Codice Civile art. 1118 - Diritti dei partecipanti sulle parti comuni (1).Diritti dei partecipanti sulle parti comuni (1). [I]. Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell'unità immobiliare che gli appartiene. [II]. Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni. [III]. Il condomino non può sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d'uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali. [IV]. Il condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma. (1) Articolo modificato dall'art. 3, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. Il testo precedente recitava: «[I]. Il diritto di ciascun condomino sulle cose indicate dall'articolo precedente è proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene, se il titolo non dispone altrimenti. [II]. Il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione». InquadramentoL'art. 1118 c.c. si occupa del rapporto esistente tra la proprietà esclusiva e quella comune, disegnando compiutamente le regole volte a disciplinare le interrelazioni esistenti tra le due realtà. Il principio fondamentale, applicabile in materia, è quello per cui il diritto dei condomini sulle parti comuni, anche ai fini dell'applicazione dei successivi artt. 1123, 1124 e 1126 c.c., (in tema di spese) nonché dell'art. 1136 c.c. (ai fini del calcolo dei quorum costitutivi e deliberativi dell'assemblea), è proporzionale al valore dell'unità immobiliare in proprietà individuale: tale proporzione si esprime normalmente in «millesimi», indicati in apposita tabella allegata al regolamento di condominio, come chiarito dal successivo art. 68 disp. att. c.c. Non a caso, però, si è utilizzato l'avverbio «normalmente», giacché il richiamato art. 68 non rientra tra le previsioni che il successivo art. 72 disp. att. c.c. definisce come inderogabili dal regolamento (si rinvia, su tale specifico profilo, al relativo commento): sicché è stata da tempo assunta la correttezza di un criterio di ripartizione delle spese condominiali che faccia riferimento ad indici alternativi rispetto a quelli millesimali, quali quello dei vani legali (Cass. II, n. 2922/1979) o virtuali (Trib. Milano, 14 maggio 1990) ovvero l'inclusione in un'unica espressione millesimale di più appartamenti appartenenti a più condomini quali comproprietari pro indiviso (Cass. II, n. 5686/1988). Peraltro, diversamente dall'originaria formulazione, ove si discorreva di «piano o porzione di piano», il novellato art. 1118, comma 1, c.c. fa riferimento al concetto di «unità immobiliare», non dissimilmente dal precedente art. 1117 c.c.: soluzione semantica frutto dell'opzione legislativa, esplicitata all'art. 1117-bis c.c., di attrarre nell'ambito della normativa condominiale ipotesi tra loro diversificate e rispetto alle quali, nel passato, molto si era discusso in termini di disciplina applicabile. La norma pone, invero, diversi problemi interpretativi, tutti puntualmente affrontati in dottrina e giurisprudenza: da chi sia il soggetto da qualificare come «condomino» (espressione che in materia sostituisce il termine «comunista», riferibile all'istituto disciplinato agli artt. 1100 ss. c.c.), a come debbano essere calcolati i millesimi e formate le tabelle a come – ancora – debba essere regolata l'eventuale rinunzia ai diritti sulle parti ovvero su (taluni) servizi comuni. La nozione di «condomino»Lo status di «condomino» va riempito di significato in concreto, posto che le previsioni contenute nel codice civile e nelle corrispondenti disposizioni di attuazione sembrano dare la nozione per scontata: si parla, infatti, costantemente di «condomino» (ad es. proprio nell'art. 1118 c.c.; ma lo stesso dicasi a proposito del successivo art. 1120 c.c. in tema di innovazioni), ma anche di «partecipanti al condominio» (si guardi, ad esempio, alla seconda parte dell'art. 1119 c.c., in tema di scioglimento del condominio) o di «aventi diritto» (si pensi agli artt. 1136, comma 6, c.c. e 66 disp. att. c.c. a proposito dell'avviso di convocazione dell'assemblea), ma non si chiarisce se si tratti di espressioni perfettamente sovrapponibili tra loro o meno. La risposta non può che essere parzialmente negativa, nel senso che, mentre i concetti di condomino e di «partecipante al condominio» in senso stretto possono essere indagati in funzione pressoché sinonimica, lo stesso non può dirsi con riferimento alle espressioni «partecipante al condominio» intesa in senso lato o agli «aventi diritto», che designano realtà morfologicamente diverse, trattandosi di espressioni che fanno riferimento ad una platea di soggetti «quantitativamente» più ampia di quelli riconducibili al novero dei condomini, per quanto titolari di situazioni giuridiche soggettive «qualitativamente» meno ampie del diritto riconosciuto a questi ultimi. Pertanto, risolvere la questione terminologica predetta non è da poco conto, giacché stabilire chi effettivamente rivesta lo status di «condomino» implica l'individuazione di chi vanti i diritti e, contestualmente, sia soggetto agli obblighi di cui alla legislazione vigente in materia; individuare, poi, chi siano gli «aventi» diritto» implica la definizione dei soggetti cui vanno estese talune delle previsioni dettate per gli appartenenti alla prima categoria. Al problema classificatorio hanno consentono di fornire una risposta le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a dirimere il contrasto che si era creato, a livello di sezioni semplici, in relazione all'individuazione del soggetto tenuto a corrispondere gli oneri condominiali. Invero, la giurisprudenza (di merito come di legittimità) era originariamente divisa in due blocchi tra loro contrapposti: a) secondo una prima impostazione, infatti, avrebbe dovuto essere considerato condomino – con il conseguente obbligo di partecipazione al pagamento dei relativi oneri – chi, pur non essendo tale, avesse esercitato i diritti apparenti del proprietario di unità immobiliari nell'edificio condominiale: si è sostenuto, infatti, che il principio dell'apparenza del diritto avrebbe potuto essere invocato anche in tema di condominio di edifici ai fini dell'individuazione del soggetto tenuto al pagamento delle quote condominiali ove il costante comportamento di costui avesse indotto l'amministratore a ritenere, in buona fede, che egli fosse il proprietario di un appartamento, appartenente invece ad altro soggetto (Cass. II, n. 9079/1990); del pari si era affermata la possibilità, per l'amministratore di un condominio, di invocare il principio dell'apparenza del diritto, a giustificazione del suo errore di terzo in buona fede, per ottenere il pagamento della quota per spese comuni da colui che si fosse comportato da condomino, non avendo il primo l'onere di controllare preventivamente i registri immobiliari per accertare la titolarità della proprietà (Cass. II, n. 2617/1999); b) per altro orientamento, invece, obbligato al pagamento delle spese condominiali doveva considerarsi solo ed esclusivamente il vero proprietario dell'unità abitativa e non anche colui che si fosse comportato, nei rapporti con i terzi, come tale senza esserlo, difettando, nei rapporti fra il condominio ed i singoli partecipanti ad esso, le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, strumentale essenzialmente all'esigenza di tutela dei terzi in buona fede (Cass. II, n. 5122/2000 e, in senso assolutamente conforme, Cass. II, n. 4866/2001). L'evidenziato contrasto, come detto, è stato risolto dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 5035/2002) in senso favorevole alla seconda teoria (contraria, dunque, all'applicabilità del principio dell'apparenza), essendosi fondata tale soluzione sulla mancanza, già in astratto, delle condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dell'affidamento del terzo in buona fede, ed essendo, d'altra parte, il collegamento della legittimazione passiva alla effettiva titolarità della proprietà funzionale al rafforzamento e al soddisfacimento del credito della gestione condominiale: «ritiene il collegio – si legge in motivazione – che, valutate [le] opposte prospettazioni [...] la questione di contrasto [...] debba comporsi in conformità del riferito più recente indirizzo che perviene ad escludere l'applicazione del principio dell'apparenza del diritto nei rapporti tra condominio e condomino [...] Il principio dell'apparenza del diritto –ancorché rispondente (come ammesso in dottrina ma, soprattutto, in giurisprudenza) ad uno schema negoziale di vasta portata, trascende l'ambito delle singole figure legislativamente disciplinate e riconducibile a quello più generale della tutela dell'affidamento incolpevole- ha [...] una sua innegabile specificità e peculiarità, nel senso che non è suscettibile di incauti impieghi, specie in relazione a quelle fattispecie che trovano già nella legge una compiuta disciplina, venendo in considerazione solo in presenza dell'esigenza di tutelare il terzo in buona fede in ordine alla corrispondenza fra la situazione apparente e quella reale. Nel caso del rapporto tra il condominio (che pacificamente è ente di gestione) e il singolo condomino (proprietario esclusivo di determinate porzioni di piano o di unità immobiliari dello stabile condominiale) [...] un'esigenza di tutelare [...] l'affidamento incolpevole del condominio (che terzo non è) e, quindi, di dare a tal fine corpo e sostanza ad una situazione apparente per non pregiudicare il condominio medesimo, non si pone affatto». Nel medesimo senso anche la successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 23994/2004; Cass. II, n. 2616/2005; Cass. II, n. 17039/2007; Cass. II, n. 22089/2007; Cass. II, n. 574/2011; Cass. II, n. 15296/2011; Cass. II, n. 20562/2012) e di merito (Trib. Bari, 10 marzo 2016; Trib. Salerno, 1 marzo 2016; Trib. Bari, 6 luglio 2009). Il principio è stato confermato in caso di compravendita avente ad oggetto un'unità immobiliare sita in condominio, con precipuo riferimento al riparto degli oneri tra acquirente ed alienante: in caso di azione giudiziale dell'amministratore del condominio per il recupero della quota di spese di competenza di una unità immobiliare di proprietà esclusiva, è passivamente legittimato - chiarisce Cass. VI-2, n. 724/2020 - il vero proprietario di detta unità e non anche chi possa apparire tale - come il venditore il quale, pur dopo il trasferimento di proprietà non comunicato all'amministratore abbia continuato a comportarsi da proprietario - difettando, nei rapporti fra condominio, che è un ente di gestione, ed i singoli partecipanti ad esso, le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dell'affidamento del terzo in buona fede, ed essendo, d'altra parte, il collegamento della legittimazione passiva alla effettiva titolarità della proprietà funzionale al rafforzamento e al soddisfacimento del credito della gestione condominiale. La non applicabilità del principio dell'apparenza del diritto in ambito condominiale è stato ulteriormente rafforzato da Cass. II, n. 7629/2006, la quale ha evidenziato come esso assuma la veste di vero e proprio principio informatore del regime della proprietà e del condominio, con conseguente obbligo di sua osservanza nelle controversie (aventi ad oggetto il recupero di crediti condominiali e) da decidere secondo equità, ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c. Le applicazioni del principio affermato dal supremo organo giurisdizionale appaiono rilevanti ai fini classificatori che in questa sede interessano, giacché vanno ben al di là del ristretto settore del recupero degli oneri condominiali da parte dell'amministratore: l'inapplicabilità dell'apparenza del diritto può ritenersi, infatti, soluzione «di sistema» in ambito condominiale, idonea a risolvere molteplici questioni, inclusa quella – di carattere definitorio – che in questa sede precipuamente rileva. Anche sulla scia dell'autorevole precedente di cui si è detto, infatti, può ritenersi ormai consolidato l'orientamento (già propugnato da Cass. II, n. 7849/2001) in virtù del quale la convocazione va rivolta al condomino effettivo e, cioè, al vero proprietario e non a chi si comporta come tale senza esserlo, non potendo invocare il principio dell'apparenza l'amministratore di condominio che abbia trascurato di accertare la realtà sui pubblici registri (Cass. II, n. 8824/2015): ove ciò non avvenga e sia, dunque, convocato il condomino apparente, la delibera è annullabile (Cass. II, n. 2616/2005). D'altra parte, già prima della Riforma del 2012, la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto valida, siccome in armonia con il principio appena esposto, la norma del regolamento condominiale che, imponendo ai condomini di comunicare all'amministratore i trasferimenti degli immobili di proprietà esclusiva, aveva lo scopo di consentire la corretta convocazione dei soggetti legittimati a partecipare all'assemblea condominiale (Cass. II, n. 2616/2005, cit.); la soluzione è stata ora recepita a livello normativo, a seguito dell'introduzione degli artt. 1129, comma 2, e 1130, n. 6), c.c., mediante la previsione del registro di anagrafe condominiale (si rinvia, in proposito, al commento agli artt. 1129 e 1130 c.c., nonché 66 e 72 disp. att. c.c.). L'aggiornamento (mancato) del registro di anagrafe, però, pur rientrando tra gli obblighi dell'amministratore, non incide sulla conclusione supra illustrata, come confermato da Cass. II, n. 10824/2023: si vuol dire, cioè, che all'assemblea condominiale deve essere in ogni caso convocato l'effettivo titolare del diritto di proprietà dell'unità immobiliare, indipendentemente dalla avvenuta comunicazione all'amministratore della eventuale vicenda traslativa ad essa relativa, non incidendo la disciplina in ordine alla tenuta del registro di anagrafe condominiale, di cui all'art. 1136, comma 6 c.c., ed all'obbligo solidale per il pagamento dei contributi in caso di cessione dei diritti, di cui all'art. 63, comma 5, disp. att. c.c., sull'acquisizione dello "status" di condomino e sulle conseguenti legittimazioni. Ed infatti, l'amministratore di condominio, al fine di assicurare una regolare convocazione dell'assemblea, è comunque tenuto a svolgere le indagini suggerite dalla diligenza dovuta per la natura dell'attività esercitata, onde poter comunicare a tutti l'avviso della riunione, prevalendo su ogni apparenza di titolarità il principio della pubblicità immobiliare e quello dell'effettività (in senso contrario, però, Cass. VI-2, n. 4026/2021, Cass. II, n. 31826/2022, per cui, in caso di alienazione di unità immobiliare compresa nell'edificio, lo status di condomino si avrebbe per trasferito in capo all'acquirente non immediatamente, al prodursi della vicenda traslativa, ma unicamente quale conseguenza della pubblicità avuta da tale vicenda agli occhi della gestione condominiale). Allo stesso modo, è stato recentemente chiarito che, in caso di azione proposta da soggetti terzi rispetto al condominio e volta all'adempimento delle obbligazioni contratte dall'amministratore per conto del condominio medesimo, passivamente legittimati sono i proprietari effettivi delle unità immobiliari e non anche coloro che possano apparire tali, poggiando la responsabilità pro quota dei condomini sul collegamento tra il debito e la titolarità del diritto reale condominiale, emergente dalla trascrizione nei registri immobiliari; né, onde invocare la apparentia iuris e garantire l'affidamento del terzo creditore, può negarsi rilievo a tale dato pubblicitario, giacché il principio dell'apparenza trova applicazione solo quando sussistono uno stato di fatto difforme dalla situazione di diritto ed un errore scusabile del terzo in buona fede circa la corrispondenza del primo alla seconda, assumendo rilievo giuridico solo per individuare il titolare di un diritto soggettivo, ma non per fondare una pretesa di adempimento nei confronti di chi non sia debitore. che si innesta, dunque, la pronuncia in esame, la quale affronta la medesima questione – risolvendola, peraltro, allo stesso modo – sotto un angolo prospettico diverso: quello dei rapporti, cioè, tra terzi estranei e condomini, per l'adempimento (pro quota) delle obbligazioni contratte dall'amministratore per conto del condominio (Cass. VI-II, n. 23621/2017). Può dunque concludersi che «condomino» è solo e soltanto colui che effettivamente sia proprietario esclusivo (o comproprietario) di unità immobiliari facenti parte del complesso immobiliare: tale soluzione, peraltro, trova esplicita conferma normativa nell'incipit dell'art. 1117 c.c. che, come illustrato nel relativo commento (cui si rinvia) individua una presunzione di condominialità su taluni beni e servizi a favore «dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio», nonché nell'interpretazione formatasi attorno all'incipit dell'art. 1138, comma 1, c.c. a proposito della formazione dei regolamenti cd. necessari di condominio, potendosi ormai dare per assodato che, allorquando la menzionata disposizione fa riferimento al numero dei «condomini» essa intende, in realtà, richiamarsi al numero di unità immobiliari presenti nell'edificio, indipendentemente dalla circostanza che esse siano, o meno, in comproprietà tra più soggetti. È, dunque, la titolarità del diritto di proprietà – anche nelle forme della proprietà temporanea ovvero della comunione ordinaria – su unità immobiliari site nell'edificio condominiale a qualificare il condomino in quanto tale, consentendogli di vantare sulle parti comuni dell'edifico un diritto diverso, di comproprietà (recte, condominialità), che si esprime non in quote (come avviene nel caso della comunione ordinaria), bensì in millesimi. Passate decisioni di merito confermano ulteriormente l'assunto, esprimendo il rapporto recato dall'originaria formulazione dell'art. 1118 c.c. (che, come detto, faceva riferimento al valore di piano o porzione di piano) in termini di proporzione tra il diritto sulle parti comuni ed il valore della quota individuale di proprietà (Trib. Napoli, 2 dicembre 1961). Singolare, poi, il caso recentemente affrontato da Cass. II, n. 884/2018, che include nel novero dei «condomini» anche i proprietari i proprietari esclusivi di spazi destinati a posti auto compresi nel complesso condominiale possono dirsi condomini, e quindi presumersi comproprietari (nonché obbligati a concorrere alle relative spese, ex art. 1123 c.c.) di quelle parti comuni che, al momento della formazione del condominio, si trovino in rapporto di accessorietà, strutturale e funzionale, con detti spazi. Non va però sottaciuto che una deroga, rispetto a tale definizione del concetto di «condomino», va rinvenuta nella dizione dell'art. 1137, comma 2, c.c., previsione che espressamente conferisce il potere di adire l'autorità giudiziaria, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento, ad «ogni condomino assente, dissenziente o astenuto»: la norma va, infatti, coordinata con l'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. che, in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione degli aventi diritto, assegna la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, onde ottenere l'annullamento della deliberazione, ad istanza di quelli tra costoro che siano dissenzienti o assenti perché non ritualmente convocati: il che (salvi i doverosi approfondimenti che, in proposito, verranno svolti nel commento all'art. 1137 c.c., cui integralmente si rinvia) necessariamente implica l'espansione del novero dei soggetti legittimati a proporre l'impugnazione ex art. 1137 c.c. oltre il campo dei soli proprietari esclusivi (si pensi al conduttore, a tanto facoltizzato dall'art. 10 della l. n. 392/1978). Questione opposta, infine, è quella relativa alla negazione dello stato di condomino. La recente Cass. VI-2, n. 4697/2020 se ne è occupata sotto il profilo processuale, evidenziando che la domanda di accertamento negativo della qualità di condomino, in quanto inerente all'inesistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., non va proposta nei confronti dell'amministratore del condominio ma impone, piuttosto, la partecipazione, quali legittimati passivi, di tutti i condomini in una situazione di litisconsorzio necessario, postulando la definizione della vertenza una decisione implicante una statuizione in ordine a titoli di proprietà configgenti fra loro, suscettibile di assumere valenza solo se, ed in quanto, data nei confronti di tutti i soggetti, asseriti partecipi del preteso condominio in discussione. Segue. I «partecipanti al condominio» e gli «aventi diritto»Restano ancora da riempire di contenuto le due ulteriori espressioni di cui si è detto nel paragrafo precedente: cosa (recte, chi) si debba intendere, cioè, per «partecipanti al condominio» ed «aventi diritto». La prima espressione, invero, può essere scomposta, a propria volta, in due sottocategorie: i partecipanti in senso stretto ed i partecipanti in senso lato (o atecnico). Partendo da quest'ultima locuzione, con essa può farsi riferimento a tutti quei soggetti che, essendo titolari diritti su unità immobiliari site all'interno dell'edificio condominiale, comunque prendono parte alla «vita» della compagine: dunque, non solo il proprietario esclusivo, ma anche il nudo proprietario, l'usufruttuario, l'habitator, , il conduttore, il comodatario, il coniuge ovvero il convivente del proprietario esclusivo che sia assegnatario dell'unità immobiliare adibita a casa familiare (questi ultimi titolari di un diritto personale di godimento sui generis. Cfr. Cass. VI-2, n. 16613/2022). Rispetto a tale ampia categoria di soggetti trova applicazione, ad esempio, la disciplina di cui all'art. 1102 c.c.: come evidenziato nel commento all'art. 1117 c.c. anzi, è più corretto affermare che nella concorrenza, sulla medesima unità immobiliare, del diritto di proprietà, da un lato, e di diritti reali o personali di godimento al godimento, dall'altro, all'uso dei beni comuni da parte del proprietario (che non ne viene totalmente escluso) si affianca quello di tali altri soggetti. Il principio è estremamente chiaro in materia locatizia, essendosi affermato che, in ipotesi di concessione in locazione unità immobiliari di proprietà esclusiva, tale contratto origina il godimento, da parte del conduttore, non solo delle porzioni in proprietà esclusiva, ma anche delle parti comuni (tanto da riconoscere al conduttore la facoltà di apporre targhe ed insegne sul muro perimetrale) (così Cass. II, n. 6229/1986. Contra, però, App. Roma, 4 ottobre 2010, per cui l'utilizzazione della cosa comune presuppone la sussistenza di un titolo sulle parti comuni dell'edificio che, in quanto riconducibile alla categoria dei diritti reali, compete solo al condomino e non anche al conduttore, titolare solo di un diritto di credito nascente dal contratto, con conseguente preclusione, allo stesso, non solo della facoltà di alterare e modificare la cosa locata ma, a maggior ragione, delle parti comuni dell'edificio): sicché il conduttore può liberamente godere ed eventualmente modificare le parti comuni dell'edificio, al pari del proprietario e fatte salve eventuali limitazioni specifiche contenute nel titolo negoziale (Cass. II, n. 205/1964), purché in funzione del godimento o del miglior godimento dell'unità immobiliare oggetto primario della locazione (limite cd. interno) e purché non risulti alterata la destinazione di dette parti, né pregiudicato il pari suo uso da parte degli altri condomini (limite cd. esterno) (Cass. II, n. 3874/1997; Cass. II, n. 2331/1981). Diversamente, la nozione di «partecipanti al condominio», da intendersi in senso stretto, è quella riconducibile agli artt. 1117-ter, comma 1, c.c. («per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni»), 1119 c.c. («le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio») e 1131 c.c. («nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall'assemblea, l'amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti [al condominio] e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi»), nonché all'art. 67, comma 3, disp. att. c.c. (in tema di supercondominio), ove l'espressione è usata in maniera del tutto sinonimica rispetto al concetto di «condomino». Quanto al concetto di «aventi diritto», infine, richiamato dagli artt. 1136, comma 6, c.c. e 66, commi 3 e 5, disp. att. c.c., esso designa una realtà ancora differente e precisamente, quei soggetti (proprietari o meno che siano di unità immobiliari) nei cui confronti si applicano le previsioni dettate in tema di convocazione dell'assemblea. La categoria degli “aventi diritti” sembra potersi collocare a metà strada tra i partecipanti in senso stretto/condomini ed i partecipanti in senso lato, giacché essa non ricomprende i soli proprietari, ma neppure si estende al punto di ricomprendere, per ogni deliberazione, tutti coloro che vantano sulle unità immobiliari in condominio diritti personali o reali di godimento: così, ad esempio, solo laddove si tratti di assemblea in cui si discuta delle spese e della modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e condizionamento dell'aria, ai sensi degli artt. 9 e 10 della l. n. 392 del 1972, avente diritto è il conduttore (cfr. Cass., 18 agosto 1993, n. 8755) mentre, per tutte le altre deliberazioni, avente diritto è il proprietario (arg. da Cass., 18 agosto 1993, n. 8755) potendo il conduttore, al più, in caso di approvazione di una delibera che arrechi pregiudizio, ovvero molestia, all'esercizio del suo diritto di godimento dell'immobile, avvalersi delle tutele di cui agli artt. 1585 e 1586 c.c. (Cass., 30 maggio 2023, n. 15222); del pari, nel caso di assemblea in cui si discuta di spese non eccedenti l'ordinaria amministrazione ovvero di semplice godimento dei beni e servizi, ex art. 67, comma 6, disp. att. c.c., avente diritto è l'usufruttuario e non il nudo proprietario (cfr. anche Cass., 4 luglio 2013, n. 16774). Quale, dunque, la ratio sottesa alla individuazione degli “aventi diritto”? In dottrina (CHIESI, 2023) si è recentemente osservato che “il criterio sia da individuare, da un lato, nell'inerenza al diritto (questioni involgenti l'estensione delle facoltà connesse al diritto di proprietà non possono che coinvolgere il proprietario) e dall'altro, nella imputabilità della spesa da sostenere, nel senso che ha diritto a partecipare all'assemblea (e, correlativamente, ad impugnarne il deliberato), il soggetto tenuto a pagare i corrispondenti oneri, salvo eccezioni espressamente dettate dalla legge” (si rinvia al commento all'art. 1135 c.c., sub § 4). Interessante è la precisazione contenuta, a proposito della perimetrazione di tale categoria, da Cass. II, n. 3192/2023, a proposito del caso di assemblea convocata per approvare il promovimento o la prosecuzione di una controversia giudiziaria tra il condominio ed un condomino: ritiene la Corte, infatti, che in siffatta ipotesi, lungi dal ricorrere un caso di conflitto di interessi (che si manifesta soltanto in sede di assemblea al momento dell'esercizio del potere deliberativo e che verte sul contrasto tra l'interesse proprio del partecipante al voto collegiale e quello comune all'intera collettività e perciò anche a lui stesso), in realtà la compagine condominiale, di fronte al particolare oggetto della lite, si scinde in base ai contrapposti interessi, per dare vita a due gruppi di partecipanti al condominio in contrasto tra loro, nulla significando che nel giudizio il gruppo dei condomini, costituenti la maggioranza, sia rappresentato dall'amministratore (non dissimilmente, d'altronde, da quanto avviene nel caso di condominio parziale), con conseguente insussistenza del diritto del singolo a partecipare all'assemblea (e correlata assenza di sua legittimazione a domandare l'annullamento della delibera per omessa, tardiva o incompleta convocazione, allorché sia portatore unicamente di un interesse contrario a quello rimesso alla gestione collegiale). Cass. II, n. 23255/2021 (e, in senso conforme, Cass. II, n. 12826/2023) ricomprende tra gli aventi diritti alla convocazione il custode giudiziario di unità immobiliare soggetta a sequestro preventivo penale, giacché “il vincolo di indisponibilità (id est, inutilizzabilità) [conseguente al provvedimento di sequestro] colpisce…i diritti e le facoltà individuali inerenti al diritto di condominio (ivi compresi il diritto d'intervento e di voto in assemblea)…La derivante limitazione dell'esercizio dei diritti dominicali dei condomini, in vigenza del sequestro preventivo penale, rimane così giustificata sia dal carattere temporaneo della indisponibilità sia dalle esigenze di natura pubblicistica sottese all'art. 321 c.p.p., potendo gli stessi esperire la tutela prevista dall'art. 322 c.p.p.”; Cass. II, n. 29070/2023, al contrario, esclude che, in assenza di un'espressa previsione normativa ad hoc, il custode giudiziario di un immobile sottoposto a pignoramento possa partecipare alle assemblee condominiali, salvo che il giudice dell'esecuzione abbia fornito sul punto specifiche istruzioni operative, contenute nel provvedimento di nomina del custode o in altro successivo. I millesimi e le tabelleCome anticipato, il regime di contitolarità dei proprietari di unità immobiliari sulle parti comuni si esprime in «millesimi» e non in «quote», come accade, al contrario, nel caso della comunione ordinaria; la differenza, peraltro, non è solo di carattere terminologico, ma sostanziale, giacché, se nel caso della comunione le quote si presumono uguali tra loro, ciò che caratterizza, al contrario, il condominio è (fatte sempre salve le diverse previsioni del titolo costitutivo del diritto) la naturale diversità della caratura attribuita a ciascuna unità immobiliare, valore da ricostruire, peraltro, facendo ricorso ad indici diversi a seconda della tipologia di millesimi di cui si discorre e dell'impostazione che si intende recepire. Si è a tale proposito osservato (Triola, 7) che la nozione di «millesimi» di cui all'art. 1118 c.c., quale misura del diritto di ciascun condomino sulle parti comuni non coincide necessariamente con quella considerata nel successivo art. 68 disp. att. c.c., stante la diversa natura delle due previsioni: la prima, volta a definire il valore reale dell'edificio; la seconda destinata, al contrario, a definire il valore di gestione dell'edificio. In termini, Cass. II, n. 520/1967 afferma che l'art. 68 disp. att. c.c., nel prescrivere che il regolamento deve contenere una tabella ove siano precisati i valori proporzionali delle singole unità immobiliari in proprietà individuale, ragguagliati a quelli dell'intero edificio, espressamente limita l'efficacia di tale indicazione agli effetti previsti dagli artt. 1123,1124,1126 e 1136 c.c., con conseguente esclusione di qualsivoglia rilevanza rispetto al valore effettivo della proprietà individuale. Conforme a tale impostazione è Cass. II, n. 4774/1977, la quale chiarisce che la tabella di ripartizione delle spese condominiali, ancorché connessa al diritto di proprietà dei condomini, non integra una situazione di diritto reale. Simmetricamente la medesima dottrina osserva come, dalle considerazioni che precedono, dovrebbe discendere che la specificazione, contenuta nel titolo, dei millesimi di comproprietà non dovrebbe essere vincolante anche ai fini della individuazione dei c.d. millesimi di gestione, a meno di una espressa previsione in tal senso. Più in generale, si è osservato che il valore (millesimale) dell'unità immobiliare individuale è indice e misura delle utilità che le parti comuni esprimono nel contesto della stessa: una determinata parte comune, cioè, è tanto più utile per il proprietario dell'unità immobiliare quanto maggiori sono le utilità espresse dall'unità immobiliare stessa, a parità delle altre condizioni (Lisi, 200). La stessa dottrina, esemplificando, riporta il caso del proprietario dell'appartamento di maggior valore dell'edificio che potrebbe non cogliere immediatamente la ragione della sua maggiore partecipazione alle spese per la manutenzione del portone di ingresso, dato che quel portone non appare essere «più suo» di quanto non sia del proprietario del monovano sottostante, che lo utilizza allo stesso modo. La ragione di tale diverso peso si rinviene proprio nell'impossibilità di valutare l'utilità del portone disgiuntamente dal bene immobile a cui è destinato a garantire l'accesso: certamente la funzione del portone – che è quella di consentire l'accesso a ciascuna delle unità immobiliari – è omogenea per tutti i cespiti siti nello stabile condominiale, ma è altrettanto vero che l'utilità dell'accesso deve essere considerata in relazione al(le altre utilità espresse dal) bene cui si accede. Così, per restare all'esempio, l'ottimo stato di conservazione dell'androne si riverbera sul valore di tutte le unità immobiliari, determinandone un incremento: e non appare revocabile in dubbio che il valore aggiunto sarà maggiore – in termini assoluti – per le unità intrinsecamente dotate di maggior valore. Detto con il linguaggio del legislatore, cioè, ceteris paribus tale incremento è proporzionale al valore di ciascuna unità immobiliare. Riassuntivamente -ed efficacemente - Trib, Perugia, 29 settembre 2020 precisa che le tabelle millesimali si possono definire documenti di natura tecnico-valutativa del patrimonio dei condomini, per mezzo dei quali viene precisato, sulla base di calcoli aritmetici, il valore, espresso in millesimi, di ciascun piano o porzione di piano rispetto a quello dell'intero edificio ed hanno due funzioni: la prima è quella di distribuire tra i condomini il carico delle spese condominiali, la seconda è quella di indicare il “peso” di ciascun condomino nella formazione della volontà dell'assemblea. Avuto riguardo, invece, alla modalità di calcolo dei millesimi ascrivibili alla proprietà generale, non si registra uniformità di orientamenti in dottrina e giurisprudenza. Si è sostenuto (Triola, 7) che, nella determinazione del valore reale delle unità immobiliari, ex art. 1118 c.c., si deve tenere conto dello stato di manutenzione e dei miglioramenti; altri (Peretti Griva, 127) ritiene che gli abbellimenti da tenere presente sarebbero quelli originari (e non anche, dunque, quelli sopraggiunti), che nella millesimazione dovrebbero essere ricomprese anche le pertinenze, che occorrerebbe tenere conto, altresì, delle innovazioni nel frattempo intervenute e che il tutto dovrebbe essere valutato all'attualità e non al momento di venuta ad esistenza del condominio; secondo una ulteriore posizione dottrinaria (Branca, 354), infine, l'immobile da valutare, ai fini della determinazione della caratura millesimale, dovrebbe essere quello considerato allo stato grezzo, facendosi riferimento ad estensione, ampiezza, ubicazione, esposizione, altezza, numero ed ampiezza di balconi ed eventuali terrazze. Più netta ed univoca è, invece, la posizione della giurisprudenza che, nel generalizzare gli approdi maturati in tema di giudizio di revisione delle tabelle, ex art. 69 disp. att. c.c., afferma che per determinare il valore di un'unità immobiliare occorre prendere in considerazione sia gli elementi intrinseci dei singoli immobili oggetto di proprietà esclusiva (quali l'estensione) che quelli estrinseci (quali l'esposizione), nonché le eventuali pertinenze di tali proprietà esclusive, come i giardini (ma anche cantine, autorimesse catastalmente collegate agli appartamenti o l'alloggio del portiere di proprietà comune), poiché consentono un migliore godimento degli appartamenti al cui servizio ed ornamento sono destinati in modo durevole, determinando un accrescimento del loro valore patrimoniale (Cass. II, n. 21043/2017; Cass. II, n. 12018/2004). Quanto, invece, alla modalità di calcolo dei millesimi ascrivibili alle spese generali, si è detto che non si deve a tal fine tenere conto, nella determinazione del valore delle singole unità immobiliari in proprietà esclusiva, dello stato di manutenzione e dei miglioramenti, secondo una formula ripropositiva del dettato di cui all'art. 68 disp. att. c.c. che in proposito prevede che nell'accertamento dei valori rilevanti agli effetti di cui agli artt. 1123,1124,1126 e 1136 c.c. non si tiene conto del canone locatizio, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione di ciascuna unità immobiliare. I millesimi rappresentano, dunque, l'ossatura della gestione condominiale: sulla base degli stessi si computano i quorum costitutivi e deliberativi dell'assemblea nonché il concorso dei condomini nelle spese. Peraltro, neppure è scontato che le tabelle ex art. 1118 c.c. (di proprietà) e 1123 c.c. (delle spese generali) coincidano. Ed infatti, l'unità sistematica tra la disposizione dell'art. 1118, comma, 1, c.c. (volta a determinare il valore reale dell'edificio) e quella contenuta all'art. 1123, comma 1, c.c. (per il quale le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno), in virtù della quale i millesimi finalizzati alla distribuzione delle spese generali normalmente coincidono con quelli di proprietà, non impedisce, trattandosi di norme derogabili, che siano convenzionalmente previste discipline diverse e differenziate tra loro dei diritti di ciascun condomino sulle parti comuni (che possono essere attribuiti in proporzione diversa – maggiore o minore – rispetto a quella della sua quota individuale di piano o porzione di piano) e degli oneri di gestione del condominio, che possono farsi gravare sui singoli condomini indipendentemente dalla rispettiva quota di proprietà delle cose comuni o dall'uso (Cass. II, n. 7546/1995). La questione sarà comunque ripresa ed approfondita a commento del comma 4 dell'art. 1118 c.c., con riferimento al distacco dall'impianto di riscaldamento centralizzato ed alla possibilità che, ciononostante, le relative spese di gestione siano convenzionalmente poste – in virtù di una specifica previsione del regolamento contrattuale – a carico del condomino legittimamente distaccatosi. I regolamenti di condominio contemplano, di regola, più tabelle millesimali: così, accanto a quella di proprietà generale (sovrapponibile, come detto, a quella delle «spese generali»), sono generalmente predisposte tabelle per la individuazione dei millesimi riferibili a ciascuno dei condomini in relazione all'uso ed al godimento di talune parti o servizi dell'edificio suscettibili di utilizzazione separata ovvero diversificata, al fine di dare corretta applicazione all'art. 1123 c.c., in quanto le tabelle formate in base al solo valore delle singole unità immobiliari servono solo per il riparto delle spese generali e di quelle che riguardano le parti dell'edificio comuni a tutti i condomini, ma non sono utilizzabili per il riparto delle spese che non sono comuni a tutti i condomini in ragione del diverso uso delle cose condominiali (Cass. II, n. 8484/1987): se le cose comuni sono destinate a servire i condòmini in misura diversa, infatti, le spese - a meno che non vi sia un diverso accordo adottato all'unanimità dalle parti - vanno ripartite in proporzione all'uso che ogni condomino può farne, come stabilito dall'art. 1123, comma 2, c.c. (Cass. II, n. 6010/2019) e per provvedere all'uopo occorre che il condominio sia dotato di tabelle diversificate per tipologia di spesa. Se la determinazione dei valori millesimali da attribuire alle singole unità immobiliari è, di regola, curata dall'originario costruttore al momento stesso della nascita del condominio, mediante loro redazione, allegazione al regolamento e trascrizione ovvero allegazione al primo atto di alienazione, può tuttavia anche accadere che il condominio sia sfornito di tabelle millesimali, sia per ciò che concerne la proprietà e le spese generali che per quanto attiene alla disciplina dei singoli beni o servizi (la pluralità di tabelle risponde, infatti, alla logica della differenziazione delle spese in base all'uso ed al godimento che dei beni e servizi comuni facciano i condomini): d'altra parte, indipendentemente da tutto, la formazione di un regolamento (e, con esso, delle tabelle annesse) è obbligatoria solo in caso di condominio composto da più di dieci condomini. Ciò non esonera, tuttavia, dal rispetto delle prescrizioni contenute agli artt. 1118 e 1123 c.c., nonché 68 disp. att. c.c.: ed infatti, se le tabelle esprimono il rapporto esistente tra il valore della singola proprietà esclusiva e la somma complessiva di quelli di tutte le proprietà esclusive (dunque, in ultima analisi, la percentuale che il valore dell'unità immobiliare di proprietà esclusiva rappresenta rispetto al valore complessivo dell'edificio), ben si comprende l'affermazione della giurisprudenza di legittimità per cui il criterio per l'identificazione delle quote di partecipazione al condominio, derivando dal rapporto fra il valore dell'intero edificio e quello relativo alla proprietà singola, esiste prima ed indipendentemente dalla formazione delle tabelle millesimali o, meglio, del documento che le racchiude (Cass. II, n. 3264/2005), con l'ulteriore conseguenza che ne discende per cui l'esistenza delle tabelle non condiziona la gestione del condominio né, tantomeno, il funzionamento dell'assemblea (Cass. II, n. 1664/1977). Ciò implica che, in mancanza di una tabella millesimale regolarmente approvata, l'Autorità giudiziaria, ove investita della domanda di suddivisione di una spesa condominiale. deve procedere, anche incidenter tantum, a stabilire quale sia il valore del piano dei condomini obbligati al pagamento ed il relativo concorso nel soddisfacimento di tale esborso, non potendosi fare riferimento al criterio presuntivo dell'uguaglianza delle quote, fissato dall'art. 1101 c.c. per la comunione ordinaria giacché, in materia condominiale, il rapporto tra i valori dei piani sussiste oggettivamente ed è, come tale, sempre accertabile dal giudice (Cass. II, n. 11264/2011; Cass. II, n. 13505/1999; Cass. II, n. 1057/1985; Cass. II, n. 400/1971; Cass. II, n. 3097/1974). Lo stesso principio trova applicazione, come recentemente statuito da Cass. II, n. 9280/2018, anche in materia di condominio minimo: anche in tal caso, infatti, in mancanza di tabelle regolarmente approvate, la quota di partecipazione alle spese gravante sui singoli proprietari deve essere determinata dal giudice in base alla disciplina del condominio di edifici di cui all'art. 1123 c.c. e, quindi, tenendo conto del valore delle loro proprietà esclusive, e non, invece, applicando la regolamentazione in materia di comunione prevista dall'art. 1101 c.c. In simile evenienza dunque – e solo in essa, giacché ove le tabelle siano state redatte potrà farsi solo una questione di loro revisione, ex art. 69 disp. att. c.c. (Cass. II, n. 12115/1992) – l'assemblea può adottare, a titolo di acconto e salvo conguaglio, tabelle provvisorie (Cass. II, n. 24670/2006), fino all'adozione di quelle definitive così come, del pari, ciascun condomino può adire l'autorità giudiziaria, in sede contenziosa, per la formazione delle tabelle. Ed infatti, analogamente rispetto a quanto avviene nel caso di comunione ordinaria, un valore deve essere pur sempre indicato, non essendo concepibile una comunione con quote indeterminate: con la differenza – di assoluto rilievo – che in quel caso, in mancanza di una diversa determinazione, il legislatore ha posto una regola di chiusura – contenuta all'art. 1101 c.c. – in base alla quale le quote si presumono uguali mentre, nel caso del condominio, le tabelle o vengono approvate dall'assemblea (a maggioranza o all'unanimità a seconda del loro contenuto. Cfr. infra), in via definitiva ovvero provvisoria, o vengono redatte dall'autorità giudiziaria, in via incidentale o principale (a seconda dell'oggetto del giudizio). Si ritiene pacificamente, infatti, che l'assemblea condominiale possa legittimamente deliberare di applicare una tabella millesimale per la ripartizione delle spese annuali di gestione e di manutenzione dei servizi comuni a titolo di acconto, restando al condomino assente o dissenziente di provare, in sede d'impugnazione, che tale deliberazione sia causa di pregiudizio concreto ed attuale nei suoi confronti (Cass. II, n. 7731/1990). Il medesimo percorso argomentativo è seguito anche da Trib. Cagliari, 26 febbraio 1997, per cui, nelle more dell'approvazione della tabella millesimale di proprietà o della sua determinazione in sede giudiziale, l'assemblea dei condomini può legittimamente adottare una tabella di c.d. «gestione provvisoria» al fine di provvedere, con le somme anticipate dai condomini a titolo di acconto, alla gestione e alla manutenzione delle parti comuni dell'edificio. Preme in proposito sottolineare come entrambe le pronunzie, nella parte in cui fanno riferimento alla necessità di un consenso unanime per l'approvazione delle tabelle definitive e di un'approvazione a maggioranza per le tabelle provvisorie, vanno comunque rilette, in relazione ai quorum deliberativi, alla luce di quanto affermato da Cass. S.U. , n. 18477/2010, su cui ci si soffermerà tra breve. Peculiare è, in proposito, il principio affermato da Trib. Roma, 18 febbraio 2019, per cui la formazione delle tabelle millesimali, nonché la loro modifica, non necessita di forma scritta ad substantiam ed è desumibile anche da facta concludentia, quali il costante pagamento per più anni delle quote millesimali secondo criteri prestabiliti, invece della formale approvazione, fatta salva la possibilità del singolo condomino di impugnare la ripartizione delle spese quando questa non rispetti i criteri dettati dalla legge, per essere divergenti il valore della quota considerato ai fini della spesa e quello reale del bene in proprietà esclusiva: sicché, in mancanza di un atto formale di adozione o approvazione (ovvero di un'apposita pronunzia giudiziale al riguardo), le tabelle di calcolo da considerare vigenti sono quelle di fatto applicate per tacito accordo (quanto meno circa la corrispondenza della "millesimazione" in concreto impiegata al criterio di proporzionalità al valore delle singole proprietà esclusive dettato dall'art. 1123 c.c.). Segue. L'atto di approvazione delle tabelleIl tema rientra, invero, tra quelli più dibattuti in materia condominiale, dovendosi registrare, da un lato, un contrasto giurisprudenziale risolto dall'intervento delle Sezioni Unite nel 2010 e, dall'altro, l'«ingresso» nella questione del legislatore riformatore del 2012, mediante la novella dell'art. 69 disp. att. c.c.: tutto ruota attorno alla qualificazione dell'atto di approvazione della tabella millesimale in termini di negozio di accertamento dei valori delle quote condominiali, con funzione puramente valutativa del patrimonio agli effetti della distribuzione del carico delle spese e della misura del diritto di partecipazione all'espressione della volontà assembleare, ovvero in termini di negozio di carattere dispositivo dei diritti dei singoli. Ha osservato attenta dottrina (Izzo, 874) come la questione abbia tratto sostanzialmente origine da un abuso della funzione tipica del regolamento di condominio, giacché l'art. 1138 c.c. prevede la predisposizione di un regolamento di condominio per «l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino» senza, però, che vi sia «menomazione, in alcun modo» dei diritti condominiali mentre tale menomazione viene, di fatto, operata attraverso «un'accettazione convenzionale, nel momento costitutivo del condominio, di un diverso assetto normativo sottratto, così, alle ordinarie deliberazioni maggioritarie dell'assemblea dei condomini. Tale accorgimento convenzionale avviene, frequentemente, anche con il rilascio, addirittura, di un mandato a formare successivamente il regolamento di condominio – per così dire – al buio, senza, cioè, alcuna indicazione e pattuizione dei criteri formativi. Abuso di funzione che consiste nell'assunzione formale da parte del primo acquirente di obbligazioni contrattuali, inserite – più o meno trasparentemente – nel regolamento condominiale predisposto dall'unico ed originario proprietario dell'edificio, al quale viene fatta adesione. Peraltro, di tale regolamento non viene data lettura in occasione della stipula dell'atto notarile di vendita che lo recepisce, quindi, per relationem in forza della mera dichiarazione dell'acquirente di averne già avuta conoscenza. Adesione a limitazioni dei diritti condominiali previsti dalla disciplina dettata per il condominio e a deroghe che sono estranee al paradigma normativo del regolamento di condomino concepito dal codice. Con l'accorgimento, poi, di un espresso richiamo di stile, in tutti i successivi atti di trasferimento relativi allo stesso fabbricato, le limitazioni oggetto dei predetti obblighi contrattuali, vengono trasmessi ai successivi acquirenti che vi succedono, con un'alterazione e trasformazione della funzione tipica e della natura del regolamento di condominio previsto dalla legge che assume, in tal modo, la forza di un vero e proprio contratto concluso legittimamente nell'ambito della libera autonomia delle parti. Ciò, peraltro, indipendentemente dalla trascrizione-pubblicità del regolamento che viene allegato al primo atto pubblico di vendita e, pertanto, non di immediata e diretta percezione dei terzi attraverso la nota di trascrizione che non riporta i predetti obblighi. La valenza contrattuale impressa, contrattualmente, al regolamento di condominio predisposto dall'unico proprietario venditore – continua il medesimo autore – ha finito, così, per estendersi, per l'identità delle finalità perseguite, anche al regime giuridico delle tabelle millesimali. Unanimità di consensi derivante dalla mera e semplice allegazione a tale tipo di regolamento (impropriamente detto contrattuale), ovvero dalla configurazione di un “negozio di accertamento” in caso di formazione autonoma o successiva, così che le tabelle millesimali non possono che essere, necessariamente ed in ogni caso, formate contrattualmente, originando la correlata questione giuridica circa la natura dell'eventuale errore se “errore-vizio” o “errore di calcolo” per l'ammissibilità della loro revisione. La deviazione o l'abuso del diritto ha finito, così, per fare aggio sulla natura e valenza regolamentare e niente affatto contrattuale del regolamento di condominio previsto dalla legge. La natura, necessariamente, e in ogni caso, negoziale delle tabelle millesimali non trova riscontro e conforto nella disciplina del condominio dettata dal codice, ma si è affermata per estensione della deviazione, per via contrattuale, dalla normativa codicistica, con la pratica imposizione di limitazioni dei diritti condominiali o di deroghe ai criteri legali». Invero, l'orientamento più risalente – ed a lungo dominante – in giurisprudenza, ravvisava nell'approvazione o nella modifica delle tabelle un atto di natura contrattuale, per ciò stesso esorbitante dalle attribuzioni dell'assemblea e, perciò, necessitante una deliberazione unanime di tutti i partecipanti al condominio, con conseguente nullità di una deliberazione assunta a maggioranza. In particolare, la tesi (Peretti Griva, 136) fondava sulla ricostruzione dell'atto di approvazione delle tabelle in termini di negozio di accertamento, con cui le parti giungono alla risoluzione di una situazione dubbia, avente specificamente ad oggetto la caratura da attribuire alle singole unità in proprietà esclusiva. In tal senso sono chiare, ad esempio, Cass. II, n. 5399/1999, per cui le tabelle millesimali allegate a regolamento condominiale contrattuale non possono essere modificate se non con il consenso unanime di tutti i condomini o per atto dell'autorità giudiziaria a norma dell'art. 69 disp. att. c.c. e conservano piena efficacia e validità (quali leggi del condominio) sino a che non intervenga una rituale modifica delle stesse, Cass. II, n. 3542/1994 per cui la deliberazione dell'assemblea condominiale che modifichi a maggioranza una tabella millesimale contrattualmente approvata ovvero fissi criteri di ripartizione delle spese comuni secondo criteri diversi da quelli stabiliti per legge è inficiata da nullità o, ancora, Cass. II, n. 5593/1980. Quale inevitabile corollario della ravvisata natura contrattuale dell'atto di formazione o modifica delle tabelle millesimali, derivava che la domanda giudiziale di un condomino, volta all'accertamento dell'invalidità o alla revisione giudiziale delle stesse tabelle, dovesse essere necessariamente proposta nei confronti di tutti gli altri condomini, in regime di litisconsorzio necessario, giacché la legittimazione passiva dell'amministratore, limitata alle azioni relative alle parti comuni dell'edificio, non avrebbe potuto estendersi alle questioni attinenti all'accertamento dei valori millesimali – e dei correlati obblighi – delle quote di proprietà esclusiva (Cass. II, n. 7359/1996; Cass. II, n. 4405/1995; Cass. II, n. 3967/1984; Trib. Roma, 2 luglio 2009; Trib. Savona, 8 maggio 2012). Tale soluzione è stata, tuttavia, aspramente criticata in dottrina, anzitutto evidenziando come il riferimento al principio unanimistico rende altamente probabile il rischio della paralisi della attività assembleari, quantomeno fino al passaggio in giudicato della sentenza (avente carattere costitutivo) di accertamento dei valori millesimali; a ciò aggiungasi che la natura contrattuale dell'atto determinerebbe la sistematica inefficacia della tabella nei confronti degli aventi causa a titolo particolare dai condomini originari, senza peraltro omettere di considerare che l'allegazione delle tabelle al regolamento di condominio (cfr. l'art. 68 disp. att. c.c.) dovrebbe sottintendere la soggezione delle prime alla medesima maggioranza stabilita per il secondo dall'art. 1138 c.c. (Scarpa, 2014, 420 ed ivi altri riferimenti bibliografici). Secondo l'opposto orientamento, cui ha prestato infine adesione Cass. S.U., n. 18477/2010 (successivamente seguito anche da Cass. II, n. 9232/2014; Cass. II, n. 4569/2014; Cass. II, n. 21950/2013 nonché, Trib. Monza, 18 marzo 2014; Trib. Lucca, 23 dicembre 2015) l'atto di approvazione, come di revisione, delle tabelle millesimali condominiali non ha natura negoziale, ma funzione puramente valutativa del patrimonio, agli effetti della distribuzione del carico delle spese e della misura del diritto di partecipazione all'espressione della volontà assembleare: trattandosi, dunque, di un mero atto (e, cioè, una dichiarazione di scienza relativa ad una situazione giuridica preesistente) esso non richiede il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. In sostanza – questo il ragionamento alla base della richiamata pronunzia del supremo organo di nomofilachia – l'art. 1118 c.c. fa riferimento, per determinare l'ammontare della quota di ciascun partecipante al condominio e sempre salvo che il titolo disponga altrimenti, al valore dell'unità immobiliare: quale approvazione del risultato di una mera operazione tecnica di calcolo, tale atto non sottende affatto un'attività negoziale volta all'eliminazione di una situazione di incertezza, ma una semplice ricognizione di una realtà empirica preesistente. Sicché le tabelle non incidono sul valore della proprietà, ma semplicemente sugli obblighi contributivi e, per ciò stesso, la loro approvazione o modifica non è atto inquadrabile nella categoria del negozio di accertamento del diritto di proprietà sulle singole unità immobiliari e sulle parti comuni, semplicemente in quanto non finalizzato ad eliminare un'incertezza: «le tabelle, piuttosto, rappresentano una documentazione tecnico-ricognitiva di una realtà empirica, riassumendosi in un parametro dì quantificazione dei diritti ed oneri condominiali, e servono unicamente ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti. Da quanto precede discende che l'approvazione delle tabelle millesimali non ha natura negoziale, perché viene meno la caratteristica, propria del negozio giuridico, della conformazione della realtà oggettiva alla volontà delle parti. Recentemente, nel medesimo senso delle Sezioni Unite, Cass. II, n. 27159/2018ha ribadito come l'atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non ha natura negoziale, sicché il medesimo non deve essere approvato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. (cfr. anche, in termini, Cass. II, n. 6735/2020, su cui cfr. amplius infra).Consegue ulteriormente da quanto precede che le tabelle millesimali possono esistere (o non esistere) indipendentemente dal regolamento condominiale, la loro allegazione rappresentando un fatto meramente formale che non muta la natura di entrambi gli atti: nondimeno, in base al combinato disposto degli artt. 68 disp. att. c.c. e 1138 c.c., l'atto di approvazione (o di revisione) delle tabelle, avendo veste di deliberazione assembleare, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, dovendosi, conseguentemente, escludere approvazioni per facta concludentia (Cass. II, n. 26042/2019). Ulteriore conseguenza che deriva da quanto precede è che per la modifica dei valori delle tabelle millesimali (siano esse assembleari ovvero contrattuali) non è obbligatoria la (pressoché inattuabile) unanimità dei consensi degli aventi diritto; viceversa, si dovrà far ricorso alle maggioranza indicate dall'art. 1136, comma 2, c.c.: sarà quindi necessaria e sufficiente la maggioranza degli intervenuti alla singola assemblea deliberativa che rappresentino «almeno la metà del valore dell'edificio» (Chiesi-Troise, 19). Detto con le parole della Corte, la deliberazione che approva le tabelle millesimali non si pone come fonte diretta dell'obbligo contributivo del condomino, che è prevista nella legge, ma solo come parametro di quantificazione di tale obbligo, determinato in base ad una valutazione tecnica. Dalle suesposte conclusioni derivano conseguenze rilevanti. Una determinazione che non rispecchiasse il valore effettivo di un'unità immobiliare rispetto all'intero edificio potrebbe risultare pregiudizievole per il condomino – costringendolo a pagare spese condominiali in misura non proporzionata al valore della parte di immobile di proprietà esclusiva – ma non sarebbe comunque in grado di incidere sul diritto di proprietà come tale quanto, piuttosto, sulle obbligazioni che gravano a carico del condomino in funzione di tale diritto di proprietà, a cui si può porre riparo mediante la revisione della tabella ex art. 69 disp. att. c.c. (Celeste 2010, 1805): a tale ultimo fine, pertanto, l'atto di formazione delle tabelle millesimali non può essere inficiato da vizi del volere, ma da ogni divergenza esistente fra i valori determinati ed i valori effettivi; l'interesse alla revisione della tabella millesimale sorge in conseguenza dell'erroneità dei valori proporzionali, «senza che abbia rilievo che la richiesta provenga da un condomino che abbia approvato, o meno, la tabella millesimale, o che vi abbia, o meno, dato esecuzione, avendone legittimazione pure il condomino consenziente. Del resto, la natura dell'errore ex art. 69 disp. att. c.c. va desunta dalla sanzione che l'ordinamento ricollega al suo verificarsi: non l'annullamento, ma la revisione o modificazione delle tabelle, sanzione analoga alla rettifica predisposta dall'art. 1430 c.c. per l'errore di calcolo. Ed ancora, a differenza dell'azione di annullamento, bisogna sottolineare come il diritto alla revisione dei valori proporzionali dei piani sia ritenuto imprescrittibile, quale potere contenuto nel diritto di condominio, e come il medesimo diritto spetti nonostante qualsiasi convenzione contraria o rinunzia abdicativa» (Scarpa, 420). Residua, infine, un (sia pur) limitato spazio di operatività per il principio unanimistico, allorché i condomini, cioè, con l'approvazione delle tabelle abbiano inteso espressamente derogare ai principi legali di ripartizione delle spese ovvero assegnare valori diversi da quelli effettivamente attribuibili alle unità abitative sulla base di meri calcoli ricognitivi (dunque, in ultima analisi, ove si sia inteso approvare la «diversa convenzione» richiamata dall'art. 1123, comma 1, c.c.): qualora essi, cioè, nell'esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano espressamente accettato che la caratura della loro partecipazione al condominio venga determinata in maniera difforme da quanto previsto negli artt. 1118 c.c. e 68 disp. att. c.c., tale comportamento ha valore negoziale, richiede il consenso unanime di tutti i partecipi al condominio e, soprattutto, risolvendosi nell'impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ex art. 69 disp. att. c.c. (Cass. II, n. 8300/2010). Riassume i principi innanzi espostiCass. II, n. 6735/2020, per la quale per l'atto di approvazione delle tabelle millesimali e per quello di revisione delle stesse, è sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., ogni qual volta l'approvazione o la revisione avvengano con funzione meramente ricognitiva dei valori e dei criteri stabiliti dalla legge; viceversa, la tabella da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese, ovvero approvare quella "diversa convenzione", di cui all'art. 1123, comma 1, c.c., rivelando la sua natura contrattuale, necessita dell'approvazione unanime dei condomini. l principio trova applicazione anche in materia di supercondominio (Cass. II, n. 2406/2024). Estremamente chiara, in proposito, è anche Cass. II, n. 1848/2018 che, affrontando ex professo il tema, chiarisce che qualora i condomini, nell'esercizio della loro autonomia, abbiano espressamente dichiarato di accettare che le loro quote nel condominio vengano determinate in modo difforme da quanto previsto negli artt. 1118 c.c. e 68 disp. att. c.c., dando vita alla «diversa convenzione» di cui all'art. 1123, comma 1, ultima parte, c.c., la dichiarazione di accettazione ha valore negoziale e, risolvendosi in un impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ai sensi dell'art. 69 disp. att. c.c., che attribuisce rilievo esclusivamente alla obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari dell'edificio ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle; laddove, al contrario, tramite l'approvazione della tabella, anche in forma contrattuale (mediante la sua predisposizione da parte dell'unico originario proprietario e l'accettazione degli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero mediante l'accordo unanime di tutti i condomini), i condomini stessi intendano (come, del resto, avviene nella normalità dei casi) non già modificare la portata dei loro rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio, bensì determinare quantitativamente siffatta portata (addivenendo, così, alla approvazione delle operazioni di calcolo documentate dalla tabella medesima), la semplice dichiarazione di approvazione non riveste natura negoziale, con la conseguenza che l'errore il quale, in forza dell'art. 69 disp. att. c.c., giustifica la revisione delle tabelle millesimali, non coincide con l'errore vizio del consenso, di cui agli artt. 1428 ss. c.c., ma consiste nell'obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito. Tale impostazione non deve ritenersi mutata a seguito della Riforma del 2012, in quanto anche il novellato regime prevedendo una sorta di doppio binario: maggioranza qualificata ex art. 1136, comma 2, c.c., allorquando l'assemblea di approvazione delle tabelle abbia carattere meramente dichiarativo, siccome limitata all'accertamento dei valori millesimali (arg. ex art. 68, comma 3, disp. att. c.c.). In tal caso, la revisione – intesa quale emenda di una discordanza tra realtà empirica e sua traduzione in valore numerico – è possibile, a condizione, però, che si versi in uno dei casi espressamente contemplati dal comma 2 dell'art. 69 disp. att. c.c. (che, poi, sostanzialmente riproducono la pregressa disciplina, salvo una maggiore e migliore qualificazione dei casi di «rettifica»); unanimità dei consensi, in tutte le altre ipotesi in cui, al contrario, la determinazione assembleare abbia a carattere dispositivo e sia indicativa della volontà dei condomini, nell'ambito della loro autonomia contrattuale, di distribuire le spese in maniera non proporzionale alla superficie condominiale effettivamente posseduta. In tal caso, dunque, la delibera assume l'aspetto di un vero e proprio contratto (rappresentato dall'accordo tra i condomini diretto a regolare il rapporto giuridico di contribuzione delle spese condominiali altrimenti differente), in presenza del quale non residua spazio operativo per l'art. 69 cit. (Chiesi 2014; Presutti, 226). Estremamente chiara e lineare, sul punto, è la argomentata motivazione resa da Cass. II, n. 19651/2017 in tema di ripartizione delle spese di riscaldamento centralizzato: poiché l'atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non deve essere approvato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., ciò non implica che la stessa maggioranza possa bastare ad approvare una tabella millesimale che ripartisca fra i condomini le spese di gestione del riscaldamento centralizzato non in proporzione all'uso che ne faccia ognuno, ex art. 1123, comma 2, c.c., ma in parti uguali per tutti. La sufficienza del consenso maggioritario per l'approvazione delle tabelle millesimali, nell'interpretazione data da Cass. S.U., n. 18477/2010, discende dal fatto che tale approvazione è meramente ricognitiva dei valori e dei criteri stabiliti dalla legge e, quindi, dell'esattezza delle operazioni tecnica di calcolo della proporzione tra la spesa ed il valore della quota o la misura dell'uso. I criteri di ripartizione delle spese condominiali, stabiliti dall'art. 1123 c.c., possono, però, essere derogati, come prevede la stessa norma, e la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale di ripartizione può essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si definisce «di natura contrattuale»), o in una deliberazione dell'assemblea che venga approvata all'unanimità, ovvero col consenso di tutti i condomini (Cass. II, n. 16321/2016; Cass. II, n. 641/2003), giacché la natura delle disposizioni contenute nell'art. 1118, comma 1, c.c. e art. 1123 c.c. non preclude l'adozione di discipline convenzionali che differenzino tra loro gli obblighi dei partecipanti di concorrere agli oneri di gestione del condominio, attribuendo gli stessi in proporzione maggiore o minore rispetto a quella scaturente dalla rispettiva quota individuale di proprietà. In particolare, in assenza di limiti posti dall'art. 1123 c.c., la deroga convenzionale ai criteri codicistici di ripartizione delle spese condominiali può arrivare a dividere in quote uguali tra i condomini gli oneri generali e di manutenzione delle parti comuni, e finanche a prevedere l'esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall'obbligo di partecipare alle spese medesime (Cass. II, n. 5975/2004; Cass. II, n. 6844/1988). Viene, quindi, imposta, a pena di radicale nullità, l'approvazione di tutti i condomini per le delibere dell'assemblea di condominio con le quali siano stabiliti i criteri di ripartizione delle spese in deroga a quelli dettati dall'art. 1123 c.c., oppure siano modificati i criteri fissati in precedenza in un regolamento «contrattuale»: ciò in quanto la sostanza della «diversa convenzione» è quella di una dichiarazione negoziale, espressione di autonomia privata, con cui i condomini programmano che la portata dei loro rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio sia determinata in modo difforme da quanto previsto nell'art. 1118 c.c. e art. 68 disp. att. c.c. L'adozione di regole contrattuali di ripartizione delle spese condominiali incide, infatti, sui diritti dominicali dei singoli condomini, e non può, quindi, rientrare nelle competenze dell'assemblea relative alla gestione delle cose comuni. Sono dunque da considerare nulle per impossibilità dell'oggetto, e non meramente annullabili, e perciò impugnabili indipendentemente dall'osservanza del termine perentorio di trenta giorni ex art. 1137, comma 2, c.c., tutte le deliberazioni dell'assemblea (quale quella sottoposta, nella specie, al vaglio della Corte ed avente ad oggetto la ripartizione, a maggioranza, delle spese di esercizio dell'impianto del riscaldamento centralizzato in misura uguale tra le unità immobiliari e, dunque, secondo un criterio diverso da quello legale, come ritraibile dall'art. 1123, comma 2, c.c. – correlato, al contrario, al consumo effettivamente registrato o al valore millesimale delle singole unità immobiliari servite) adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese, e quindi in eccesso rispetto alle attribuzioni dell'organo collegiale. Ulteriore conseguenza della mutata posizione della giurisprudenza rispetto alla natura dell'atto di approvazione delle tabelle millesimali è da ravvisare, infine, nella individuazione del soggetto passivamente legittimato a resistere nel giudizio intentato da uno dei condomini per la formazione o revisione delle tabelle. Mentre relativamente a tale ultimo profilo il legislatore della Riforma ha novellato il comma 3 dell'art. 69 disp. att. c.c., espressamente prevedendo che ai soli fini della revisione dei valori proporzionali espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento di condominio ai sensi dell'art. 68 disp. att. c.c. può essere convenuto in giudizio unicamente il condominio in persona dell'amministratore, per quanto concerne i giudizi aventi ad oggetto la formazione delle tabelle, a soluzione analoga si giunge per via interpretativa, facendo perno, in particolar modo, sulla competenza riconosciuta in materia all'assemblea. Se, infatti, le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., alcuna limitazione può sussistere in relazione alla legittimazione, dal lato passivo, dell'amministratore per qualsiasi azione, ai sensi dell'art. 1131, comma 2, c.c., volta alla determinazione giudiziale di una tabella millesimale che consenta la distribuzione proporzionale delle spese in applicazione aritmetica dei criteri legali: si tratta, infatti, di controversia rientrante tra le attribuzioni dell'amministratore stabilite dall'art. 1130 c.c. e nei correlati poteri rappresentativi processuali dello stesso, senza alcuna necessità del litisconsorzio di tutti i condomini (in tal senso cfr. anche Cass. II, n. 19651/2017). Il medesimo principio stato espressamente affermato da Cass. II, n. 2635/2021 a proposito di giudizio volto alla approvazione o revisione delle tabelle in applicazione aritmetica dei criteri legali, ma instaurato anteriormente alla l. n. 220 del 2012, essendosi individuato nell'amministratore il solo legittimato passivo rispetto a tali azioni, senza alcuna necessità di litisconsorzio tra tutti i condomini. La rinuncia al diritto sulle cose comuniIl diritto del condomino sui beni comuni si manifesta in varie direzioni: non solo in termini di regime proprietario (cfr. artt. 1117 e 1119 c.c.) o di facoltà di godimento (cfr. artt. 1135 e 1102 c.c., quest'ultimo applicabile in materia in virtù del richiamo contenuto all'art. 1139 c.c.), ma anche sub specie di dismissione del diritto o dell'uso, fattispecie a presidio delle quali è posta, per l'appunto, la disciplina dell'art. 1118, commi 2-4, c.c. In tale contesto, peraltro, le differenze, non solo terminologiche, tra quote e millesimi e, più in generale, tra condominio e comunione ordinaria emergono con ancora maggiore evidenza, se sol si considera quanto disposto dall'art. 1118, comma 2, c.c., a proposito della non consentita rinunzia al diritto sulle parti comuni. Invero, la disciplina della comunione ordinaria prevede, all'art. 1104, comma 1, c.c., che ciascun partecipante debba contribuire alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune, nonché alle spese deliberate dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto: trattasi dell'atto unilaterale abdicativo (Cass. II, n. 2316/1968) attraverso il quale, da un lato, il rinunziante perde ogni diritto sulla quota di propria spettanza mentre, dall'altro, gli altri comunisti arricchiscono i rispettivi patrimoni, grazie all'accrescimento che ne consegue delle rispettive quote (Branca, 147); precisa ulteriormente altra dottrina (Fragali, 450) che, in realtà, la rinunzia può anche essere effettuata non in favore di tutti gli altri comunisti, bensì a vantaggio solo di alcuni di essi, con la conseguenza che, in tale ipotesi, la quota «passa [esclusivamente] ai beneficiari». Da un punto di vista ricostruttivo, si discute in dottrina se la rinunzia sia un atto recettizio oppure no, discendendo dall'adesione all'una piuttosto che all'altra soluzione conseguenze diverse sul piano degli effetti: nel senso, cioè, che laddove venga ritenuta alla stregua di un atto recettizio (Salis 1939, 193), la stessa produce effetti dal momento in cui giunge a conoscenza degli altri comunisti e, conseguentemente, fino a detto momento è sempre revocabile (secondo lo schema dell'art. 1334 c.c.), mentre, non considerandola in tal guisa (Branca, 152), la stessa ha un effetto immediatamente accrescitivo delle quote degli altri e non ammette revoca. Quanto, poi, alla forma della rinunzia, la stessa deve essere scritta nei casi in cui la comunione abbia ad oggetto i diritti di cui agli artt. 1350, n. 3), e 2643, n. 3), c.c., secondo quanto previsto dagli artt. 1350, n. 5), e 2643, n. 5),, c.c., non essendo in tal caso applicabile la disciplina dettata dall'art. 923, comma 2, c.c. alla cui stregua, in caso di beni mobili, la proprietà si perde quando si dismette il possesso con l'intenzione di abbandonare la proprietà (sicché la situazione oggettiva di abbandono materiale in cui versa il bene segna il momento di cessazione della signoria individuale del proprietario sulla cosa); conforme in tal senso è anche l'opinione della dottrina (Deiana, 9), la quale evidenzia che il nostro ordinamento «esclude che la proprietà immobiliare si possa perdere mediante un atto di abbandono del possesso di un fondo con l'intenzione di non volerne essere più proprietario». Il diritto di rinunzia, inoltre, può essere, a propria volta, oggetto di rinunzia: né in tal modo si finisce per violare, neppure indirettamente, il disposto dell'art. 1111, comma 2, c.c. (per cui i comunisti possono pattuire di rimanere in comunione per un tempo non maggiore ai dieci anni), giacché colui che ha rinunziato al diritto di rinunziare mantiene sempre intatta la possibilità di causare la fine del vincolo che lo lega agli altri, chiedendo lo scioglimento della comunione, ex art. 1111, comma 1, c.c.: l'unica conseguenza che deriva dalla sua rinunzia alla facoltà di rinunzia, pertanto, è la «conversione dell'obbligazione propter rem in un obbligo personale, per cui si risponde illimitatamente, con tutto il patrimonio» (Branca, 149). La rinunzia, cioè, si collega strutturalmente e funzionalmente al regime delle spese, mentre la divisione colpisce al cuore la comunione, determinandone la cessazione. In considerazione della circostanza per cui facoltà di rinunzia e patto di non divisione agiscono su piani tra loro paralleli e, comunque, diversi, l'eventuale convenzione intercorsa tra i comunisti relativamente alla volontà di non sciogliere la comunione per un determinato periodo di tempo non priva, per ciò stesso, i comunisti medesimi del diritto di rinunziare alla propria quota: ciascuno di essi, dunque, ha la possibilità di determinare lo scioglimento del rapporto limitatamente alla propria posizione, ferma restando la permanenza del vincolo di comunione tra gli altri. La rinuncia, infine, non giova al partecipante che abbia anche tacitamente approvato la spesa, ex art. 1104, comma 2, c.c.: colui che ha approvato la spesa, dunque, non può sottrarsi alla sopportazione degli oneri che da ciò conseguono. Ugualmente, peraltro, non può sottrarsi alla spesa il comunista che, con il proprio comportamento, vi ha dato causa: regola, questa, espressamente dettata dall'art. 882, comma 3, c.c. in tema di riparazioni da effettuare sul muro comune («la rinunzia non libera il rinunziante dall'obbligo delle riparazioni e ricostruzioni a cui abbia dato causa col fatto proprio») e che, tuttavia, trova applicazione anche nell'ambito della comunione disciplinata dagli artt. 1100 ss. c.c., in considerazione del fatto che il partecipante non risponde della spesa in quanto comunista e, dunque, in virtù di un'obbligazione propter rem, bensì in quanto soggetto tenuto a rispondere del proprio pregresso comportamento e, dunque, in virtù di un'obbligazione di carattere personale. In sintesi, dalla disamina delle caratteristiche disciplinari appena illustrate si trae la conclusione per cui la rinunzia ex art. 1104 c.c. è un atto a struttura unilaterale, di carattere recettizio, avente natura negoziale e richiedente la forma scritta ad substantiam; essa, inoltre, è soggetta a trascrizione ex art. 2643 n. 5 c.c., ed ha non solo funzione abdicativa del diritto sul bene, determinando una modifica dell'assetto proprietario tra i contitolari, ma anche una funzione solutoria del debito ob rem (Viterbo, 387). L'art. 1104 c.c. rappresenta l'espressione del più generale ed ampio potere di «disporre in modo pieno ed esclusivo» (cfr. art. 832 c.c.) del comproprietario, inclusivo della facoltà di abdicare al diritto medesimo, quale manifestazione del disinteresse alla perdurante relazione di appartenenza col bene ed alla qualità di titolare del diritto su di esso – situazioni riconoscibili dai terzi e valevoli erga omnes (Costantino, 65); il vero scopo dell'atto in questione, tuttavia, è quello di ottenere la liberazione, mediante il sacrificio del proprio diritto, dall'obbligazione di pagamento delle spese: è tale effetto peculiare a caratterizzare, dunque, la rinunzia ex art. 1104 c.c. (e giustifica, d'altra parte, la necessità dell'espressa previsione da parte del legislatore, non essendo altrimenti consentito al debitore di rinunziare al debito senza il consenso del creditore) (Deiana, 12). Completamente diverso è il quadro normativo in materia condominiale: il novellato art. 1118, commi 2 e 3, c.c. (che sostanzialmente scompone in due commi il contenuto dell'originario comma 2 della menzionata previsione codicistica), infatti, in maniera diametralmente opposta rispetto a quanto previsto dall'art. 1104 c.c., dispone che il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni, né può sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d'uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali: esiste, infatti, un inscindibile collegamento tra la fruizione della proprietà comune e la fruizione di quella individuale, onde appare necessario impedire al condomino di sottrarsi alla contribuzione nelle spese per la conservazione di beni dei quali egli continuerebbe comunque a godere pur dopo avervi rinunziato: così, ad esempio, non è pensabile che il condomino rinunzi al suo diritto sulle fondazioni, in quanto bene oggettivamente necessario per l'esistenza stessa dell'edificio condominiale e delle singole unità immobiliari di proprietà esclusiva, ivi inclusa la propria, del quale continuerebbe comunque a fruire. Tale essendo il fondamento della previsione contenuta al comma 2, si spiegano, pertanto, sia il contenuto del successivo comma 3 (per cui gravano sempre sul condomino le spese di conservazione dei beni comuni, indipendentemente dall'eventuale mutamento della destinazione d'uso dell'unità immobiliare in proprietà esclusiva) sia il motivo per cui il successivo art. 1138, comma 4, c.c. abbia incluso la norma tra le disposizioni non derogabili dal regolamento di condomino. Tale ratio appare, inoltre, alla base dell'intuizione di quella dottrina (Viterbo, 387) la quale evidenzia un collegamento tra il divieto di rinunzia ex art. 1118, comma 2, c.c. e quello previsto dall'art. 882, comma 2, c.c., imposto al comproprietario del muro comune che sostenga un immobile di sua proprietà esclusiva: «difatti, anche la proprietà condominiale implica una situazione di contitolarità necessaria o, meglio, un concorso necessario di diritti omogenei sulle parti comuni. La rinunzia di un condomino a tali diritti (e doveri) – pur rimanendo proprietario di un'unità immobiliare dell'edificio e continuando, perciò, a usufruire delle parti comuni – determinerebbe, da un lato, un'ingiusta sproporzione nella distribuzione delle spese a scapito degli altri partecipanti; e, dall'altro, un'irragionevole dismissione della titolarità giuridica dei diritti sulle parti comuni (e degli obblighi relativi) che strutturalmente e funzionalmente sono, e continuano ad essere, parte dell'unità immobiliare. Ad una scissione tra titolarità giuridica e appartenenza/gestione economica, nella specie, si opporrebbe peraltro la natura di obbligazioni propter rem delle spese inerenti la conservazione delle parti comuni» Il principio, peraltro, non è frutto della riforma del 2012, ma affonda le proprie radici già nell'originaria formulazione dell'art. 1118, comma 2, c.c. (in virtù del quale il condomino non poteva, rinunziando al diritto sulle cose comuni, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione): la lettura sistematica di detta norma aveva infatti condotto la giurisprudenza a chiarire come la disposizione non si limitasse a regolare la partecipazione dei condomini alle spese delle parti comuni, nonostante la rinuncia al relativo diritto da parte del singolo condomino ma, sia pure indirettamente, escludesse la validità stessa di tale rinuncia, giacché – come osservato poc'anzi – le parti comuni necessarie per l'esistenza e l'uso dei piani o delle porzioni di piano ovvero destinate al loro uso e servizio avrebbero continuato a servire il condomino anche dopo (e nonostante) la rinuncia stessa (così, in dottrina, anche Branca, 360). In linea con tale impostazione, è stata ritenuta nulla la clausola, contenuta nel contratto di compravendita di un appartamento ubicato in un edificio in condominio, con cui era stata esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune parti dell'edificio, comuni per legge o per volontà delle parti, avendo tale clausola il contenuto e gli effetti di una rinuncia del condomino (acquirente) alle predette parti (Cass. II, n. 6036/1995; Cass. II, n. 286/2005; Cass. II, n. 1680/2015; Cass. II, n. 20216/2017; Trib. Pordenone, 24 febbraio 2017); nel medesimo senso Cass. II, n. 3309/1977, la quale pone – anch'essa – l'accento sull'effetto abdicativo al diritto di comproprietà sulle parti comuni conseguente ad una clausola di tal fatta. Quest'ultima, inoltre, avrebbe l'effetto di incidere sulle quote millesimali, in violazione degli artt. 1135 e 1118, comma 1, c.c. (Cass. II, n. 20216/2017): essendo infatti pacifico (cfr. anche Cass. II, n. 561/1970) che, in materia di determinazione del valore dei piani o delle porzioni di piano rispetto a quello dell'edificio, da cui dipende la proporzione nei diritti e negli obblighi dei condomini, l'assemblea dei condomini non dispone di alcun potere, non essendo materia di deliberazione l'accertamento di uno stato di fatto è altrettanto evidente che ciò che non può disporre l'assemblea condominiale non può nemmeno essere realizzato da un singolo condomino, il quale, pertanto, non può alienare la propria unità immobiliare separatamente dai diritti sulle cose comuni (Cass. II, n. 1680/2015 cit.). Cionondimeno, si è anche sostenuto che il divieto di rinunzia al diritto sulle parti comuni, al fine di sottrarsi al pagamento delle relative spese di conservazione delle parti comuni, ben avrebbe potuto essere aggirato dall'accettazione degli altri condomini, ovvero dalla volontaria assunzione degli oneri ascrivibili al rinunziante ad opera di uno o più membri della compagine condominiale (App. Lecce, 30 gennaio 1964). Di contrario avviso, invece, parte della dottrina (La Torre, 176; Peretti Griva, 82), la quale riteneva che la previsione in questione, lungi dal porre un divieto, al condomino, di rinunziare al proprio diritto, più semplicemente affermava che egli, pur rinunziandovi, non avrebbe potuto – per ciò solo – sottrarsi al contributo nelle spese, così configurando, in ultima analisi, una rinunzia abdicativa ma senza effetto liberatorio. Allo stesso modo si è osservato (Dogliotti-Figone, 184) che nella comproprietà condominiale, essendo le parti comuni poste al servizio di quelle esclusive, pur preferendosi che venga mantenuta una corrispondenza tra proprietà delle parti comuni e delle proprietà individuali, non per questo si sarebbe dovuto escludere il contrario, dovendosi intendere l'originaria formula dell'art. 1118 c.c. indicativa della volontà del legislatore non già di vietare la rinunzia in sé quanto, piuttosto, di renderla più onerosa e difficoltosa. Tale impostazione, tuttavia, lasciava irrisolto il problema concernente il senso stesso di una tale rinuncia – che avrebbe finito per tradursi nel trasferimento in favore degli altri condomini di una vuota titolarità formale – con dubbi sulla stessa meritevolezza dell'interesse perseguito dal rinunziante. Ad ogni buon conto, il recepimento espresso, da parte del legislatore della Riforma, della tesi più radicale – nel senso, cioè, della radicale nullità della rinunzia al diritto sulle parti comuni (cfr. il novellato art. 1118, comma 2, c.c.) – consente di applicare, in materia, i risultati già raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità a proposito dell'originario comma 2. In particolare, anche il divieto in questione subisce delle deroghe, in favore del principio, esplicitato nell'art. 1104 c.c., della «ordinaria» rinunziabilità: individuatane la ratio – come esposto – nell'inscindibile collegamento tra la fruizione della proprietà comune e la fruizione di quella individuale e nella conseguente esigenza di non consentire al condomino di sottrarsi alla contribuzione nelle spese per la conservazione di beni dei quali egli continuerebbe necessariamente a godere pur dopo avervi rinunziato, la regola dell'irrinunziabilità non trova applicazione nel caso: a) di un bene il cui godimento, puramente eventuale, è rimesso alla libera determinazione del suo titolare e che, con la rinunzia di questi, si trasferisce alla collettività dei condomini; b) di impianti condominiali comuni da considerarsi superflui, in relazione alle condizioni obiettive ed alle esigenze delle moderne concezioni di vita, ovvero illegali, perché vietati da norme imperative. Chiarisce Cass. II, n. 18344/2015 (e, in senso conforme, Cass. II, n. 1610/2021) che, stante la ratio sottesa all'art. 1118 c.c. e di cui si è ampiamente dato conto, la rinuncia di un condominio al diritto sulle cose comuni è vietata esclusivamente in caso di condominialità «necessaria» o «strutturale», per l'incorporazione fisica tra cose comuni e porzioni esclusive ovvero per l'indivisibilità del legame attesa l'essenzialità dei beni condominiali per l'esistenza delle proprietà esclusive, ma non anche nelle ipotesi di condominialità solo «funzionale» all'uso e al godimento delle singole unità, che possono essere cedute anche separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni. Ancor più esplicita la precedente Cass. II, n. 12128/2004, la quale, relativamente alla ritenuta validità della clausola contrattuale con cui, nell'atto di vendita di due locali siti al piano terra e con ingresso diretto dalla via pubblica, era stato imposto all'acquirente il divieto di utilizzare la porta di ingresso, l'androne e il vano scala dell'edificio condominiale, sul rilievo che l'uso dei beni condominiali in oggetto non era essenziale per l'utilizzazione dei locali di proprietà esclusiva, ha confermato la decisione di merito, affermando che, mentre la cessione della proprietà esclusiva non può essere separata dal diritto sui beni comuni quando le cose comuni e i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva siano – per effetto di incorporazione fisica – indissolubilmente legate le une alle altre oppure nel caso in cui, pur essendo suscettibili di separazione senza pregiudizio reciproco, esista tra di essi un vincolo di destinazione che sia caratterizzato da indivisibilità per essere i beni condominiali essenziali per l'esistenza ed il godimento delle proprietà esclusive, qualora, al contrario, i primi siano semplicemente funzionali all'uso e al godimento delle singole unità, queste ultime possono essere cedute separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni, con la conseguenza che in tal caso la presunzione di cui all'art. 1117 c.c. risulta superata dal titolo. Del medesimo tenore Cass. II, n. 4652/1991 per cui – sempre con riferimento alla originaria formulazione della norma – il principio stabilito dall'art. 1118, comma 2, c.c., non trova applicazione con riguardo a quegli impianti condominiali da considerarsi superflui in relazione alle condizioni obiettive ed alle esigenze delle moderne concezioni di vita, ovvero illegali, perché vietati da norme imperative, dovendosi riconoscere al condomino, nella ricorrenza di tali condizioni, la facoltà di rinunciare alla cosa comune, con esonero dalle spese necessarie per la sua conservazione, allorché gli altri condomini intendano persistere nella conservazione degli impianti preesistenti, pur in presenza di nuove tecniche o servizi predisposti dalla pubblica amministrazione, poiché in tali casi l'esistenza degli impianti trova ragione esclusivamente nella determinazione dei condomini che intendono conservarli (nella specie un condomino, adducendo l'esistenza di impianti pubblici idrici e fognari perfettamente efficienti, aveva dichiarato di rinunciare al suo diritto sull'impianto condominiale di autoclave perché ritenuto superfluo, e sul pozzo nero perché in contrasto con le prescrizioni di legge). Condivide tale ultimo principio anche la dottrina (Chiodi, 983), pur aggiungendo, tuttavia, che affinché esso operi è necessario che la sostituzione del bene, quanto alla sua funzione di destinazione al servizio del condominio, sia integrale e definitiva: sicché, ad esempio, ove l'autoclave possa tornare utile in coincidenza con periodici e prevedibili cali di pressione nell'acquedotto pubblico, allora esso continua ad essere destinato all'uso del condominio e conserva lo stato di bene indivisibile ed irrinunciabile exartt. 1119 e 1118, comma 2, c.c. Caso peculiare di rinunzia, infine, è quello disciplinato dall'art. 1128, comma 4, c.c., norma detta a chiusura delle disciplina in tema di perimento dell'edificio (si rinvia, per l'approfondimento sul punto, al relativo commento). In particolare, se l'edificio perisce interamente o per una parte che rappresenti i 3/4 del suo valore, ciascuno dei condomini, ove non si ritenga di procedere alla sua ricostruzione, può richiedere la vendita all'asta del suolo e dei materiali, salvo che sia stato diversamente convenuto mentre, nel caso di perimento di una parte inferiore ai 3/4, l'assemblea dei condomini è chiamata a deliberare circa la ricostruzione delle parti comuni dell'edificio, e ciascuno è tenuto a concorrervi in proporzione dei suoi diritti sulle parti stesse. Orbene, il condomino che non intenda partecipare alla (deliberata) ricostruzione dell'edificio, non avendo interesse alcuno all'impugnazione della delibera – non vincolante nei propri confronti – assunta dall'assemblea dei condomini (nel caso del perimento parziale, inferire ai 3/4 del valore totale) ovvero degli ex condomini (comproprietari dell'area di sedime residuata a seguito del perimento totale o parziale, ma superiore ai 3/4 del valore totale) e che disponga la ricostruzione dell'edificio (Cass. II, n. 4900/1987), è soggetto ad una sorta di cessione coattiva dei suoi diritti, anche relativamente alle parti di sua esclusiva proprietà, a favore di tutti gli altri condomini, ovvero di alcuni soltanto di essi: sicché può rinunziare integralmente al suo diritto (e, con esso, alle spese), uscendo definitivamente dalla situazione di con titolarità (si rinvia, altresì, al commento all'art. 1135 c.c., paragrafo «Ancora sulle attribuzioni dell'assemblea previste dal codice civile») Segue. Rinuncia al diritto e consorzi di urbanizzazione La previsione di cui all'art. 1118, comma 2, c.c. trova oggi applicazione, alla luce del novellato art. 1117-bis c.c., anche relativamente ai consorzi edilizi di urbanizzazione, consistenti in aggregazioni di persone fisiche o giuridiche, preordinate alla sistemazione o al miglior godimento di uno specifico comprensorio mediante la realizzazione e la fornitura di opere e servizi. Essi vanno anzitutto distinti da altri tipi di consorzi pure contemplati dal codice civile: a) vanno anzitutto differenziati dai consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, ex artt. 2602 ss. c.c., che originano da un contratto concluso tra imprenditori, i quali istituiscono un'organizzazione comune al fine di meglio disciplinare determinate fasi delle rispettive imprese o per regolare la reciproca produzione: sicché, in ultima analisi, l'organizzazione persegue la finalità indiretta del conseguimento, ad opera dei singoli imprenditori, di un maggior profitto, attraverso la rispettiva attività d'impresa. Le differenze con i consorzi di urbanizzazione sono dunque evidenti giacché, da un lato, difetta in questi ultimi la necessaria qualifica di imprenditori dei singoli consorziati e, dall'altro, il legame che unisce i partecipanti è dato dalla proprietà o titolarità di un diritto reale sui singoli lotti di terreno compresi nel comparto e non dallo sviluppo delle singole attività d'impresa (cfr. anche Cass. I, n. 13417/2010: “ai consorzi volontari di urbanizzazione non è applicabile la disciplina dei consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, di cui agli art. 2602 e ss. c.c., trattandosi di enti di diritto privato, finalizzati alla sistemazione ed al miglior godimento di un comprensorio ed aventi natura di associazioni non riconosciute, onde la fonte primaria della loro disciplina è l'accordo delle parti”); b) vanno inoltre distinti dai consorzi volontari di cui agli articoli 918 ss. c.c., costituiti dai proprietari di fondi vicini che vogliano riunire e usare in comune le acque defluenti dal medesimo bacino di alimentazione o da bacini contigui: questi si caratterizzano, dunque, per una finalità di godimento comune delle acque, laddove nei consorzi di urbanizzazione prevale l'attività dinamica della realizzazione e della gestione delle opere di urbanizzazione. Più discussa, invece, era la questione in passato, non trovando essi (pur sempre caratterizzati da aspetti sia associativi che di realità derivanti, questi ultimi, dall'osservanza di obblighi propter rem o dalle costituzioni di reciproche servitù) espressa regolamentazione nel codice civile né nelle leggi speciali, diversamente dai consorzi regolati dall'art. 2602 c.c.: sì da costringere l'interprete a scegliere se applicare le norme che disciplinano le associazioni non riconosciute o, diversamente, quelle della comunione o del condominio giacché, se non può negarsi che il consorzio di urbanizzazione faccia parte dei consorzi di diritto privato costituiti da una pluralità di persone fisiche o giuridiche che si aggregano fra loro per soddisfare comuni bisogni od interessi mediante un'organizzazione ad esse sovraordinata, è ugualmente indubbio che esso abbia caratteristiche diverse da quelle dagli altri consorzi. Ed infatti, se il consorzio di urbanizzazione ha, come obiettivo, quello di migliorare l'utilizzazione della proprietà, è altrettanto vero che “le altre ipotesi di Consorzio previste dal codice hanno scopo limitato di migliorare il godimento della proprietà esclusiva. Infatti, l'art. 918 c.c. consente ad una pluralità di proprietari di fondi vicini di costituirsi in Consorzio, esclusivamente, per riunire e usare in comune le acque defluenti dal medesimo bacino di alimentazione o da bacini contigui; nel caso previsto dall'art. 850 c.c. il consorzio viene costituito per la ricomposizione fondiaria; nell'ipotesi dell'art. 862 c.c. per la bonifica; nel caso dell'art. 863 c.c. per il miglioramento fondiario; artt. 914-921 per l'uso delle acque” (Crusco, 213). Invero, il problema dell'individuazione delle norme applicabili ai consorzi di urbanizzazione è stato ripetutamente affrontato in sede di legittimità, proprio sotto il profilo dell'applicabilità, alternativamente, delle norme in materia di condominio o di associazioni non riconosciute: dall'atipicità del rapporto consortile è stata argomentata la necessità di tener conto, anzitutto, dell'atto costitutivo o dello statuto, al fine di rispettare la volontà espressa dai consorziati medesimi sui vari aspetti della disciplina del rapporto, salvo passare, ove questo nulla disponga al riguardo, all'individuazione della normativa più confacente alla regolazione degli interessi implicati dalla controversia (Cass. II, n. 4125/2003), tale disciplina suppletiva venendo individuata, alternativamente in quella sulle associazioni o sulla comunione ordinaria (Cass. I, n. 16197/2018, Cass. I, n. 9568/2017; Cass. I, n. 9941/2010) ovvero sul condominio (Cass. II, n. 20989/2014), dovendosi anzi escludere, proprio laddove esista una specifica disciplina in tema di condominio (art. 1139 c.c), il ricorso alle norme sulla comunione. Particolarmente esplicative di tale orientamento sono Cass. I, n. 2877/2007 (per cui i consorzi di urbanizzazione, finalizzati alla sistemazione ed al miglior godimento di uno specifico comprensorio attraverso la realizzazione e la fornitura di opere o servizi, costituiscono figure atipiche, le quali, essendo caratterizzate dall'esistenza di una stabile organizzazione di soggetti, funzionale al raggiungimento di uno scopo non lucrativo, presentano i caratteri delle associazioni non riconosciute. E siccome fonte primaria della disciplina di siffatti consorzi, specie per quel che riguarda l'ordinamento interno e l'amministrazione, è l'accordo delle parti sancito nell'atto costitutivo, nessun ostacolo giuridico è ravvisabile negli artt. 1105 e 1136 c.c., dettati dal codice civile in tema di comunione e condominio di edifici, a che l'atto costitutivo contenga clausole limitative del diritto di voto del consorziato - nella specie, escludenti da tale diritto il consorziato in mora nel pagamento dei contributi o che a tal riguardo abbia liti pendenti col consorzio - giacché tali clausole si muovono in uno spazio di autonomia negoziale liberamente praticabile, rispetto al quale le citate disposizioni del codice civile potrebbero, al più, venire invocate in via suppletiva, al fine di colmare eventuali lacune della regolamentazione pattizia”), la recente Cass. II, n. 11035/2015 (per cui non risultano estensibili al consorzio costituito tra proprietari d'immobili per la gestione delle parti e dei servizi comuni di una zona residenziale le norme che regolano il condominio, giacché l'istituto del consorzio di urbanizzazione, pur presentando numerose analogie con il condominio, mostra caratteristiche ontologicamente diverse che non ne permettono una adeguata corrispondenza: ed infatti, se è vero che il condominio di edifici è una forma di proprietà plurima, regolata interamente da norme che completano la disciplina dei diritti reali, per la struttura stessa del fabbricato che presenta una comunione forzosamente verticale, è altrettanto vero che il consorzio, che ha un livello di organizzazione più elevato, appartiene, invece, alla categoria delle associazioni. Pertanto, se nel caso del condominio gli oneri e gli obblighi condominiali per il singolo proprietario discendono direttamente dall'acquisto dell'immobile, nel caso del consorzio è la volontà del singolo di partecipare o meno all'ente sociale a determinare la nascita degli obblighi consortili; volontà che, nella specie, può essere rilevata da presunzioni o da fatti concludenti, quali la consapevolezza di acquistare un immobile compreso in un consorzio, oppure l'utilizzazione concreta dei servizi messi a disposizione dei partecipanti, sempre che lo statuto non disponga diversamente) e Cass. II, n. 3665/2001 (la quale chiariva che possono legittimamente considerarsi applicabili al consorzio costituito tra proprietari d'immobili per la gestione delle parti e dei servizi comuni di una zona residenziale le disposizioni in materia di condominio - e non quelle in tema di associazioni non riconosciute - pur appartenendo indiscutibilmente il consorzio alla categoria delle associazioni, non esistendo schemi obbligati per la costituzione di tali enti, ed assumendo, per l'effetto, rilievo decisivo la volontà manifestata dagli stessi consorziati con la regolamentazione contenuta nelle norme statutarie). Tali discussioni devono ora ritenersi sopite a seguito della entrata in vigore della legge n. 220 del 2012 e, con essa, della Riforma del condominio che, mediante l'inserimento nel codice civile, dell'art. 1117-bis ha ricondotto ad unità disciplinare tutte le fattispecie di compresenza di porzioni in proprietà comune ed altre in titolarità esclusiva, attraendole nell'orbita della normativa dettata in tema di condominio: sicché, come anticipato in apertura, non appare ulteriormente sostenibile – allo stato - una ricostruzione teorica che “sganci” i consorzi di urbanizzazione (anche per quanto concerne la rappresentanza all'esterno, nonché responsabilità verso terzi) da quest'ultima disciplina. Una simile netta presa di posizione del legislatore appare, peraltro, in linea con gli arresti che la giurisprudenza di legittimità aveva già raggiunto con riferimento all'ipotesi di recesso dal consorzio (teoricamente prospettabile anche in termini di cd. abbandono liberatorio), essendosi già nel passato esclusa ogni possibilità di recesso degli associati, se non per effetto della trasmissione a terzi del diritto di proprietà esclusiva (la quale comporta altresì il trasferimento delle pertinenze, tra le quali le quote delle cose comuni asservite alla prima): ed infatti, atteso il nesso funzionale tra i beni di proprietà comune e i beni di proprietà esclusiva, si è ritenuto che il recesso del consorziato diretto alla liberazione dall'obbligo contributivo, in assenza di specifica previsione statutaria, non fosse disciplinato dall'art. 1104 c.c. che consente l'"abbandono liberatorio" nella comunione, bensì dall'art. 1118 c.c., che lo vieta nel condominio (Cass. II, n. 20989/2014, cit.). Il principio, applicato da Cass. II, n. 4125/2003 in tema di consorzi di urbanizzazione finalizzati alla costruzione, manutenzione e ripristino di opere stradali, nonché di quelle per la distribuzione dell'acqua e dell'energia elettrica (svolgendo, ancora, tutte le altre attività comunque utili al comprensorio), escludendo, pertanto, ogni possibilità di recesso degli associati, se non per effetto di trasmissione a terzi del diritto di proprietà esclusiva (implicante, altresì, il trasferimento delle pertinenze, tra le quali le quote delle cose comuni asservite alla proprietà esclusiva), è stato da ultimo ribadito da Cass. II, n. 27634/2018 e Cass. II, n. 28611/2022, per cui in tema di consorzio di urbanizzazione, atteso il nesso funzionale tra i beni di proprietà comune e quelli di proprietà esclusiva, il recesso del consorziato diretto alla liberazione dall'obbligo contributivo, in assenza di specifica previsione statutaria, non è disciplinato dall'art. 1104 c.c., che consente l'"abbandono liberatorio" nella comunione, bensì dall'art. 1118 c.c., che lo vieta nel condominio. Del medesimo tenore, sia pure con riferimento alla diversa tematica della riscossione dei contributi consortili, Trib. Roma, 28 settembre 2020 che, sia pur ritenendo applicabile ai consorzi la disciplina dettata dall'art. 63 disp. att. c.c. per effetto dell'analogia e non, direttamente, dell'art. 1117-bis c.c., assume la sufficienza, in relazione allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'allegazione delle delibere con cui sono stati approvati i bilanci e i relativi riparti da cui emerge il credito verso il singolo consorziato . Nonostante la convergenza su tale conclusione, deve tuttavia registrarsi una isolata pronunzia della Suprema Corte (Cass. VI-1, n. 25394/2019), che, in ipotesi di mancata previsione di alcunché nello statuto, ha di recente riproposto la tesi del ricorso alle norme sulle associazioni non riconosciute e, in subordine, a quelle della comunione ordinaria (con esclusione, dunque, della disciplina dettata per il condominio di edifici). L'uso consentito dei beni e dei servizi comuni: rinvioSe, dunque, il regime condominiale si identifica con il diritto proporzionale del proprietario esclusivo di unità immobiliari ubicate nel complesso immobiliare sulle parti comuni, tale diritto non può che esplicitarsi nell'uso di tali beni o servizi comuni. Si rinvia, sul punto, all'ampio disamina della materia svolta nel commento all'art. 1117 c.c. Segue. La rinuncia all'uso Situazione completamente diversa da quella (vietata) dell'art. 1118, comma 2, c.c., di rinunzia al diritto, è quella di rinunzia all'uso di un determinato bene comune, la quale deve ritenersi consentita in difetto di un'espressa previsione regolamentare di senso contrario: difatti, l'inefficacia della rinunzia di cui alla menzionata disposizione è ricollegabile – come più volte chiarito – alla necessità di evitare che il condomino possa, da un lato, sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese necessarie per la conservazione delle parti comuni e, dall'altro, continuare ad utilizzarle, in quanto essenziali per il godimento della unità immobiliare in sua proprietà esclusiva. Nella specie, invece, l'oggetto di rinunzia sarebbe l'uso particolare (ulteriore) che di quel bene il condomino fa, senza per ciò rinunziare alle altre utilità che da esso possono trarsi. Così, ad esempio, Cass. II, n. 3294/1996 ha precisato che il condomino che, essendo titolare del diritto di uso esclusivo sul lastrico solare, vi rinunzi, è esonerato dalla contribuzione nelle spese di riparazione e ricostruzione del lastrico secondo il criterio dell'art. 1126 c.c. ma deve comunque parteciparvi in base alla quota millesimale di proprietà, non potendo estendersi analogicamente alla rinunzia ad un particolare diritto di uso sulla cosa comune la norma dell'art. 1118, comma 2, c.c., in base alla quale la rinunzia al diritto di proprietà sulle cose comuni non esonera il rinunziante dalle spese per la loro conservazione, dal momento che tale norma, oltre a costituire deroga all'opposto principio generale stabilito dall'art. 1104, comma 1, c.c., trova la sua ratio nell'inscindibile collegamento tra la fruizione della proprietà comune e la fruizione di quella individuale e nella conseguente esigenza di non consentire e al condomino di sottrarsi alla contribuzione nelle spese per la conservazione di beni dei quali egli continuerebbe necessariamente a godere pur dopo avervi rinunziato, che non sussiste invece nel caso di un bene il cui godimento, puramente eventuale, è rimesso alla libera determinazione del suo titolare e con la rinunzia di questi si trasferisce alla collettività dei condomini. Ancor più chiara, poi, Cass. II, n. 2255/2000, in tema di uso del cortile condominiale quale parcheggio per le autovetture. La pronunzia parte dalla constatazione che, nel condominio negli edifici, il termine «godimento» designa le differenti realtà della utilizzazione obbiettiva e del godimento soggettivo in senso proprio; quando l'utilità prodotta da talune parti comuni in favore delle unità immobiliari deriva soltanto dall'unione materiale o dalla destinazione funzionale delle cose, degli impianti e dei servizi, essa costituisce un risultato oggettivo, indipendente da qualsivoglia attività personale dei singoli. Il suolo, le fondazioni, i muri maestri, la facciata, i tetti, i lastrici solari, i cortili, etc., rendono a beneficio dei piani o delle porzioni di piano, ai quali sono collegati materialmente o per la funzione, rendono una utilità statica oggettiva indipendente da ogni comportamento o azione dei proprietari; il godimento in senso proprio, invece, si riferisce all'uso delle parti comuni, rispetto alle quali l'utile connesso con l'unione materiale o con la destinazione funzionale delle cose, degli impianti e dei servizi si consegue per mezzo dell'attività personale dei titolari dei piani o delle porzioni di piano. L'utilità – che le scale, i portoni, gli anditi, i portici, gli stenditoi, l'ascensore, l'impianto centralizzato per l'acqua calda o per l'aria condizionata prestano alle unità immobiliari, alle quali sono collegati per la struttura e per la funzione – si realizza, in tal caso, mediante comportamenti ed azioni soggettivi. Nondimeno, talune delle parti comuni elencate nell'art. 1117 c.c. che, solitamente, forniscono utilità oggettiva, sono talora suscettibili anche di uso soggettivo: si tratta, spesso, di un uso particolare ed anomalo, diverso da quello connesso con la funzione peculiare di queste parti e indipendente dalla relazione strumentale. Detto in altri termini, in virtù della idoneità ad un uso particolare ed anomalo, le cose non offrono soltanto la consueta utilità oggettiva strumentale, ma diventano suscettibili di fornire anche una utilità soggettiva del tutto autonoma ed ulteriore: per quanto specificamente interessa, i cortili, la cui funzione primaria è quella di dare aria e luce al fabbricato, essi possono essere utilizzati da taluni condomini anche per sistemare dei serbatoi dell'acqua, per depositare delle merci, per parcheggiare le automobili. Si tratta di un uso soggettivo, che prescinde dalla relazione strumentale configurata dalla necessità per l'esistenza o per l'uso, ovvero dalla destinazione all'uso o al servizio, ma che non pregiudica la consueta utilità oggettiva a vantaggio di tutti i piani o le porzioni di piano, i quali allo stesso modo continuano a beneficiare dell'aria e della luce. E tale uso soggettivo può, in qualche misura, essere disciplinato dall'autonomia privata: sicché mentre non è consentito il mancato trasferimento della quota di comproprietà del cortile comune, perché l'unità immobiliare compravenduta, che sul cortile si affaccia, oggettivamente continuerebbe ad avvalersene nonostante il mancato trasferimento, ove il cortile venga anche utilizzato soggettivamente in modo particolare ed anomalo (come detto, per sistemare i serbatoi dell'acqua, depositare le merci o parcheggiare le autovetture), dal trasferimento della quota di comproprietà del cortile può essere escluso uno degli usi soggettivi; simmetricamente, all'atto della costituzione del condominio, può essere riconosciuto in favore solo di uno o più condomini la possibilità di fare del bene un uso particolare, impregiudicato il regime proprietario. In questi casi, ferma ed impregiudicata la con titolarità, la rinunzia all'uso particolare determina la riespansione dell'uso comune. La tematica si ricollega, dunque, a quella – più ampia – dell'uso esclusivo riconosciuto in favore di un condomino (nozione diversa da quella di uso più intenso ex art. 1102 c.c., anche se in alcuni casi coincidenti) ed alla tipologia di diritto che in esso va ravvisato. Al momento in cui si verifica la costituzione del condominio è infatti lasciata all'autonomia delle parti la possibilità di sottrarre alla presunzione di comunione almeno alcune delle parti altrimenti comuni: se ciò è possibile, a fortiori è possibile, nella medesima sede costitutiva del condominio, che le parti convengano l'«uso esclusivo» di una parte comune in favore di uno o più determinati condomini; ciò avviene, ad es., per porzioni di cortile o giardino, il cui «uso esclusivo» è attribuito ai condomini proprietari di unità immobiliari con possibilità di accesso ad esse; o per i lastrici solari o terrazze a livello, attribuiti in «uso esclusivo» ai proprietari delle porzioni di piano sottostanti o latistanti; e così via. Nel caso dei lastrici solari (cui sono equiparate le terrazze a livello), la possibilità di attribuzione in «uso esclusivo» è normata (solo quanto alle conseguenze applicative, non già quanto alla fonte dello stesso, sempre da rinvenirsi nel titolo) nell'art. 1126 c.c., che disciplina – in maniera diversa rispetto alle regole generali – il riparto delle spese di riparazione e ricostruzione; nelle altre ipotesi, qualora non vi provvedano il titolo o le tabelle millesimali, la giurisprudenza fa ricorso, ai fini del riparto delle contribuzioni tra usuario esclusivo e restante collettività condominiale, ad applicazioni particolari del principio generale dettato dall'art. 1123, comma 2, c.c., norma che pure fa riferimento ad un «uso» «in misura diversa» delle cose comuni. A quanto precede aggiungasi che il nuovo testo dell'art. 1122 c.c., introdotto a seguito della Riforma del 2012, precisando una nozione già desumibile dal sistema, ha disposto il divieto, oltre che per il proprietario di parti esclusive, anche per chi sia titolare di «proprietà esclusiva o... uso individuale» su «parti normalmente destinate all'uso comune», di eseguirvi opere che rechino danno alle parti comuni. Così inquadrato il fenomeno, può dunque concludersi nel senso che, dietro alla dizione sintetica di «uso esclusivo», che si oppone a quella di «uso comune», si cela il più complesso fenomeno della coesistenza, su parti comuni, di facoltà individuali dell'usuario e facoltà degli altri partecipanti (mai in effetti realmente del tutto esclusi dalla fruizione di una qualche utilità sul bene c.d. in uso «esclusivo» altrui), secondo modalità non paritarie (determinate dal titolo ovvero, nel caso, dal giudice chiamato ad interpretarlo in caso di contrasto tra i condomini), in funzione del migliore godimento di porzioni di piano in proprietà esclusiva cui detti godimenti individuali accedano: non trattandosi di figure di asservimento o di pertinenza, deve riconoscersi in generale nella parte comune, anche se sottoposta ad uso esclusivo, il permanere della sua qualità – appunto – comune, derogandosi soltanto da parte dell'autonomia privata al disposto dell'art. 1102 c.c., altrimenti applicabile anche al condominio, che consente ai partecipanti di fare uso della cosa comune «secondo il loro diritto». I partecipanti diversi dall'usuario esclusivo, dunque, si vedranno diversamente conformati dal titolo i rispettivi godimenti, con maggiori (ma non realmente «esclusive») utilità per l'usuario stesso e minori utilità per gli altri condomini (quale, ad esempio, la possibilità, per i proprietari dei piani superiori di prendere aria e luce, nonché di esercitare la veduta in appiombo, da una zonetta di cortile attribuita in uso esclusivo ad un proprietario di unità del piano terra). Dalla qualifica della cosa in uso esclusivo nell'ambito del condominio quale parte comune di spettanza di tutti i partecipanti, tutti comproprietari, ma secondo un rapporto di riparto delle facoltà di godimento diverso, in quanto fissato dal titolo, da quello altrimenti presunto ex artt. 1117 c.c. (anche in relazione agli artt. 68 e 69 disp. att. c.c.) e 1102 c.c. derivano i corollari dell'inerenza di tale rapporto a tutte le unità in condominio, con la conseguenza che l'uso esclusivo si trasmette, al pari degli ordinari poteri dominicali sulle parti comuni, anche ai successivi aventi causa sia dell'unità cui l'uso stesso accede che delle altre correlativamente fruenti di minori utilità. Esso – quale connotazione del diritto di proprietà ex art. 832 c.c. o dell'altro diritto eventualmente spettante sull'unità immobiliare esclusiva cui accede, tendenzialmente perpetuo e trasferibile (nei limiti di trasferibilità delle parti comuni del condominio) – non è in alcun modo riconducibile, se non per assonanza terminologica, al diritto reale d'uso di cui all'art. 1021 c.c., di cui l'uso esclusivo di parte comune nel condominio non mutua i limiti né di durata, né alla trasferibilità e neppure le modalità di estinzione (Cass. II, n. 24301/2017). Nel medesimo senso Cass. II, n. 24958/2018). La rinuncia ai servizi: l'impianto centralizzato di riscaldamentoIpotesi peculiare di rinunzia all'uso è quella che concerne non già i beni quanto, piuttosto, i servizi comuni: la questione è stata sviluppata soprattutto con riferimento al distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento. Anteriormente alla Riforma del 2012, un primo risalente orientamento negava ai condomini la possibilità di distaccarsi dall'impianto centralizzato di riscaldamento: essendo detto impianto normalmente progettato, dimensionato e costruito in funzione dei complessivi volumi interni dell'edificio, cui deve assicurare un equilibrio termico di base, prevenendo e distribuendo le dispersioni di calore attraverso i solai e conferendo un apporto calorico alle parti comuni dello immobile, si riteneva inevitabile che il distacco, da esso, delle diramazioni relative a uno o più appartamenti finisse per incidere negativamente sulla destinazione obiettiva della cosa comune, inevitabilmente determinando uno «squilibrio termico» (e, cioè, l'alterazione della distribuzione del calore tra le diverse unità immobiliari) eliminabile solo con un aggravio delle spese di esercizio e conservazione a carico dei condomini ancora allacciati ad esso (Cass. II, n. 6269/1984). Sennonché, una lettura evolutiva dell'art. 1118 c.c. – che pure non disciplinava espressamente il fenomeno – ha consentito l'affermarsi di un diverso orientamento giurisprudenziale, in virtù del quale è stato riconosciuto al singolo condomino la facoltà di distaccare la propria unità immobiliare (recte, l'impianto ivi presente) dall'impianto centralizzato condominiale, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea o dell'amministratore, allorché l'interessato avesse dimostrato che, dal suo operato, non fossero derivati aggravi di spese per coloro che avessero continuato a fruire dell'impianto, né squilibri termici pregiudizievoli della regolare erogazione del servizio (Cass. II, n. 9387/2020; Cass. II, n. 28051/2018; Cass. II, n. 11970/2017 ; Cass. II, n. 5974/2004; Cass. II, n. 6923/2001); il distacco era inoltre ritenuto in ogni caso consentito quando, in mancanza della ricorrenza di tali condizioni, esso fosse stato comunque autorizzato dall'assemblea dei condomini, eventualmente modificando gli obblighi gravanti sui compartecipi in base al regolamento di condominio (Cass. II, n. 6269/1984, cit.), ovvero quando tale possibilità fosse stata contemplata dal regolamento di condominio. Ad ulteriore conferma degli approdi cui era giunta tale interpretazione evolutiva, poi, si consideri che essa trovava una sponda nell'art. 1, lett. l), del d.P.R. 26 agosto 1993, n. 412 (contenente il «Regolamento recante norme per la progettazione, l'installazione, l'esercizio e la manutenzione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia, in attuazione dell'art. 4, comma 4, della legge 9 gennaio 1991, n. 10»), che espressamente contemplava la possibilità, per il condomino, di installare un impianto termico a risparmio energetico previo distacco dall'impianto centralizzato. Grazie alla lenta evoluzione dell'elaborazione giurisprudenziale, dunque, il distacco, pur in difetto di una normativa organica che disciplinasse compiutamente la materia, era considerato, nella ricorrenza dei menzionati presupposti, un incomprimibile diritto del condomino, non scalfibile neppure da un regolamento contrattuale di tenore opposto: ed infatti, poiché la legge (il menzionato d.P.R. n. 419/1993, cioè) consentiva il distacco, attribuendo ai condomini un preciso diritto, una pattuizione contrattuale che semplicemente lo avesse impedito sarebbe stata in contrasto con la legislazione positiva, con conseguente (a) non meritevolezza del contrario interesse tutelato da tale previsione regolamentare ostativa (ravvisabile nell'esigenza di disincentivare il distacco, quale fonte di squilibrio sotto il profilo tecnico ed economico, dal riscaldamento centralizzato) e (b) inefficacia della clausola stessa. In sostanza, si riteneva che il regolamento di condominio, anche se contrattuale (siccome approvato da tutti i condomini ovvero redatto dall'originario proprietario), non solo non potesse derogare alle disposizioni richiamate dall'art. 1138, comma 4, c.c., ma neppure potesse menomare i diritti che ai condomini derivano dagli atti di acquisto, dalle convenzioni e dalla legge; orbene, tale ultima evenienza era stata ritenuta configurabile nell'ipotesi del distacco delle derivazioni individuali dagli impianti di riscaldamento centralizzato, con loro trasformazione in impianti autonomi, per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, giacché proprio l'ordinamento aveva mostrato di privilegiare, al preminente fine di interesse generale rappresentato dal risparmio energetico, dette trasformazioni e, nei nuovi edifici, l'esclusione degli impianti centralizzati e la realizzazione dei soli individuali; in secondo luogo, in quanto la ratio atipica dell'impedimento al distacco non è stata ritenuta meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, in quanto espressione di prevaricazione egoistica anche da parte d'esigua minoranza e di lesione dei principi costituzionali di solidarietà sociale (Cass. II, n. 19893/2011). Del medesimo tenore Trib. Padova, 17 gennaio 2017, per cui il regolamento di condominio, pur se contrattuale, non può menomare i diritti che ai condomini derivano dalla legge che tuteli interessi pubblici superiori, con conseguente prevalenza del diritto del condomino di rinunziare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, in ottemperanza all'art. 1118, comma 4, c.c., rispetto alle contrarie disposizioni contenute nel regolamento condominiale. Il principio, ribadito in motivazione anche da Cass. II, n. 24209/2014 (e coerente con l'affermazione per cui il distacco non vale come rinuncia alla comproprietà), ha tuttavia ingenerato perplessità in parte della dottrina (Scripelliti, 1289), la quale ha osservato che, anche a prescindere dalla natura del regolamento, in ogni caso l'elencazione tassativa delle norme alle quali il regolamento non può derogare contenuta nell'art. 1138, comma 4, c.c., non comprende l'art. 1123 c.c., disposizione posta a fondamento della legittimità, nella ricorrenza delle condizioni di cui si è detto, del distacco. Tale distonico orientamento dottrinario ha trovato sponda anche in un'isolata giurisprudenza di merito la quale, in dichiarata contrapposizione rispetto al monolitico orientamento di legittimità, ha pertanto affermato che, in presenza di una specifica clausola regolamentare, di natura contrattuale, ostativa al distacco pur in presenza delle condizioni di cui si è detto, il diritto non potesse essere esercitato (Trib. Napoli, 20 gennaio 2010). Ad ogni buon conto, dando per oramai acquisiti e fermi i principi affermati dalla giurisprudenza maggioritaria, dalle considerazioni che precedono veniva fatta discendere un'ulteriore conclusione: ed infatti, se il condomino che avesse provato che dal suo distacco non sarebbero derivati un aggravio di spese per coloro che continuavano a fruire del riscaldamento centralizzato, né uno squilibrio termico dell'intero edificio (pregiudizievole per la regolare erogazione del servizio), poteva legittimamente rinunziare all'uso del riscaldamento centralizzato e, pertanto, distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto comune senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condomini (Cass. II, n. 5974/2004), non poteva che conseguirne la nullità, per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune, della delibera assembleare che, pur in presenza di tali condizioni, avesse respinto la richiesta di autorizzazione al distacco (Cass. II, n. 16365/2007; Cass., II, n. 7518/2006; Trib. Roma, 29 gennaio 2010; Trib. Roma, 25 agosto 2009). Peraltro, proprio in quanto riconducibile ad un'ipotesi di nullità, l'illegittimità della delibera assunta dall'assemblea condominiale, siccome incidente sull'esercizio del singolo condomino del diritto individuale di cui ciascuno dei condomini è titolare, ex art. 1118, comma 4, c.c., poteva essere fatta valere dall'interessato senza l'osservanza del termine di decadenza di trenta giorni ai sensi dell'art. 1137 c.c. Restava comunque fermo l'obbligo, per il condomino legittimamente distaccatosi, di pagamento delle spese per la conservazione dell'impianto (arg. ex art. 1118, comma 2, ultima parte, originaria formulazione), mentre si riteneva che lo stesso fosse comunque tenuto a partecipare a quelle di gestione, se e nei limiti in cui il suo distacco non si fosse risolto in una diminuzione degli oneri del servizio di cui continuavano a godere gli altri condomini (Cass. II, n. 5331/2012; Cass. II, n. 19893/2011; Cass. II, n. 15079/2006). In altri termini, il condomino, dopo aver distaccato la propria unità abitativa dall'impianto di riscaldamento centralizzato continuava ad essere obbligato a partecipare alle spese di esercizio, se e nella misura in cui il distacco non avesse comportato una diminuzione degli oneri del servizio a carico degli altri condomini, in quanto ove, successivamente al distacco, il costo di esercizio dell'impianto (rappresentato anche dall'acquisto di carburante necessario per l'esercizio dello stesso) non fosse diminuito e la quota non fosse posta a carico dello stesso condomino rinunciante, gli altri condomini sarebbero stati costretti a farsi carico anche della quota spettante al condomino distaccato (cfr. anche Cass. II, n. 8924/2001). La casistica giurisprudenziale anteriore alla Riforma del 2012 e relativa alla fattispecie in esame è, invero, assai ampia. Si è detto, ad esempio, che allorché alcuni condomini decidono, unilateralmente, di distaccare le proprie unità immobiliari dall'impianto centralizzato di riscaldamento, gli stessi non possono poi sottrarsi al contributo per le spese di conservazione del predetto impianto, non essendo configurabile una rinuncia alla proprietà dello stesso, ma, ove i loro appartamenti non siano più riscaldati, non sono tenuti a sostenere le spese per l'uso (nella specie, quelle per l'acquisto del gasolio), in quanto il contributo per queste ultime è adeguato al godimento che i condomini possono ricavare dalla cosa comune (Cass. II, n. 10214/1996). Del pari, poiché il condomino resta comunque obbligato a pagare le spese di conservazione dell'impianto di riscaldamento centrale, anche quando sia stato autorizzato a rinunziare al relativo uso ed a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto comune, ovvero abbia offerto la prova che dal distacco non derivano un aggravio di gestione o uno squilibrio termico (essendo in tal caso esonerato soltanto dall'obbligo del pagamento delle spese occorrenti per il suo uso, se il contrario non risulti dal regolamento condominiale), è stata ritenuta legittima la delibera condominiale con cui l'assemblea ha posto a carico anche dei condomini che si siano distaccati dall'impianto di riscaldamento le spese occorrenti per la sostituzione della caldaia, posto che l'impianto centralizzato costituisce un accessorio di proprietà comune, cui i predetti eventualmente possono comunque riallacciare, in futuro, la propria unità immobiliare (Cass. II, n. 7708/2007). È stata ritenuta legittima la rinuncia di un condomino all'uso dell'impianto centralizzato di riscaldamento (purché questo non ne fosse pregiudicato), con il conseguente suo esonero, in applicazione del principio contenuto nell'art. 1123, comma 2, c.c., dall'obbligo di sostenere le spese per l'uso del servizio centralizzato, con persistente obbligo di sostenere le spese dell'eventuale aggravio derivato alle spese di gestione di tale servizio, compensato dal maggior calore di cui beneficia anche il suo appartamento (Cass. II, n. 11152/1997). Analogamente Trib. Roma, 19 maggio 2005, per cui il distacco dei condomini dall'impianto di riscaldamento centralizzato, laddove non sia consentito per espressa previsione del regolamento condominiale ovvero non sia stato deciso all'unanimità dei condomini, può essere autorizzato dall'assemblea a maggioranza solo qualora sia stata preventivamente comprovata dal singolo condomino l'assenza di pregiudizio per l'impianto e la mancanza di aggravio di spesa per il condominio, ovvero quando l'eventuale aggravio di spesa determinatosi per gli altri condomini ancora collegati all'impianto sia posto a carico di coloro che, distaccandosi, lo hanno provocato. Tali, dunque, le coordinate di lettura del fenomeno del distacco dal riscaldamento centralizzato anteriormente alla novella legislativa del 2012. Sennonché, il legislatore della Riforma, mediante l'introduzione di un comma 4 all'art. 1118 c.c., ha sostanzialmente positivizzato il diritto al distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento e/o di refrigerazione, facendo propri gli approdi, innanzi illustrati, della giurisprudenza di legittimità, sia pure con alcune precisazioni: sicché tale diritto è ora riconosciuto, se dal suo esercizio «non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini», mentre il rinunziante resta comunque tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto «e per la sua conservazione e messa a norma». In particolare, vietare il distacco solo allorché lo squilibrio diventa «notevole» significa, mediante una lettura a contrario della norma, consentirlo in ipotesi di squilibri non significativi: con ciò potendosi affermare che il legislatore assunto ha una posizione di rottura rispetto al passato (Cass. II, n. 15079/2006; Cass. II, n. 5974/2004; Cass. II, n. 6923/2001) e, dimostrando, di seguire l'orientamento della giurisprudenza minoritaria (Cass. II, n. 11857/2011; Trib. Torino, 29 marzo 2018). Confermativa in toto dell'orientamento tradizionale (cfr., da ultimo, Cass. II, n. 9387/2020) è, invece, la regolamentazione del concorso alle spese: il nuovo art. 1118, comma 4, c.c., infatti, fa ricorso al criterio della distinzione tra costi di conservazione della cosa comune (considerati già dall'art. 1104 c.c. come un'obbligazione propter rem ed al cui pagamento il singolo condomino non può sottrarsi), e spese di gestione, relative al funzionamento degli impianti ed al godimento dei beni comuni. Sicché il condomino rimane obbligato a pagare le sole spese di conservazione dell'impianto di riscaldamento centrale (quali, ad esempio, quelle per la sostituzione della caldaia), anche quando sia stato autorizzato a rinunziare all'uso del riscaldamento centralizzato e a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto comune, atteso che l'impianto centralizzato costituisce un accessorio di proprietà comune, al quale il predetto potrà comunque, in caso di ripensamento, riallacciare la propria unità immobiliare (Cass. II, n. 18131/2020; Cass. II, n. 7708/2007). Con la necessaria precisazione, però, che, ove in seguito ad un intervento di sostituzione della caldaia dell'impianto termico centralizzato, il mancato allaccio di un singolo condomino non si intenda quale volontà unilaterale dello stesso di rinuncia o distacco, ma appaia quale conseguenza della impossibilità tecnica di fruizione del nuovo impianto condominiale a vantaggio di una unità immobiliare, restando impedito altresì un eventuale futuro riallaccio, deve ritenersi che tale condomino non sia più titolare di alcun diritto di comproprietà sull'impianto, e non debba perciò nemmeno più partecipare ad alcuna spesa ad esso relativa, essendo nulla la delibera assembleare che addebiti le spese di riscaldamento ai condomini proprietari di locali cui non sia comune l'impianto centralizzato, né siano serviti da esso (Cass. II, n. 18131/2020, cit.; Cass. II, n. 22634/2013; Cass. II, n. 7182/2012). Secondo Trib. Roma, 10 giugno 2020, nel concetto di “conservazione” richiamato dall'art. 1118 c.c. debbano farsi rientrare anche gli interventi manutentori finalizzati a far rimanere l'impianto nelle condizioni di poter essere utilizzato. Nella medesima occasione, inoltre, il tribunale capitolino ha evidenziato che anche le spese per i c.d. “consumi involontari”, cioè quei consumi che prescindono dal concreto utilizzo del condominio ma derivano dalla dispersione del calore nelle pareti e nell'impianto di conduzione, vanno poste a carico del condomino che si sia distaccato dall'impianto termico centralizzato, giacché la dispersione si verifica in ragione del fatto che l'impianto è strutturato per servire tutti gli appartamenti, a prescindere dal fatto che il condomino sia o meno allacciato alla rete di distribuzione.
Normata nei termini che precedono la possibilità di distacco, è allora condivisibile quella posizione dottrinaria (Sica, 87) che configura nel distacco unilaterale non già una rinuncia al diritto di (com)proprietà su una parte comune quanto, piuttosto, una rinuncia al suo utilizzo, con ciò ponendosi la disposizione contenuta all'art. 1118, comma 4, al di fuori del rapporto di «regola-eccezione» con il principio di irrinunciabilità fissato dal precedente comma 2. Rispetto alla legislazione ante riforma torna invece di attualità la questione relativa alla possibilità che il regolamento contrattuale vieti il distacco. Sul punto, la dottrina, oscilla tra chi (Moscatelli-Correale, 48) opta per la validità di una clausola siffatta, giacché il novellato art. 1138, comma 4, c.c. non include l'art. 1118, comma 4, c.c. (a differenza del precedente comma 2) nell'elenco delle disposizioni inderogabili dal regolamento di condominio, chi, al contrario, nega validità ad una simile previsione, richiamandosi all'elaborazione (e facendola propria) della giurisprudenza maggioritaria consolidatasi sul punto anteriormente alla novella legislativa e chi, al contrario, ritiene il problema ancora non risolto (Celeste-Scarpa, 38), osservando come non sia dirimente la mancata menzione dell'art. 1118, comma 4, c.c. tra le norme inderogabili ad opera del regolamento di condominio, in quanto tale omissione di per sé non esclude che, in concreto, una clausola del tipo di quella sopra indicata possa comunque non essere meritevole di tutela ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c., né esclude che la stessa debba essere interpretata ed eseguita secondo buona fede, nel senso che, in concreto, debba essere comunque consentito il distacco, qualora dallo stesso non derivino notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. Nella vigenza della nuova disciplina e con precipuo riferimento al riparto delle spese in ipotesi di distacco legittimo, va però segnalata l'esistenza di un contrasto in seno alla Corte di Cassazione: ferma – come detto – la persistente validità, anche a seguito della Riforma del 2012, di quanto più sopra esposto in ordine alla diversificazione tra spese di conservazione e di gestione dell'impianto, si è posto il problema della validità – o meno – di una clausola regolamentare che, in deroga all'art. 1118, comma 4, c.c. ponga anche queste ultime, parzialmente o totalmente, a carico del rinunziante al servizio. Secondo Cass. VI-II, n. 12580/2017 (ma in senso conforme cfr. anche Cass., II, n. 32441/2019), è da considerarsi valida la clausola del regolamento contrattuale che, in ipotesi di rinuncia o distacco dall'impianto di riscaldamento centralizzato, ponga, a carico del condomino rinunciante o distaccatosi, l'obbligo di contribuzione alle spese per il relativo uso in aggiunta a quelle, comunque dovute, per la sua conservazione, potendo i condomini regolare, mediante convenzione espressa, adottata all'unanimità, il contenuto dei loro diritti ed obblighi e, dunque, ferma l'indisponibilità del diritto al distacco, suddividere le spese relative all'impianto anche in deroga agli artt. 1123 e 1118 c.c., a ciò non ostando alcun vincolo pubblicistico di distribuzione di tali oneri condominiali dettato dall'esigenza dell'uso razionale delle risorse energetiche e del miglioramento delle condizioni di compatibilità ambientale. Tale dictum, peraltro, vanta un autorevole precedente, pronunziato – sia pure da diverso angolo prospettico – nella medesima materia oggetto di indagine e rappresentato da Cass. II, n. 1558/2004, per cui la previsione, nel regolamento condominiale, dell'obbligo di contribuzione alle spese di gestione del riscaldamento svincolato dall'effettivo godimento del servizio va ricondotta non già nell'ambito della regolamentazione dei servizi comuni, bensì in quello delle disposizioni che attribuiscono diritti o impongono obblighi ai condomini, con la conseguenza che che essa non è modificabile da delibera assembleare, se non con l'unanimità dei consensi. Tale orientamento recepisce e applica, nella specifica materia della rinunzia all'impianto di riscaldamento centralizzato, la giurisprudenza consolidatasi in tema di clausole – derogatorie della disciplina di cui all'art. 1123 c.c. (Cass. II, n. 5168/2006) – di aggravamento (ovvero esonero) della posizione del condomino rispetto alla contribuzione agli oneri condominiali (Cass. II, n. 5975/2004; Cass. II, n. 7839/1988; Cass. II, n. 6844/1988 . Nella giurisprudenza di merito cfr., da ultimo, Trib. Roma, 13 maggio 2019, per cui deve ritenersi legittima non solo una distribuzione delle spese, tra condomini, diversa da quella legale, ma anche la deroga convenzionale che preveda la limitazione o finanche l'esclusione di un condomino, proprietario di determinate unità immobiliari, dalla partecipazione totale o parziale alle spese), sulla cui natura, peraltro, si sono formate due diverse posizioni: a) secondo una prima impostazione, partendo dall'assunto che l'obbligazione dei condomini di contribuire nelle spese per la conservazione e manutenzione delle parti comuni dell'edificio è propter rem, tale clausola è dotata di efficacia reale della stessa e, dunque, sarebbe operativa anche nei confronti dei successori dei condomini originari, indipendentemente dalla sua trascrizione (Cass. II, n. 6474/2005; Cass. II, n. 7039/1988; Cass. II, n. 6844/1988); b) per altra ricostruzione, al contrario, l'efficacia di tale convenzione non si estenderebbre agli aventi causa a titolo particolare degli originari stipulanti, a meno che detti aventi causa non abbiano manifestato il loro consenso nei confronti degli altri condomini, anche per fatti concludenti, attraverso un'univoca manifestazione tacita di volontà, dalla quale possa desumersi un determinato intento con preciso valore sostanziale (Cass. II, n. 7353/1996). Diversamente, per Cass. II, n. 11970/2017, è nulla la clausola del regolamento che, in ipotesi di legittimo distacco dall'impianto di riscaldamento centralizzato – perché operato senza pregiudicarne il funzionamento – ponga, a carico del condomino distaccatosi, l'obbligo di contribuzione alle spese per il relativo uso in aggiunta a quelle, comunque dovute, per la sua conservazione, in quanto il regolamento costituisce un contratto atipico, meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell'ordinamento, mentre una clausola siffatta, oltre a vanificare il principale ed auspicato beneficio che il condomino mira a perseguire distaccandosi dall'impianto comune, si pone in contrasto con l'intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento all'effettivo consumo, come emergente dagli artt. 1118, comma 4, c.c. (nel testo successivo alla novella apportata dalla l. n. 220/2012), 26, comma 5, della l. n. 10 del 1991 e 9, comma 5, del d.lgs. n. 102/2014. In senso del tutto conforme anche la più recente Cass. II, n. 18131/2020, cit. Nel solco tracciato da tali ultime pronunce si colloca Trib. Massa, 21 gennaio 2020, ove si osserva che non osta alla decisione del distacco del singolo condominio dall'impianto termico centralizzato la natura contrattuale della norma impeditiva contenuta nel regolamento di condominio, poiché questo è un contratto atipico le cui disposizioni sono meritevoli di tutela solo ove regolino aspetti del rapporto per i quali sussista un interesse generale dell'ordinamento. Pertanto, il regolamento di condominio, anche se contrattuale, approvato cioè da tutti i condomini, non può derogare alle disposizioni richiamate dall'art. 1138 comma 4 c.c. e non può menomare i diritti che ai condomini derivano dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, mentre è possibile la deroga alle disposizioni dell'art. 1102 c.c. non dichiarato inderogabile. Il che non è ravvisabile, anzi è il contrario, quanto al distacco delle derivazioni individuali dagli impianti di riscaldamento centralizzato ed alla loro trasformazione in impianti autonomi, per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, giacché proprio l'ordinamento ha mostrato di privilegiare, al preminente fine d'interesse generale rappresentato dal risparmio energetico, dette trasformazioni e, nei nuovi edifici, l'esclusione degli impianti centralizzati e la realizzazione dei soli individuali; in secondo luogo, giacché la ratio atipica dell'impedimento al distacco non può meritare la tutela dell'ordinamento in quanto espressione di prevaricazione egoistica anche da parte d'esigua minoranza e di lesione dei principi costituzionali di solidarietà sociale. Quindi, una clausola impeditiva del distacco rende il contratto non meritevole di tutela per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune.
Il tema andrà comunque rimeditato a seguito dell'effettiva entrata in vigore dell'art. 9, comma 5, lett. b), c) e d) del d.lgs. n. 102/2014 (recante «Attuazione della direttiva 2012/27/UE sull'efficienza energetica, che modifica le direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le direttive 2004/8/CE e 2006/32/CE»), di recepimento della Direttiva 2012/27/UE, come modificato dal d.lgs. n. 141/2016, il quale ha prescritto l'obbligo della contabilizzazione del calore e della termoregolazione, allo scopo di contenere al massimo i consumi di energia termica ed elettrica in tutti gli edifici con riscaldamento centralizzato o teleriscaldamento, ove vi siano almeno due soggetti che debbono dividere il costo del riscaldamento. L'innovazione normativa è di particolare rilievo, in quanto introduce criteri di riparto delle spese del riscaldamento centralizzato divergenti da quelli ex art. 1123 c.c. e con cui si è finora confrontata la giurisprudenza. In via meramente riassuntiva, il decreto n. 102 contempla due modalità di misurazione dei consumi di calore: 1) la prima, prevede l'installazione, a cura del proprietario, di sottocontatori volti a misurare l'effettivo consumo di calore o di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unità immobiliare (cd. «contabilizzazione diretta»). In tal caso il riparto delle spese di riscaldamento avviene secondo quanto previsto nella norma Uni 10200, che lega il costo del servizio riscaldamento agli effettivi consumi di energia termica utile e ai costi generali per la manutenzione dell'impianto: la spesa totale per il servizio di riscaldamento è data, dunque, dalla somma di una quota di consumo (legata al prelievo di calore volontario dell'appartamento e determinata, da un lato, dal livello di temperatura mantenuto nell'appartamento mediante la regolazione delle termo valvole e, dall'altro, dalla dispersione termica dell'unità immobiliare, dagli apporti solari e dalle abitudini degli occupanti. Sicché ciascun condomino/conduttore è tenuto a pagare solo quella parte di calore che effettivamente preleva dai propri termosifoni) e di una quota per «potenza termica impegnata» (legata al «consumo involontario» e, cioè, sostanzialmente alle dispersioni dell'impianto ma composta anche dal costo dell'energia elettrica assorbita dall'impianto, dal costo per la conduzione e la manutenzione ordinaria, nonché dal costo per la gestione della contabilizzazione. I consumi involontari, ovvero le dispersioni della rete di distribuzione, si ricavano per differenza, sottraendo al consumo totale (energia totale erogata dal generatore) quello delle unità immobiliari e dei locali a uso collettivo (se presenti); 2) qualora, invece, per le caratteristiche tecniche dell'impianto l'opzione della contabilizzazione diretta non sia praticabile, non sia efficiente in termini di costi ovvero, ancora, non sia proporzionata rispetto ai risparmi energetici potenziali, i singoli condomini devono procedere all'installazione di ripartitori in corrispondenza di ciascun corpo scaldante posto all'interno delle unità immobiliari che, diversamente dai sottocontatori, non misurano direttamente l'energia, ma rilevano dati che, confrontati con i dati complessivi del condominio, consentono di ripartire tra i vari radiatori il totale dell'energia termica (c.d. «contabilizzazione indiretta»). In simile frangente, la quota fissa deve essere determinata da un tecnico incaricato dal condominio e rappresenta la quantità ideale di energia che ogni singola unità immobiliare potrebbe prelevare per mantenere 20°C di temperatura ambiente interno dall'inizio a fine stagione di riscaldamento, determinabile tramite un calcolo tecnico previsto da specifiche indicazioni tecniche: ne deriva la creazione di una tabella di fabbisogno per ripartire la spesa per il consumo involontario (espressa in millesimi di fabbisogno calore) nella cui predisposizione, tuttavia, il tecnico incaricato non potrà tenere conto dei miglioramenti interni all'immobile (ad es.: doppi vetri), ma solo di quelli apportati alle parti comuni (es.: coibentazione del tetto dello stabile), stanti i limiti posti dall'art. 68 disp. att. c.c. alla redazione delle tabelle millesimali. Nel caso in cui la norma Uni 10200 non sia applicabile o benché applicabile, siano comprovate, tramite apposita relazione tecnica asseverata, differenze di fabbisogno termico per metro quadro tra le unità immobiliari costituenti il condominio (o l'edificio polifunzionale) superiori al 50%, l'assemblea potrà comunque decidere di applicare la norma Uni 10200 e, qualora si voglia seguire il nuovo criterio è possibile suddividere l'importo complessivo tra gli utenti finali attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi prelievi volontari di energia termica, mentre gli importi rimanenti (i consumi involontari, cioè) vengono predeterminati dal legislatore nella misura del 30% della spesa complessiva, percentuale che può essere ridotta dalla collettività condominiale fino ad arrivare all'1% degli oneri del riscaldamento centralizzato (ma non può essere totalmente eliminata). Sicché – per tornare al problema dei condomini distaccati – che venga creata una nuova tabella millesimale del fabbisogno calore (inclusiva anche delle quota relative alle unità immobiliari dei distaccati, giacché la norma Uni prevede che le spese delle perdite di calore delle reti siano divise in modo proporzionale al fabbisogno di energia di ogni singolo alloggio, indipendentemente dal fatto che il condomino attinga o meno calore) ovvero che si ricorra, in alternativa, alla ripartizione del consumo involontario secondo i millesimi, i metri quadri o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate, sarà sempre identificabile un criterio oggettivo di concorso dei distaccati nelle spese relative alle dispersioni della rete e alla gestione del servizio riscaldamento (escluso quelle per gestione del servizio di contabilizzazione del calore) (Bordolli, 99 ss.). Trib. Brescia, 8 aprile 2020 ha in proposito osservato che la Uni 10200 distingue due tipologie di consumi connessi al riscaldamento: volontari ed involontari. I primi prevedono una quota variabile e si riferiscono alle abitudini dei singoli condòmini, che regolano a loro piacimento, (nel rispetto dei limiti di legge), la temperatura dei caloriferi. I consumi involontari, al contrario, non dipendono dalle azioni degli utenti e riguardano soprattutto le dispersioni di calore dell'impianto, ricollegabili alla distribuzione di accumulo. Questi consumi vanno suddivisi in base ai millesimi di riscaldamento calcolati da un tecnico abilitato e tengono conto del fabbisogno energetico delle singole unità immobiliari, ossia della quantità di energia che ogni appartamento dovrebbe idealmente prelevare per mantenere una temperatura interna costante di 20°C durante l'intero periodo in cui è attivo il riscaldamento. Nel calcolare il fabbisogno, il tecnico deve considerare solo le parti comuni ed eventualmente consigliare qualche modifica alle stesse (la realizzazione di un cappotto termico, la coibentazione del tetto, ecc). Sono invece escluse le migliorie che riguardano gli interni delle singole unità immobiliari (sostituzione degli infissi, isolamento delle pareti, ecc), considerati ai fini della redazione della tabella interventi irrilevanti. Ha specificamente affrontato il tema del riparto delle spese del riscaldamento centralizzato di un edificio in condominio, ove sia stato adottato un sistema di contabilizzazione del calore, la recente Cass. II, n. 28282/2019, la quale ha affermato che le stesse devono essere ripartite in base al consumo effettivamente registrato, risultando perciò illegittima una suddivisione di tali oneri - sia pure solamente parziale - alla stregua dei valori millesimali delle singole unità immobiliari, né potendo a tal fine rilevare i diversi criteri di riparto dettati da una delibera di giunta regionale, che pur richiami specifiche tecniche a base volontaria, in quanto atto amministrativo comunque inidoneo ad incidere sul rapporto civilistico tra condomini e condominio (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza gravata, la quale aveva ritenuto legittima una delibera condominiale che, in presenza di un sistema di contabilizzazione del calore, aveva ripartito le spese di riscaldamento per il metano al 50% in base al consumo registrato e, per il restante 50%, in base ai millesimi di proprietà, secondo quanto previsto dal punto 10.2 della Delibera della Giunta regionale della Lombardia n. IX/2601 del 30 novembre 2011). Quanto, infine, alle questioni di carattere processuale relative al contenzioso in materia di distacco dall'impianto di riscaldamento, è stato chiarito che l'accertamento in sede giudiziale del diritto al distacco ha efficacia ex nunc e, pertanto, legittima solo i futuri esoneri dalla corresponsione delle spese di consumo (Trib. Roma, 18 giugno 2009). Ed infatti – come chiarito anche da Cass. II, n. 24209/2014 – non potendo la rinunzia del singolo condomino al servizio comportare un maggiore aggravio per gli altri (Cass. II, n. 15079/2006; Cass. II, n. 7518/2006; Cass. II, n. 5974/2004; Cass. II, n. 2316/1968), va da sé che il diritto a chiedere il distacco, a determinate condizioni, non può che valere per il futuro, senza possibilità di chiedere restituzioni o danni per il passato: pertanto il condomino sarà esonerato dalla partecipazione alle spese comuni per l'uso dell'impianto di riscaldamento centralizzato – ed avrà diritto al rimborso delle maggiori spese, se corrisposte – esclusivamente a seguito dell'avvenuto distacco, poiché fino a quel momento i costi della gestione condominiale sono a carico di tutti condomini. Per quanto concerne, poi, il riparto dell'onere della prova circa la sussistenza, in concreto, dei presupposti richiesti (ante Riforma, dalla giurisprudenza e, ora, dal novellato art. 1118, comma 4) ai fini della legittimità della rinuncia all'uso dell'impianto centralizzato, si afferma costantemente che spetta al condomino rinunciante provvedere all'uopo, mediante perizia tecnica che accerti se il distacco produrrà o meno squilibri di funzionamento, e maggiori costi per i singoli condomini (Cass. II, n. 8750/2012; Cass. II, n. 7708/2007; Cass. II, n. 15079/2006. Nel merito cfr. App. Ancona, 16 gennaio 2024), considerando che la rinuncia al servizio di uno degli utenti non produce necessariamente un risparmio di combustibile corrispondente alla quota millesimale del rinunciante e determinandosi, in tal caso, l'effetto di porre a carico degli altri condomini il costo della differenza di combustibile, prima e dopo il distacco. Conforme anche la giurisprudenza di merito (Trib. Bari, 10 ottobre 2013; Trib. Torino, 20 aprile 2009; Trib. Salerno, 17 maggio 2008), per cui il condomino può legittimamente rinunziare all'uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dell'impianto comune, senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condomini, se provi che dalla sua rinunzia e dal distacco non derivano né un aggravio di spese per coloro che continuano a fruire del riscaldamento centralizzato, né uno squilibrio termico dell'intero edificio, pregiudizievole per la regolare erogazione del servizio (proseguono, poi, le pronunzie richiamate applicando principi già ampiamente esposti in precedenza: soddisfatte tali condizioni, peraltro, il condomino distaccatosi è obbligato a pagare soltanto le spese di conservazione dell'impianto di riscaldamento centrale, mentre è esonerato dall'obbligo del pagamento delle spese per il suo uso, con conseguente nullità della delibera assembleare che, pur in presenza di tali condizioni, respinga la richiesta di autorizzazione al distacco, per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune). In senso contrario, però, Cass. II, n. 19893/2011, cit., che accredita la tesi – opposta – dell'esonero del distaccante dal fornire la prova di cui si è detto, trasferendola in capo al condominio, sul quale graverebbe l'onere di dimostrare l'esistenza di quel pregiudizio termico ed economico ostativo dell'esercizio del diritto al distacco, nel frattempo, liberamente esercitato dal singolo. È comunque sempre fatta salva la possibilità che l'assemblea condominiale, esonerando in tal modo il diretto interessato dai relativi oneri probatori, autorizzi il distacco sulla base di una propria, autonoma valutazione del non verificarsi degli effetti pregiudizievoli di cui si è detto (Cass. VI-2, n. 22285/2016). Segue. Ipotesi alternative di mancato uso dell'impianto centralizzato di riscaldamento Ulteriori e distinte, rispetto alla fattispecie del distacco volontario dall'impianto centralizzato, sono le ipotesi di rinuncia alla proprietà dell'impianto e di esclusione dal godimento dell'impianto. Quanto alla prima evenienza, si tratta del caso del condomino che non si limiti a chiedere il distacco dall'impianto di riscaldamento centralizzato, ma intenda completamente rinunciare alla proprietà del predetto: si tratta, a ben vedere, di un'ipotesi riconducibile all'art. 1118, comma 2, c.c. con conseguente nullità dell'eventuale delibera assembleare autorizzativa di detta rinunzia. Passando, invece, al secondo caso, inerente la posizione del condomino che sia stato escluso (anche solo temporaneamente) dal servizio di riscaldamento centralizzato per scelta del condominio, anche al di là della sua volontà e iniziativa (se non contro di esse), al fine scopo di procedere alle riparazioni del caso ovvero per ovviare ad una dispersione di calore altrimenti lesiva degli altri condomini, si ritiene che lo stesso, non potendo usufruire del servizio, non può neppure ritenersi vincolato a contribuire alle spese relative all'impianto. Rispetto a tale seconda eventualità, va considerata, poi, l'ipotesi «estrema» dell'unità immobiliare che, per ragioni di conformazione dell'edificio, non sia semplicemente esclusa dal godimento per le ragioni predette, ma non sia proprio servita dall'impianto di riscaldamento centralizzato (si rimanda, per un approfondimento sul punto, al commento all'art. 1117 c.c.): in tal caso, il mancato concorso alle spese trova giustificazione, non tanto nell'applicazione dell'art. 1118, comma 4, c.c., quanto nella circostanza che trattasi di impianto su cui il relativo proprietario non ha diritto di condominio, mancando la relazione di accessorietà che ne costituisce il fondamento tecnico (Cass. II, n. 24296/2015). Del medesimo tenore Cass. II, n. 10546/2001, che, relativamente all'ipotesi di locali non dotati, ab initio, dei radiatori interni, né delle diramazioni di allaccio alle colonne portanti (nella specie, in coerenza con la loro destinazione a negozio e deposito che rendeva non indispensabile la fruizione del servizio), ha escluso che i proprietari di tali locali possano essere chiamati a contribuire agli oneri derivanti da un impianto da considerare a questo punto comune solo ad altri, ex art. 1123 c.c. Ancora diversa, infine, è l'ipotesi di impianto di riscaldamento centralizzato che non eroghi calore sufficiente: in tal caso l'obbligo del condomino di contribuire alle spese necessarie alla conservazione ed al godimento del servizio centralizzato del riscaldamento non viene meno né, tampoco, il difettoso funzionamento dell'impianto può giustificare un esonero dal contributo. L'uso degli impianti (e dei beni) comuni non fonda, infatti, su un rapporto obbligatorio di carattere sinallagmatico, che impegna la controparte (e, cioè, il condomino) ad una prestazione (sul punto si tornerà infra, a proposito della previsione contenuta al comma 3 dell'art. 1118 c.c.), quanto, piuttosto, sul diritto reale di condominio determinato dalla situazione di comproprietà contemplata dall'art. 1117 c.c. (considerazione, questa, alla base, tra l'altro, del più ampio principio della inapplicabilità, nei rapporti tra condominio e singoli condomini, dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., sia per quanto concerne l'adempimento degli oneri condominiali – ex aliis, Cass. II, n. 10816/2009 – sia relativamente al rispetto degli obblighi contemplati dal regolamento di condominio – Cass. II, n. 977/2000). Ciononostante, è stato riconosciuto, in favore del condomino che lamenti l'insufficiente erogazione della giusta quantità di calore, il diritto al risarcimento del danno subito, riferibile, da un lato, ai contributi comunque pagati al condominio e, da un altro lato, alle spese affrontate per supplire – con propri mezzi – alla carente erogazione del servizio centralizzato (Cass. II, n. 12596/2002). Tale principio, che vantava alcuni precedenti in Cass. II, n. 12956/2006 e Cass. S.U., n. 10492/1996, ha trovato nuova linfa e, quanto maggiormente rileva, conferma generale nella recente Cass. VI-II, n. 16608/2017 ove si è chiarito che il singolo condomino non è titolare, nei confronti del condominio, di un diritto di natura sinallagmatica relativo al buon funzionamento degli impianti condominiali, che possa essere esercitato mediante un'azione di condanna della stessa gestione condominiale all'adempimento corretto della relativa prestazione contrattuale, trovando causa l'uso dell'impianto che ciascun partecipante vanta nel rapporto di comproprietà delineato negli artt. 1117 e ss. c.c. (cfr., nel medesimo senso, Cass. II, n. 6735/2020): pertanto, il singolo condomino non ha azione per richiedere la messa a norma dell'impianto medesimo, potendo al più avanzare, verso il condominio, una pretesa risarcitoria nel caso di colpevole omissione nella sua riparazione o adeguamento, ovvero sperimentare altri strumenti di reazione e di tutela, quali, ad esempio, le impugnazioni delle deliberazioni assembleari ex art. 1137 c.c., i ricorsi contro i provvedimenti dell'amministratore ex art. 1133 c.c., la domanda di revoca giudiziale dell'amministratore ex art. 1129, comma 11, c.c., o il ricorso all'autorità giudiziaria in caso di inerzia agli effetti dell'art. 1105, comma 4, c.c. Segue. La rinunzia all'uso dell'impianto idrico centralizzatoCaso peculiare è quello che ha ad oggetto il distacco dall'impianto centralizzato dell'acqua il quale, secondo la elencazione contenuta nell'art. 1117, n. 3), c.c., costituisce un accessorio di proprietà comune, con conseguente obbligo, a carico di tutti i condomini, di pagamento delle spese per la relativa conservazione e manutenzione: la questione che si è posta ha riguardato, in particolare, la possibilità, non già per i singoli condomini ma per il condominio, in base a delibera adottata a maggioranza, di sottrarre alla sua destinazione originaria l'impianto centralizzato di distribuzione dell'acqua potabile e di scarico, in seguito all'installazione, da parte di tutte le unità abitative, salvo una, di linee private per la fornitura del servizio idrico, dotate di rispettivi ed autonomi contatori, di proprietà anch'essa privata, con conseguente rinunzia abdicativa al diritto di proprietà sull'impianto comune in favore dell'unico utente. Orbene, la fattispecie – che non trova regolamentazione espressa nel codice civile – può essere ricostruita partendo dalla considerazione che una delibera assembleare non può, a maggioranza, sottrarre alla destinazione originaria l'impianto centralizzato di proprietà comune di distribuzione dell'acqua potabile e di scarico, né deliberarne la soppressione per far luogo all'attivazione, da parte dei singoli condomini, di propri contatori a seguito della sottoscrizione di autonomi contratti di somministrazione con l'ente gestore del servizio idrico, giacché mediante tale delibera si realizza una definitiva alterazione della cosa comune nella sua originaria destinazione, tale da integrare la fattispecie dell'art. 1120, ultimo comma, c.c. (c.d. innovazioni vietate): detto in altri termini, la rinuncia all'impianto centralizzato configura una sostanziale alterazione della cosa comune nella sua destinazione strutturale, astrattamente idonea ad arrecare un pregiudizio a tutte le unità immobiliari che usufruiscono o possono usufruire di dell'impianto medesimo. Ciò non toglie, tuttavia, che i singoli condomini, possano singolarmente rinunziare all'uso dell'impianto, distaccandosi da esso, a condizione, tuttavia, che vengano rispettate le medesime condizioni poste dall'art. 1118, comma 4, c.c., per il distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento o di refrigerazione e, cioè, che ciò non comporti squilibrio nel suo funzionamento, né maggiori consumi. A tali condizioni la rinunzia (all'uso) è legittima, con conseguente esonero dei condomini beneficiari, in applicazione dell'art. 1123, comma 2, c.c., dal pagamento delle spese per il consumo ordinario, non anche dei costi di manutenzione (Cass. II, n. 28616/2017). Si tratta, in sostanza, di una applicazione analogica dell'art. 1118, comma 4, c.c. La soluzione appare coerente, peraltro, con la disciplina unitaria che agli impianti comuni è riservata dall'art. 1117, n. 3) c.c.: tali impianti e sistemi centralizzati, soggiacciono tutti al regime condominiale, ove destinati all'uso comune, fino al punto di diramazione ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini ovvero in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche e, rispetto ad essi, sono prescritte le medesime maggioranze assembleari per le delibere relative alla loro istituzione o soppressione. Appare dunque logico che, essendo suscettibili di godimento separato e non necessariamente collettivo, la rinunzia al loro uso sia gestita al medesimo modo. La particolarità della vicenda non è passata inosservata in dottrina (Allegra): nella specie, peraltro, diversamente da quanto normalmente accade, in cui sono uno o più condomini a chiedere di potersi distaccare dall'impianto centralizzato al fine di servirsi di uno autonomo, è stata l'assemblea (e, quindi, il condominio) ad avere rinunciato alla proprietà dell'impianto idrico in favore del solo condomino dissenziente all'installazione di un impianto autonomo. Si è allora osservato come la tematica si intrecci, in realtà, con quella dello scioglimento del condominio, ex art. 1119 c.c., per cui le parti comuni dell'edificio, tra cui rientra l'impianto centralizzato di distribuzione dell'acqua potabile e di scarico (cfr. l'art. 1117, n. 3, c.c.), non sono soggette a divisione, ad eccezione dell'ipotesi in cui la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino e vi sia il consenso di tutti i partecipanti al condominio: sicché – per tornare alla fattispecie in esame – osta alla dismissione dell'impianto comune, con attribuzione in proprietà esclusiva al solo condomino rimastone utente, il dissenso del condomino privo di un autonomo impianto per l'approvvigionamento dell'acqua. La modifica della destinazione d'uso dell'immobile in proprietà individualePer concludere, infine, non può non evidenziarsi che l'art. 1118, comma 3, c.c. risolve espressamente (dando ad esso risposta negativa in perfetta linea di continuità con la giurisprudenza anteriore alla Riforma del 2012) il problema della incidenza – o meno – sul concorso alle spese di conservazione dei beni comuni, del mutamento di destinazione d'uso dell'unità immobiliare in proprietà esclusiva. Può infatti accadere che, nel rispetto della normativa urbanistica nonché dell'art. 1122 c.c. ed in assenza di espressi divieti regolamentari, il proprietario esclusivo muti, rispetto a quella originaria, la destinazione di utilizzo del proprio immobile, così dando vita ad un cambio di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante (cfr. art. 23-ter, d.P.R. n. 380/2001) – l'unica da esaminare ai fini della norma in questione, non assumendo, al contrario, alcuna importanza l'utilizzo, in concreto, che il proprietario faccia del proprio immobile (Cass. II, n. 24125/2013). Il tema si intreccia, peraltro, con quello della revisione delle tabelle millesimali, giacché la questione della rilevanza del mutamento della destinazione d'uso di un'unità immobiliare rispetto al calcolo dei valori millesimali porta con sé, quale corollario, la risoluzione di quella – direttamente a valle – concernente la necessità che in simile ipotesi si debba procedere a revisione delle tabelle millesimali, ex art. 69 disp. att. c.c. Orbene, la giurisprudenza ha sempre fornito risposta negativa ad entrambi i quesiti, affermando che il semplice cambiamento della destinazione d'uso dell'unità immobiliare compresa in un condominio non determina l'applicazione dell'art. 69 disp. att. c.c., norma che presuppone (anche attualmente, a seguito della Riforma del 2012) specifiche ipotesi di mutamenti prodromiche alla revisione, ma non quella oggetto di indagine: il n. 2) del comma 2, infatti, fa riferimento all'evenienza che, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, sia alterato (in termini di incremento o decremento) per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino. Così, per Trib. Parma, 14 gennaio 1998, poiché la determinazione dei valori proporzionali avviene tenendo conto delle caratteristiche proprie degli immobili, e non anche della eventuale possibile destinazione cui sono adibiti in concreto – che è determinata, soprattutto, da valutazioni puramente soggettive, e cioè dalle personali necessità e dalla convenienza economica – consegue che, ove le caratteristiche obiettive dell'immobile, prese in esame nel determinare gli elementi necessari per il calcolo dei valori proporzionali delle singole unità immobiliari, rimangano immutate, e cambi soltanto la situazione esterna (nella specie, per essere mutata la destinazione dell'immobile da abitazione ad ufficio), che non comporta dirette conseguenze sulle caratteristiche proprie dell'immobile, ma soltanto sulla sua maggiore o minore valorizzazione economica, non sussistono né gli estremi dell'errore, né delle mutate condizioni dell'edificio per disporre la revisione delle tabelle millesimali. Ugualmente Trib. Torino, 14 giugno 2001 ed App. Milano, 19 febbraio 2005 la quale ultima ha ribadito il principio per cui le variazioni d'uso, non accompagnate da oggettive modificazioni degli immobili, non costituiscono di regola presupposti sufficienti per una coattiva revisione tabellare. Non sono mancate, tuttavia, isolate opinioni difformi: così, Trib. Pescara, 1 febbraio 2011 e Trib. Torino 12 novembre 1997. La novella – come anticipato – intervenendo sul punto e recependo il previgente orientamento maggioritario (proteso nel senso della irrilevanza delle variazioni, ai fini del concorso negli oneri condominiali, alla destinazione d'uso), ha dunque chiarito, all'art. 1118, comma 3 (sostanzialmente recettivo ed esplicativo della seconda parte dell'originario comma 2 della medesima disposizione), che il condomino non può sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d'uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali: tale indifferenza, d'altra parte, si giustifica per l'insussistenza di una relazione sinallagmatica tra ciascun partecipante e la gestione condominiale (considerazione già svolta in precedenza, a proposito dei rimedi a favore del condominio per il caso di insufficiente erogazione di calore ad opera del'impianto centralizzato), trovando l'obbligo del singolo piuttosto origine immediatamente nell'appartenenza del correlato diritto dominicale. Quanto, poi, al riferimento ad una salvezza di effetti della rinunzia, ove consentita da leggi speciali, al di là della tautologia del principio espresso, la dottrina ha ipotizzato che con tale espressione si sia semplicemente prefigurata la possibilità che il legislatore possa nel futuro intervenire per incentivare la sostituzione o il graduale abbandono di impianti obsoleti o inefficienti, così incidendo ance sui criteri di ripartizione delle spese (Jannarelli-Macario, 209). Anche a tale riguardo, non può non rimarcarsi l'evocazione che la disposizione in commento opera all'art. 1117, n. 3), c.c., laddove eguale salvezza è prevista proprio per gli impianti centralizzati. 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