscontrata solo in via incidentale (Cass. II, n. 22047/2007; Cass. II, n. 21703/2004). Per altro verso, si è sottolineato che, in una controversia tra un condomino ed un condominio avente ad oggetto il criterio di ripartizione di una parte soltanto della complessiva spesa deliberata dall'assemblea, il valore della causa si determina in base all'importo contestato e non all'intero ammontare di esso, perché la decisione non implica una pronuncia, con efficacia di giudicato, sulla validità della deliberazione concernente la voce di spesa nella sua globalità; anche se il condomino agisce per sentir dichiarare l'inesistenza del suo obbligo di pagamento sull'assunto dell'invalidità della deliberazione, occorre porre riguardo al thema decidendum, invece che al quid disputandum, per cui l'accertamento di un rapporto che costituisce la causa petendi della domanda, in quanto attiene a questione pregiudiziale di cui il giudice può conoscere in via incidentale, non influisce sull'interpretazione e qualificazione dell'oggetto della domanda principale e, conseguentemente, sul valore della causa (Cass. II, n. 6363/2010; Cass. II, n. 971/2001). Tali principi hanno trovato una recente puntualizzazione ad opera dei giudici di Piazza Cavour (Cass. II, n. 17278/2011; Cass. II, n. 1201/2010), ad avviso dei quali, ai fini della determinazione della competenza per valore riguardo ad una controversia avente ad oggetto la contestazione del riparto di una spesa deliberata dall'assemblea, occorre distinguere l'ipotesi in cui il condomino agisca per sentir dichiarare l'inesistenza del suo obbligo personale di pagare la quota a suo carico sull'assunto dell'invalidità della deliberazione, da quella in cui il condomino abbia, invece, dedotto per qualsiasi diverso titolo l'insussistenza della propria obbligazione: nel primo caso, la contestazione deve intendersi estesa necessariamente all'invalidità dell'intero rapporto implicato dalla deliberazione ed al valore della stessa deve farsi riferimento ai fini dell'individuazione del giudice competente, giacché il thema decidendum non riguarda l'obbligo del singolo condomino, bensì l'intera spesa oggetto della delibera, la cui validità non può essere riscontrata solo in via incidentale, mentre, nel secondo, il valore della causa va determinato in base al solo importo contestato, perché la decisione non implica una pronuncia sulla validità della deliberazione concernente la voce di spesa nella sua globalità. Per quanto riguarda, poi, la proposizione della domanda nelle forme del procedimento monitorio, va ricordato che l'art. 645, comma 1, c.p.c. prescrive che l'opposizione al decreto ingiuntivo, proposto dal condomino che ritiene di non essere obbligato al relativo pagamento, deve inderogabilmente proporsi davanti all'ufficio giudiziario al quale appartenga il giudice che ha emesso lo stesso decreto; neppure la proposizione, da parte del condomino opponente, di una domanda riconvenzionale che ecceda i limiti di valore della competenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo, può importare uno spostamento della causa di opposizione, dovendo il giudice di quest'ultima limitarsi a separare i giudizi, e rimettere al giudice superiore la causa relativa alla domanda riconvenzionale, salva la sospensione del giudizio sull'opposizione ex art. 295 c.p.c. ove ne ricorrano i presupposti (v., tra le tante, Cass. II, n. 3225/1984). Per completezza, sul versante processuale, ma su riguardo alla legittimazione attiva (qui ad opporsi al decreto ingiuntivo) va registrato un contrasto all'interno della II Sezione civile della Corte di Cassazione: da un lato, Cass. II, n. 7053/2024, ha affermato che il singolo condomino non è legittimato a proporre opposizione al decreto ingiuntivo emesso nei confronti del condominio, in quanto, in tale giudizio, oggetto della domanda è un credito vantato dall'ingiungente nei riguardi dell'ingiunto, cosicché, dal punto di vista soggettivo, le parti del processo possono essere esclusivamente colui che ha proposto la domanda e colui contro il quale essa è diretta, regola che non trova eccezione con riguardo al condominio; dall'altro, Cass. II, n. 40857/2021, ha ritenuto, invece, che il singolo condomino è dotato di legittimazione attiva a proporre l'opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso il decreto ingiuntivo pronunciato nei confronti del condominio, giacché tale provvedimento può estendere i propri effetti ed essere posto in esecuzione anche contro i singoli condomini, la cui responsabilità, in proporzione delle rispettive quote, deriva dall'esistenza dell'obbligazione assunta nell'interesse dello stesso condominio. Interferenze con la deliberazione approvativa della spesaTali osservazioni offrono lo spunto per esaminare, dal punto di vista processuale, le frequenti ipotesi in cui la controversia originata dalla richiesta al condomino moroso di pagamento delle quote condominiali – nelle forme ordinarie o monitorie di cui sopra – si intreccia con il giudizio promosso dallo stesso condomino diretto all'impugnazione della delibera assembleare di approvazione dello stato di ripartizione su cui si basa sostanzialmente la medesima richiesta. Nella prassi, le due cause potrebbero trovarsi nella seguente situazione: 1) il condomino impugna entro i rituali trenta giorni la deliberazione sul piano di riparto, instaurando una prima causa di impugnativa, e l'amministratore ottiene, separatamente, un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, provocando l'opposizione del condomino, che instaura una seconda causa; 2) l'amministratore ottiene il decreto ingiuntivo, e il condomino propone opposizione allo stesso, e, in via riconvenzionale, instaura un'impugnativa della relativa deliberazione (di solito, per nullità, perché quella per annullamento dovrebbe essere tardiva per decorrenza del termine di trenta giorni); 3) il condomino propone l'impugnazione ex art. 1137 c.c. o invoca la declaratoria di nullità, ed il condominio si costituisce chiedendo il rigetto dell'impugnazione, e, in corso di causa, propone l'istanza di ingiunzione di cui all'art. 186-ter c.p.c. fondata proprio sulla deliberazione impugnata. In argomento, si è, ad ogni buon conto, precisato (Cass. II, n. 16081/2016) che la produzione delle deliberazioni assembleari condominiali a corredo di una domanda monitoria avverso un condomino non è idonea a soddisfare l'onere di comunicazione agli assenti ex art. 1137 c.c., né comporta il sorgere della presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., che postula il recapito all'indirizzo del condomino del verbale contenente le decisioni dell'assemblea, né, comunque, obbliga quest'ultimo ad attivarsi per acquisire e conoscere il testo delle deliberazioni stesse, la cui conoscibilità, pertanto, non è ancorata alla data di notificazione del decreto ingiuntivo. Al contempo, si è opportunamente puntualizzato (Cass. II, n. 22573/2016) che l'annullamento della deliberazione assunta dall'assemblea dei condomini, derivante dall'omessa convocazione di uno di essi, può ottenersi solo con il tempestivo esperimento di un'azione ad hoc, non potendo tale doglianza formare oggetto di eccezione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo chiesto per il pagamento delle spese deliberate dall'assemblea medesima. A ciò si aggiunga – v. supra – che, in presenza dell'efficacia immediatamente esecutiva della deliberazione in pendenza di impugnazione e dell'efficacia esecutiva ex lege del decreto ingiuntivo nonostante l'opposizione, possono intersecarsi altre due questioni, che si influenzano a vicenda: da una parte, l'istanza di sospensione dell'esecuzione della deliberazione (art. 1137, comma 3, c.c.), e, dall'altra, la richiesta di sospensione «per gravi motivi» dell'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo (art. 649 c.p.c.), il tutto in base ad una valutazione sommaria che potrebbe rispondere a logiche differenti e fondarsi su presupposti diversi. Al riguardo, si è rilevato (Cass. II, n. 8525/2013) che. in materia di condominio, vige il principio dell'esecutività della deliberazione dell'assemblea, pur in pendenza di impugnazione, rimanendo riservato al giudice il potere di sospendere l'esecuzione del provvedimento, a norma dell'art. 1137 c.c.; tuttavia, il credito del condominio nei confronti del singolo condomino, risultante da deliberazione assembleare impugnata, non è opponibile in compensazione ad estinzione delle reciproche obbligazioni, in quanto portato da un titolo la cui esecutività consente la sola temporanea esigibilità, laddove la compensazione postula il definitivo accertamento dei debiti da estinguere e non opera per le situazioni provvisorie. Orbene, non sempre i due giudizi penderanno davanti allo stesso magistrato, in quanto risultano diversi i criteri di determinazione della competenza per valore, che fanno riferimento, rispettivamente, all'importo richiesto al singolo condomino moroso nella causa di riscossione dei contributi condominiali, ed all'intera entità delle spese relativamente alla causa di impugnazione della deliberazione, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente sopra delineato (si pensi, ad esempio, ad una richiesta di pagamento al condomino di Euro 2.000,00, di competenza del giudice di pace, e ad un'impugnativa di deliberazione assembleare che ha approvato uno stato di riparto ammontante complessivamente a Euro 60.000,00, di cognizione invece del tribunale). In tali casi, essendo impossibile la riunione dei giudizi, i rapporti tra le due cause saranno eventualmente regolati in relazione all'istituto della sospensione, atteso che la decisione dell'impugnazione della deliberazione sembra assumere carattere pregiudiziale rispetto alla definizione della controversia diretta ad una pronuncia di condanna del condomino al pagamento dei contributi; tale soluzione è, poi, obbligata in relazione alla causa di opposizione al decreto ingiuntivo nei confronti del condomino moroso, atteso che la competenza del giudice dell'opposizione al predetto decreto ha carattere funzionale e non può subire deroghe per ragioni di connessione (v., altresì, Cass. S.U., n. 10984/1992; in ordine al concetto di questione pregiudiziale, v. Cass. III, n. 5086/1993). È, invece, orientata diversamente la recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui non sussiste né continenza ex art. 39, comma 2, c.p.c., né pregiudizialità necessaria ex art. 295 c.p.c., tra la causa di opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c., e quella preventivamente instaurata dinanzi ad altro giudice impugnando la relativa deliberazione, perché presupposto del provvedimento monitorio è l'efficacia esecutiva della predetta deliberazione ed oggetto della causa davanti al giudice dell'opposizione è il pagamento delle spese dovute da ciascun condomino sulla base della ripartizione approvata con la medesima, obbligatoria ed esecutiva finché non sospesa dal giudice dell'impugnazione ai sensi dell'art. 1137, comma 3, c.c., mentre oggetto del giudizio di impugnazione è la validità di detta deliberazione (Cass. II, n. 19519/2005; Cass. II, n. 7261/2002; Cass. II, n. 7073/1999; Cass. II, n. 11457/1997; Cass. II, n. 7569/1994). Detto in altri termini – secondo quest'ultimo orientamento – l'attualità del debito per oneri condominiali approvati dall'assemblea non dipende dalla legittimità della deliberazione, ma dalla sua efficacia, cosicché è ottenibile decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo in base ad essa, benché impugnata, se non è stata sospesa dal giudice dell'impugnazione: l'esito del giudizio sulla validità della medesima deliberazione inciderà soltanto sull'eventuale diritto del condomino a ripetere quanto indebitamente pagato. Tale interpretazione ha ottenuto l'autorevole avallo del massimo organo della magistratura di vertice (Cass. S.U., n. 4421/2007), il quale ha statuito che, al giudice dell'opposizione al decreto ingiuntivo emesso per il pagamento degli oneri condominiali in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, ai sensi dell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., non è consentito sospendere il giudizio in attesa della definizione del diverso giudizio di impugnazione, ex art. 1137 c.c., della deliberazione dell'assemblea posta a base del provvedimento monitorio opposto (v., altresì, Cass. S.U., n. 26629/2009, aggiungendo che il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia delle relative deliberazioni, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo questa riservata al giudice davanti al quale dette deliberazioni siano state impugnate). Ne consegue che, costituendo la deliberazione assembleare titolo di credito del condominio e, di per sé, prova dell'esistenza di tale credito, il condomino opponente può far valere solo questioni attinenti alla sua efficacia e non alla sua validità; la denuncia di un motivo di annullabilità della deliberazione va, invece, fatto valere con l'impugnazione nel termine di cui all'art. 1137 c.c. e non può essere accertato neppure incidenter tantum dal giudice adìto con opposizione a decreto ingiuntivo per il pagamento di contributi deliberati dall'assemblea (Cass. II, n. 24658/2009). In pratica, l'amministratore del condominio può promuovere il procedimento monitorio per la riscossione degli oneri condominiali e l'eventuale opposizione da parte del condomino ingiunto potrà riguardare la sussistenza del debito e la documentazione posta a fondamento dell'ingiunzione, ma non può estendersi ai vizi della deliberazione avente ad oggetto l'approvazione delle spese condominiali, che dovranno essere fatte valere in un separato giudizio o con l'impugnazione di cui all'art. 1137 c.c. (così espressamente Cass. II, n. 10427/2000). I principi di cui sopra risultano confermati dalle recenti pronunce degli ermellini (Cass. II, n. 4672/2017; Cass. II, n. 3354/2016): per un verso, si ribadisce che, tra il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di oneri condominiali e la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione assembleare posta a sostegno della ingiunzione non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità necessaria, tale da giustificare la sospensione del procedimento di opposizione ex art. 295 c.p.c., tenuto conto, da un lato, che il diritto di credito del condominio alla corresponsione delle quote di spesa per il godimento delle cose e dei servizi comuni non sorge con la deliberazione assembleare che ne approva il riparto, ma inerisce alla gestione dei beni e servizi comuni, sicché l'eventuale venir meno della deliberazione per invalidità, se implica la perdita di efficacia del decreto ingiuntivo, non comporta anche l'insussistenza del diritto del condominio di pretendere la contribuzione alle spese per i beni e servizi comuni di fatto erogati e considerato, dall'altro, che l'eventuale contrasto tra giudicati che potrebbe, in ipotesi, verificarsi in seguito al rigetto della opposizione ed all'accoglimento della impugnativa della deliberazione, potrebbe essere superato in sede esecutiva, facendo valere la perdita di efficacia del decreto ingiuntivo come conseguenza della dichiarata invalidità della deliberazione; per altro verso, si puntualizza che, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia delle relative deliberazioni assembleari, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo tale sindacato riservato al giudice davanti al quale dette deliberazioni sono state impugnate. A quanto sopra, va aggiunto che la «questione» – e, quindi, non un'apposita domanda in tal senso – in ordine alla legittimità di una deliberazione assembleare può anche porsi nel corso del giudizio volto al pagamento del dovuto e proposto dall'amministratore nei confronti del condomino moroso (tra i contributi dottrinari sull'argomento, Cimatti, 187; Guida, 55). La contestazione, da parte del condomino convenuto, della legittimità dell'operato dell'assemblea, implica un accertamento che, attenendo al fondamento della pretesa del condominio attore, va compiuto non in via incidentale ma principale (Cass. II, n. 510/1982); in altri termini, l'accertamento dell'invalidità delle deliberazioni, da cui trae origine la richiesta di pagamento delle spese condominiali, non può essere compiuto incidenter tantum dal giudice adìto, perché ha carattere pregiudiziale e necessario rispetto alle questioni di validità del titolo posto a base della richiesta di pagamento di contributi; atteso che è destinato a produrre conseguenze giuridiche oltre il rapporto controverso rispetto ad altri rapporti e ad altri soggetti, il predetto accertamento appare idoneo a convertirsi da «questione» in «causa» pregiudiziale, tanto da dover essere decisa con efficacia di giudicato (Cass. II, n. 5086/1993). Ne consegue che, se la domanda di pagamento del debito è stata proposta nelle forme ordinarie – seguendo l'esempio di cui sopra – poniamo davanti al giudice di pace, e questo giudice sia incompetente, per ragioni di valore, a conoscere della questione di legittimità della deliberazione, tutta la causa andrà rimessa dinanzi al tribunale, ai sensi dell'art. 34 c.p.c. Se, invece, la medesima domanda è stata introdotta in via monitoria, e l'opposizione al decreto ingiuntivo sia di competenza del giudice di pace mentre l'accertamento della legittimità della deliberazione esuli dalla sua cognizione per valore, tale giudice dovrà rimettere al tribunale solo la decisione della seconda questione, in quanto – come abbiamo visto – la competenza per l'opposizione a decreto ingiuntivo ha carattere funzionale ed inderogabile e come tale non può subire eccezioni per ragioni di connessione, neppure quando la pronuncia sull'opposizione sia strettamente collegata con una questione pregiudiziale di competenza di altro giudice, salva sempre la facoltà del predetto magistrato onorario di sospendere il giudizio di opposizione in attesa che sia definita dal tribunale la questione relativa alla legittimità della deliberazione (v., tra le altre, Cass. II, n. 3860/1983; contra, nella giurisprudenza di merito, Giud. Pace Foggia 18 febbraio 1999), con le immaginabili conseguenze circa la durata del processo in attesa che passi in giudicato la sentenza che definisca la causa pregiudiziale (anche se Corte cost. n. 308/1991, ha rigettato la relativa questione di illegittimità costituzionale degli artt. 40 e 645 c.p.c.). Nulla quaestio – lo si ripete – qualora il condomino opponente non ponga in discussione la deliberazione assembleare con la quale si è provveduto alla ripartizione della spesa totale, ad esempio, quando eccepisca soltanto di aver pagato la quota richiestagli, o nell'ipotesi in cui si limiti a dedurre di non essere il proprietario dell'unità immobiliare cui la quota medesima si riferisce. Le considerazioni di cui sopra sembrano, però, messe in crisi da una recente sentenza del supremo consesso decidente (Cass. II, n. 305/2016), che ha dovuto esaminare la prospettata ipotesi di «nullità» di una deliberazione assembleare con cui erano stati approvati dalla maggioranza assembleare alcuni lavori di manutenzione straordinaria concernenti – oltre che le parti comuni, anche – beni di proprietà esclusiva. Nella specie, il giudice a quo aveva sostenuto che, attesa l'inesistenza di un qualsivoglia nesso processuale di continenza e pregiudizialità necessaria tra il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e quello di impugnazione della deliberazione posta a base del ricorso monitorio richiesto dal condominio, non si poteva accertare, ancorché ai soli fini dell'accoglimento dell'opposizione, la nullità della deliberazione di approvazione delle spese, dando così continuità a quel principio di diritto – sopra delineato – secondo cui, nel suddetto procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice deve limitarsi a verificare «la perdurante esistenza ed efficacia» delle relative deliberazioni assembleari, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo questa riservata al giudice davanti al quale dette deliberazioni risultano impugnate. Si è, tuttavia, evidenziato che così si trascura di considerare il fatto che il vizio (incompetenza dell'assemblea), del quale risulterebbe affetta la deliberazione con la quale sono stati approvati i lavori, il cui corrispettivo pro quota è oggetto della richiesta monitoria, rientra propriamente tra quelli idonei a determinare la ben più radicale conseguenza della «nullità» della medesima deliberazione – specie alla luce delle indicazioni fornite dalle Cass. S.U., n. 4804/2005 – e risulterebbe effettivamente, ove sussistente, suscettibile di provocare la nullità della deliberazione, di modo che non appare correttamente applicato il principio della rilevabilità, in sede di opposizione al decreto ingiuntivo, dell'invalidità della deliberazione assembleare. Dunque, i giudici di Piazza Cavour affermano – a chiari note – che il limite in merito al rilievo dell'invalidità in sede di opposizione a decreto ingiuntivo operi solo per le delibere «annullabili», richiamando anche alcuni precedenti (Cass. II, n. 9641/2006), secondo cui ben può il giudice rilevare d'ufficio la nullità quando, come nella specie, si controverta in ordine all'applicazione di un atto (deliberazione dell'assemblea di condominio) posto a fondamento della richiesta di decreto ingiuntivo, la cui validità rappresenta elemento costitutivo della domanda (v., altresì, in motivazione, Cass. II, n. 1439/2014; Cass. II, n. 23688/2014; v., più di recente, Cass. II, n. 19832/2019, ad avviso della quale, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali, non opera il limite alla rilevabilità anche officiosa dell'invalidità della sottostante delibera, trattandosi di elemento costitutivo della domanda di pagamento). Sembrano, quindi, riprendere vigore tutte quelle osservazioni – costituenti un vulnus alla decisione del supremo organo di nomofilachia del 2007 – in ordine al ritenuto rapporto di pregiudizialità, in quanto, negando l'applicazione dell'art. 295 c.p.c., il condomino sarebbe comunque costretto a pagare, quanto meno in via provvisoria, i contributi fissati dalla deliberazione impugnata, senza considerare che tale giudizio potrebbe concludersi con il passaggio in giudicato di una situazione sfavorevole all'opponente in ordine alla sussistenza del credito vantato nei suoi confronti dal condominio, in contrasto con l'invalidità, all'esito del relativo giudizio, proprio di quella deliberazione che rappresenta il titolo costitutivo di tale credito; disponendo invece la sospensione, a seguito dell'accoglimento dell'impugnazione della deliberazione, verrebbe evitato un possibile conflitto di giudicati e, per effetto della caducazione del titolo in base al quale è stato emesso il decreto ingiuntivo, il condomino avrebbe diritto alla restituzione di quanto eventualmente pagato (Izzo, 478). D'altronde, il fatto che, tra le stesse parti (condomino e condominio), si controverta in una causa della nullità del titolo – id est della deliberazione assembleare – che, in altra causa, è posto a fondamento della domanda di condanna per l'inadempimento alle obbligazioni dal titolo stesso derivanti, fa desumere che, tra i due giudizi, ricorra quel rapporto di pregiudizialità necessaria, per il quale si impone la sospensione del secondo in attesa del giudicato di accertamento sulla nullità oggetto del primo, diversamente potendosi dar luogo a giudicati contrastanti; e ciò soprattutto allorquando, nel primo, si discuta di nullità del titolo e non di mera annullabilità, stante che il giudicato di accertamento impedisce all'atto di produrre ab origine qualunque effetto, sia pure interinale, e non si potrebbe contrapporre un distinto giudicato, di accoglimento della pretesa basata su quel medesimo titolo, contrastante con il primo in quanto presupponente un antecedente logico-giuridico opposto (a proposito di pregiudizialità, Cass. II, n. 14082/2019 ha, di recente, precisato che, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, l'accertamento in un altro giudizio dell'esclusione del rapporto di condominialità e della conseguente insussistenza dell'obbligo di concorrere alle spese, in quanto antecedente logico, è rilevante, in termini di giudicato esterno ed impedisce la riapertura della questione in difetto di elementi sopravvenuti). A questo punto – a conferma di una certa insofferenza al suddetto diktat – dovrebbe superarsi anche quell'obiezione a tenore della quale non vi sarebbero problemi in ipotesi di contrasto di giudicati in caso di rigetto dell'opposizione all'ingiunzione e di accoglimento dell'impugnativa della deliberazione, potendosi ovviare alle relative conseguenze in sede esecutiva, facendo valere la sopravvenuta inefficacia del provvedimento monitorio, oppure in sede ordinaria mediante azione di ripetizione dell'indebito, atteso che le prospettate esigenze di rapidità e di incisività della riscossione coattiva dei contributi condominiali, perseguite dell'art. 63 disp. att. c.c., non appaiono tali da far pretermettere, in tale misura, le altrettanto impellenti esigenze di economia processuale e di non contraddittorietà delle pronunce, che animano l'intero processo civile. Proprio queste esigenze – come acutamente osservato da Scarpa, in Celeste – Scarpa 2015, 173 – inducono a ravvisare invece il rapporto di continenza tra la domanda fondata su un titolo negoziale ed azionata nelle forme del procedimento monitorio, ed una simmetrica causa di cognizione ordinaria, proposta davanti ad altro giudice, e volta a far dichiarare l'invalidità del titolo da cui deriverebbe l'obbligazione del ricorrente in monitorio. Né convince affermare che l'eventuale contrasto di giudicati sull'esistenza del credito fra il decreto ingiuntivo, in seguito al rigetto dell'opposizione all'ingiunzione, e l'accoglimento dell'impugnativa della deliberazione, possa superarsi in sede esecutiva, giacché ciò scalfirebbe l'ulteriore regola generale che, in ipotesi di procedura fondata su titolo esecutivo giudiziale, preclude al giudice dell'esecuzione di effettuare qualsiasi controllo intrinseco sul titolo stesso, ossia diretto ad invalidarne l'efficacia in base ad eccezioni o difese che dovevano essere dedotte nel giudizio che a quel titolo aveva dato origine. Parimenti, la soluzione che rimette ad un nuovo e distinto giudizio ordinario di ripetizione di indebito le pretese restitutorie conseguenti alla declaratoria di invalidità della deliberazione di ripartizione delle spese, oltre a privare il giudicato sul decreto ingiuntivo della sua tipica forza riguardante la sussistenza del debito – la quale, altrimenti, farebbe venir meno l'essenziale condizione del pagamento non dovuto – contrasta con evidenti primarie ragioni di economia processuale; ed è evidente quanto poco giovi agli stessi auspici di certezza, tipici dei rapporti condominiali, l'eventualità di dover restituire, semmai dopo tanti anni, all'esito del giudizio sull'invalidità del riparto, le somme incassate per effetto dell'improcrastinabile riscossione operata grazie al decreto ingiuntivo di cui all'art. 63 disp. att. c.c. La questione sopra delineata è stata, di recente, sottoposta al supremo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 9839/2021), il quale ha avuto modo di precisare che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità, dedotta dalla parte o rilevata d'ufficio, della delibera assembleare posta a fondamento dell'ingiunzione, sia l'annullabilità della stessa delibera, a condizione, però, che quest'ultima sia dedotta in via di azione - mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell'atto di citazione in opposizione - ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c., nel termine perentorio ivi previsto, e non in via di eccezione, che va considerata inammissibile e rilevabile d'ufficio dal giudice. (in proposito, Cass. II, n. 2460/2025 ha puntualizzato che non assumono rilievo le contestazioni del condomino intimato circa la consistenza probatoria dei documenti giustificativi delle spese rendicontate, dovendo gli stessi essere controllati in sede di approvazione e di eventuale impugnazione del bilancio). Nell'ipotesi (assai frequente) della contemporanea pendenza dei suddetti giudizi, i giudici di legittimità (Cass. II, n. 2211/2025) hanno avuto modo di delineare le possibili evenienze processuali nel senso che, tra la causa di opposizione a decreto ingiuntivo per la riscossione di contributi condominiali e la causa di impugnazione della delibera di approvazione e ripartizione della spesa su cui il medesimo decreto ingiuntivo è fondato, pendenti dinanzi a giudici diversi, può ravvisarsi la relazione di continenza, ai sensi dell'art. 39, comma 2, c.p.c., stante l'identità di soggetti e il collegamento di interdipendenza tra le domande contrapposte con riferimento ad un unico rapporto, essendo la validità e l'efficacia della delibera il necessario presupposto logico-giuridico per la definizione del giudizio sulla pretesa monitoria, ferma in ogni caso la competenza funzionale del giudice dell'opposizione a dichiarare la eventuale nullità del provvedimento monitorio; ne consegue che, laddove non possa farsi luogo alla riunione dei procedimenti o alla declaratoria di continenza per ragioni di ordine processuale, il giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo può sospendere la causa, ai sensi dell'art. 295 c.p.c. o dell'art. 337, comma 2, c.p.c., in relazione alla pendenza del giudizio pregiudiziale in cui sia stata impugnata la relativa delibera condominiale. Comunicazione sullo stato dei pagamenti ai condominiIn forza dell'art. 1130, n. 9), c.c., l'amministratore deve «fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali» (e delle eventuali liti in corso). La previsione è sostanzialmente in linea con i principi di tutela dei dati personali elaborati in argomento dal Garante della privacy, in base ai quali, anche per esercitare i controlli in ordine all'esattezza dell'importo esigibile a titolo di contributo per la manutenzione delle parti comuni e per l'esercizio dei servizi comuni, ciascun partecipante dovrebbe poter essere informato in ordine all'ammontare della somma dovuta dagli altri (Avigliano, 18). Un diritto dei singoli condomini alla conoscenza delle eventuali situazioni individuali di morosità nella riscossione dei contributi può discendere pure dall'obbligo di rendiconto, cui è tenuto l'amministratore in forza del contratto di mandato che intercorre con il gruppo, obbligo che, tuttavia, concerne necessariamente la specificazione non dei dati personali degli inadempienti, quanto dei dati meramente contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale, nonché di tutti gli elementi di fatto funzionali all'individuazione ed al vaglio delle modalità di esecuzione dell'incarico, onde stabilire se l'operato dell'amministratore si sia adeguato, o meno, a criteri di buona amministrazione. Se, pertanto, il rendiconto annuale costituisce la modalità di comunicazione dell'amministratore tipicamente destinata a rendere edotti i singoli condomini degli eventuali inadempimenti di altri partecipanti, questo non è un contenuto irrinunciabile del rendiconto, ben potendo l'assemblea validamente approvare un bilancio di gestione che non presenti, in realtà, alcuna analitica indicazione dei nominativi dei condomini morosi nel pagamento delle quote condominiali e dei corrispondenti importi da ciascuno dovuti, purché le poste attive e passive risultino comunque correttamente iscritte nel loro importo (Cass. II, n. 1544/2004). Dunque, alla stregua della Riforma del 2013, qualsiasi condomino può rivolgere espressa richiesta all'amministratore circa la situazione di morosità degli altri partecipanti; non occorre, in tal caso, premunirsi del consenso espresso, libero, specifico e documentato per iscritto (art. 23 del d.lgs. n. 196/2003) dei condomini inadempienti interessati. Rimangono ferme, in proposito, le prescrizioni più volte indicate dallo stesso Garante della privacy in ordine alle operazioni di trattamento di dati personali effettuate nell'àmbito delle attività connesse all'amministrazione condominiale (v., soprattutto, il provvedimento del 19 maggio 2006, nonché il recente vademecum del Garante del 10 ottobre 2013 su «il condominio e la privacy», in cui si prende atto che le diverse informazioni contenute negli archivi condominiali vanno oltre il semplice elenco dei nominativi dei soggetti coinvolti e, se non opportunamente «trattate», potrebbero rivelare informazioni anche delicate sui vari abitanti del palazzo). In particolare, in virtù del principio di «liceità» di cui all'art 11 del Codice, possono formare oggetto di trattamento da parte dell'amministratore – quale responsabile ai sensi degli artt. 4, comma 1, lett. g), e 29 – le sole informazioni personali «pertinenti» rispetto allo svolgimento delle attività di gestione delle parti comuni ed idonee a determinare le posizioni di dare-avere dei singoli partecipanti (siano essi proprietari o usufruttuari). In questa prospettiva, le informazioni trattate possono, altresì, riferirsi a ciascun partecipante, individualmente considerato, sempre, però, in quanto «necessarie» ai fini dell'amministrazione comune. Rientrano appunto in tale àmbito sicuramente i dati anagrafici e gli indirizzi dei condomini, elementi la cui conoscenza risulta indispensabile per consentire la regolare convocazione dell'assemblea; parimenti, possono formare oggetto di lecito trattamento le quote millesimali attribuite a ciascuno dei condomini, rilevanti per la determinazione degli oneri contributivi nonché per l'individuazione dei quorum occorrenti alla formazione della volontà assembleare. Invece, solo in presenza del consenso dell'interessato – salvo l'eventuale loro previo inserimento in appositi elenchi «pubblici» – potranno inserirsi nel suddetto registro le informazioni relative alle utenze telefoniche intestate ai singoli partecipanti. Pertanto, l'amministratore può acquisire le informazioni che consentono di identificare e contattare i singoli partecipanti al condominio – siano essi proprietari, usufruttuari, conduttori o comodatari – chiedendo le generalità comprensive di codice fiscale, residenza o domicilio, del pari può chiedere i dati catastali della singola unità immobiliare (sezione urbana, foglio, particella, subalterno, ecc.), tuttavia, non può chiedere, perché risulterebbe «eccedente», copia della relativa documentazione, come, ad esempio, l'atto di compravendita in cui sono riportati tali dati. Diversa si atteggia, appunto, la situazione nei rapporti interni, in quanto il singolo condomino può conoscere le spese e gli inadempimenti degli altri condomini, sia all'atto del rendiconto annuale, sia in ogni momento facendone richiesta all'amministratore; in questa ipotesi, deve prevalere il principio della trasparenza nella gestione condominiale, sicché l'eventuale richiamo alla privacy per impedire la conoscenza di queste informazioni è fuori luogo, perché trattasi di dati che tutti i partecipanti devono poter conoscere, precisando opportunamente che, per ottenere le informazioni relative alla gestione del condominio e sulla posizione contabile (e debitoria) degli altri, non è necessario il consenso dei condomini interessati. Pertanto, il diritto alla trasparenza non significa che si possano divulgare informazioni sulle morosità al di fuori dell'àmbito condominiale, sicché si rivela assolutamente vietato esporre avvisi di mora o sollecitazioni di pagamento in spazi condominiali accessibili a terzi (ad esempio, all'ingresso del palazzo, nella bacheca condominiale, nella vetrina della guardiola del portiere). Sempre nell'ottica della trasparenza, la medesima l. n. 220/2012 obbliga l'amministratore a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio stesso, contemplando, altresì, la facoltà, in capo ad ogni condomino, di chiedere, per il tramite dell'amministratore, di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica (art. 1129, comma 7, c.c.). Resta fermo che il singolo può conoscere tutte le informazioni relative all'intera gestione condominiale in base ad altre norme dell'ordinamento, segnatamente alle disposizioni del codice civile modificate dalla novella, e, in particolare, in forza dell'art. 1129, comma 2, c.c. per quanto concerne i quattro «registri» di cui all'art. 1130, nn. 6) e 7), c.c. – ossia quello dell'anagrafe condominiale, dei verbali delle assemblee, di nomina e revoca dell'amministratore, nonché di contabilità – nonché dell'art. 1130-bis, comma 1, c.c., relativamente ai «documenti giustificativi di spesa», nell'àmbito del rendiconto condominiale. Informazione sulle morosità ai creditoriDovere di cooperazione con i terzi L'art. 63, comma 1, disp. att. c.c. dispone, nella seconda parte del comma 1, che l'amministratore è altresì «tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi». Si delinea così un obbligo di cooperazione con il terzo creditore, posto direttamente dalla legge in capo all'amministratore ed esulante dai contenuti del programma obbligatorio interno al rapporto di mandato corrente tra condomini ed amministratore (Scarpa, in Celeste – Scarpa 2014, 348). Se l'amministratore è tenuto a comunicare al creditore i dati dei condomini morosi, l'eventuale sua inerzia diviene sanzionabile: si tratta per l'amministratore di un dovere legale di salvaguardia dell'aspettativa di soddisfazione dei terzi titolari di crediti derivanti dalla gestione condominiale. Per la liceità della comunicazione dei dati relativi ai condomini morosi in favore dei terzi creditori, ora così imposta dall'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., non occorrerà più, quindi, verificare la sussistenza o del consenso del condomino interessato, o della causa di esonero dal consenso, ex art. 24, lett. f), del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, prevista per le ipotesi di trattamento volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. La superfluità del consenso dei condomini inadempienti al trattamento dei loro dati personali discende, infatti, dalle prime due cause di esonero contemplate dal citato art. 24 (Cass. I, n. 1593/2013; Cass. II, n. 186/2011). La Riforma non obbliga, invece, l'amministratore, altrettanto esplicitamente, a fornire al creditore i nomi e le quote dei condomini in regola con i pagamenti, cui quello potrà rivolgersi dopo l'inutile escussione dei morosi; ai fini del riscontro del limite di liceità abitualmente prescritto dall'Autorità Garante in materia di trattamento di dati personali nell'àmbito dell'amministrazione di condomini, non rivela alcuna funzionalizzazione allo svolgimento delle attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni la comunicazione che coinvolga i partecipanti regolarmente adempienti. L'informazione rivolta al creditore dei nomi e delle quote dei condomini «in regola» esula, pertanto, degli obblighi legali e contrattuali dell'amministratore, ed impone, perciò, il consenso, ex art. 23 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196; può in tal caso, soltanto farsi salva l'ipotesi di esonero dal consenso di cui alla lett. f) dell'art. 24 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, volto a favorire la tutela giudiziaria di un diritto. Dovrà tenersi, quindi, conto delle prescrizioni più volte indicate dal Garante per la protezione dei dati personali, relative alle operazioni di trattamento di dati personali effettuate nell'àmbito delle attività connesse all'amministrazione dei condomini. Strumenti giuridici a disposizione A questo punto, non resta che verificare quale risposta abbia offerto la giurisprudenza di merito alle ipotesi in cui l'amministratore non abbia ottemperato al disposto dell'art. 63, comma 1, ultima parte, disp. att. c.c., che si inquadra – come abbiamo visto – nell'ottica più generale dell'obbligo collaborativo nei confronti dei terzi creditori del condominio, finalizzato a consentire a questi ultimi di rivolgere le loro richieste e, eventualmente, di intraprendere l'azione giudiziaria, direttamente nei confronti dei condomini che non hanno pagato i contributi condominiali. È vero che la Riforma del 2013 ha in tal modo tentato di riempire un vuoto a livello normativo, che molti problemi pratici aveva determinato a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite del 2008 – ad avviso delle quali, «conseguita nel processo la condanna dell'amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli, secondo la quota di ciascuno» – rendendo spendibile, in sede esecutiva e rispetto ai singoli condomini, il titolo conseguito nei confronti del condominio, ma non ha chiarito quali siano gli strumenti a disposizione del creditore. Nel previgente regime, a fronte di chi riteneva potesse procedersi con il procedimento monitorio di cui all'art. 633 c.p.c., alcuni giudici di merito avevano contestato decisamente tale soluzione, sostenendo che la prestazione riferibile all'amministratore, più che ad avere ad oggetto la consegna di una cosa mobile determinata (ossia la documentazione condominiale), riguardasse l'obbligo dello stesso di partecipare il terzo creditore delle informazioni ricavabili dalla detta documentazione in suo possesso, quanto alle generalità dei condomini (notizia comunque ricavabile dal terzo creditore aliunde a mezzo della consultazione dei pubblici registri immobiliari) e, soprattutto, quanto alle quote millesimali facenti capo agli stessi, con conseguente inidoneità a soddisfare la pretesa creditoria, avente ad oggetto dette informazioni (e, dunque, un facere infungibile), più che la consegna della predetta documentazione (Trib. Napoli 7 luglio 2010). Secondo un altro orientamento, ancora, la strada da percorrere avrebbe dovuto essere quella del ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c. (Trib. Pescara 20 febbraio 2009), con tutti i limiti, però, di una carenza – già in astratto – del requisito del periculum, siccome avente ad oggetto un danno di natura patrimoniale. Le critiche alle esposte tesi non lasciava, però, il creditore privo di tutela, essendosi osservato che l'obbligo di comunicazione dei «dati» dei condomini morosi discendesse dall'applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. – in un corretto bilanciamento tra i profili concernenti, da un lato, l'esecuzione del contratto e, più in generale, l'adempimento dell'obbligazione e, dall'altro, il trattamento dei dati sensibili dei condomini – la cui inosservanza avrebbe potuto essere oggetto di doglianza in un ordinario giudizio di cognizione, possibilmente da introdurre nelle forme del rito sommario di cognizione (art. 702-bis c.p.c.), con richiesta di condanna ex art. 614-bis c.p.c. Nel regime post Riforma del 2016, un giudice onorario (Giud. Pace Genova 15 giugno 2015), ha condannato un amministratore, in proprio, al pagamento, in favore di un creditore del condominio, della somma di € 2.225,00, a titolo di risarcimento del danno, pari al valore dell'intero credito azionato e non recuperato a causa del comportamento omissivo del convenuto (nello specifico, trattavasi dell'importo portato nel precetto, al lordo della ritenuta d'acconto dedotto quanto versato in corso di causa, in forza di un precedente decreto ingiuntivo non opposto). In particolare, il suddetto magistrato laico ha accertato, per un verso, che l'attore aveva proceduto all'interpello dell'amministratore del condominio per ottenere i nominativi dei condomini morosi, al fine di procedere alla loro preventiva escussione, prima di poter procedere nei confronti degli altri condomini virtuosi, e, per altro verso, che il convenuto aveva omesso i necessari adempimenti, restando «inadempiente alle obbligazioni nei confronti del creditore del condominio, che può conseguire l'adempimento solo a condizione che l'amministratore agisca secondo le regole di buona fede e correttezza». Peraltro, l'amministratore, rimasto contumace, non aveva ottemperato nemmeno all'ordine giudiziale ex art. 210 c.p.c. volto all'esibizione dei registri contabili e del conto corrente condominiale, conseguendone la condanna di cui sopra. In maniera analoga, anche se con un'impostazione processuale differente, un magistrato siculo (Trib. Palermo 19 marzo 2014), con l'ordinanza ex art. 702-bis c.p.c., ha condannato «il condominio, in persona dell'amministratore pro tempore», a comunicare al creditore ricorrente i nominativi dei condomini non in regola con i pagamenti degli oneri condominiali, ed al pagamento della somma di Euro 1.000,00, «oltre interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo». Nella specie, il creditore aveva diffidato il condominio al pagamento della somma di Euro 2.560,00 ed aveva chiesto all'amministratore gli estremi dei condomini morosi, mentre il condominio non si era costituito in giudizio, né era comparso all'udienza rendendosi contumace. Il giudice siciliano, richiamato il disposto dell'art. 63 sopra citato e verificato l'inadempimento agli obblighi assunti dall'amministratore, aveva dato atto del pregiudizio nel ritardo patito dal creditore ricorrente per aver invano incoato il giudice adìto una prima volta, ed aveva riconosciuto appunto il danno da ritardo «quantificabile equitativamente in complessivi Euro 1.000,00, ivi assorbita la spesa di Euro 84,00 necessitata per contributo unificato del primo giudizio ed i compensi difensivi di quel giudizio, ma non potendosi riconoscere il valore dei compensi difensivi del primo giudizio, non rivelandosi alcun nesso eziologico tra i costi ed i compensi difensivi del giudizio non andato a buon fine ed il comportamento dilatorio e pregiudizievole del condominio». Sempre nell'àmbito del procedimento sommario di cognizione (introdotto dalla legge n. 69/2009), più di recente, un giudice laziale (Trib. Tivoli 21 aprile 2016) ha ordinato all'amministratore di condominio di produrre le «generalità complete» di tutti i condomini su cui gravano le spese richieste dal creditore entro trenta giorni dalla comunicazione di tale provvedimento. Nello specifico, l'attore, stante l'inutilità delle sollecitazioni stragiudiziali, aveva chiesto di accertare il diritto ad accedere all'elenco dei condomini morosi, al fine di poter attivare il proprio credito per l'attività prestata nei confronti del condominio, ma la documentazione in atti – pur prodotta dal suddetto amministratore – non era «sufficiente ad identificare compiutamente le parti mancando le generalità piene e complete» di tutti i morosi. Nel corso del giudizio, l'amministratore aveva prodotto la copia della ripartizione millesimale del rendiconto consuntivo relativo al credito azionato, dal quale emergevano solo i cognomi dei condomini, a fronte dell'obbligo di tenere aggiornato e puntuale il registro dell'anagrafe condominiale di cui all'art. 1130, n. 6), c.c., finalizzato sia alla trasparenza della gestione condominiale sul versante interno, sia ai rapporti esterni con i creditori insoddisfatti. Lo stesso tribunale laziale (Trib. Tivoli 16 novembre 2015), accogliendo il ricorso di un creditore del condominio, ha affermato che l'obbligo dell'amministratore di comunicare i dati dei condomini riguarda solo coloro che risultano «morosi rispetto allo specifico credito vantato dal creditore istante», non essendo sufficiente inviare a quest'ultimo l'elenco «generico» di tutti i condomini morosi, senza cioè indicare le singole morosità riferite allo specifico credito oggetto dell'interpello. Nel caso esaminato, il magistrato tiburtino ha correttamente opinato che debbano considerarsi «morosi» i soli condomini che sono debitori delle quote afferenti allo specifico titolo da cui sorge il debito del condominio verso il soggetto creditore, venendo di conseguenza escluse le complessive morosità condominiali che fanno riferimento ad altri crediti; in quest'ottica, avendo l'amministratore inviato solo l'ultimo rendiconto consuntivo della gestione condominiale, non era dato evincere se le morosità ivi indicate fossero o meno imputabili a «quel» creditore. In proposito, un giudice etneo (Trib. Catania 9 gennaio 2015), con l'ordinanza ex art. 702-bis c.p.c., oltre che condannare il condominio, in persona dell'amministratore pro tempore, a comunicare al creditore tutti i nominativi non in regola con gli oneri condominiali, ha addirittura fissato la somma di Euro 10,00 al giorno come penale dovuta per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione di tale provvedimento. Tale ordinanza si rivela interessante perché in essa si specifica che l'amministratore non possa scegliere di comunicare al creditore il nome solo di alcuni condomini morosi (ad esempio, quelli la cui morosità sia maggiore), nemmeno se gli importi da essi dovuti siano sufficienti, qualora recuperati, a soddisfare per intero il creditore, spettando, infatti, a quest'ultimo «stabilire, in virtù dei dati ricevuti dall'amministratore, se agire contro tutti o solo alcuni dei condomini morosi, in ragione delle aspettative che, di volta in volta, creda di avere». Si aggiunge, infine, che, per quanto concerne il contenuto della comunicazione, l'art. 63 disp. att. c.c. parla genericamente di «dati», dovendo in tale nozione intendersi il nome, il cognome, il codice fiscale di ciascuno dei condomini morosi, nonché gli importi dovuti da ciascuno di essi e non pagati al condominio. È vero che l'art. 1130, n. 6), c.c., trattando dell'anagrafe condominiale, non menziona le quote millesimali di ciascun condomino, tuttavia, l'espressione «dati» che compare nell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c. deve ritenersi comprensiva anche delle suddette quote millesimali; tanto si desume, peraltro, anche in via di interpretazione sistematica, dall'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., nel senso che la sussidiarietà implica che non vi è solidarietà, e che quindi vale l'idea dell'azione pro quota del terzo creditore verso il singolo moroso (come imposta a partire da Cass.S.U., n. 9148/2008). D'altronde, la mancata indicazione dei millesimi di proprietà non consentirebbe al creditore alcun riscontro in merito alla correttezza della quota versata dai singoli condomini, evenienza che comporterebbe estenuanti richieste all'amministratore, ma anche un'eventuale opposizione in giudizio da parte del condomino moroso, qualora lo stesso asserisca di dover pagare meno in relazione alle effettive carature millesimali di proprietà, dato quest'ultimo che, diversamente opinando, il creditore potrebbe non conoscere. In quest'ordine di concetti, non convince la recente ordinanza di un giudice lombardo (Trib. Monza 3 giugno 2015), con cui, su istanza del creditore, ha condannato l'amministratore a comunicare «l'intera anagrafe condominiale», con l'indicazione delle «quote millesimali» di ciascuno, in quanto il suo credito per le spese legali liquidate in una sentenza non era stato saldato dal condominio. Secondo il giudice lombardo, «il creditore non può sapere, siccome estraneo al condominio, se vi siano effettivamente alcuni condomini morosi rispetto al suo credito o se lo siano tutti, oppure se il suo credito nemmeno sia stato deliberato in assemblea, sì che tutti i condomini sono tenuti pro quota, e senza applicazione dell'art. 63, comma 2, disp. att. c.c.». Proprio in ragione di questa asimmetria informativa tra amministratore e creditore, si è ritenuto che l'àmbito dell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c. ed il correlativo obbligo di informazione, «si estenda anche al caso in cui il creditore chieda l'intera anagrafica dei condomini; così facendo, il creditore si tutela in via preventiva, avanzando una richiesta comprensiva sia dell'ipotesi in cui tutti i condomini siano morosi, sia di quella in cui siano comunque tenuti tutti pro quota (per omessa deliberazione assembleare del credito)». Si aggiunge – abbastanza contraddittoriamente – che «sarà l'amministratore a specificare al creditore se qualche condomino non sia moroso, avendo pagato la sua quota (debito deliberato in assemblea), e quindi a fornire i soli nominativi dei morosi, mentre, in caso contrario, fornirà tutti i nominativi». Tuttavia, la ratio del comma 1 del citato art. 63 va rinvenuta – come sopra rilevato – anche nel proteggere la tutela della privacy dei condomini virtuosi, per i quali non scatterebbe l'esonero del consenso di cui all'art. 24, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 196/2003, non richiesto solo laddove il trattamento sia necessario per adempiere un obbligo previsto dalla legge, qui appunto inesistente perché si permette di agire nei loro confronti solo dopo avere infruttuosamente escusso i morosi. Peraltro, appare curiosa la configurazione della suddetta «tutela preventiva» da parte del creditore non soddisfatto, poiché è ragionevole prevedere che quest'ultimo, prima di adire il magistrato, dovrebbe quanto meno avanzare siffatta richiesta nelle vie bonarie, e poi, se del caso in caso di rifiuto, avviare la procedura giudiziaria; in quest'ottica, non sembra ravvisabile alcuna giustificazione nel richiedere «preventivamente» l'elenco completo dei condomini, a meno che non si ritengano non veritiere le informazioni ricevute dall'amministratore, veridicità peraltro accertabile da un mero riscontro contabile, che potrebbe comportare profili di responsabilità personale in capo al destinatario della richiesta. Legittimazione passiva Problematica connessa a quella di cui sopra è quella che riguarda il soggetto legittimato passivamente in queste tipologie di azioni. Secondo una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Catania 8 gennaio 2018; Trib. Catania 15 dicembre 2017), legittimato passivo rispetto alla domanda volta a conseguire l'ordine di comunicare al creditore i nominativi dei condomini morosi, ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c., è l'amministratore in proprio, e non il condominio (in persona dell'amministratore), trattandosi di obbligo che la legge pone direttamente a carico del primo. In effetti, la novella del 2012 sembra contemplare uno specifico obbligo gravante ex lege sull'amministratore (correlato, con evidenza, al registro dell'anagrafe condominiale, istituito con l'art. 1130, comma 6, c.c.): trattasi, infatti, di un dovere che esula dal rapporto di mandato esistente tra l'amministratore ed i condomini (i cui contorni sono definiti dagli artt. 1130 e 1131 c.c.) e che pone, direttamente in capo all'amministratore, un obbligo di cooperazione con il terzo (Scarpa 2017, 325). Così ricostruito l'istituto, appare dunque condivisibile la conclusione di cui sopra (cui adde, in senso conforme, Trib. Napoli 1 febbraio 2017; Trib. Napoli 5 settembre 2016) che, a fronte dell'evocazione in giudizio del condominio, in persona dell'amministratore pro tempore, ne ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva, individuando quale destinatario unico dell'azione del terzo creditore l'amministratore «in proprio». Tale conclusione ha ricevuto, di recente, l'avallo del giudice di ultima istanza (Cass. II, n. 1102/2025), ad avviso del quale l'obbligo di comunicare i dati dei condomini morosi (e la conseguente legittimazione passiva in caso di azione giudiziale) spetta all'amministratore in proprio, trattandosi di un dovere legale di cooperazione con i creditori funzionale al rispetto dell'ordine di escussione contemplato dal comma 2 dell'art. 63 disp. att. c.c., che è estraneo al rapporto di mandato intercorrente con il condominio e la cui violazione dà luogo, pertanto, ad una responsabilità di tipo aquiliano. La preventiva escussione dei condomini morosiL'obbligo imposto per legge all'amministratore di comunicare ai terzi creditori che lo interpellino i dati dei condomini morosi è inevitabilmente correlato alla soluzione, adottata nel successivo comma 2 dell'art. 63 disp. att., per la quale «i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini». La novità appena introdotta munisce così di generale previsione legislativa l'effetto, che dapprima si ammetteva unicamente in presenza di un'apposita convenzione contrattuale adottata all'unanimità, oppure di una deliberazione assembleare adottata a maggioranza ma in casi di improrogabile urgenza – come nel caso di aggressione in executivis da parte di creditore del condominio, in danno di parti comuni dell'edificio – consistente nel ripartire tra i condomini non morosi il debito delle quote condominiali dei condomini morosi. Va sùbito osservato – v. sopra – che, sotto un profilo strettamente empirico, attualmente, dovrebbe essere in teoria impossibile che abbiano a verificarsi situazioni di «morosità» di condomini verso terzi creditori in ipotesi di esecuzione di opere di manutenzione straordinaria e di innovazioni, le quali, ai sensi dell'art. 1135, n. 4), c.c. introdotto dalla Riforma, sono condizionate al previo obbligatorio accantonamento di un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori, che dovrebbe, pertanto, comprendere tutte le somme necessarie al pagamento integrale dei creditori del condominio, man mano che i rispettivi debiti giungono a scadenza. Una morosità del singolo condomino, che si riverberi in via immediata sulla pretesa creditoria di un terzo, potrà avverarsi, invece, soltanto per le spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell'edificio o alla prestazione di servizi nell'interesse comune, ipotesi in cui l'obbligo per i contributi sorge non appena si compia l'intervento ritenuto necessario dall'amministratore e, quindi, in coincidenza con il compimento effettivo dell'attività gestionale; pur essendo le spese, di regola, anch'esse precedute dall'approvazione assembleare al momento del preventivo annuale, la loro erogazione non si reputa, infatti, discendente dalla deliberazione collegiale. L'art. 63, comma 2, disp. att. configura, allora, in capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la loro quota di contribuzione alle spese condominiali, un'obbligazione verso il terzo che sia rimasto creditore, sussidiaria ed eventuale, favorita dal beneficium excussionis, avente ad oggetto le somme dovute dai morosi: condomini morosi e condomini solventi, pur essendo condebitori responsabili verso il terzo creditore per il saldo dovuto, si trovano in posizione non paritetica, sussistendo una graduazione in ordine al relativo pagamento (in proposito, Cass. III, n. 34220/2023ha chiarito che l'onere di preventiva escussione dei condomini “morosi”, gravante, ai sensi dell'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., sul creditore solo parzialmente soddisfatto e munito di titolo, non ha ad oggetto la sola somma corrispondente alla quota millesimale del condòmino moroso sull'importo residuo dell'obbligazione del titolo esecutivo, ma l'intero importo residuo della suddetta “morosità”, cioè l'intera originaria quota dell'obbligazione condominiale imputabile al singolo condomino, detratto quanto eventualmente già pagato al creditore dall'amministratore, in nome e per conto di detto condòmino, in virtù dei versamenti dallo stesso effettuati nelle casse condominiali, secondo l'imputazione comunicata ai sensi dell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., e/o quanto versato direttamente dal singolo condòmino al terzo). Così impostato il problema, il riconoscimento normativo di una relazione di sussidiarietà tra il debito del condomino moroso e quello del condomino solvente non deporrebbe per la sussistenza di un nesso di solidarietà tra gli stessi; sopravvivrebbe, anzi, la possibilità di ravvisare, in favore del creditore, distinte posizioni obbligatorie e, quindi, anche distinte azioni di adempimento, l'una per l'intero debito, esperibile nei confronti dell'amministratore, e le altre nei limiti della rispettiva quota, nei confronti dei singoli condomini, rendendosi, però, ammissibile l'eventualità di pretendere da un partecipante il pagamento del debito originariamente dovuto da un altro condomino solo in seguito all'infruttuosa escussione del patrimonio di quest'ultimo; la diversità tra l'obbligo principale e l'obbligo sussidiario riguarderebbe essenzialmente la res debita (parametrata sulle singole quote), nonché le fonti stesse delle obbligazioni azionate, giacché l'obbligazione per la propria quota ha origine negli artt. 1123 e ss., mentre quella sussidiaria trae origine dall'art. 63, comma 2, disp. att. c.c. (Scarpa, in Celeste – Scarpa 2017, 996). Ravvisare un nesso di sussidiarietà, invece che di solidarietà, tra i debiti dei condomini solventi e quelli dei condomini morosi non sarebbe questione meramente teorica, in quanto l'assunto escluderebbe, ad esempio, ai fini dell'estensione dell'efficacia dell'atto interruttivo della prescrizione, la diretta applicazione dell'art. 1310 c.c., per il quale l'atto interruttivo contro uno dei condebitori in solido determina l'interruzione permanente della prescrizione anche nei confronti dei condebitori. Inoltre, dovrebbe assegnarsi ai condebitori in regola con i versamenti un vantaggio operante nella fase di esercizio del credito, che si risolve non solo nell'onere per il creditore di chiedere in primo luogo l'adempimento dei morosi (c.d. beneficio d'ordine), quanto nella più gravosa condizione per il medesimo creditore di escutere preventivamente il patrimonio degli stessi inadempienti (c.d. beneficium excussionis); la preventiva escussione richiede, quindi, l'esaurimento effettivo della procedura esecutiva individuale in danno del moroso, prima di potere pretendere l'eventuale residuo insoddisfatto al condomino in regola. Il beneficio di preventiva escussione non opera in via diretta, per efficacia della previsione di legge, ma pur sempre in via di tempestiva eccezione dilatoria in senso stretto; l'eccezione sarà rilevabile non soltanto se in concreto sussistano beni da sottoporre ad esecuzione al momento della scadenza del credito, ma sempre che tale esecuzione sia giuridicamente possibile, ipotesi che non si riscontra, ad esempio, con il fallimento del condomino moroso, evento che, per definizione, esclude la sussistenza di beni da poter sottoporre ad esecuzione individuale. La lettera dell'art. 63, comma 2, disp. att. («i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola») lascia pensare che il condomino in regola, convenuto in giudizio dal terzo per il pagamento del restante credito condominiale, possa paralizzare, in via di eccezione, l'azione del creditore, con l'opporre utilmente il beneficio della preventiva escussione del patrimonio del condomino moroso, senza dover perciò necessariamente chiamare in causa quest'ultimo; non sembra, invece, corretto ritenere che tale disposizione abbia efficacia limitatamente alla fase esecutiva, nel senso che il terzo creditore potrebbe richiedere sùbito stragiudizialmente la prestazione al condomino in regola, per provocarne l'adempimento diretto, o agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti pure del condomino adempiente (Scarpa, in Celeste – Scarpa 2017, 997). Avendo la Riforma ridisegnato il meccanismo di attuazione dei debiti condominiali, nel senso che i condomini sono tutti condebitori verso i terzi creditori, discende coerentemente che ai medesimi partecipanti sia stato accordato il diritto di essere costantemente informati sulle effettive possibilità di adempimento di ciascuno di loro; una volta identificati i condomini morosi, incombe, quindi, sull'amministratore del condominio, oltre che il potere-dovere di attivarsi per l'esazione delle quote dovute e non versate, l'obbligo di fornirne i dati agli altri partecipanti ed ai terzi creditori (v. anche il novellato art. 1130, n. 9, c.c.). Il condomino che, adempiuto il debito sussidiario verso il terzo per la quota dovuta dai morosi, faccia valere il suo diritto alla surrogazione legale a norma dell'art. 1203, n. 3), può vedersi opporre non solo le eccezioni relative al rapporto interno tra i condomini, ma anche quelle opponibili allo stesso terzo creditore, relative a limitazioni, decadenze e prescrizioni inerenti al credito; comunque, appare facile presagire quale esito infelice possa conseguire l'aspettativa del condomino adempiente di vedersi rimborsata proprio dal moroso la quota da questo dovuta, stante la necessaria premessa della già acclarata sua preventiva infruttuosa esecuzione affrontata dal terzo creditore. Viene incontro, pertanto, la regola posta dall'art. 1299, comma 2, c.c. che prevede, nei rapporti interni di regresso, il diritto del condebitore, che abbia pagato per l'intero e non sia riuscito ad ottenere la quota di un condebitore insolvente, di ripartire la perdita per contributo tra gli altri coobbligati. Questione connessa è, poi, quella relativa alle concrete modalità di esecuzione nei confronti del singolo, recentemente risolta dal Supremo Collegio (Cass. III, n. 22856/2017), nel senso che essa, ove relativa alle obbligazioni contratte dall'amministratore, può avere luogo esclusivamente nei limiti della quota millesimale del condomino e, pertanto, ove il creditore ne ometta la specificazione o proceda per il totale dell'importo portato dal titolo, l'esecutato può proporre opposizione all'esecuzione ex art. 615, comma 1, c.p.c., deducendo di non essere affatto condomino o contestando la misura della quota allegata dal creditore: nel primo caso, l'onere di provare il fatto costitutivo di detta qualità spetta al creditore procedente ed in mancanza il precetto deve essere dichiarato inefficace per l'intero, mentre, nel secondo caso, è lo stesso opponente a dover dimostrare l'effettiva misura della propria quota condominiale, ai fini della declaratoria di inefficacia dell'atto di precetto per l'eccedenza, e, in mancanza, l'opposizione non può essere accolta. In argomento, la Cassazione è intervenuta, di recente, con importanti chiarimenti: da un lato, si è affermato (Cass. III, n. 34220/2023), che l'onere di preventiva escussione dei condomini morosi, gravante, ai sensi dell'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., sul creditore solo parzialmente soddisfatto e munito di titolo, non ha ad oggetto la sola somma corrispondente alla quota millesimale del condomino moroso sull'importo residuo dell'obbligazione del titolo esecutivo, ma l'intero importo residuo della suddetta morosità, cioè l'intera originaria quota dell'obbligazione condominiale imputabile al singolo condomino, detratto quanto eventualmente già pagato al creditore dall'amministratore, in nome e per conto di detto condomino, in virtù dei versamenti dallo stesso effettuati nelle casse condomniali, secondo l'imputazione comunicata ai sensi dell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., e/o quanto versato direttamente dal singolo condòmino al terzo; dall'altro, si è chiarito (Cass. III, n. 36283/2023) che, nel caso in cui il condomino escusso per l'intero, dopo aver pagato una parte del debito condominiale eccedente la propria quota, abbia recuperato da altri condomini, in via di regresso, la somma corrispondente alla quota di pertinenza di ciascuno di essi, il relativo pagamento ha efficacia estintiva delle rispettive obbligazioni parziarie nei confronti del creditore nella misura in cui sia stato effettivamente riversato in favore di quest'ultimo, potendo essere effettuata la relativa imputazione anche ex post, con la comunicazione di cui all'art. 63 disp. att. c.c. Azione nei confronti dei condomini in regola con i pagamentiDunque, all'azione attribuita al creditore nei confronti dei condomini morosi, il comma 2 dell'art. 63 disp. att. c.c. somma una legittimazione del medesimo creditore ad agire nei confronti dei condomini che siano in regola con i pagamenti, dopo, però, l'escussione degli altri condomini. In quest'ottica, appare difficilmente sostenere che gli uni e gli altri (cioè, i morosi ed i condomini in regola) siano condebitori solidali in senso proprio per la totalità della medesima prestazione (secondo la nozione spiegata dall'art. 1292 c.c.) a vantaggio del creditore; poiché la Riforma del 2013 ha voluto che i creditori possano agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti dopo soltanto l'escussione degli altri condomini, non può intendersi che l'obbligazione di gestione condominiale sia vista dal legislatore come vicenda costitutiva dell'insorgenza del debito di una stessa prestazione per l'intero a carico dei partecipanti al condominio, restando salvi i criteri di ripartizione ex art. 1123 c.c. nei soli rapporti interni fra condomini; semmai, l'obbligo sussidiario di garanzia del condomino solvente risulta limitato in proporzione alla rispettiva quota del moroso, secondo un criterio di «doppia parziarietà» (così Scarpa, in Celeste – Scarpa 2014, 358). Si è diversamente sostenuto che «la regola delle obbligazioni dei condomini è la parziarietà, ribadita dal meccanismo dell'art. 63 citato, per cui l'escussione del singolo nei limiti della quota costituisce il necessario presupposto per il recupero del residuo», ma nel senso che i condomini solventi sarebbero tenuti a pagare «soltanto quanto non è stato corrisposto: vale a dire, quanto risulta dalla sottrazione tra l'intero dovuto da tutti e l'ammontare già sborsato da lui e dagli altri condebitori» (così Corona 2013, 148). Si è anche affermato che il condomino in regola con i pagamenti risponda del debito dei condomini morosi non per l'intero, ma solo nei limiti della propria quota (Triola 2014, 210). L'art. 63, comma 2, disp. att., c.c., in realtà, configura, in capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la loro quota di contribuzione alle spese condominiali, ed in favore del terzo che sia rimasto creditore (per non avergli l'amministratore versato l'importo necessario a soddisfarne le pretese), un'obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal beneficium excussionis, avente ad oggetto non l'intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi. Condomini morosi e condomini solventi, pur essendo condebitori responsabili verso il terzo creditore per il saldo dovuto, si trovano in posizione non paritetica, sussistendo una graduazione in ordine al relativo pagamento. Non è stata, quindi, affatto superata, e semmai data per scontata dalla l. n. 220/2012, la ricostruzione operata dal supremo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 9148/2008), secondo la quale – com'è noto – non avendo la solidarietà tra i condomini per i debiti nei confronti dei terzi alcun fondamento normativo, e prevalendo, anzi, al riguardo l'intrinseca parziarietà dell'obbligazione, il creditore avrebbe potuto procedere all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli condomini soltanto nei limiti della rispettiva quota di ciascuno e giammai per l'intero (in senso conforme, v., di recente, Cass. VI/II, n. 14530/2017, ad avviso della quale, in riferimento alle obbligazioni assunte dall'amministratore, o comunque, nell'interesse del condominio, nei confronti di terzi – in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, trattandosi di un'obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile, vincolando l'amministratore nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote, in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio – la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli suoi componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c. per le obbligazioni ereditarie;in tal senso, v., da ultimo, Cass. II, n. 13505/2019, la quale, sia pure riguardo a fattispecie sottoposta al precedente regime, ha sottolineato che la responsabilità per il corrispettivo contrattuale preteso dall'appaltatore per l'esecuzione dei lavori inerenti parti comuni assunta dall'amministratore del condominio, o comunque, nell'interesse del condominio è retta dal criterio della parziarietà, per cui l'obbligazione assunta nell'interesse del condominio si imputa ai singoli componenti nelle proporzioni stabilite dall'art. 1123 c.c., essendo tale norma non limitata a regolare il mero aspetto interno della ripartizione delle spese, conseguendone che al condomino, che abbia versato al terzo creditore anche la parte dovuta dai restanti condomini, allo scopo di ottenere da costoro il rimborso di quanto da lui corrisposto, non può consentirsi alcun diritto di regresso, ex art. 1299 c.c., né per l'intera somma dovuta dal condominio, né nei confronti degli altri condomini, sia pur limitatamente alla quota millesimale dovuta da ciascuno di essi, né il predetto condomino può avvalersi della surrogazione legale in forza dell'art. 1203, n. 3, c.c., giacché essa - implicando il subentrare del condebitore adempiente nell'originario diritto del creditore soddisfatto in forza di una vicenda successoria - ha luogo soltanto a vantaggio di colui che, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse a soddisfarlo; non si rivela, invece, di agevole comprensione Cass. II, n. 6282/2015, secondo cui, allorché sia assunta nei confronti di un terzo un'obbligazione nell'interesse comune con espressa ripartizione pattizia della spesa in base alle singole unità immobiliari e non alle rispettive quote millesimali, resta validamente derogato il principio dell'attuazione parziaria dei debiti dei condomini, di cui all'art. 1123 c.c., poiché, in ogni caso, la deduzione del carattere non solidale dell'obbligazione integra un'eccezione in senso proprio, sicché è inammissibile la sua proposizione per la prima volta in appello). Resta inteso che, in tema di procedimento di esecuzione, ove il titolo esecutivo giudiziale si sia formato nei confronti del condominio, il creditore che intenda procedere nei confronti del singolo condomino quale obbligato pro quota deve preventivamente notificare a quest'ultimo il titolo esecutivo ed il precetto (Cass. VI, n. 8150/2017). Si insegna che il debitore sussidiario – sia quando risulti vincolato ad eseguire una prestazione diversa da quella dovuta dall'obbligato principale, sia quando debba adempiere la stessa prestazione inutilmente attesa dal debitore principale – è sempre da considerarsi come tenuto ad un'obbligazione del tutto autonoma e distinta da quella principale; la sussidiarietà è, del resto, eccezione rilevante alla regola posta dall'art. 1292 c.c., in quanto il creditore, pur in presenza di più debitori responsabili per l'intera prestazione da lui vantata, non può indifferentemente rivolgersi ad uno qualsiasi di loro per chiedere l'adempimento della totalità; «quando la legge dice che il creditore può pretendere l'intero da ciascun debitore, in ciò è implicito anche che il creditore può scegliere liberamente il debitore a cui rivolgersi per primo» (Busnelli, 602). L'obbligo del debitore sussidiario, pur avendo contenuto identico a quello del debitore principale, funziona essenzialmente come strumento di garanzia del diritto del creditore nei confronti di quest'ultimo, e soltanto perciò, una volta adempiuto il primo, si estinguerebbe di riflesso anche il secondo. Così impostato il problema, il riconoscimento normativo di una relazione di sussidiarietà tra il debito del condomino moroso e quello del condomino solvente non depone affatto per la sussistenza di un nesso di solidarietà tra gli stessi. È più corretto ravvisare, in favore del creditore, distinte posizioni obbligatorie, e perciò anche distinte azioni di adempimento, l'una per l'intero debito, esperibile nei confronti dell'amministratore, e le altre nei limiti della rispettiva quota, verso i singoli condomini, rendendosi poi ammissibile l'eventualità di pretendere da un partecipante il pagamento del debito originariamente dovuto da un altro condomino solo in seguito all'infruttuosa escussione del patrimonio di quest'ultimo (restando inteso, ad avviso di Cass. III, n. 27292/2024, che, nell'eventuale opposizione all'esecuzione proposta dal singolo condomino, a fronte dell'azione esecutiva intrapresa ex art. 63, comma 2, disp. att. c.c. dal creditore del condominio in forza di titolo giudiziale, non ricorre alcuna ipotesi di litisconsorzio necessario con l'ente condominiale, in quanto l'oggetto del giudizio è limitato all'accertamento della corretta determinazione della misura nei cui limiti il condomino intimato è tenuto a rispondere in sede esecutiva della condanna irrogata al condominio, in ragione del criterio di parziarietà che sorregge l'imputazione ai singoli partecipanti delle obbligazioni assunte nell'interesse dell'intero condominio).. Appare, in definitiva, plausibile concludere (ad avviso di Scarpa, in Celeste – Scarpa 2014, 358) nel senso che la posizione del condomino in regola con i pagamenti, chiamato dal creditore a rispondere delle quote dovute dai morosi, dopo la preventiva escussione degli stessi, sia assimilabile a quella di un fideiussore, sia pure ex lege, nel senso che il condomino solvente garantisce l'adempimento del contributo imposto al moroso, ovvero un debito altrui. Ciascun condomino è realmente obbligato (in via primaria verso l'amministratore, e in via surrogatoria verso il creditore) soltanto per la quota di debito proporzionata al valore della sua porzione, ed è invece garante per le quote dei condomini inadempienti, restando i rispettivi rapporti obbligatori distinti perché generati da cause normativamente distinte; l'obbligo del condomino puntuale nei pagamenti, essendo accessorio ed ausiliario di quello del condomino moroso, nonché diretto ad adempiere a quello che quest'ultimo manca di soddisfare, è, in tal senso, condizionato a quell'inadempimento e commisurato alla rispettiva quota non versata. Pignoramento del conto corrente condominialeStando ai provvedimenti editi, forse uno dei dibattiti più vivace, entrata in vigore la riforma della normativa condominiale, è da rinvenirsi nella problematica relativa alla pignorabilità o meno del conto corrente intestato al condominio. Al riguardo, le pronunce dei giudici di merito sembrano mettere parzialmente in discussione principi in materia condominiale che si davano per scontati, specie per l'autorevole fonte di provenienza. La problematica de qua sconta, a monte, l'irrisolta configurazione della natura giuridica del condominio, conseguendone, a cascata, incertezze esegetiche che disorientano soprattutto gli operatori pratici, segnatamente i terzi creditori del condominio (si pensi all'appaltatore che ha eseguito i lavori di impermeabilizzazione del lastrico solare o il rifacimento della facciata, il fornitore di utenze, l'impresa delle pulizie, l'avvocato difensore, ecc.). Il disposto normativo da cui prendere le mosse è il riformato art. 1129 c.c. il quale, al comma 7, obbliga l'amministratore a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, «su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio», aggiungendo – forse pleonasticamente – che ciascun condomino, per il tramite dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica del conto corrente condominiale. La situazione si complica – come sopra rilevato – alla luce del nuovo disposto dell'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., secondo cui «i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini»; il capoverso precedente, dopo aver confermato, nell'àmbito interno, che l'amministratore deve riscuotere i contributi condominiali avvalendosi anche del decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, contempla, sul versante esterno, l'obbligo dello stesso amministratore di «comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi». Quest'ultimo (alquanto perverso) meccanismo di recupero del dovuto nei confronti dei condomini, previa «parcellizzazione» del credito a seguito dell'affermata parziarietà dell'obbligazione del condominio, ha causato una certa appetibilità del conto corrente intestato al condominio da parte dei terzi insoddisfatti, fino ad ora scoraggiati dal fatto che il titolo ottenuto (in via ordinaria o monitoria) nei confronti del condominio doveva essere azionato esecutivamente nei confronti del singolo partecipante (Gallucci 2014, 561). In altri termini, anziché intraprendere la lunga e faticosa strada dell'escussione dei condomini morosi e, in seconda battuta, di quelli solventi – secondo la previsione del citato art. 63 – ma sempre correlando il quantum azionabile in via esecutiva alla caratura millesimale di appartenenza, non è sembrato vero per il terzo creditore poter aggredire (tutto e sùbito) questa sorta di «patrimonio» del condominio debitore. A fronte delle legittime rimostranze di quest'ultimo, sono intervenuti i giudici dell'opposizione all'esecuzione – discutendosi, appunto, del «diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata» o/e della «pignorabilità dei beni» ai sensi, rispettivamente, dell'art. 615, comma 1 e 2, c.p.c. – affermando, per la maggior parte, il principio dell'aggredibilità in toto del conto bancario condominiale. Anche se trattasi di delibazioni sommarie proprie delle sospensive di cui all'art. 624 c.p.c., per ritenere la pignorabilità del conto corrente condominiale sono state espressamente disattese le eccezioni dell'opponente condominio volte, da un lato, a rimarcare il decisum del massino organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 9148/2008), e, dall'altro, ad evidenziare le nuove modalità di recupero forzoso del credito come delineate dalla Riforma del 2013. A questo punto, appare utile passare in rassegna qualche decisione, ricordando che siamo in presenza di un pignoramento presso terzi, ossia il fornitore, l'appaltatore, il somministrante, ecc. intendono pignorare, presso l'istituto bancario (debitor debitoris), il credito avente ad oggetto la restituzione del denaro depositato sul conto corrente. Un magistrato meneghino (Trib. Milano 27 maggio 2014) ha fondato il suo convincimento su due rilievi. In primo luogo, si opina che il conto corrente debba considerarsi «autonomo» rispetto al patrimonio dei condomini, in forza del citato art. 1129, comma 7, c.c.; invero, la Riforma obbliga «l'amministratore a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle di qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio», tanto che lo stesso art. 1129, al comma 12, n. 4), precisa che costituisce grave irregolarità «la gestione secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore o di altri condomini», facendo esplicito riferimento alla nozione di «patrimonio del condominio», in modo da tenerlo separato da quello dell'amministratore e dei singoli condomini; ne consegue l'obbligatorietà dell'apertura di conto corrente del condominio, le cui somme, che sullo stesso confluiscono, costituiscono patrimonio autonomo del condominio. In secondo luogo, il tribunale del capoluogo lombardo ha spiegato che tutti i contributi versati dai partecipanti si «confondono» con le altre somme già ivi esistenti, andando perciò ad integrare quel saldo che è ad immediata disposizione del «correntista condominio», secondo l'art. 1852 c.c., senza che mantenga alcun rilievo lo specifico titolo dell'annotazione a credito, né la provenienza della provvista dall'uno o dall'altro condomino; da ciò deriva che il credito pignorato è il credito alla restituzione delle medesime somme depositate, il quale trova causa, appunto, nel rapporto di conto corrente, rimanendo del tutto prive di significato le ragioni per le quali le singole rimesse siano state effettuate, come la provenienza delle stesse dall'uno o dall'altro condomino. La conclusione è, pertanto, nel senso che il pignoramento del saldo del conto corrente condominiale, da parte del terzo creditore, è volto a soddisfare in via esecutiva la sola obbligazione per l'intero gravante sull'amministratore, e «non interferisce con il meccanismo del beneficio di escussione ex art. 63, comma 2, disp. att. c.c., il quale è posto a presidio unicamente dei distinti obblighi pro quota spettanti ai singoli». Sulla stessa lunghezza d'onda, si pone il collega emiliano (Trib. Reggio Emilia 16 maggio 2014), il quale, pur prendendo atto che sia diffusa in giurisprudenza la tesi dell'assenza in capo al condominio di qualunque soggettività e/o autonomia patrimoniale e la ricostruzione di esso in termini di mero «ente di gestione», ritiene che, nelle ipotesi in cui la gestione è effettiva, il condominio si atteggi quale «centro autonomo di imputazione di posizioni giuridiche». Invero, qualora venga costituito un patrimonio – nella specie, un conto corrente – intestato formalmente all'ente di gestione, si realizza una (sia pur embrionale) autonomia patrimoniale derivante proprio dalle attività di gestione che, per ciò solo, determina l'imputazione della titolarità di essi in capo esclusivamente al condominio; in altri termini, atteso che le somme esistenti su tale conto sono formalmente intestate all'ente di gestione, che ne può disporre solo sulla base delle deliberazioni dell'assemblea, le stesse devono ritenersi conseguentemente sottratte alla disponibilità dei singoli condomini, per cui si realizza la coincidenza tra soggetto debitore (condominio) e titolare del patrimonio aggredito (conto corrente). Da questa constatazione, il magistrato reggino fa derivare la conseguenza che il condominio è un centro di imputazione distinto dai suoi partecipanti e, siccome questo centro di imputazione ha un proprio organo decisionale (l'assemblea) che è competente a destinare le somme versate dai condomini, ne discende che, una volta effettuato il versamento, le somme escono fuori dalla disponibilità dei singoli, i quali, di fatto, non possono pretenderne la restituzione; sulle somme presenti nel conto, viene impresso un «vincolo di destinazione» che determina un'elisione del legame giuridico tra i singoli ed il condominio. All'obiezione secondo cui ora esiste l'obbligo di preventiva ed infruttuosa escussione dei condomini morosi, si ribatte che l'art. 63, comma 2, disp. att. c.c. non esclude che il creditore, prima ancora di agire contro i morosi, possa provare a soddisfare le proprie pretese creditorie contro il condominio, il quale è soggetto diverso rispetto ai condomini diligenti e ai condomini morosi; solo qualora tali fondi non siano presenti, allora il creditore del condominio ha titolo per il recupero del proprio credito nei confronti di singoli, pro quota, salvo il rispetto del beneficium excussionis stabilito a favore dei condomini «virtuosi» (in senso sostanzialmente conforme, v. anche Trib. Brescia 30 maggio 2014). Analoga conclusione viene raggiunta da un magistrato etneo (Trib. Catania 26 maggio 2014), il quale, però, fonda la sua soluzione essenzialmente sui principi generali vigenti in materia di ripartizione dell'onere della prova, perché rigetta l'opposizione del condominio sul presupposto che «sarebbe spettato all'amministratore fornire la prova documentale che, sul conto corrente condominiale, non vi siano somme di pertinenza dei condomini morosi, allegando, ad esempio, copia del registro di contabilità condominiale (art. 1130, n. 7, c.c.) e degli estratti conto della banca ove è in essere il rapporto di conto corrente (art. 1129, comma 7, c.c.)». Unica voce fuori dal coro – a quanto consta – risulta l'ordinanza di un giudice abruzzese (Trib. Pescara 18 dicembre 2013), la quale, sulla base del nuovo disposto dell'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., evidenzia lapidariamente che il creditore procedente «non ha documentato, e neppure dedotto, di aver preventivamente escusso i condomini morosi, né di aver richiesto i relativi nominativi all'amministratore», sicché è inammissibile il pignoramento del conto corrente. A ben vedere, in difetto ancora di una qualsiasi personalità giuridica autonoma in capo al condominio, le somme giacenti sul conto corrente «condominiale» sono sempre riferibili ai singoli condomini; qualora le stesse siano state versate dai condomini diligenti – e ciò succede il più delle volte – la riscossione coattiva del conto verrebbe attuata in violazione della condizione posta dall'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., ossia l'obbligatoria preventiva escussione dello specifico condomino moroso; in parole povere, pignorare tout court il conto corrente condominiale significa aggredire il patrimonio dei singoli partecipanti, ivi compresi – soprattutto se non esclusivamente – quello dei condomini «in regola con i pagamenti», i quali potrebbero essere costretti a «scucire» ulteriori quattrini per sopperire agli ammanchi di cassa. Va segnalata, al riguardo, una recente pronuncia (Cass. III, n. 12715/2019), ad avviso della quale il creditore del condominio, che disponga di un titolo esecutivo nei confronti di quest'ultimo, ha facoltà di procedere all'espropriazione di tutti i beni condominiali, ai sensi degli artt. 2740 e 2910 c.c., ivi inclusi i crediti vantati dai condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dagli stessi dovuti in base a stati di ripartizione approvati dall'assemblea, in tal caso nelle forme dell'espropriazione dei crediti presso terzi di cui agli artt. 543 ss. c.p.c.; in disparte l'opinabile affermazione secondo cui i beni condominiali - tutti, nessuno escluso (comprendendovi il tetto, l'androne, le scale, le fondamenta, ecc.) - sarebbero oggetto di espropriazione forzata, l'assunto, volto a legittimare il pignoramento presso terzi, presuppone, appunto, che il condomino (debitor debitoris) sia “terzo” rispetto al condominio, laddove, invece, pochi mesi prima, il supremo organo di nomofilachia, sia pure con riflessi in àmbito processuale, aveva decisamente negato la personalità giuridica del medesimo condominio (Cass. S.U., n. 10934/2019). Sospensione dei servizi per mora ultrasemestraleEvoluzione normativa Un deterrente, al fine di scoraggiare pratiche dilatorie nei pagamenti da parte dei condomini, era già previsto nel vecchio testo dell'art. 63 disp. att. c.c., il cui comma 3 stabiliva che, in caso di mora nel pagamento dei contributi, che si fosse protratta per un semestre, l'amministratore, se il regolamento di condominio ne conteneva l'autorizzazione, poteva «sospendere al condomino moroso l'utilizzazione dei servizi comuni che sono suscettibili di godimento separato». Tale norma aveva avuto, però, scarsa applicazione nella pratica. Per un verso, a causa della non agevole individuazione dei servizi comuni suscettibili di utilizzazione separata (senza escludere che il godimento non risulti in atto già separato, ma possa avvenire anche in un momento successivo): in quest'ottica, potrebbero esserlo il servizio di ascensore – si pensi alla transennatura dell'impianto ai relativi pianerottoli, con dotazione delle chiavi ai soli condomini puntuali nei pagamenti – il servizio idrico, il servizio di riscaldamento, mentre dubbi, per loro indivisibilità, potrebbero nutrirsi per il servizio di illuminazione ed il servizio di pulizia; si pensi, poi, al servizio di portierato, laddove il portiere custodisce lo stabile intero, con un'attività variegata, che mira alla conservazione lato sensu dell'edificio di cui beneficiano tutti coloro che vi abitano (in quest'ottica, sarebbe impensabile che il dipendente del condominio consegnasse la posta a tutti salvo che al condomino moroso o, addirittura, consentisse indirettamente ai ladri l'ingresso nella sua abitazione). Per altro verso, perché il potere dell'amministratore doveva essere contemplato in un regolamento di condominio, non necessariamente contrattuale, potendosi rinvenire anche in uno approvato con le maggioranze di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., richiamato dall'art. 1138, comma 3, c.c., che, d'altronde, contempla «le norme circa l'uso delle cose comuni» (atteso che la sanzione era volta a colpire l'inadempienza del condomino, l'unanimità sarebbe stata difficile da raggiungere in quanto presumibilmente proprio quest'ultimo avrebbe espresso il veto, perché non propenso ad approvare una misura immediatamente applicabile contro ... se stesso). Per altro verso ancora, attese le criticità operative di tale sanzione, considerando soprattutto che avrebbe potuto consentire all'amministratore di attuare anche le necessarie operazioni sugli impianti da eseguirsi all'interno – non solo delle parti comuni, ma anche – della proprietà esclusiva del condomino moroso: infatti, anche se trattavasi di servizi suscettibili di utilizzazione separata, per attuare la misura di privazione dell'uso, talvolta, l'amministratore aveva bisogno di accedere nell'appartamento del condomino moroso per adottare gli opportuni «isolamenti», sicché, per prudenza, era preferibile rivolgersi all'autorità giudiziaria per ottenere la relativa autorizzazione. A quanto consta, la disposizione in esame, nel regime anteriore alla Riforma del 2013, risultava affrontata soltanto in alcune sparute pronunce di merito, che sfioravano le problematiche sopra accennate. In una pronuncia (Pret. Genova 3 dicembre 1993), sotto il profilo del singolo partecipante che subisce la punizione conseguente alla sua mora, ha ritenuto che legittimamente l'amministratore, a norma dell'art. 63, comma 3, disp. att. c.c., poteva disporre la sospensione dell'erogazione dell'acqua al condomino moroso nel pagamento degli oneri condominiali (peraltro, nella relativa motivazione, si legge che «l'utilizzazione dell'acqua, da parte del singolo condomino, va qualificata come possesso, essendo in essa ravvisabili gli estremi di cui all'art. 1140 c.c.»). La conferma che il condomino moroso debba sottostare a queste decisioni dell'amministratore – purché trattasi di mora nel pagamento dei contributi condominiali protratta per oltre un semestre e l'amministratore rinvenga nel regolamento la relativa autorizzazione – la si trova in un'altra pronuncia, ad avviso della quale l'amministratore poteva sospendere al condomino l'utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato, attraverso le necessarie operazioni sugli impianti, anche da eseguirsi all'interno della proprietà esclusiva del condomino moroso, «obbligato a tollerare tali attività» (Trib. Milano 19 ottobre 1998: nella specie l'intervento era stato attuato sul riscaldamento e sull'acqua calda). In un'altra pronuncia ancora (Trib. Busto Arsizio-Gallarate 24 dicembre 2010), che ha analizzato la tematica sul versante del condominio che infligge la sanzione, si è affermato che, pur a fronte del disposto normativo dell'art. 63, comma 3, disp. att. c.c. che, in via di autotutela e senza ricorrere previamente al giudice, attribuiva all'amministratore condominiale, ove il regolamento lo consentisse, il potere di sospendere al condomino moroso l'utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato, doveva ritenersi fornito di interesse ad agire il ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso dal condominio per rimuovere ostacoli frapposti all'esercizio del suddetto potere di autotutela; nella fattispecie esaminata dal giudice lombardo, sul presupposto che, per attuare la sospensione del servizio di riscaldamento centralizzato, era indispensabile intervenire all'interno dell'abitazione dei condomini morosi, i quali, benché preventivamente avvisati, si erano opposti all'accesso dei tecnici incaricati della chiusura degli elementi degli elementi radianti, il condominio ricorrente aveva domandato al giudice di ordinare agli inadempienti di consentire la sospensione del servizio e di non ostacolare tale potere, determinandone anche le modalità applicative (probabilmente, il «pregiudizio imminente ed irreparabile» è stato ravvisato nel fatto che, a fronte dell'irragionevole rifiuto del condomino insolvente, si prospettava una continuazione di godimento del servizio gratis per il singolo ma non per la collettività). La sospensione del condomino moroso dalla fruizione dei servizi condominiali sembra da inquadrare nell'alveo dell'autotutela privata, sul modello dell'art. 1460 c.c., seppure – a ben vedere – l'obbligo del condomino di contribuire alle spese necessarie alla conservazione ed al godimento delle parti comuni dell'edificio, alla prestazione dei servizi nell'interesse comune ed alle innovazioni deliberate dalla maggioranza trovi la sua fonte immediata nel disposto dell'art. 1123, comma 1, c.c. (Figone, 530). In effetti, se si intendesse individuare, nell'art. 63, comma 3, disp. att. c.c., un'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. da parte dell'amministratore – la cui ratio risiede nell'esistenza di un pericolo attuale di inadempimento riconducibile alla sfera dell'obbligato, tale da pregiudicare l'equilibrio corrispettivo di un contratto – dovrebbe riconoscersi il singolo condomino titolare di un diritto di natura contrattuale sinallagmatica nei confronti del condominio, avente ad oggetto la conservazione ed il godimento della cosa comune, o l'erogazione del servizio condominiale, compensati dal pagamento del contributo di spesa, laddove, invece, l'obbligo di pagamento degli oneri condominiali, da parte del singolo partecipante in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare, ha causa diretta nella disciplina del condominio, e, in particolare, trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell'edificio, e non risulta strutturato su coppie di prestazioni corrispondenti (ossia in un rapporto contrattuale che obblighi una controparte ad una controprestazione in favore dell'altra). In parole semplici, secondo l'assunto di cui sopra, segnatamente per quanto concerne i «beni comuni» e gli «impianti comuni», il singolo è tenuto a contribuire, rispettivamente, alle spese di impermeabilizzazione del lastrico solare (anche se non si reca mai in loco per stendere i panni), e alle spese per la manutenzione dell'ascensore (anche se preferisce usare le scale per raggiungere il suo appartamento); parzialmente diverso appare il discorso relativamente ai «servizi comuni», poiché lo stesso condomino può ritenersi obbligato a pagare le spese per la conservazione e messa a norma della caldaia, mentre potrebbe essere esentato da quelle del combustibile qualora non usufruisse del servizio di riscaldamento (può richiamarsi, al riguardo, tutta la giurisprudenza che si era formata sul fenomeno del distacco dal sistema centralizzato, alla luce dell'art. 1118 c.c., allora comma 2 e ora comma 4). Il nuovo testo del citato comma 3 dell'art. 63 disp. att. c.c. – così come introdotto dall'art. 18 della l. n. 220/2012 – prevede che, in caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, «l'amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato»: in pratica, la Riforma della normativa condominiale ha eliminato, dal testo previgente, la condizione che subordinava l'iniziativa inibitoria dell'amministratore ad un'espressa autorizzazione conferitagli dal regolamento di condominio. Resta fermo – come in passato – che il condomino possa considerarsi «moroso» nel pagamento delle quote, al fine di far decorrere il semestre contemplato dall'art. 63, comma 3, disp. c.c., o in virtù dei principi generali di cui all'art. 1219 c.c. a seguito di intimazione fatta per iscritto da parte dell'amministratore, oppure alla luce di un'apposita previsione regolamentare che indichi espressamente i giorni decorrenti dalla richiesta entro i quali il pagamento deve essere eseguito dal ritardatario. È opportuno sottolineare che, in una precedente versione parlamentare dello stesso capoverso – non trasfusa, poi, nel testo definitivo – si era aggiunto che i condomini in ritardo di un semestre nel pagamento dei contributi non avessero più il diritto di voto; l'opportuna eliminazione di tale previsione comporta che lo stesso risultato non possa essere stabilito da una clausola regolamentare che, parimenti, faccia discendere dalla morosità del condomino l'inibizione di tale esercizio in assemblea, atteso che una clausola limitativa della facoltà primaria del singolo partecipante, pur inserita in un àmbito di autonomia negoziale o in un regolamento di natura contrattuale, sembra decisamente alterare lo schema essenziale della disciplina legislativa del condominio. Nella versione definitiva dell'art. 63, comma 3, disp. att. c.c., è scomparso, altresì, il temperamento che era stato fissato in un primo momento durante il percorso parlamentare della Riforma: in particolare, il suddetto potere di sospensione dalla fruizione dei servizi comuni, in capo all'amministratore, era così limitato: «salvo che l'autorità giudiziaria, adita anche in via d'urgenza, riconosca l'essenzialità del servizio per la realizzazione di diritti fondamentali della persona e l'impossibilità oggettiva del ricorso a mezzi alternativi». Peraltro, la mancata previsione testuale del criterio di valutazione dell'adeguatezza dell'iniziativa inibitoria dell'amministratore non impedisce al giudice di censurare, in base ai principi generali, la legittimità della stessa, in modo da impedire la lesione, o anche la minaccia, del diritto alla salute, all'incolumità e all'integrità fisica dei condomini privati del godimento del servizio condominiale, o di altri loro diritti soggettivi fondamentali della persona umana, in modo che non si oltrepassi mai quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque necessaria e doverosa nella gestione dei rapporti condominiali. Il mancato accenno, nella versione definitiva, al diritto alla salute degli abitanti nello stabile condominiale ha denotato una scarsa sensibilità del legislatore del 2013 alle esigenze correlate in generale allo sviluppo della persona durante lo svolgimento dei rapporti interni tra condomini, nonostante la giurisprudenza abbia sempre cercato di valorizzare sempre di più alcuni principi costituzionali, quali appunto la tutela della salute (art. 32 Cost.), nell'ottica di attuare la «funzione sociale» della proprietà (art. 42, comma 2, Cost.). Per completezza, va segnalato il recente intervento del patrio legislatore il quale, nel collegato ambientale alla c.d. legge stabilità 2016 l. 28 dicembre 2015, n. 221 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale 18 gennaio 2016, n. 13) recante «Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali» all'art. 60 si prevede che l'Autorità per l'energia elettrica, il gas ed il sistema idrico (AEEGSI), sentiti gli Enti di ambito, assicuri agli utenti domestici del servizio idrico integrato in condizioni economico-sociali disagiate «l'accesso a condizioni agevolate alla fornitura della quantità di acqua necessaria per il soddisfacimento dei bisogni fondamentali» (poi quantificato in 50 litri abitante/giorno dal d.P.C.M. 20 agosto 2016); quindi, l'obbligo di garantire il suddetto quantitativo vitale minimo di acqua dovrebbe comportare il divieto di staccare l'acqua negli appartamenti dei condomini morosi che si trovino nelle condizioni economiche di cui sopra. Risposta della giurisprudenza In quest'ottica, alcuni giudici di merito hanno ordinato, ai sensi dell'art. 700 c.p.c., il ripristino del servizio del riscaldamento, in quanto la privazione di una fornitura essenziale per la vita, quale il riscaldamento nel periodo invernale, è suscettibile di ledere i diritti fondamentali delle persone, di rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute (art. 32 Cost.), mentre, di contro, il diritto, che con la sospensione si intende tutelare, è puramente economico e sempre riparabile; il recupero degli eventuali crediti sarà sempre possibile, potendo il condominio creditore contare sulla garanzia costituita dagli immobili dei singoli condomini, operando così un equo contemperamento dei contrapposti interessi (Trib. Milano 24 ottobre 2013, sottolineando, sotto l'aspetto del c.d. periculum in mora, che «il pericolo di danno grave ed irreparabile comporta l'adozione del provvedimento inaudita altera parte, stanti le condizioni climatiche di autunno avanzato ed i prevedibili gravi pregiudizi alla salute delle persone dimoranti nello stabile»). Nella medesima prospettiva, si è ordinato immediatamente al condominio di riattivare la fornitura del servizio idrico integrato, relativamente al contratto dell'immobile ad uso residenziale del ricorrente, qualora le bollette non pagate riguardino soltanto il garage, e non la casa di abitazione, perché la sospensione di servizi essenziali finisce per ledere valori tutelati dalla Costituzione (Trib. Fermo 23 marzo 2016). In buona sostanza, nella nuova ottica delineata dall'art. 63, comma 3, disp. att. c.c., l'interruzione di un servizio comune, qualora leda un diritto costituzionalmente tutelato – quale, nel caso concreto, il diritto alla salute – non può trovare mai applicazione nei confronti di un condominio moroso, comportando che il nuovo strumento dissuasivo dovrà essere applicato con estrema prudenza da parte dell'amministratore, tanto più che ora non si prevede alcun passaggio preventivo in sede assembleare, né che vi sia un'apposita clausola del regolamento che autorizzi siffatta iniziativa (in altri termini, solo l'esperienza e la professionalità sapranno suggerire all'amministratore quando è opportuno, oltre che legittimo, esercitare tale forma di autotutela). Nel silenzio della norma, sembra che il potere discrezionale conferito all'amministratore – restando il suo dovere di perseguire il moroso, in modo incisivo, mediante il ricorso al decreto ingiuntivo di cui al comma 1 dello stesso art. 63 disp. att. c.c. – debba essere messo in atto cum grano salis, solo in situazioni talmente gravi da non consentirgli una diversa soluzione, e sempre alla luce dei canoni generali della diligenza del buon padre di famiglia, stando attenti a che il magistrato, a seguito di istanza (di regola, d'urgenza) del condomino leso, potrà sempre censurare eventuali azioni che possano ledere o minacciare il diritto alla salute, all'incolumità e all'integrità fisica, o i diritti soggetti fondamentali della persona umana. A stretto rigore, il disposto normativo dell'art. 63, comma 3, disp. att. c.c. attribuisce all'amministratore condominiale – in via di autotutela e senza ricorrere previamente al giudice – il potere di sospendere al condomino moroso l'utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato, e, dopo la modifica normativa che ha eliminato la previsione «ove il regolamento lo consenta», l'esercizio di tale potere configura un potere-dovere dell'amministratore condominiale il cui esercizio è legittimo ove la sospensione sia effettuata intervenendo esclusivamente sulle parti comuni dell'impianto, senza incidere sulle parti di proprietà esclusiva del condomino moroso (Trib. Modena 5 giugno 2015). Non sono, comunque, mancate pronunce favorevoli alle esigenze del condominio. Lo stesso magistrato meneghino (Trib. Milano 7 febbraio 2014) ha autorizzato il condominio a sospendere la fornitura del medesimo servizio di riscaldamento nell'appartamento di un condomino, ordinando a quest'ultimo di «tollerare e non ostacolare» tale attività, mediante le opportune operazioni sugli impianti comuni da eseguirsi «all'interno della proprietà esclusiva autorizzando l'accesso con mezzi e tecnici idonei»; pacifico il fumus boni iuris, stante la confessione del resistente, sul periculum in mora si è osservato che «la persistenza morosità del condomino può determinare l'insolvenza del condominio nel suo complesso, con conseguente interruzione dei servizi da parte dei gestori, e ripercussione nella sfera privata dei condomini virtuosi all'uso dei servizi essenziali nella vita quotidiana, quali il riscaldamento, per cui l'amministratore non può più proseguire nella corretta gestione condominiale per assenza di fondi e portare a termine il mandato conferitogli». E ancora, in caso di mora nel pagamento dei contributi, che si sia protratta per più di un semestre, è stato ordinato ex art. 700 c.p.c. al condomino moroso di consentire ai tecnici o/e all'impresa incaricati dal condominio la realizzazione della sospensione della fornitura del riscaldamento, mediante ingresso all'interno dei locali di sua proprietà e mediante l'interruzione dell'afflusso dell'acqua calda dalle tubazioni condominiali verso i radiatori posti all'interno della stessa unità immobiliare, ciò tramite i tecnici o l'impresa di cui sopra che «intercettino» le tubazioni d'acqua calda di ingresso, chiudendole con tappi o con altro mezzo tecnico del caso (Trib. Brescia 17 febbraio 2014). E ancora, l'amministratore di condominio può chiedere un provvedimento d'urgenza al giudice al fine di ottenere l'autorizzazione alla sospensione dell'erogazione del servizio di fornitura dell'acqua nei confronti dei condomini morosi, in virtù di quanto sancito dall'art. 63 disp. att. c.c., potendo tale sospensione dell'afflusso dell'acqua riguardare le sole unità immobiliari dei condomini morosi (Trib. Brescia 27 gennaio 2014; in senso conforme, v., altresì, Trib. Roma 27 giugno 2014; Trib. Lecco 29 dicembre 2014). Da ultimo, un magistrato del capoluogo felsineo (Trib. Bologna 3 aprile 2018), accogliendo il reclamo del condominio, ha ritenuto consentita la sospensione dei servizi al condomino che non abbia provveduto al pagamento delle relative quote di sua pertinenza per oltre un semestre, senza che rilevi la natura del bene oggetto del servizio; si è reputato che tale interpretazione sia conforme al dettato letterale dell'art. 63 disp. att. c.c., né si possa trarre dalla previsione dell'art. 32 Cost. un generale obbligo di solidarietà a carico degli altri condomini, che agiscono nell'àmbito di un rapporto strettamente privatistico e che finirebbero per essere obbligati a gravarsi delle quote del moroso per non subire l'interruzione del servizio da parte del gestore. In particolare, un giudice veneto (Trib. Treviso 21 luglio 2017), una volta accertata l'esistenza dei presupposti di cui all'art. 63, comma 3, disp. att. c.c. – all'esito del procedimento sommario di cognizione di cui all'art. 702-bis c.p.c. – ha autorizzato il condominio, in persona dell'amministratore pro tempore, a sospendere la fruizione dei servizi comuni di riscaldamento, di raffrescamento e di fornitura di acqua calda sanitaria dell'immobile di proprietà del condomino moroso, mediante la chiusura temporanea delle rispettive valvole o, in alternativa, ove queste siano site all'interno dell'unità immobiliare, mediante intercettazione e chiusura delle tubazioni nelle parti comuni con opere a cura del ricorrente (e con spese a carico del resistente), oltre a condannare quest'ultimo al pagamento delle spese di lite. Tuttavia, viene lecito chiedersi perché l'amministratore abbia sentito la necessità di rivolgersi al magistrato al fine di ottenere tale autorizzazione “preventiva”, laddove – come sopra rilevato – l'iniziativa contemplata dal citato art. 63 non la preveda affatto, nel senso che il medesimo amministratore può tranquillamente attivarsi motu proprio, addirittura senza previsione a monte da parte del regolamento e by-passando qualsiasi nulla-osta assembleare. Sta di fatto che, in mancanza di clausola ad hoc nel regolamento – che comunque la Riforma del 2013 non ha contemplato, e anzi a contrario sembra aver escluso (v. anche appresso) – l'attuale sistema attribuisce all'amministratore di condominio un vero e proprio potere/dovere, conseguendone, da un lato, che l'amministratore dovrà esercitarlo senza tenere conto della volontà dei condomini e, dall'altro, che il medesimo amministratore sarà inevitabilmente costretto ad applicare la misura sanzionatoria per evitare, a sua volta, un inadempimento ai suoi doveri (e, quindi, una possibile revoca giudiziaria). In questa prospettiva, solo l'esperienza e la professionalità sapranno suggerire all'amministratore quando è opportuno, oltre che legittimo, esercitare tale forma di autotutela, sicché, nell'incertezza, forse bene ha fatto il ricorrente, benché conscio delle sue prerogative, ad invocare l'intervento del magistrato in via prudenziale. Opportunità del regolamento Comunque, è chiaro il messaggio del legislatore nel senso di responsabilizzare i condomini a provvedere celermente a saldare i propri debiti, pena la sospensione del servizio comune, ma è pur sempre preferibile – qualora appunto la risposta alla morosità di uno dei partecipanti non si fermi solamente all'aspetto «economico» – che il regolamento, per così dire a monte, o l'assemblea, di volta in volta, indichi con precisione le ipotesi in presenza delle quali l'amministratore possa avvalersi del rimedio in esame e, altresì, le modalità concrete con cui attuare tale reazione «in natura». Invero, trattasi, pur sempre, di una misura privata abbastanza grave, per non dire odiosa, che assomiglia molto alla «ragion fattasi», riservata di solito alla Pubblica Amministrazione o agli esercenti pubblici servizi, in ordine alla quale il singolo condomino, privato dell'uso del servizio comune, si viene a trovare in una situazione dipati a fronte della quale non sembra possa avanzare alcuna pretesa risarcitoria (Parini, 155) Nel previgente regime, il legislatore codicistico si era mostrato alquanto severo nei confronti del condomino moroso, nell'ottica che quest'ultimo, omettendo il pagamento degli oneri condominiali, arrecava pur sempre un danno all'intero condominio, che era costretto a limitare le sue attività gestionali per carenza di fondi sufficienti, ma, al contempo, lo stesso legislatore, disponendo che l'inibitoria attuata dall'amministratore trovasse la fonte legittimante nel regolamento, tutelava in qualche modo lo stesso condomino moroso da decisioni arbitrarie dell'amministratore, specie laddove non venivano contemplate adeguate proporzioni tra debito del singolo e servizio sospeso. In effetti, il confermato limite del ritardo nel pagamento delle rate condominiali rapportato al «semestre» significa aver stabilito una certa corrispondenza tra la morosità – che, in questi sei mesi, potrebbe essere sanata – e la sospensione del servizio; resta il problema se la mora debba durare da almeno sei mesi senza interruzione o se è sufficiente una mora nel pagamento di contributi per un importo pari a tale periodo anche se non consecutivo, ma la lettera della legge – «mora...protratta per un semestre» – induce a ritenere più corretta la prima opzione ermeneutica che, però, indurrebbe ad un certo favor per il ritardatario, il quale potrebbe sempre evitare la sospensione versando, periodicamente, una rata condominiale ogni sei mesi (Pirrello, 41). Nel difetto della previsione regolamentare come eliminata nell'attuale regime, l'amministratore, ricorrendo a questa misura drastica, agisce a proprio rischio, nel senso che, qualora nel successivo eventuale giudizio instaurato dal condomino pregiudicato dalla suddetta privazione, si accertasse l'inesistenza della morosità del condomino medesimo o, addirittura, venisse negato il credito del condominio, potrebbe configurarsi una qualche responsabilità in capo all'amministratore medesimo. Ovviamente, l'opportunità di una tale clausola è da valutarsi caso per caso, senza dimenticare, però, che non potrà evitarsi di attribuire, all'amministratore di condominio, un vero e proprio potere/dovere, conseguendone, da un lato, che l'amministratore dovrà esercitarlo senza tenere conto della volontà dei condomini (a meno che non si pervenga ad una modifica del regolamento), e, dall'altro, che il medesimo amministratore sarà inevitabilmente costretto ad applicare la misura sanzionatoria per evitare un inadempimento ai suoi doveri (e, quindi, una possibile revoca). Il suddetto regolamento potrebbe, poi, stabilire l'esatta determinazione del semestre di morosità: di regola, dovrebbe decorrere dall'approvazione del consuntivo cui la morosità si riferisce (argomentando ex art. 1129, comma 9, c.c.), ma nulla esclude che sia correlata all'approvazione del preventivo o alla scadenza della prima rata; si potrebbe, inoltre, prescrivere un preavviso scritto prima della sospensione – ad esempio, avvertendo il condomino interessato a mezzo di lettera raccomandata a.r., almeno dieci giorni prima – sempre opportuno quando si opera sulla prestazione di servizi indispensabili (Trib. Milano 25 maggio 1992, secondo cui l'efficienza e la funzionalità dell'impianto di riscaldamento sono «direttamente strumentali alla normale abitabilità delle singole porzioni immobiliari»). La clausola de qua potrebbe, altresì, individuare una soglia minima di mora in presenza della quale scatta la sospensione dal servizio – non essendo, all'evidenza, operante allorché il ritardo nel pagamento riguardi un solo centesimo di euro – ad esempio, prevedendo che la suddetta condizione si intende verificata qualora il condomino raggiunga una morosità pari all'ammontare monetario di un semestre di spesa, calcolato con riferimento all'importo complessivo di spesa dal medesimo sostenuta nell'ultimo esercizio rendicontato per il medesimo servizio, secondo le somme indicate nel relativo consuntivo. La clausola, infine, potrebbe prevedere la sospensione con riferimento solo ad alcune forniture – per esempio, potrebbe riguardare il riscaldamento e non l'acqua corrente (o viceversa) – oppure potrebbe stabilire che la suddetta sospensione possa essere effettuata esclusivamente per il servizio in relazione al quale sussiste la morosità; in difetto, non si evince che l'amministratore debba necessariamente sospendere «quel» servizio per cui il condomino non paga i contributi – anche perché, a parte il riscaldamento, spesso la bolletta periodica condominiale comprende un coacervo di «voci» – salvo augurarsi sempre una certa corrispondenza tra la misura della sospensione e la consistenza del debito non onorato. Soggetto obbligatoAcquirente e alienante La riconosciuta natura propter rem del contributo condominiale importa un'oggettiva ed ineludibile connessione tra titolarità del diritto reale ed obbligazione contributiva: in buona sostanza, il soggetto obbligato viene individuato – non già in forza dei suoi connotati fisici, bensì – in quanto si trova in relazione con una cosa, e la c.d. ambulatorietà comporta l'automatico trasferimento dell'obbligazione conseguentemente al trasferimento del diritto di proprietà sulla cosa medesima. Tale regola, tuttavia, trova alcuni temperamenti nell'ipotesi di trasferimento di proprietà di una porzione dell'edificio condominiale. (v., da ultimo, Cass. II, n. 21860/2020, secondo cui, in tema di ripartizione delle spese condominiali tra venditore e acquirente dell'immobile, il previgente art. 63, comma 2, disp. att. c.c. - ora, in forza della l. n. 220/2012, art. 63, comma 4, disp. att. c.c. – delinea a carico dell'acquirente un'obbligazione solidale, non propter rem, ma autonoma, in quanto costituita ex novo dalla legge esclusivamente in funzione di rafforzamento dell'aspettativa creditoria del condominio su cui incombe, poi, l'onere di provare l'inerenza della spesa all'anno in corso o a quello precedente al subentro dell'acquirente). Invero, l'art. 63, comma 2, disp. att. c.c. (nel testo ante Riforma del 2013) disponeva che chi subentrava nei diritti di un condomino fosse obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso ed a quello precedente (il subentro doveva, comunque, essere correlato all'atto di compravendita, al titolo ereditario, o comunque al passaggio della proprietà, escludendo, ad esempio, il contratto preliminare). La norma in oggetto aveva dato luogo ad un fascio di problemi interpretativi, sia in relazione al periodo indicato dalla stessa, sia per quanto concerne il vincolo di solidarietà. In ordine al periodo indicato dalla norma, si riteneva che, per «anno». dovesse intendersi non quello solare, ma quello di gestione, comprendente sempre 365 giorni, a partire dalla data scelta dall'assemblea dei condomini o fissata nel regolamento (ad esempio, dal 30 giugno e non dal 1° gennaio); era apparso, infatti, ingiustificato che un condomino moroso da oltre due anni non fosse stato citato in giudizio dall'amministratore per il recupero delle somme non versate; sul punto, si è puntualizzato (Cass. VI, n. 7395/2017) che, in tema di ripartizione delle spese condominiali, l'espressione «anno in corso», di cui al previgente art. 63, comma 2, disp. att. c.c. – ora, in seguito all'approvazione della l. n. 220/2012, art. 63, comma 4, disp. att. c.c. – va intesa, alla luce del principio della «dimensione annuale della gestione condominiale», con riferimento al periodo annuale costituito dall'esercizio della gestione condominiale, il quale può anche non coincidere con l'anno solare (in argomento, v., altresì, Cass. II, n. 2979/2012, secondo cui la responsabilità solidale dell'acquirente di una porzione di proprietà esclusiva per il pagamento dei contributi dovuti al condominio dal venditore è limitata al biennio precedente all'acquisto, trovando applicazione l'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., e non già l'art. 1104 c.c., atteso che, ai sensi dell'art. 1139 c.c., le norme sulla comunione in generale si estendono al condominio soltanto in mancanza di apposita disciplina, sicché si è cassata la sentenza di merito la quale, nell'interpretare la clausola di un contratto preliminare, che prevedeva l'obbligo della promittente venditrice di estinguere ogni debito nei confronti del condominio prima della stipula del definitivo, aveva ritenuto che l'impegno così assunto riguardasse i contributi dovuti dal venditore, già cessionario a sua volta dell'alloggio, non nei limiti dell'art. 63 disp. att. c.c., ma per intero, sostanzialmente affermando l'applicabilità dell'art. 1104 c.c.) ; da ultimo,Cass. II, n. 10346/2019ha precisato che il regolamento di condominio non può accollare all'acquirente di un immobile le morosità arretrate del venditore anteriori al biennio rispetto all'atto di acquisto: tale estensione, infatti, è illegittima perché amplia oltremodo i margini temporali retroattivi della responsabilità solidale dell'acquirente, fissati da una norma, l'art. 63 disp. att. c.c., dichiarata inderogabile dal successivo art. 72). Per quanto concerne il vincolo di solidarietà, si è visto che l'obbligo di partecipazione alle spese condominiali veniva ritenuto come obbligazione propter rem: escludendo la natura personale dell'obbligo, quindi, chiunque subentrava nel diritto di proprietà di un condomino, e nel contempo di comproprietà delle cose comuni, si accollava le relative spese, anche se il fatto che aveva reso queste necessarie fosse avvenuto prima del suo ingresso nel condominio, salvo porre il limite temporale di cui sopra alla solidarietà con l'alienante; tale solidarietà comportava che l'amministratore poteva rivolgersi anche nei confronti dell'acquirente, o, visto sotto l'altro angolo di visuale, quest'ultimo non poteva sottrarsi al pagamento dei contributi richiestigli allorché nello stato di ripartizione approvato dall'assemblea figuri, anziché il suo nome, quello del suo dante causa. Nulla escludeva, ovviamente, che, in caso di pagamento, chi subentrava nella titolarità di un'unità immobiliare sita in un edificio condominiale potesse esercitare il regresso nei confronti dell'alienante; invero, secondo il Supremo Collegio (Cass. II, n. 1956/1996), il principio dell'ambulatorietà passiva ha riscontro nell'art. 63, comma 4, disp. att. c.c., e in virtù di esso l'acquirente di un'unità immobiliare condominiale poteva essere chiamato a rispondere dei debiti condominiali del suo dante causa, solidalmente con lui, ma non al suo posto, ed operava nel rapporto tra questi ultimi; in questo secondo rapporto, salvo che non fosse diversamente convenuto tra le parti, era invece operante il principio generale delle obbligazioni: l'acquirente dell'unità immobiliare rispondeva soltanto delle obbligazioni condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandola, era divenuto condomino, e, se, in virtù dell'ambulatorietà passiva di tali obbligazioni fosse stato chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali sorte in epoca anteriore, aveva diritto a rivalersi del suo dante causa (v., da ultimo, Cass. II, n. 14531/2022, ad avviso della quale l'art. 63, comma 2, disp. att. c.c. - nel regime previgente rispetto alla l. n. 220/2012, delineava, a carico dell'acquirente, un regime di responsabilità solidale per il pagamento degli oneri condominiali dovuti dall'alienante, limitata al biennio antecedente all'acquisto, che opera solo nei rapporti esterni con il condominio, ma non anche nel rapporto interno tra acquirente e alienante, sicché, in tale rapporto, salvo che non fosse diversamente convenuto dalle parti, l'acquirente rispondeva soltanto delle obbligazioni condominiali sorte successivamente al momento dell'acquisto e, qualora fosse chiamato a rispondere di quelle sorte in epoca anteriore, aveva comunque diritto di regresso nei confronti del suo dante causa, senza che, peraltro, assuma rilevanza alcuna, al fine di escludere tale regresso, la notificazione, da parte dell'alienante, di un atto di significazione di illegittimità della pretesa del condominio). Orbene, la corretta individuazione del momento di insorgenza del debito contributivo comporta conseguenze, oltre che nei rapporti tra venditore e acquirente del predetto appartamento – v. supra – anche nei rapporti esterni con il condominio (v., tra le tante, Cass. II, n. 11152/1997; Cass. II, n. 10214/1996). Invero, si è visto che, in forza dell'art. 63 citato, l'acquirente di un appartamento sito nell'edificio condominiale è tenuto a pagare all'amministratore – sia pure in solido con l'alienante – i contributi afferenti ad un periodo anteriore al trasferimento della proprietà dell'unità immobiliare, rispetto al quale non risultava titolare della res cui si riferivano le spese de quibus. Al di fuori di questa ipotesi legislativamente prevista, l'obbligo di ciascun condomino di contribuire alle spese sorge nel momento in cui si rende necessario provvedere ai lavori che giustificano la spesa, e non quando il debito viene determinato in concreto; di conseguenza, qualora venga pronunciata sentenza di condanna da parte dell'autorità giudiziaria nei confronti del condominio per inosservanza dell'obbligo di manutenzione delle cose comuni, il condomino creditore, che intende agire esecutivamente contro uno degli altri condomini per recuperare il proprio credito accertato nella predetta sentenza, deve rivolgere la propria pretesa (e quindi esercitare la propria azione giudiziaria), con riferimento sia al credito principale, sia a quello accessorio relativo alle spese processuali, contro chi riveste la qualità di condomino nel momento in cui detto obbligo è venuto in essere, e non contro colui che è divenuto condomino successivamente e riveste tale qualità nel momento in cui il debito è stato determinato giudizialmente (nella stessa linea, Cass. II, n. 12013/2004, ha riformato la sentenza di appello che aveva applicato l'opposto principio, ritenendo obbligato al pagamento l'acquirente, solo perché rivestiva la qualità di condomino nel momento della liquidazione, operata dalla sentenza, della somma dovuta, piuttosto che il venditore, il quale rivestiva la qualità di condomino al momento in cui insorgeva l'obbligo – e, in caso di inosservanza, la responsabilità – di tutelare l'integrità delle parti comuni). In tal modo, il Supremo Collegio implicitamente risolve la questione concernente la pertinenza delle spese legali relative ai giudizi iniziati quando il condomino alienante era ancora proprietario e conclusi al subentro dell'acquirente; invero, non ritenendo le spese legali come mero accessorio dell'obbligo contributivo connesso alla predetta attività di conservazione, si era portati a sostenere che anche l'obbligazione afferente a tali spese si trasferisse con il passaggio di proprietà, sicché le spese da pagarsi dopo il predetto subentro sono a carico del nuovo condomino, indipendentemente dalla data della loro deliberazione o maturazione, considerando, quindi, decisivo il momento della conclusione del giudizio (resta salva l'ipotesi del dissenso alla lite ex art. 1132 c.c. ritualmente e puntualmente manifestato dal cedente, che consente la trasmissione del relativo esonero dalle spese di lite anche al condomino subentrante). Per completezza, va ricordato che lo stesso Supremo Collegio ha affermato che l'alienante rimaneva legittimato a partecipare direttamente alle riunioni assembleari e ad impugnare le relative deliberazioni, nonostante avesse perduto lo status di condomino, fino a quando l'acquirente non si qualificasse di fronte al condominio, rendendo noto, in forma adeguata, il mutamento di titolarità dell'unità immobiliare, che giustificava il suo formale inserimento nel condominio (Cass. II, n. 9/1990; Cass. II, n. 2658/1987; Cass. II, n. 2484/1972; questo al fine di rendere possibile una corretta e scorrevole gestione delle cose comuni, per cui Cass. II, n. 9366/1996, qualifica l'operato dell'ex condomino come «gestione d'affari senza rappresentanza» nei confronti del condomino subentrato). Quindi, indipendentemente dalla realtà giuridica concernente l'appartamento, fino a quando non era stato notificato o comunicato l'avvenuto passaggio di proprietà, avrebbero potuto rimanere medio tempore in capo all'alienante sia i diritti – come ad esempio, quello di partecipare alle assemblee – che gli obblighi – si pensi, al pagamento degli oneri condominiali – relativi alla posizione di condomino (Cass. II, n. 5307/1998; Cass. II, n. 1750/1964). La situazione sopra delineata è parzialmente mutata a seguito della Riforma del 2013: in particolare, gli ultimi due commi dell'art. 63 disp. att., oltre a lasciar fermo – come in precedenza – l'obbligo di «chi subentra nei diritti di un condomino», in solido con questo, «al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente», prevedono – innovativamente rispetto a prima – che «chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto». Del resto, l'amministratore è tenuto a curare ora, in forza dell'art. 1130, n. 6), c.c., la tenuta del registro di anagrafe condominiale, contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, ed ogni variazione dei dati deve essere comunicata all'amministratore in forma scritta entro venti giorni. Tale onere di comunicazione all'amministratore della variazione di titolarità della porzione esclusiva non incide sull'individuazione del momento traslativo dei contratti di cessione dei diritti, il quale comunque coincide con lo scambio del consenso tra il precedente condomino cedente ed il condomino subentrante cessionario; piuttosto, la comunicazione della variazione, la quale deve non soltanto assumere la forma scritta, per l'annotazione nel registro dell'anagrafe, ma addirittura essere accompagnata dalla trasmissione di copia autentica dell'atto di proprietà, occorre allo scopo di procurare la liberazione dell'alienante dall'obbligo di contribuzione alle spese condominiali: in particolare, nei confronti del condominio, il cedente viene individuato come coobbligato con il cessionario per tutti i contributi che maturano fino al momento in cui sia data, con la prevista modalità formale, notizia del trasferimento del medesimo diritto. A questo punto, ci si può chiedere cosa succede alla mancata trasmissione del titolo di trasferimento all'amministratore, nella nuova fattispecie obbligatoria allestita con il comma 5 dell'art. 63 disp. att. c.c. L'omissione informativa non ha, evidentemente, la forza di sospendere l'efficacia della vicenda traslativa nei confronti del condominio, al quale non si concede un potere sanzionatorio di opposizione di tipo invalidante, rivolta contro l'altrui attività negoziale allo scopo di impedirne la propagazione degli effetti verso l'opponente gestione collettiva; l'irrilevanza della vicenda traslativa non comunicata all'amministratore è volta solo a contestare l'opponibilità di una cessione già perfetta e predeterminata, dando luogo ad un effetto transitorio sospensivo destinato a durare fino alla trasmissione di copia autentica del titolo (in altri termini, l'onere di dare notizia del trasferimento rimane del tutto all'esterno dell'assetto strutturale della cessione). L'art. 63, ultimo comma, disp. att. non prospetta tra il cedente (ex condomino) ed il cessionario (attuale condomino) un vincolo di responsabilità sussidiaria, connotata dal beneficium ordinis, in virtù del quale il condominio debba rivolgersi al cedente solo dopo essersi verificato l'inadempimento del cessionario (sul modello dell'art. 63, comma 2, disp. att. c.c.); a legittimare la domanda di pagamento dei contributi maturati nei confronti del cedente non è, cioè, necessaria una preventiva richiesta di adempimento nei confronti del cessionario, del quale, del resto, si presume l'amministratore nemmeno abbia conoscenza; nei rapporti relativi a cedente e cessionario ricorre, piuttosto, un vincolo di corresponsabilità solidale pura (così Scarpa, in Celeste – Scarpa 2017, 966). Analogamente a quanto previsto dall'art. 1408 c.c., per la ben diversa ipotesi della cessione del contratto, la liberazione dell'ex condomino cedente nei confronti del condominio è, in definitiva, subordinata al verificarsi dell'informazione sulla vicenda sostitutiva data al condominio, continuando egli a rispondere, altrimenti, non soltanto delle obbligazioni di spesa divenute esigibili anteriormente alla cessione dei diritti di condominio e non adempite, quanto pure di quelle maturate fino al giorno della trasmissione del titolo di acquisto all'amministratore. La comunicazione della variazione soggettiva, di cui all'art. 1130, n. 6), c.c. che deve essere compiuta entro sessanta giorni dal verificarsi della vicenda traslativa, deve assumere forma scritta, mentre, per la liberazione dell'alienante dall'obbligo di pagamento delle spese, si richiede, altresì, l'inoltro della copia autentica dell'atto traslativo (sia pure in dipendenza di aggiudicazione forzata). Ovviamente, il meccanismo del permanente obbligo del cedente, il quale non comunichi l'alienazione, e del subentro dell'acquirente nei debiti condominiali del suo dante causa opera unicamente nel rapporto tra il condominio ed i soggetti che si succedono nella proprietà della singola unità immobiliare, e non anche nel rapporto interno tra alienante ed acquirente, per la natura personale (e non reale) delle rispettive obligationes; salvo che le parti non abbiamo diversamente convenuto, il compratore risponde, perciò, verso il venditore soltanto per le spese condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui egli sia divenuto condomino, ed ha diritto di rivalersi nei confronti del suo dante causa allorché sia stato chiamato dal condominio a rispondere di obbligazioni nate in epoca anteriore all'acquisto. Ne consegue l'estraneità dell'art. 63, commi 4 e 5, disp. att. c.c. al concetto dell'obligatio propter rem, nel senso che l'obbligazione dell'alienante a versare i contributi scaduti prima della vendita e dalla comunicazione del trasferimento non ha affatto carattere ambulatorio; inoltre, l'obbligo solidale del cedente per i contributi maturati dopo la cessione ma antecedente alla trasmissione del titolo all'amministratore, come l'obbligo dell'acquirente per il pagamento dei contributi relativi all'anno in corso ed a quello precedente, non sono imputabili alla titolarità della quota millesimale al momento in cui si sia verificata la necessità della spesa, e neppure al momento della deliberazione assembleare di approvazione. Gli stessi ultimi due commi dell'art. 63 disp. att. c.c. si riferiscono in modo generale ad ogni contributo, laddove non tutte le spese dovute dai condomini appaiono propriamente obligationes propter rem, atteso che vi sono esborsi per l'amministrazione della proprietà condominiale che non sorgono ex lege in forza della titolarità della quota millesimale, e per i quali, pertanto, va diversamente determinato il momento di esigibilità della prestazione, anche ai fini dell'affermazione della responsabilità per inadempimento a carico dell'alienante o dell'acquirente della porzione immobiliare. Locatore e conduttore Nei rapporti di condominio, possono coesistere varie relazioni, sia di diritto reale che obbligatorio, le quali, ove interferenti sotto il profilo fattuale, non sempre costituiscono realtà avulse l'una dall'altra dal punto di vista giuridico, il che comporta, tra l'altro, una certa difficoltà nell'individuazione del soggetto tenuto al pagamento dei contributi condominiali. L'analisi della posizione del conduttore con riferimento agli oneri condominiali va operata alla luce della l. n. 392/1978, c.d. dell'equo canone, che, all'art. 9, prevede a carico del conduttore le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento ed all'ordinaria manutenzione dell'ascensore, alla fornitura d'acqua, dell'energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento d'aria, allo spurgo dei pozzi e delle latrine, nonché alla fornitura dei servizi comuni, nonché le spese per il servizio di portierato nella misura del 90%; sono, invece, a carico del locatore, oltre il restante 10% e le spese straordinarie, anche i premi assicurativi dello stabile, il compenso per l'amministratore e le spese di amministrazione in genere, le spese di revisione dell'impianto di riscaldamento e dell'impianto antincendio, le spese di ammortamento degli impianti, le imposte relative ai passi carrabili ed all'occupazione del suolo pubblico, salva sempre una diversa convenzione tra le parti sia in ordine all'accollo che alla percentuale di imputazione. Quindi, da un lato, con l'art. 9, il legislatore ha inteso definire analiticamente i criteri di ripartizione degli oneri accessori del canone tra locatore e conduttore, oneri che, nel sistema della legge sul c.d. equo canone, hanno acquisito una fisionomia diversa, divenendo elemento della stessa controprestazione; dall'altro lato, il successivo art. 10 prevede che il conduttore possa avere diritto di voto, in luogo del proprietario dell'appartamento locatogli, nelle deliberazioni condominiali relative alle spese ed alle modalità di gestione del servizio di riscaldamento e di condizionamento d'aria, mentre abbia diritto di intervento, senza però la possibilità di voto, sulle statuizioni concernenti la modificazione degli altri servizi comuni. In effetti, in relazione alla possibilità dell'inquilino di partecipare all'assemblea condominiale, la particolare considerazione per la gestione del servizio di riscaldamento (o di condizionamento) rispetto agli altri servizi – che pure gravano interamente sul conduttore – si spiega con il preminente interesse di questi, non soltanto al controllo della spesa, ma anche e soprattutto alle modalità di erogazione del servizio, cui il locatore, invece, non ha alcun interesse, mentre la possibilità di partecipare all'assemblea senza diritto di voto nelle deliberazioni concernenti le modificazioni degli altri servizi è correlata all'obbligo di pagamento che grava (totalmente o in parte) sul conduttore, cosicché, nonostante l'ultima parola al riguardo spetti al locatore, l'inquilino, intervenendo, può illustrare il proprio punto di vista, cercando in tal modo di far coagulare intorno ad esso la volontà degli altri partecipanti (Basile, 255; De Stefano, 192; Fortunato, 406; Di Rago – Meleo, 69). In proposito, la giurisprudenza di legittimità – dopo qualche tentennamento in sede di prima applicazione della norma – sul rilievo che la l. n. 392 citata disciplinava i rapporti tra locatore e conduttore, senza innovare in ordine alla normativa generale sul condominio, si era assestata nel senso che l'amministratore aveva diritto – ai sensi del combinato disposto degli artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. c.c. – di riscuotere pro quota i contributi, relativi alle spese di manutenzione delle cose comuni ed ai servizi comuni, direttamente ed esclusivamente da ciascun condomino, restando esclusa un'azione diretta nei confronti dei conduttori delle singole unità immobiliari facenti parte del condominio (v., tra le altre, Cass. II, n. 246/1994; Cass. II, n. 10719/1993; Cass. II, n. 4606/1988). Le pronunce di cui sopra attribuivano rilievo preminente alla constatazione che il mancato pagamento degli oneri condominiali da parte del conduttore costituiva causa di risoluzione del contratto di locazione; ciò significava che, se il locatore può agire per l'inadempimento del conduttore, egli e non quest'ultimo, risultava obbligato in via diretta alla corresponsione all'amministratore del condominio delle somme dovute. Decisamente minoritaria era, invece, la ricostruzione di un'obbligazione del conduttore di pagare direttamente all'amministratore la quota degli oneri accessori, e, di converso, di attribuire all'inquilino la legittimazione passiva rispetto all'azione giudiziaria esercitata dall'amministratore per la riscossione dei contributi dei condomini morosi, o la configurazione nel segno della solidarietà delle obbligazioni verso il condominio del locatore-condomino e dell'inquilino. Del resto, si osservava che l'ultimo comma dell'art. 9 citato nella sostanza attribuiva al pagamento da parte del conduttore un carattere di «rimborso», con ciò confermando indirettamente che esclusivo obbligato verso l'ente condominiale era solo il condomino-locatore; la norma, infatti, prevedeva che il pagamento da parte dell'inquilino avvenisse entro due mesi dalla richiesta dal locatore, e che, prima di effettuare il pagamento, il conduttore aveva diritto di ottenere l'indicazione specifica delle spese sostenute, con la menzione dei criteri di ripartizione, nonché di prendere visione dei relativi documenti giustificativi (Giraldi, 577; Guida, 37; Ribaldone, 33). Quindi, anche se relativamente alle spese del servizio comune di riscaldamento competeva al conduttore il diritto di voto, in luogo del condomino-locatore, nelle deliberazioni assembleari riguardanti la relativa gestione ex art. 10 citato, il mancato pagamento degli oneri condominiali da parte dello stesso conduttore – che aveva soltanto l'obbligo di tenere indenne il locatore di quanto da costui pagato per i servizi comuni fruiti da chi aveva avuto in godimento la cosa principale – rilevava soltanto per il locatore, che avrebbe potuto agire per la risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi dell'art. 5 della l. n. 392/1978 a causa del mancato rimborso degli oneri accessori a suo carico (v., altresì, Cass. II, n. 384/1995; Cass. II, n. 1104/1994; Cass. II, n. 5160/1989). Le considerazioni di cui sopra potrebbero essere trasposte al contratto di leasing. Invero, con esso si mira essenzialmente non tanto a trasferire la proprietà dell'immobile, quanto a procurare la disponibilità di quest'ultimo per un certo tempo, alla cui scadenza i vantaggi offerti dal bene concesso in godimento risultano di entità non rilevante; il locatore, che ha investito dei capitali per l'acquisto del bene dal fornitore a nome del conduttore, ritrae un determinato reddito dall'operazione finanziaria, mentre l'utilizzatore si procura il godimento dell'immobile, non immobilizzando l'intera somma per comprarlo, senza escluderne il trasferimento pagando una differenza (Nachira, 70). In quest'ottica, l'amministratore dovrà richiedere il pagamento delle spese condominiali – con giudizio ordinario o con decreto ingiuntivo – direttamente dalla società di leasing, alla quale, in quanto reale condomino, dovrà recapitare l'avviso di convocazione dell'assemblea; il conduttore, a sua volta, sarà tenuto a tenere indenne il concedente dei contributi condominiali di sua spettanza, e parimenti negli argomenti all'ordine del giorno di sua competenza dovrà essere invitato dalla predetta società a partecipare alle relative assemblee, senza escludere ovviamente la possibilità di delega per quanto riguarda le altre materie. Nella stessa prospettiva, prevaleva l'orientamento che impone all'amministratore di convocare all'assemblea il solo locatore, salvo l'obbligo di quest'ultimo di avvisare l'inquilino in relazione agli argomenti per i quali ha il diritto di voto e di intervento. Sotto quest'ultimo profilo – anche qui dopo qualche oscillazione iniziale – la Cassazione è oramai dell'avviso che l'art. 10 della legge sul c.d. equo canone non aveva comportato modificazioni al disposto dell'art. 66 disp. att. c.c., che disciplinava la comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea ai soli «condomini», con la conseguenza che tale avviso doveva essere comunicato al proprietario e non al conduttore dell'appartamento, restando solo il primo a farsi parte diligente per informare il secondo dell'avviso di convocazione ricevuto dall'amministratore onde consentirgli di partecipare alle deliberazioni previste dal citato art. 10, senza che le conseguenze della mancata convocazione del conduttore poteva farsi ricadere sul condominio, che – come ripetono da anni i giudici di legittimità – «rimane estraneo al rapporto di locazione» (così Cass. II, n. 4802/1992). Restava inteso che, ove il conduttore fosse stato convocato dal locatore per gli argomenti all'ordine del giorno di sua pertinenza, lo stesso era legittimato ad impugnare le eventuali deliberazioni viziate (Cass. II, n. 8755/1993), sempre che avessero ad oggetto le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, tuttavia, al di fuori di queste, non si attribuiva all'inquilino un potere generale di sostituirsi al proprietario nella gestione dei servizi condominiali, sicché, ad esempio, doveva escludersi la legittimazione del primo ad impugnare la deliberazione assembleare di nomina dell'amministratore, oppure di approvazione del bilancio preventivo o del regolamento di condominio (Cass. II, n. 869/2012, ad avviso della quale il potere di impugnare le deliberazioni condominiali compete, per il disposto dell'art. 1137 c.c., ai titolari di diritti reali sulle singole unità immobiliari, anche in caso di locazione dell'immobile, salvo che nella particolare materia dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, per la quale la decisione e, conseguentemente, la facoltà di ricorrere al giudice, sono attribuite ai conduttori; in argomento, v., altresì, Cass. II, n. 5238/1986, che ha ritenuto nulla la deliberazione adottata dall'assemblea dei conduttori in materia diversa da quella concernente le spese di gestione del servizio di riscaldamento e le relative modalità, nella specie, in materia di corresponsione ai proprietari di un contributo sulla spesa sostenuta per la trasformazione dell'impianto di riscaldamento; Cass. II, n. 6508/1981, la quale ha ravvisato la nullità della delibera con cui l'assemblea dei conduttori decideva la corresponsione ai proprietari di un contributo nella spesa sostenuta per la trasformazione dell'impianto di riscaldamento). Detta interpretazione tradizionale, del resto, trovava anche conforto nelle disposizioni del codice civile, che disciplinavano, da un lato, la materia condominiale negli edifici, e, dall'altro, il contratto di locazione di immobili urbani; nell'àmbito del condominio, poi, l'amministratore agiva in forza di un mandato con rappresentanza ricevuto dai singoli condomini, mentre, nell'àmbito del contratto di locazione, il locatore ed il conduttore contraevano reciproci diritti ed obblighi, nel contesto di un rapporto che aveva effetto solo inter partes, senza alcun riflesso rispetto ai terzi estranei a tale rapporto, quali il condominio e gli altri condomini. Per completezza, è curioso notare che tale «estraneità» affievolisce (fino a quasi scomparire) per quanto concerne l'osservanza, da parte del conduttore, del regolamento condominiale; in altri termini, se il rapporto tra l'inquilino ed il condominio viene, di regola, «mediato» dal locatore con riferimento al pagamento degli oneri condominiali, alle relazioni con l'amministratore ed all'avviso di convocazione all'assemblea, il medesimo rapporto diventa «diretto» relativamente al rispetto delle clausole regolamentari. È oramai iusreceptum che il conduttore, il quale subentra nel godimento dell'immobile nelle stesse posizioni del locatore, è soggetto alle stesse limitazioni e, in particolare, è tenuto all'osservanza del regolamento condominiale. Ammesso, quindi, che una disposizione regolamentare sia stata regolarmente formata ed abbia acquistato i caratteri dell'opponibilità nei confronti del condomino, deve ritenersi legittima l'azione che il condominio svolga direttamente nei confronti del conduttore di un locale di proprietà esclusiva del medesimo condomino, per la repressione di comportamenti o di atti compiuti, sulla cosa principale o su quelle comuni, oltre i limiti, stabiliti dalle predette clausole regolamentari, entro i quali avrebbe dovuto essere esercitato il godimento ad opera del condomino-locatore. Nell'azione diretta all'osservanza del regolamento condominiale, ed in particolare nel caso di violazione di clausole in esso contenute che stabiliscano il divieto di destinare i singoli locali a determinati usi, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che tale domanda può essere proposta (anche) nei confronti del conduttore, nel senso che il condominio è legittimato a chiedere direttamente all'inquilino – previo accertamento dell'illegittimità del suo operato – la cessazione dell'uso illegittimo e l'osservanza in forma specifica delle limitazioni; il presupposto su cui si basa tale rilievo e quello per cui «il conduttore non può trovarsi, rispetto al condominio, in posizione diversa rispetto al condomino suo locatore, in nome del quale egli detiene» (v., tra le altre, Cass. II, n. 5189/1988; Cass. II, n. 6397/1984). Orbene, l'impostazione originaria del codice civile del 1942 che, nella gestione delle cose singole e comuni, denotava un'impronta prettamente patrimonialistica, si è venuta scontrando con la necessità di tutela degli interessi umani connessi all'abitare e, più in generale, sotto la spinta dei principi costituzionali, di tutela della personalità, anche di soggetti non necessariamente proprietari ma semplici fruitori di servizi comuni. Tradizionalmente, i conduttori delle unità immobiliari erano, di solito, considerati estranei ai rapporti condominiali, ma già la giurisprudenza aveva va via individuato zone di interferenza tra il rapporto di locazione e l'istituto condominiale, sia pure non circoscrivendole con precisione e fornendo soluzioni spesso contrastanti (godimento e modifica delle cose comuni, efficacia delle disposizioni regolamentari, pretese risarcitorie, tutela possessoria, ecc.). Alla luce di quanto sopra delineato, in pratica, anche se l'amministratore sapeva chi fosse il conduttore, oppure gli era stata comunicata l'esistenza di un contratto di locazione, doveva «fingere» di non conoscere l'inquilino e rivolgersi soltanto al proprietario, unico suo legittimo destinatario: infatti, era a lui che doveva richiedere i contributi condominiali non corrisposti, ed era sempre a lui che doveva indirizzare gli avvisi di convocazione per l'assemblea. Sul primo versante, ossia quello relativo alla riscossione dei contributi, sembra che nulla sia cambiato a seguito della l. n. 220/2012 – entrata in vigore il 18 giugno 2013 – nel senso che l'amministratore deve continuare a riscuotere i contributi soltanto dai «condomini» (tale espressione, peraltro, viene richiamata ripetutamente nel corso dei cinque capoversi in cui ora si articola l'art. 63 disp. att. c.c.). Diverso appare, invece, il discorso sul secondo versante, ossia quello relativo agli avvisi di convocazione, atteso che il comma 7 dell'art. 1136 c.c. – al cui commento si rinvia – attualmente, prevede che «l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati», laddove la versione precedente era nel senso che «l'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti i condomini sono stati convocati alla riunione». In buona sostanza, si è volutamente sostituito il termine «condomini» con quello di «aventi diritto», quasi a significare che vi sono altri soggetti, diversi dai condomini, come appunto i conduttori, i quali hanno diritto ad essere convocati all'assemblea direttamente, cioè by-passando il locatore, da parte dell'amministratore il quale, pertanto, diventa obbligato in tal senso (Luppino, 658). Che non si tratti di una mera disattenzione del patrio legislatore lo si ricava anche da altre significative modifiche dell'art. 66 disp. att. c.c., il cui comma 3 – dopo aver stabilito che l'avviso di convocazione, contenente specifica indicazione dell'ordine del giorno, deve essere comunicato almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, e deve contenere l'indicazione del luogo e dell'ora della riunione – precisa che, in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione degli «aventi diritto», la delibera assembleare è annullabile ai sensi dell'art. 1137 c.c. su istanza dei dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati (Capponi, 179) In questa prospettiva, va, altresì, letta la novità contenuta nel comma 5 dello stesso art. 66, che contempla ora la possibilità, in capo all'amministratore, di fissare più riunioni consecutive in modo da assicurare lo svolgimento dell'assemblea in termini brevi, convocando gli «aventi diritto» con un unico avviso nel quale sono indicate le ulteriori date ed ore di eventuale prosecuzione dell'assemblea validamente costituitasi. Chiude il cerchio il novellato disposto dell'art. 1130 c.c. che, tra le attribuzioni dell'amministratore, annovera ora, al n. 6), la cura della tenuta del registro dell'anagrafe condominiale, contenente la generalità dei singoli proprietari nonché dei titolari di diritti reali e di «diritti personali di godimento» (comprensive di codice fiscale, residenza o domicilio), e tale registro, aggiornato anche ai nomi dei conduttori, ha un senso solo se si configura un obbligo dell'amministratore di convocare questi ultimi, ovviamente laddove la legge contempli il loro potere di voto e di intervento in assemblea. Peraltro, in forza dell'art. 1130-bis, comma 1, c.c., non solo i condomini, ma anche «i titolari di diritti di godimento sulle unità immobiliari» e, dunque, gli inquilini, possono prendere visione dei documenti giustificativi di spesa in ogni tempo ed estrarne copie a proprie spese (aggiungendo che le scritture contabili e le c.d. pezze d'appoggio vanno conservati per dieci anni dalla data della relativa registrazione). In tal modo, il diritto di prendere visione «in ogni tempo», estraendo copia dei documenti giustificativi di spesa, è stato opportunamente esteso anche ai conduttori, ai quali, finora, il comma 3 dell'art. 9 della citata l. n. 392/1978, facendo obbligo di pagare gli oneri condominiali di loro spettanza entro due mesi dalla richiesta da parte del locatore, delimitava, di fatto, entro il medesimo periodo, il termine massimo per l'esercizio del diritto di chiedere l'indicazione analitica delle spese e dei criteri di ripartizione, nonché di prendere visione dei documenti. Ne consegue che, attualmente, gli inquilini non devono attendere la chiusura della gestione condominiale per poter esercitare tali diritti, essendo legittimati a visionare i suddetti documenti giustificativi pure nelle more dell'annualità amministrativa, purché non siano di ostacolo all'attività professionale dell'amministratore; parimenti, potranno estrarre copie a proprie spese, salvo soggiacere alle eventuali prescrizioni, stabilite in via generale dall'assemblea, circa i costi fissi per ogni fotocopia o l'onorario fisso per il tempo che l'amministratore dedica affinché l'interessato metta in atto i suoi controlli. A quest'ultimo proposito, l'art. 71-ter disp. att. c.c. – al cui commento si rinvia – abilita l'accesso al sitointernet– attivato dall'amministratore su richiesta dell'assemblea, previa delibera da approvarsi con il quorum di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. – agli «aventi diritto» e, tra questi, senz'altro gli inquilini, i quali possono, quindi, consultare ed estrarre copia in formato digitale dei documenti previsti dalla stessa delibera assembleare. Per completezza, si segnala che l'art. 1122-bis c.c., in ordine alle installazioni di impianti singoli per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e all'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, prescrive, al comma 3, che, qualora si rendano necessarie modificazioni delle parti comuni, «l'interessato» – e, quindi, non necessariamente il condomino – ne dia comunicazione all'amministratore indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi; si aggiunge che l'assemblea possa prescrivere, con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 5, c.c., adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità/sicurezza/decoro dell'edificio e, ai fini dell'installazione degli impianti fotovoltaici, provvede, a richiesta degli «interessati», a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto; infine, la stessa assemblea, con la medesima maggioranza, può anche subordinare l'esecuzione alla prestazione, da parte «dell'interessato», di idonea garanzia per i danni eventuali. In conclusione, alla luce dei summenzionati flashes, sembra proprio che la riforma del 2013 abbia comportato un maggiore (e, forse, opportuno) coinvolgimento dell'inquilino nella vita condominiale (Masoni, 577). Usufruttuario e nudo proprietario Secondo l'impostazione tradizionale, si osservava che il codice civile, riguardo ai soggetti tenuti al pagamento degli oneri condominiali, faceva riferimento ai soli «condomini», nel senso di proprietari di un'unità immobiliare facente parte dello stabile condominiale. Sul punto, non rilevava tanto l'esistenza di un atto pubblico di trasferimento della proprietà frazionata di una parte dell'edificio condominiale – rilevante, invece, per l'opponibilità della qualità di condomino nei confronti dei terzi – quanto piuttosto l'esistenza di un negozio effettivamente traslativo di tale diritto, anche se concluso per mezzo di semplice scrittura privata o di un atto anche non trascritto; invero, con il frazionamento della proprietà che conseguiva al trasferimento delle singole porzioni di essa a soggetti diversi in forza di negozi giuridici idonei a trasformare una situazione di dominio esclusivo in quella di proprietà plurima, sorgeva il condominio, e in capo ai singoli acquirenti la titolarità dei corrispettivi diritti, e – per quel che interessa in questa sede – l'assunzione degli obblighi, tra cui quello di pagamento dei contributi condominiali. Tuttavia, alcune spese per le cose e per i servizi comuni potevano gravare su soggetti non proprietari delle unità immobiliari facenti parte dello stabile condominiale, come era il caso dell'usufruttuario: si applicavano, in tal caso, i criteri di distinzione enunciati nell'art. 67 disp. att. c.c. – nel testo ante Riforma del 2013, al cui commento si rinvia – integrati dalle disposizioni di cui agli artt. 1104 e 1105 c.c. (riguardo a contributi dottrinali relativi al vecchio regime normativo, De Tilla 2007, 151; Natali, 212; Santersiere 1997, 455). In particolare, il vecchio testo dell'art. 67 citato – inderogabile per il disposto dell'art. 72 disp. att. c. c. – al comma 3, prevedeva che, nelle deliberazioni dell'assemblea di condominio, il voto spettava all'usufruttuario per gli «affari che attengono all'ordinaria amministrazione» – si era compreso, ad esempio, la nomina dell'amministratore e la determinazione del suo compenso – e per il semplice godimento delle cose e dei servizi comuni, mentre, al comma 4, si contemplava la possibilità di voto in capo al nudo proprietario, oltre per le innovazioni e le ricostruzioni, per le «opere di manutenzione straordinaria». In ordine a tale distinzione, soccorrevano anche gli artt. 1004 e 1005 c.c. – non inserite nel capo dedicato alla disciplina in tema di condominio – secondo cui erano a carico dell'usufruttuario «le spese e, in genere, gli oneri relativi alla custodia, amministrazione e manutenzione ordinaria (nonché) le riparazioni straordinarie rese necessarie dall'inadempimento degli obblighi di ordinaria manutenzione», mentre erano a carico del nudo proprietario le «riparazioni straordinarie (che) sono quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai, argini, acquedotti, muri di sostegno o di cinta» (l'elenco non appare tassativo, ma indicativo, potendovi rientrare, ad esempio, anche la sostituzione dell'ascensore). La giurisprudenza aveva chiarito che era irrilevante il fatto che il legislatore avesse usato i diversi termini di manutenzione e riparazione, mirando, in buona sostanza, ad addossare all'usufruttuario gli oneri in relazione a tutto ciò che riguardava il godimento della cosa nella sua sostanza materiale e nella sua attitudine produttiva, riservando al nudo proprietario le opere incidenti sulla struttura e la destinazione della cosa in quanto attinenti alla proprietà. Nonostante le due norme di cui sopra avessero per oggetto due tipi di attività, la riparazione e la manutenzione straordinaria, che indicano contenuti e finalità differenti, la Cassazione ha ritenuto non sussistere tra le stesse alcuna incompatibilità o contrasto. Al riguardo, poiché per riparazione si intendeva l'opera che rimediava ad un'alterazione già verificatasi nello stato delle cose in conseguenza dell'uso o per cause naturali, e per manutenzione si intendeva l'opera che preveniva l'alterazione, non interessava la maggiore o minore attualità del danno da riparare, ma rivelava l'essenza e la natura dell'opera, il suo carattere di ordinarietà o di straordinarietà, poiché solo tale caratterizzazione incideva sul diritto di cui l'uno o l'altro dei due soggetti sono titolari: spettando all'usufruttuario l'uso ed il godimento della cosa, salva rerum substantia, necessariamente si doveva a lui la responsabilità di provvedere a tutto ciò che riguardava la conservazione ed il godimento della cosa nella sua sostanza materiale e nella sua attitudine produttiva; si dovevano, invece, riservare al nudo proprietario le opere che incidono sulla struttura, la sostanza e la destinazione della cosa, perché afferivano alla nuda proprietà (Cass. II, n. 10/1969, aggiungendo che la qualificazione delle opere, e l'attribuzione all'una o all'altra categoria, spettavano al giudice di merito, involgendo anche indagini di fatto, ed il relativo apprezzamento si sottraeva a censura in sede di legittimità se sia sorretto da esatti criteri normativi e sia adeguatamente motivato). Orbene, qualora nel condominio sono presenti unità immobiliari gravate di usufrutto, si pongono due problemi: il primo connesso all'individuazione, tra il nudo proprietario e l'usufruttuario, del soggetto legittimato a partecipare all'assemblea e ad esprimere il proprio voto, il secondo relativo alla determinazione delle modalità di ripartizione e di recupero, in caso di morosità, delle spese condominiali riguardanti l'immobile in questione. Va, infatti, evidenziato che l'art. 67 disp. att. c.c. – unica norma sull'argomento in materia condominiale – aveva indicato quali fossero le questioni sulle quali usufruttuario e nudo proprietario possono votare in sede assembleare, non prescrivendo però le modalità per la suddivisione degli oneri comuni tra tali soggetti. La norma, formulata in questi precisi termini, aveva però risolto, implicitamente, anche la questione che riguardava l'individuazione del soggetto al quale l'amministratore del condominio doveva inviare l'avviso di convocazione dell'assemblea: il legittimo destinatario di tale avviso, pertanto, andava di volta in volta identificato tra i due soggetti in parola con riguardo agli argomenti posti all'ordine del giorno della riunione. Definita l'entità e la natura degli interventi sui beni comuni indicati nell'art. 67 di cui sopra, assumeva rilevanza decisiva, per individuare i relativi criteri di ripartizione delle spese e, quindi, l'individuazione del soggetto al pagamento dei relativi contributi, quanto affermato da una sentenza della Corte di Cassazione. Tale decisione era rilevante perché, per la prima volta, rendeva l'usufruttuario direttamente obbligato nei confronti del condominio, con la possibilità di una sua maggiore tutela rispetto al passato, in quanto la necessità della suddivisione analitica delle spese in sede assembleare – ed il correlativo obbligo dell'amministratore nella presentazione del relativo stato di riparto – ne consentiva il controllo sotto il profilo della regolarità e della loro conseguente esatta attribuzione ai soggetti interessati. A tale posizione più favorevole dell'usufruttuario in seno al condominio corrispondeva, peraltro, una maggiore salvaguardia degli interessi del nudo proprietario, il quale, con il venir meno di quel vincolo di solidarietà che fino allora aveva caratterizzato il suo rapporto con l'usufruttuario nei confronti del condominio – prima della citata sentenza unico obbligato al pagamento delle spese era il condomino, il quale, poi, si poteva rivalere, in via di regresso, sull'usufruttuario inadempiente per la quota di sua spettanza – non risultava più tenuto a rispondere verso lo stesso per le morosità di chi disponeva e godeva dell'immobile in oggetto. I giudici di legittimità (Cass. II, n. 15010/2000) sono giunti a tale conclusione anche sulla base della considerazione che, nell'àmbito condominiale, il rapporto nudo proprietario-usufruttuario non era assimilabile a quello locatore-conduttore. Il ragionamento è condotto nei termini che seguono: il diritto del conduttore di partecipare all'assemblea, previsto dalla legge, nasce dall'intermediazione del contratto di locazione, il cui adempimento riguarda anche l'osservanza degli oneri accessori concernenti le spese per l'uso delle cose comuni, mentre le norme in materia di usufrutto si riferiscono ad obbligazioni che traggono origine dal diritto di un soggetto su di un bene che per il nudo proprietario è la proprietà dell'immobile, mentre per l'usufruttuario è la titolarità del diritto reale di godimento sul medesimo. Le spese alle quali è tenuto l'usufruttuario si configurano, quindi, come obbligazionipropter rem, con la conseguenza che, all'assemblea dei condomini, non è consentito interferire sull'imputazione e sulla ripartizione: invero, le attribuzioni dell'assemblea in ordine alla ripartizione delle spese per le parti comuni sono circoscritte alla verifica ed all'applicazione in concreto dei criteri fissati dalla legge, e non comprendono il potere di introdurre deroghe ai criteri medesimi, atteso che tali deroghe, venendo ad incidere sui diritti individuali, possono conseguire soltanto ad una convenzione. La deliberazione con cui il condominio approva il preventivo o il rendiconto delle spese, ordinarie e straordinarie, deve, a pena di invalidità per contrarietà alle norme che disciplinano i diritti e gli obblighi dei partecipanti al condominio, distinguere analiticamente quelle occorrenti per l'uso da quelle occorrenti per la conservazione delle parti comuni; in tal modo è possibile, se tra i partecipanti vi sono usufruttuari – il cui diritto non solo di partecipazione ma anche di voto alla relativa assemblea è riconosciuto perché gode degli impianti, delle cose e dei servizi comuni – ripartire tra i medesimi ed i nudi proprietari dette spese in base alla natura delle stesse, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1104 e 1105 c.c., con una mera operazione esecutiva. In quest'ordine di concetti, si poteva ragionevolmente sostenere che l'assemblea assolveva il suo compito nel momento in cui approvava la deliberazione riportante la suddivisione delle spese predisposta dall'amministratore alla luce dei criteri sopra delineati dal Supremo Collegio; se, invece, nella stessa deliberazione si ometteva di indicare espressamente i soggetti tenuti al pagamento degli oneri condominiali, non sembrava che ciò possa comportare l'invalidità della relativa statuizione in quanto tali soggetti sono individuati direttamente dalla legge nelle norme che disciplinano l'istituto dell'usufrutto. Orbene, il novellato art. 67 disp. att. c.c. – così come modificato dalla Riforma del 2013 – riguardo all'appartamento, o altra porzione solitaria dell'edificio condominiale, che sia oggetto di usufrutto, ha risistemato, ai commi 5 e 6, le modalità di convocazione ed il diritto di voto in assemblea, nel senso di lasciar fermo il diritto dell'usufruttuario negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni, e di riservare in tutte le altre deliberazioni il diritto di voto ai proprietari, salvi i casi in cui l'usufruttario intenda avvalersi del diritto eseguire a proprie spese le riparazioni, ai sensi dell'art. 1006 c.c., ovvero si tratti di miglioramenti o addizioni, ai sensi degli artt. 985 e 986 c.c., ferma restando, in queste ultime ipotesi, la necessità di avvisare entrambi dell'assemblea, ossia usufruttuario e nudo proprietario. Lo stesso art. 67, all'ultimo comma, ha poi disposto che «il nudo proprietario e l'usufruttuario rispondono solidalmente per il pagamento dei contributi dovuti all'amministrazione condominiale», ma tale soluzione semplificatoria prescelta in sede di Riforma ha suscitato perplessità in sede dottrinale (Scarpa 2013, 509) Abbiamo sopra rilevato che la giurisprudenza aveva sopperito al difetto di un'apposita disposizione codicistica concernente l'accollo delle spese condominiali nei rapporti tra nudo proprietario e l'usufruttuario, poiché i previgenti commi 3 e 4 dell'art. 67 disp. att. c.c. citato si limitavano a regolamentare il diritto di voto – e relativa convocazione da parte dell'amministratore – tra le due parti del rapporto di usufrutto. In tal senso, si era pervenuti a considerare l'usufruttuario come «condomino», con vincolo diretto verso il condominio per tutto quanto concernesse le spese di amministrazione e di manutenzione ordinarie, agli effetti dell'art. 1004 c.c., escludendo che ad esse fosse tenuto il nudo proprietario, e ciò neppure in via sussidiaria o solidale; si era così superata la tesi risalente, secondo cui, in tema di ripartizione degli oneri condominiali tra nudo proprietario ed usufruttuario, gli stessi dovessero gravare unicamente sul nudo proprietario, con diritto di quest'ultimo di rivalersi poi, con l'azione di regresso, sull'usufruttuario, come del pari era abbandonata la soluzione della solidarietà del debito tra nudo proprietario e usufruttuario. L'irragionevolezza dell'obbligo solidale del nudo proprietario e dell'usufruttuario, sancito dall'art. 67, comma 7, disp. att. c.c., discende dalla natura stessa del diritto di usufrutto, il quale costituisce un diritto reale che deve essere reso pubblico mediante trascrizione (art. 2643, n. 2, c.c.); la soluzione da prescegliere poteva ritrovarsi, invece, in quanto stabilito agli artt. 1004 e 1005 c.c. con riferimento agli obblighi nascenti dall'usufrutto, per i quali l'usufruttuario era legittimato attivo e passivo in tutti i rapporti comunque riconducibili al godimento del bene, mentre il nudo proprietario lo era in tutti quelli attinenti alla proprietà. La Riforma del 2013 ha, invece, preferito ripristinare, per lo meno nei confronti della gestione condominiale, l'antico orientamento, secondo cui le norme di cui agli artt. 1004 ss. c.c., che stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese di custodia fra nudo proprietario ed usufruttuario, operano nei soli rapporti interni e non sono, quindi, opponibili al terzo creditore, salvo che diversamente risulti dal titolo del suo credito: in tal modo, all'usufruttuario non è riconosciuto il diritto di votare nelle deliberazioni che concernono la manutenzione straordinaria, né è consentito al nudo proprietario votare negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione, pur essendo ora entrambi obbligati in solido per il pagamento dei relativi contributi (Riccio, 17). Peraltro, potendo oramai essere costretti sia l'usufruttuario sia il nudo proprietario all'adempimento per la totalità delle spese dovute al condominio, indipendentemente della funzione e del fondamento dell'esborso, ancor meno si reputerà indispensabile – come si richiedeva in passato – in sede di approvazione del preventivo o del rendiconto delle spese ordinarie o straordinarie, la specifica indicazione del soggetto cui vada imputato il determinato obbligo di contribuzione. Titolare e apparente La questione inerente l'applicabilità del principio dell'apparenza in tema di oneri condominiali, e la connessa individuazione del condomino debitore, ha registrato un aperto contrasto giurisprudenziale. Negli anni ‘80, si è ritenuto che il pagamento delle spese condominiali potesse essere richiesto all'apparente condomino, se il costante comportamento di questi avesse indotto l'amministratore a ritenere in buona fede che egli fosse proprietario di un'unità immobiliare, appartenente invece ad un altro soggetto, anche se tale convinzione non fosse suffragata dalla consultazione dei registri immobiliari (Cass. II, n. 907/1981). La Suprema Corte è partita dal presupposto secondo cui l'apparenza, in generale, può operare se ricorrono due condizioni: a) una situazione di fatto astrattamente riconducibile, ma non effettivamente corrispondente, ad una situazione di diritto, e b) la buona fede, e cioè la giustificata e incolpevole credenza che lo stato di fatto rispecchi la realtà giuridica; se quindi, sussiste un errore scusabile ed un ragionevole affidamento, si riconoscono determinati effetti alla situazione apparente, anche al di fuori dei casi espressamente contemplati dal legislatore (come, ad esempio, per le obbligazioni, nell'ipotesi del pagamento al creditore apparente ex art. 1189 c.c., e, per i diritti reali, nell'ipotesi del possesso). Su tali presupposti, si è giunti ad affermare che l'apparenza del diritto può invocarsi perfino quando la situazione di fatto non coincide con quella risultante dai pubblici registri, per cui l'amministratore, caduto senza sua colpa nell'errore circa la titolarità della proprietà di una data unità immobiliare dello stabile, poteva richiedere giudizialmente l'obbligo del pagamento della corrispondente quota di oneri condominiali a chi appariva proprietario, senza esserlo (v., altresì, Cass. II, n. 9079/1990; Cass. II, n. 5818/1984). Negli anni ‘90, si assiste ad un revirement della Cassazione: prima con Cass. II, n. 6187/1994 – emessa nell'ipotesi in cui uno dei coniugi curava personalmente ed attivamente la gestione delle proprietà dell'altro coniuge – e poi con Cass. II, n. 6653/1998 – che si è occupata di un decreto ingiuntivo introdotto dall'amministratore per il recupero delle quote di spesa non pagate – il Supremo Collegio si pronuncia nel senso dell'inapplicabilità del principio dell'apparenza in materia condominiale. Astraendo dalla primaria considerazione che l'ente di gestione non è terzo ma parte del precedente rapporto con l'effettivo titolare (anche se rimasto occulto), sicché non sussisterebbe alcun affidamento da tutelare, i giudici di legittimità fondano il proprio convincimento esclusivamente sul fatto che il principio dell'apparenza è coessenziale all'esigenza di tutelare la posizione del terzo in buona fede, che, senza sua colpa, abbia fatto affidamento su una determinata situazione di diritto, solo apparentemente esistente, alla quale, senza l'operatività di detto principio, non potrebbe collegarsi nessun effetto, con grave pregiudizio del terzo medesimo, cui, in tesi, non si può addebitare un incauto affidamento. Invece, nel rapporto tra il condominio ed il condomino, in ordine al pagamento, da parte di quest'ultimo, della sua quota spese – sostenute per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune, e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza – non è assolutamente ravvisabile l'esigenza di privilegiare l'apparenza di una siffatta titolarità al fine di non pregiudicare l'ente di gestione, né sorge l'esigenza, finalizzata alla tutela dell'apparenza, di collegare effetti giuridici ad una situazione di fatto apparente, senza i quali il terzo, che incolpevolmente vi abbia confidato, risulterebbe pregiudicato dalla non insorgenza di un rapporto giuridico, dal momento che quello tra l'ente di gestione ed ogni singolo condomino – proprietario esclusivo di una porzione immobiliare e partecipe pro quota della comunione delle porzioni non esclusive – esiste nella realtà, ed è, come desumibile dagli artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. c.c., determinato dall'obiettiva indicata titolarità delle varie unità immobiliari (ben individuata in base ai registri immobiliari), e non può pertanto essere influenzato da alcun comportamento contrario (rispetto al quale è peraltro anteriore). La questione in esame – individuazione del soggetto passivamente legittimato rispetto all'azione giudiziaria promossa dall'amministratore per il recupero delle quote di competenza del singolo partecipante – ha visto il permanere del contrasto di soluzioni anche nelle successive pronunce del Supremo Collegio: infatti, ad avviso di alcune (Cass. II, n. 2617/1999), deve continuare ad essere sottoposto al pagamento degli oneri condominiali il venditore di un'unità immobiliare facente parte dell'edificio condominiale, il quale, pur dopo il trasferimento della proprietà, ha continuato ad esercitare i diritti apparenti del condomino, mentre, secondo altre (Cass. II, n. 4866/2001; Cass. II, n. 5122/2000), obbligato al pagamento delle spese condominiali, e quindi, legittimato passivo, è il vero proprietario della porzione immobiliare. Va sottolineato che l'indirizzo opposto trovava la sua giustificazione concreta nell'esigenza di non gravare l'amministratore del condominio dell'onere di verificare in ogni occasione e costantemente la titolarità delle singole porzioni dell'edificio; negare l'applicazione del principio dell'apparenza nei rapporti tra condominio e singolo partecipante significa, in pratica, rendere oltremodo difficile l'attività dell'amministratore nel recupero dei crediti necessari a far fronte alle esigenze comuni (gli interpreti si sono mostrati, a vario titolo, sensibili alla ricadute pratiche: Avolio, 1050; Bordolli 2011 42; Carbone, 829; Musolino, 416) Non si nasconde che l'accertamento del titolo di proprietà integra un preciso interesse anche dell'amministratore per agire nei confronti dell'effettivo titolare dell'unità immobiliare, perché quest'ultima costituisce la garanzia principale del credito vantato, che, invece, potrebbe rivelarsi insussistente nei confronti del condomino apparente inadempiente, con vanificazione dello stesso recupero coattivo, tuttavia, tale accertamento della situazione effettiva, rientrando nella procedura di recupero, dovrebbe comportare l'accollo delle relative spese al condomino «effettivo» che le ha provocate, non avendo adempiuto al dovere di informativa sul mutamento della vicenda condominiale, ed avendo con il suo comportamento omissivo provocato difficoltà gestionali nel condominio (Renga, 2764; Tagliaferro, 6; Zinno, 627). Il contrasto è stato, finalmente, risolto dalle Sezioni Unite (Cass.S.U. , n. 5035/2002 ), che hanno aderito al secondo orientamento, affermando che, in caso di azione giudiziale dell'amministratore di condominio per il pagamento dei contributi condominiali di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva, è passivamente legittimato il vero proprietario di detta unità e non anche chi possa apparire tale. In verità, la Cassazione puntualizza che il principio di apparenza del diritto nel condominio è operativo solo nell'àmbito delle trattative contrattuali con terzi in buona fede e sul piano «sostanziale», mentre è inapplicabile sia nei rapporti interni tra il condominio ed i singoli partecipanti, ai fini, ad esempio, della ripartizione delle spese e della convocazione dell'assemblea, sia in sede «processuale», ai fini della legittimazione attiva o passiva. La soluzione del contrasto interpretativo è stata argomentata, sotto quest'ultimo profilo, adoperando le seguenti argomentazioni (non del tutto condivise dalla dottrina: Mazzieri, 1901; Ditta – Avolio, 1453; Izzo 2002, 1836; Villani, 1582). Ad avviso del supremo organo di nomofilachia, l'ipotesi non contenziosa del rapporto va mantenuta distinta da quella contenziosa. Le esigenze di celerità, praticità e funzionalità, addotte a giustificazione dell'applicazione dell'istituto dell'apparenza del diritto, valgono per l'ipotesi non contenziosa del rapporto, quando, cioè, l'apparente condomino non solleva alcuna contestazione provvedendo al pagamento degli oneri condominiali; in tal caso, la violazione dei rispettivi doveri – quelli di correttezza e di informazione a carico del condomino apparente, e quelli di consultazione dei registri immobiliari a carico dell'amministratore – non rilevano; in particolare, l'amministratore non è tenuto ad effettuare alcuna indagine, mediante consultazione dei pubblici registri (che può essere anche costosa e, a volte, complessa, con grave nocumento della gestione condominiale) circa il vero proprietario dell'unità immobiliare, potendo oltre tutto il problema essere affrontato anche in termini di adempimento del terzo (art. 1180 c.c.). Diversa è l'ipotesi contenziosa, quando cioè l'amministratore, in presenza di mancato pagamento, deve agire giudizialmente per il recupero delle spese condominiali; in tal caso, l'istituto dell'apparenza del diritto, che non è di natura processuale, bensì di natura sostanziale, non può valere a giustificare un'iniziativa giudiziaria svincolata dalla realtà, mentre la violazione dei rispettivi doveri va considerata, esigendo nel contempo un collegato giudizio di comparazione e bilanciamento tra situazioni contrapposte. Nell'ipotesi in cui l'amministratore agisca per il recupero delle spese di competenza, l'osservanza del dovere di consultazione dei registri immobiliari presso la conservatoria assume rilievo ed è preminente (rispetto al contrapposto dovere di correttezza e informativa) per l'individuazione del vero condomino obbligato, non solo perché corrisponde a regola di normale prudenza accertare l'effettivo legittimato passivo allorché si intende dare inizio ad un'azione giudiziaria, ma anche perché appare conforme al sistema della tutela del credito. Sotto quest'ultimo profilo, ancorché generalmente l'omesso pagamento si verifica per le spese (consistenti) collegate alle innovazioni deliberate dalla maggioranza, l'amministratore che agisce nei confronti del condomino apparente, nell'ipotesi in cui quest'ultimo sia privo di beni, potrebbe non vedere soddisfatto il credito azionato, con grave pregiudizio della gestione condominiale. Laddove, invece, essendo il vero condomino proprietario dell'unità immobiliare, l'amministratore che agisce contro di lui potrebbe utilmente esperire tutti i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale (in particolare chiedere il sequestro conservativo di cui agli artt. 2905 c.c. e 671 c.p.c.) per il soddisfacimento del credito. Il sistema normativo (artt. 1123 e 63 disp. att. c.c.) che, in tema di omesso pagamento delle spese condominiali, consente all'amministratore di ottenere decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo nonostante opposizione – stabilendo, altresì, che chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso ed a quello precedente – è finalizzato non soltanto alla celerità ma anche al rafforzamento e soddisfacimento del credito per il buon andamento ed operatività della gestione condominiale. I giudici di legittimità, con scarsa coerenza, distinguono però la fase non contenziosa da quella contenziosa (nella stessa scia segue a ruota Cass. II, n. 12709/2002): nella prima, la questione non assume rilevanza perché l'amministratore può chiedere il pagamento delle quote condominiali a colui che «appare» condomino in base al suo comportamento, senza oneri di consultazione dei registri immobiliari per l'accertamento della proprietà; per la seconda, invece, qualora è indispensabile agire giudizialmente per il recupero coattivo, non può invocarsi il principio dell'apparenza del diritto, considerando inevitabile per l'amministratore il dovere di consultazione dei registri immobiliari – secondo una regola di ordinaria prudenza e diligenza nell'assolvimento del mandato – e preminente rispetto al contrapposto dovere di correttezza ed informativa in capo al condomino. In seguito, la stessa giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 7849/2001; Cass. II, n. 2616/2005) si è assestata nel ritenere che, nelle assemblee condominiali, devono essere convocati solo i condomini, cioè i veri proprietari e non coloro che si comportano come tali senza esserlo, precisando, che, d'altra parte, non è in contrasto, ma «anzi in armonia» con tale principio, la norma del regolamento condominiale che – in anticipazione dell'obbligo di cui al novellato art. 1130, n. 6), c.c. – imponendo ai condomini di comunicare all'amministratore i trasferimenti degli immobili di proprietà esclusiva, ha lo scopo di consentire la corretta convocazione dei soggetti legittimati a partecipare all'assemblea condominiale (Cass. II, n. 8824/2015: nella specie, però, era stata dichiarata illegittima la deliberazione approvata dall'assemblea alla quale non aveva partecipato la proprietaria di un'unità immobiliare, essendo stata la relativa convocazione inviata al marito il cui nominativo era indicato nell'elenco dei condomini). Tale soluzione, relativa all'inapplicabilità del principio dell'apparenza del diritto, risulta poi disposta dapprima in relazione ai rapporti tra amministratore e condomini (Cass. II, n. 23994/2004; Cass. II, n. 17039/2007; Cass. II, n. 22089/2007) e, poi, nei rapporti tra condomini e terzi (Cass. VI, n. 23621/2017, ad avviso della quale, in caso di azione proposta da soggetti terzi rispetto al condominio e volta all'adempimento delle obbligazioni contratte dall'amministratore per conto del condominio medesimo, passivamente legittimati sono i proprietari effettivi delle unità immobiliari e non anche coloro che possano apparire tali, poggiando la responsabilità pro quota dei condomini sul collegamento tra il debito e la titolarità del diritto reale condominiale, emergente dalla trascrizione nei registri immobiliari; né, onde invocare la apparentia iuris e garantire l'affidamento del terzo creditore, può negarsi rilievo a tale dato pubblicitario, giacché il principio dell'apparenza si applica solo quando sussistono uno stato di fatto difforme dalla situazione di diritto ed un errore scusabile del terzo in buona fede circa la corrispondenza del primo alla seconda, assumendo essa rilievo giuridico solo per individuare il titolare di un diritto, ma non per fondare una pretesa di adempimento nei confronti di chi non sia debitore). Comunque, l'orientamento sopra delineato, a seguito del diktat delle Sezioni Unite, appare oramai consolidato, tanto da considerarsi iusreceptum (v., di recente, Cass. II, 574/2011, aggiungendo che la soluzione equitativa nella specie adottata si poneva in contrasto con il richiamato principio, la cui applicazione non poteva dipendere da fattori di apparenza, per loro natura incompatibili con le esigenze di certezza dei rapporti interni condominiali). Tuttavia, attualmente, a seguito della Riforma del 2013, per effetto del combinato disposto degli artt. 1130, n. 6), e 63, ultimo comma, disp. att. c.c. – il primo istitutivo della c.d. anagrafe condominiale (la cui irregolare tenuta, peraltro, è causa di possibile revoca giudiziaria ai sensi del precedente art. 1129, comma 12, n. 7, c.c.) e il secondo prescrivente l'obbligo di comunicazione del titolo di trasferimento dell'unità immobiliare – tornano ampi spazi ordinamentali per sostenere la rilevanza dell'apparentia iuris a garanzia dell'affidamento maturato dall'amministratore del condominio; la natura obbligatoria del dovere di contribuzione alle spese del condominio affievolisce la rilevanza del sistema pubblicitario immobiliare ai fini dell'individuazione del soggetto tenuto all'adempimento, non dovendosi qui dirimere un contrasto tra i titolari di diritti reali secondo i meccanismi tipici di opponibilità della trascrizione. In altri termini, finisce per risultare fondata la tesi secondo cui, in caso di alienazione della porzione esclusiva, lo statusdi condomino, con gli oneri ed onori correlati, appartengono all'acquirente soltanto «dal momento in cui il trasferimento venga reso noto al condominio». Lo status di condomino, con i correlati doveri di contribuzione, si trasferisce, in pratica, in capo all'acquirente non immediatamente, al prodursi della vicenda traslativa dell'unità immobiliare, ma unicamente quale conseguenza della pubblicità avuta da tale vicenda agli occhi della gestione condominiale (Scarpa, in Celeste – Scarpa 2017, 613). Con l'ulteriore peculiarità che il venditore, conservando lo status di condomino fino al momento della trasmissione all'amministratore della copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto, dovrebbe, altresì, poter partecipare alle assemblee condominiali in cui si provveda all'approvazione ed alla ripartizione delle spese di conservazione occorse in data anteriore a tale momento, e su di lui gravanti in base all'ultimo comma dell'art. 63 disp. att. c.c., e rimanere legittimato ad impugnare le relative deliberazioni, in modo da far valere le sue ragioni connesse al pagamento dei contributi maturati. Pertanto, da un lato, l'amministratore non dovrebbe essere sempre tenuto a controllare se chi si comporta come condomino abbia effettivamente lo status per interloquire, nel senso che sia realmente proprietario dell'unità immobiliare facente parte dell'edificio condominiale da lui gestito, e, dall'altro, chi si presenta come condomino, e pretenda di essere convocato alle assemblee, dovrebbe avere l'onere di dimostrare la veridicità del proprio assunto mediante l'esibizione del relativo titolo di proprietà e di informare l'amministratore in ordine ad eventuali variazioni dell'anagrafe condominiale. Di contro, anche se la qualità di condomino costituisce la condizione indefettibile per avere diritto a partecipare all'assemblea ed aver diritto, pertanto, al tempestivo avviso della relativa convocazione, ritenendo applicabile il principio dell'apparenza, si potrebbe, in buona sostanza, valorizzare una situazione manifesta, quale si presenta e come si presenta ai terzi, anche nel caso in cui questa non coincida con la situazione effettiva, intendendo così tutelare la buona fede dell'amministratore nel convocare il c.d. condomino apparente, e ciò sia nell'ipotesi di apparenza «pura» (caratterizzata dalla sua derivazione dall'insieme oggettivo di cui si tratta), sia in quella «colposa» (caratterizzata dal concorso, nella formazione del convincimento di chi convoca, del comportamento del titolare apparente). Succede, infatti, spesso che un soggetto si comporti da vero condomino, ma, una volta moroso nei pagamenti dei contributi, qualora gli si intima giudizialmente di adempiere il suo obbligo – segnatamente, azionando il credito in via monitoria – eccepisce di non essere proprietario dell'appartamentode quo; in pratica, l'amministratore pretende dall'apparente condomino la riscossione delle quote condominiali, avendo quest'ultimo ingenerato la convinzione di essere effettivo proprietario (senza, però, esserlo) dell'unità immobiliare cui quelle quote afferivano, tuttavia si vede opporre il difetto di legittimazione passiva (Celeste 1999, 143). È vero che, nelle vicende su accennate, si potrebbe, con l'ordinaria diligenza, verificare l'effettiva titolarità del bene atteso il regime di pubblicità contemplato per i beni immobili nel nostro ordinamento – in pratica, perdendo tempo e sprecando denaro – ma è altrettanto vero che non può premiarsi così la condotta (non certo in buona fede) di colui che, comportandosi sempre come legittimo proprietario, all'improvviso adduca di non essere condomino, invocando il rispetto della legalità e della trasparenza, ma in realtà solo per giustificare l'insolvenza ed esimersi dal pagare il dovuto. A fronte di comportamenti palesi che spesso inducono in errore, ed alla luce delle frequenti vicende che possono interessare la singola unità immobiliare, sembra eccessivo pretendere dall'amministratore, in difetto di collaborazione da parte dei condomini interessati, ora imposta dall'art. 1130, n. 6), c.c., un puntuale aggiornamento dell'anagrafe condominiale, incombente, quest'ultimo, che richiede faticose ricerche presso l'Agenzia delle Entrate - Agenzia del territorio, ex Conservatoria dei registri immobiliari. Non si nasconde che l'accertamento del titolo di proprietà integra un preciso interesse anche dell'amministratore per agire nei confronti dell'effettivo titolare dell'unità immobiliare, perché quest'ultima costituisce la garanzia principale del credito vantato, che, invece, potrebbe rivelarsi insussistente nei confronti del condomino apparente inadempiente, con vanificazione dello stesso recupero coattivo, tuttavia, tale accertamento della situazione effettiva, rientrando nella procedura di recupero, dovrebbe quantomeno comportare l'accollo delle relative spese al condomino «effettivo» che le ha provocate, non avendo adempiuto al dovere di informativa sul mutamento della vicenda condominiale, ed avendo con il suo comportamento omissivo provocato difficoltà gestionali nel condominio. Le procedure concorsualiIn modo quanto mai opportuno, e risolvendo un annoso quesito che poneva contrasti applicativi, l'art. 30 della l. n. 220/2012 ha specificato che «i contributi per le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria nonché per le innovazioni sono prededucibili», ai sensi dell'art. 111 del r.d. n. 267/1942 (c.d. legge fallimentare), «se divenute esigibili...durante le procedure concorsuali». In particolare, alla luce del rinvio operato al comma 1 dell'art. 63 disp. att. c.c., sono considerati crediti prededucibili – in quanto così qualificati dall'art. 30 citato, e comunque sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali – e, dunque, sono soddisfatti con preferenza nell'erogazione delle somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo, gli oneri condominiali a carico del condomino fallito che siano inseriti in uno stato di ripartizione approvato dall'assemblea successivamente alla dichiarazione di fallimento; tali crediti devono, quindi, essere accertati a mezzo dello speciale procedimento di verifica del passivo fallimentare (diverso il caso del credito per spese condominiali, maturate sia anteriormente che successivamente all'inizio della procedura esecutiva immobiliare, che non può essere riconosciuto in prededuzione, v. Trib. Padova 10 febbraio 2014). D'altro canto, l'immobile facente parte di un condominio, ancorché compreso in una procedura fallimentare, si avvale comunque delle spese necessarie per la conservazione e la manutenzione dell'edificio, sicché non poteva negarsi il carattere prededucibile di tali spese, traducendosi esse in somme erogate per l'amministrazione del fallimento, nell'interesse del quale vengono sostenute. Quanto, in particolare, alle spese condominiali relative alla casa di proprietà del fallito, oggetto del diritto di abitazione di lui e della sua famiglia, ai sensi dell'art. 47, comma 2, r.d. n. 267/1942 (l.fall.), si assume in giurisprudenza che la massa dei creditori debba farsi carico in prededuzione dei soli oneri conseguenti alla manutenzione ed alla conservazione del bene, e non anche delle spese inerenti al godimento dell'immobile da parte del fallito, compresi i contributi relativi alla gestione ordinaria per il periodo successivo al fallimento, i quali rimarrebbero ad esclusivo carico del fallito stesso sino a quando l'appartamento sia da lui effettivamente abitato. Resta inteso che rivestono, viceversa, natura concorsuale, e in tal modo vanno conseguentemente soddisfatti, i crediti per spese condominiali maturati prima della dichiarazione di fallimento del condomino, i quali non sono assistiti da alcun privilegio. 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