Codice Civile art. 1119 - Indivisibilità.Indivisibilità. [I]. Le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio (1). (1) Comma modificato dall'art. 4, l. 11 dicembre 2012, n. 220, che ha inserito, in fine, le parole: «e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio». La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. InquadramentoL'art. 1119 c.c., anche nella nuova versione, ha ribadito il principio generale dell'indivisibilità dei beni comuni, superabile non solo mantenendo intatta la comodità dell'utilizzo del bene da parte di tutti i condomini, ma anche sottoponendo il frazionamento (ed è questa la novità) al consenso unanime degli stessi. La norma, che si ricollega, necessariamente, a quello che è il fondamento dell'istituto del condominio, quale la relazione di accessorietà e funzionalità che lega le parti comuni a quelle di proprietà esclusiva, trova un suo corrispondente ideale negli articoli che disciplinano la divisione nell'ambito della comunione e, più precisamente, gli artt. 1111 e 1112 c.c. In questo caso, tuttavia, il legislatore ha negato il diritto allo scioglimento del bene comune solo quando si tratti di cose che, se divise, cesserebbero di servire all'uso cui sono destinate. Va, poi, rilevato che l'ipotesi contemplata dall'art. 1119 c.c. differisce da quella disciplinata dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., aventi per oggetto lo scioglimento dell'edificio o del gruppo di edifici in entità separate, talché le norme richiamate non trovano spazio applicativo nella fattispecie in esame. L'indivisibilità nella comunioneL'art. 1119 c.c. rappresenta un'attuazione specifica del criterio generale definito nell'art. 1112 c.c. concernente l'istituto della comunione, rispetto alla quale il condominio si colloca, per i suoi caratteri peculiari, in un rapporto di species a genus. Malgrado il rinvio delle disposizioni in materia di condominio a quelle che disciplinano la comunione, previsto dall'art. 1139 c.c., la sussidiarietà tra le due disposizioni non è, in questo caso specifico, operativa. La facoltà dei partecipanti alla comunione di chiederne, in ogni tempo, la divisione, cui consegue la trasformazione delle relative quote in singole porzioni di proprietà esclusiva incontra il limite a non essere pregiudicati dallo scioglimento per effetto dell'inservibilità del bene all'uso cui lo stesso è destinato. Ed è proprio questo profilo della divisibilità che rappresenta una delle caratteristiche su cui si fonda la distinzione tra la comunione ed il condominio. Questo, infatti, si contraddistingue per essere una particolare forma di comunione, che investe le parti comuni di un edificio diviso tra i proprietari dei diversi piani o porzioni di piano. Il condominio, pertanto, si caratterizza rispetto alla comunione per essere «necessario», tanto che si è ritenuto che rappresenti la forma più tipica di comunione forzosa. Nella comunione con riferimento alla divisibilità si è parlato, anche, di diritto potestativo giudiziale, che può essere sempre esercitato dai compartecipi (Ferrari, 30). Ad avviso della giurisprudenza, la disposizione di cui all'art. 1112 c.c., che stabilisce l'indivisibilità del bene nel caso in cui la sua assegnazione in proprietà esclusiva ad uno dei condividendi ne comporti la cessazione dall'uso cui esso è destinato, trova applicazione esclusivamente nel caso in cui allo scioglimento della comunione si pervenga per via giudiziale, in quanto, nello scioglimento convenzionale, il potere dei comproprietari di addivenire allo scioglimento e di disporre dei beni implica anche il potere di mutarne l'uso e la destinazione originaria, sicché la possibilità di divisione del bene non trova altri impedimenti se non quelli derivanti da ragioni fisiche o da vincoli posti da leggi speciali (Cass. II, n. 7274/2006). L'art. 1112 c.c., che costituisce un'eccezione rispetto alla regola generale della divisione della comunione, disposta dall'art. 1111 c. c., ha come ratio la tutela della destinazione d'uso del bene, e per questo esso ammette che la divisione sia richiedibile anche da uno solo dei comproprietari, con la sola subordinazione della stessa alla valutazione giudiziale che il bene, anche se diviso, manterrà l'idoneità all'uso a cui è stato destinato (Cass.II n. 867/2012), mentre l'art. 1119 c. c. contempla una forma di protezione rafforzata dei diritti dei condomini, in omaggio al minor favor del legislatore per la divisione condominiale, ed è per questo che esso contiene la prescrizione dell'unanimità e la tutela del mero comodo godimento del bene, in relazione alle parti di proprietà esclusiva (Cass. II, n. 11350/2022; Cass. II, n. 4840/2021). La Corte di cassazione, attraverso una ricostruzione del piano sistematico e della mens legislatoris , ha tratto l'ermeneutica della volontà obiettivamente espressa dalla legge, quale emerge dal suo dato letterale e logico, secondo cui il legislatore ha inteso lasciare aperta la possibilità di una divisione giudiziaria quanto “la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino”, aggiungendo il requisito del “consenso” di tutti i partecipanti per la sola divisione volontaria (Cass. II, n. 4817/2024). Il principio generale dettato dall'art. 1112 c.c. in merito alle ipotesi di indivisibilità assume, rispetto alla normale divisibilità dei beni, un carattere di eccezionalità, con la conseguenza che l'accertamento delle situazioni limitative deve essere condotto con modalità rigorose, essendo necessario assicurare, fino dove sia possibile, la salvaguardia del diritto del singolo compartecipe all'assegnazione in natura della parte di sua spettanza (Cass. II, n. 3353/1983). Nella comunione, inoltre, trovano spazio disposizioni che non hanno riscontro in materia di condominio, come ad esempio la possibilità per il giudice di intervenire nel procedimento di scioglimento della comunione, anche con riferimento all'eventuale patto di indivisibilità stipulato tra i comunisti (art. 1111 c.c.), oppure il diritto dei partecipanti di cedere ad altri il godimento del bene nei limiti della propria quota (art. 1103, comma 1, c.c.). Secondo alcuni autori, il patto di rimanere in comunione, non espressamente previsto in ambito condominiale, sarebbe valido anche tra tutti i condomini per un periodo non superiore a dieci anni (come previsto dall'art. 1111 c.c.), ma il termine decorrerebbe dalla sua stipula (che potrebbe coincidere con la costituzione del condominio od anche successivamente) e, se fosse previsto un termine più ampio esso si ridurrebbe a dieci anni (Dogliotti–Figone, 183; Petrolati, 106). Interpretazione dottrinale che troverebbe conferma anche in una lontana decisione della Corte di Cassazione, ad avviso della quale i condomini possono convenire, in forza della loro autonomia negoziale, che taluni beni costituiscano parti comuni, al fine di conferire loro una destinazione indisponibile senza il consenso di tutti e di estendere loro il regime della indivisibilità ed inseparabilità che è proprio delle parti comuni indicate dall'art. 1117 c. c. e che impedisce al singolo condomino di disporre di queste parti indipendentemente dalla sua proprietà esclusiva senza il consenso degli altri (Cass. II, n. 6036/1995). Mentre, con riferimento esclusivo all'istituto della comunione, in giurisprudenza è stato affermato che il patto di indivisibilità trova un limite implicito nella regola dettata dal successivo art. 1112 c.c., secondo cui lo scioglimento non può essere chiesto quando si tratta di cose che, se divise, cesserebbero di servire all'uso cui sono destinate. L'accertamento in fatto sulla concreta divisibilità del bene è devoluto all'esame del giudice di merito e resta precluso al giudice di legittimità se congruamente motivato (Cass. II, n. 5261/2011). L'impianto normativo che disciplina gli aspetti inerenti alla divisibilità del bene oggetto di comunione, evidenzia la differenza sostanziale tra i due istituti che, tuttavia, hanno in comune un obiettivo: quello di evitare che la divisione influisca negativamente – anche se in diverse proporzioni – sui diritti dei soggetti che da tale divisione potrebbero essere toccati. A proposito della ratio ispiratrice dell'art. 1112 c.c. è stato sottolineato come questa sia da individuare nella necessità di impedire che, per volontà di alcuno dei comproprietari, ed in contrasto con la volontà degli altri, vengano alterati lo stato, l'essenza e la funzione di alcune parti dell'edificio, con riflessi sul pacifico godimento dei beni medesimi da parte dei singoli soggetti (De Renzis, 123; Andreoli, 71). La ratio dell'indivisibilità e l'incompatibilità con altri istituti condominialiPiù volte la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità si è espressa sul punto e questo è avvenuto con riferimento sia al preesistente regime legislativo, sia riguardo alla vigente normativa, anche tenendo conto che il fondamento del principio espresso dal legislatore non è mutato nel tempo. È stato, ad esempio, affermato che per la comunione in generale il legislatore ha mostrato di sfavore al permanere dello stato di comunione riconoscendo ad ogni partecipante (con le sole limitazioni previste dall'art. 1112 c.c.) il diritto alla divisione, mentre in tema di condominio negli edifici è stato affermato il principio opposto in quanto, in base all'art. 1119 c.c. (norma non derogabile, a mente dell'art. 1138 c.c., da regolamento assembleare), le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione con i limiti indicati nella norma stessa. La ratio và individuata nel fatto che le parti comuni sono specificamente destinate a servire le proprietà separate ed esclusive di tutti i condomini onde il divieto di alienazione separata mira ad impedire pregiudizi in capo ai condomini nel senso che la divisione possa rendere meno agevole l'uso della cosa comune. Essendo, quindi, le parti comuni informate ai principi dell'indivisibilità e dell'inseparabilità in ragione della loro destinazione ad altrui servizio, il singolo condomino non può, senza il consenso degli altri, unilateralmente disporre delle parti comuni in modo autonomo ed esclusivo rispetto alla proprietà individuale (Trib. Roma 29 settembre 2015; Trib. Roma 15 settembre 2015). Anche nel passato il fondamento delle due disposizioni era stato ritenuto analogo considerato che la Suprema Corte aveva costantemente ritenuto che il tratto saliente che contraddistingue il condominio rispetto alla comunione dipende dall'utilità strumentale, essendo strettamente legata al godimento delle unità immobiliari. Dalla virtuale perpetuità del condominio deriva l'opportunità che i condomini non interferiscano nell'amministrazione delle parti comuni dell'edificio. Dalla normale divisibilità nella comunione, invece, consegue che il comunista insoddisfatto dell'altrui attività, se non vuole chiedere lo scioglimento, può decidere di provvedere personalmente (Cass.S.U., n. 2046/2006). Lo scopo fondamentale della norma in esame, pertanto, è quello non di stabilire un principio di indivisibilità assoluta delle parti comuni di un edificio in condominio, ma di subordinare tale stato all'esigenza di non rendere più incomodo l'uso della cosa comune a ciascun condomino, cioè all'esigenza che di mantenere inalterato lo stato, e, quindi, il pacifico godimento delle parti di uso comune (Cass. II, n. 2257/1982). Dal quadro complessivo che emerge dalla giurisprudenza corrente, se vogliamo, si può anche intravedere una sintonia con l'art. 1102 c.c. che, nel consentire al condomino (per effetto del rinvio alla disciplina della comunione sancito dall'art. 1139 c.c.) di utilizzare la cosa comune, impone precisi limiti a salvaguardia degli altrui diritti, tra i quali la garanzia che tutti gli altri partecipanti al condominio possano fare parimenti uso del bene e che l'estensione della propria prerogativa non provochi un danno agli altri condomini. L'indivisibilità delle parti comuni sancita nell'art. 1119 c.c. deve essere tenuta separata sia dall'ipotesi di rinuncia al diritto del condomino sulle parti comuni, con particolare riferimento al distacco dall'impianto di riscaldamento (art. 1118 c.c.), sia da quella concernente lo scioglimento del condominio disciplinata dagli artt. 61 e 62 disp. att. c.c. In effetti anche se in tali ipotesi, materialmente, si effettua una divisione dei beni tra di esse non vi può essere alcuna affinità, neppure analogica. Appare evidente, infatti, che il legislatore, disciplinando le fattispecie in modo del tutto autonomo ha inteso conferire a ciascuna di esse una specifica connotazione giuridica, che impedisce una sovrapposizione delle relative discipline. Solo al fine di un rapido raffronto tra le norme richiamate giova evidenziare che nel caso dello scioglimento del condominio in realtà separate, oggetto della normativa non sono le parti comuni degli edifici ma gli stessi corpi di fabbrica che, in presenza di determinate condizioni, si dividono in più entità autonome mantenendo, tuttavia, in comune beni e servizi. Nella nuova oggettività, tuttavia, si viene a riproporre per ciascuno stabile il problema della indivisibilità come trattato nell'art. 1119 c.c. L'indivisibilità ed il regolamento di condominioNessuna modifica ha interessato l'inderogabilità della norma, che è rimasta invariata per effetto dell'art. 1138 c.c. anche dopo l'entrata in vigore della novella del 2012. Secondo alcuni autori la previsione legislativa sarebbe superflua, perché la divisione delle parti comuni è qualcosa di diverso dalle norme concernenti l'uso delle parti comuni, che rappresentano il contenuto «normale» del regolamento di condominio, per cui anche in assenza del divieto posto dall'art. 1138, quarto comma, c.c. non vi sarebbero stati dubbi circa l'invalidità di disposizioni regolamentari che consentissero, non su base negoziale, la divisione di parti comuni che, proprio per tale motivo, sarebbe inidonea ad incidere sui diritti dei singoli (Scrima, 64). L'argomento era stato già affrontato in un lontano passato dalla dottrina, secondo la quale il disposto dell'art. 1119 c.c. non avrebbe carattere cogente, dal momento che un regolamento c.d. contrattuale, ovvero assunto all'unanimità, potrebbe validamente prevedere le modalità di divisione delle parti comuni. Il consenso di tutti i partecipanti al condominio, infatti, consentirebbe di superare il limite imposto dal legislatore a tutela del comodo uso da parte di tutti i partecipanti al condominio. Per altro verso, tuttavia, tale accordo non potrebbe mai essere opponibile agli aventi causa degli originari condomini stipulanti, ostandovi l'art. 1372, comma 2, c.c. in base al quale il contratto produce effetto nei confronti dei terzi solo nei casi previsti dalla legge (Salis, 1121). A ciò aggiungiamo che nei confronti dei terzi, comunque, non si può evitare di considerare l'inderogabilità dell'art. 1119 c.c. espressamente sancito dalla legislazione vigente in materia di condominio. Quanto, poi, alla possibilità della sussistenza, anche in ambito condominiale, del c.d. patto di non divisione, che nella sostanza altro non sarebbe che il patto di rimanere in comunione, oggetto dell'art. 1111, comma 2, c.c., premesso che lo stesso non è stato contemplato dal legislatore, ci si è chiesto se l'accordo potrebbe essere contenuto in un regolamento di condominio di natura contrattuale. La giurisprudenza, pur se con riferimento all'ipotesi di un complesso immobiliare o di un insieme di edifici autonomi (il supercondominio) ha ritenuto che tale accordo può interessare i beni e servizi comuni quali cortili, impianto di riscaldamento o altri beni destinati al servizio di più edifici distinti ed a questi comuni in forza di regolamento contrattuale, che può essere modificato solo per comune volontà di tutti i partecipanti. Tale regolamento, inoltre e sempre per consenso unanime, può escludere (senza il limite temporale decennale previsto dall'art. 1111 c.c. in tema di comunione ordinaria) la facoltà di recesso della comunione senza il consenso degli altri condomini (Cass. II, n. 1553/1963). È stato osservato che, al contrario, la dottrina è dell'avviso che la mancanza di una norma ad hoc fa sì che, per effetto dell'art. 1139 c.c., si applichi al condominio l'art. 1111, comma 2, cit.; in realtà, un eventuale patto di indivisione, contenuto nel suddetto regolamento, non farebbe altro che riprodurre il disposto dell'art. 1119 c.c. e, pertanto, sarebbe privo di un qualsiasi valore negoziale, finendo per rendere ultroneo un problema di efficacia temporale dello stesso, già risolto dallo stesso art. 1119 (Celeste). L'indivisibilità tra vecchia e nuova disciplina ed il relativo limiteL'unica differenza dell'art. 1119 c.c. rispetto al passato va individuata nel fatto che nella versione introdotta dalla l. n. 220 del 2012 è stato precisato che la divisione può avvenire solo «con il consenso di tutti i partecipanti al condominio», là dove in passato nulla era stato stabilito in questo senso. Malgrado ciò e considerato il tipo di intervento, è evidente che per una valida delibera fosse, comunque, necessaria l'unanimità dei consensi, poiché con la divisione della parte comune il bene verrebbe non solo sottratto alla sua destinazione naturale, ma anche assegnato ad uno o più condomini con il risultato che su di esso si potrebbe anche costituire un condominio parziale, qualora la parte comune dovesse essere assegnata ad un gruppo di partecipanti. Il uovo testo dell’art. 1119 cod. civ. deve essere interpretato alla luce dei lavori preparatori di cui alla l. n. 220/2012, per cui solo per la divisione giudiziaria vale l’espressione “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione” a meno che “la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”. Mentre per la divisione volontaria è necessario che si sia concluso un contratto che riporti, in scrittura privata o atto pubblico, “il consenso di tutti i partecipanti al condominio”. Tale interpretazione – secondo la Corte Suprema – è l’unica che consente di osservare il significato letterale del testo e, ad un tempo, garantire la coerenza logica del sistema (Cass. II, n. 26041/2019). Al frazionamento della proprietà comune deve conseguire la revisione delle tabelle millesimali, la cui spesa deve essere posta a carico di tutti i condomini, essendo la modifica frutto di deliberazione presa in sede assembleare con il consenso di tutti i condomini. Il limite posto dal legislatore è – come già rilevato – sicuramente molto condizionante visto che l'impedimento alla divisione consiste semplicemente in un uso più incomodo della cosa da parte di ogni condomino. Il dato testuale dell'art. 1119 c.c. è stato interpretato dalla dottrina in modo estensivo. È stato, infatti, rilevato che da un'affrettata lettura della norma deriverebbe che la preclusione alla divisione sia solo l'incomodo godimento della cosa comune a seguito del frazionamento: in tal modo la divisione comporterebbe non solo l'utilizzo da parte del singolo della parte comune ma si tradurrebbe in una privazione del diritto di godimento delle parti assegnate ad altri, con la conseguenza che la divisione non sarebbe mai consentita. In realtà il termine «cosa» utilizzato dal legislatore avrebbe un diverso significato riferendosi ad un uso più incomodo anche del bene esclusivo servito dal quello condominiale (Celeste). Parimenti è stato sottolineato che per il divieto del frazionamento è sufficiente che il godimento del piano od appartamento sia reso impossibile (la norma non prevede tale eventualità che, tuttavia, rappresenta una naturale estensione del dettato legislativo) o più difficile, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo (Cassano, 27). Trattasi di interpretazione che deriverebbe direttamente dalla giurisprudenza, che aveva affermato che nel condominio edilizio, le parti comuni dell'edificio possono essere divise purché la divisione possa farsi senza rendere più incomodo a ciascun condomino l'uso della proprietà singola servita dalla dividenda parte comune, in quanto ne sia resa meno facile la diretta fruizione ovvero venga ridotta l'utilità ricavabile dal bene condominiale in funzione della proprietà individuale (Cass. II, n. 4806/1978). Il tutto come precisato anche da risalente pronuncia di legittimità, ove si legge che le parti comuni dell'edificio condominiale non sono soggette a divisione, non già in quanto cesserebbero, se divise, di servire all'uso cui sono state destinate, ma solo in quanto la divisione impedirebbe o renderebbe più incomodo il godimento dei locali di proprietà esclusiva di ciascun condomino (Cass. II, n. 2151/1963). Tenuto conto dell'ermeneutica letterale e sistematica in relazione anche ai lavori preparatori, l'art. 1119, nel nuovo come modificato dall'art. 4 della l. n. 220 dell'11. 12. 2012, va interpretato nel senso che “le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione” a meno che – per la divisione giudiziaria – “la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa comune a ciascun condomino” e – per la divisione volontaria – a meno che non sia concluso contratto che riporti, in scrittura privata o atto pubblico, il “consenso di tutti i partecipanti al condominio” (quest'ultimo requisito non essendo richiesto per la divisione giudiziaria). Tale interpretazione è l'unica che consente di osservare il significato letterale del testo (pur tenendo conto della sua redazione in due fasi temporali, e con un'indubbia difficoltà quanto al significato della congiunzione “e”) e, a un tempo, garantire la coerenza logica del sistema (Cass.II, n. 26041/2019). Nell'art. 1119 c.c. viene in evidenza il termine di comodità dell'uso della cosa che deve essere comunque garantito. Di questa è stata data dalla giurisprudenza diversa interpretazione. La maggiore o minore comodità di uso va valutata, oltre che con riferimento all'originaria consistenza ed estimazione della cosa comune, considerata nella sua funzionalità piuttosto che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto fra le utilità che i singoli condomini ritraevano da esse e le utilità che ne ricaverebbero dopo la divisione (Cass. II, n. 19356/2022; Cass. II, n. 867/2012; Cass. II, 7667/1995). Nello stesso senso precedente giurisprudenza di merito, che aveva puntato sulla necessità, al fine di escludere la divisibilità della parte comune, di considerare non solo la cessazione dell'utilità della stessa, in via generale, ma anche l'incidenza della separazione sull'utilizzo del bene esclusivo (Trib. Roma 21 marzo 2006). Si è, altresì, parlato di convenienza economica della divisione, da verificare in ragione dell'entità della spesa che i singoli condomini sarebbero tenuti a sopportare per provvedere, individualmente, ai costi di beni e servizi che in precedenza erano sostenuti dal condominio, anche se gli stessi vi partecipavano in relazione alla propria quota. In quest'ottica è stato affermato che la divisione non sarebbe consentita allorché la spesa per realizzarla fosse sproporzionata rispetto al valore della cosa (Trib. Padova 21 marzo 1986). I beni divisibili ed indivisibili: fattispecieOggetto dell'art. 1119 c.c. sono le «parti comuni dell'edificio»: terminologia del tutto generica che, nel silenzio della legge, sta ad indicare non solo le parti, intese nella loro materialità, ma anche i «servizi comuni». La ratio dell'inseparabilità delle parti comuni è stata individuata nel rapporto di accessorietà funzionale che si instaura, fino dalla nascita del condominio, tra le parti comuni e quelle di proprietà esclusiva, per effetto del quale il singolo partecipante non può pretendere unilateralmente di disporre separatamente, senza il consenso degli altri, delle parti comuni come se fossero autonome ed indipendenti dalle altee di sua proprietà esclusiva (Celeste). Una sorta di divisibilità ab origine è ammessa dalla giurisprudenza allorché, al momento della costituzione del condominio ed in conseguenza della quale vengono trasferiti ai singoli acquirenti delle proprietà esclusive anche le corrispondenti quote delle parti comuni, il costruttore originario riservi a sé stesso o ad uno o più acquirenti la proprietà esclusiva di beni che per struttura ed ubicazione dovrebbero essere considerati comuni. Tale destinazione, è stato precisato, deve risultare in modo chiaro ed inequivocabile dal titolo, poiché in seguito alla formazione del condominio ed al passaggio delle quote della proprietà indivisa sui beni comuni non è più consentita la disponibilità separata a causa dei concorrenti diritti degli altri condomini (Cass. II, n. 3257/2004). Quanto all'individuazione dei beni o servizi cui si applica l'art. 1119 c.c. si deve fare riferimento all'art. 1117 c.c. che, modificato nella sua nuova formulazione e pur non costituendo un'elencazione esaustiva, individua le parti comuni dell'edificio. Appare difficoltoso, in astratto, definire quali siano i beni indivisibili e quali no, così come sembra potersi affermare che le parti separabili siano molto limitate. Sicuramente non sono divisibili tutte le parti necessarie all'uso comune, in quanto fondamentali per l'esistenza stessa del condominio, così come non lo sono tutte le opere ed installazioni che sono destinate all'uso comune (come ad esempio gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione del gas, dell'energia elettrica, del riscaldamento e condizionamento centralizzati e così via). Alcuni autori hanno, infatti, rilevato che i beni non divisibili esauriscono quasi interamente la categoria dei beni condominiali (Giuggioli-Giorgetti, 131), mentre altri hanno evidenziato che l'indivisibilità sancita dall'art. 1119 c.c. sarebbe espressione di un indiscusso favor legislativo nei confronti della comunità (Branca, 367), anche con riferimento alla circostanza che in talune situazioni la suddivisione dei beni si potrebbe rivelare auspicabile e persino vantaggiosa, come nel caso in cui in un edificio, pur se costituente unico corpo architettonico, sia formato da elementi contraddistinti da una certa indipendenza funzionale (PerettiGriva, 84). In questo ambito è stato affermato sia il legame materiale di incorporazione che rende le cose comuni ed i piani o le porzioni di piano indissolubilmente legate alle seconde (muri, pilastri, travi portanti, tetti, fondazioni, ecc.), con conseguente impossibilità di una loro separazione, sia una congiunzione tra cose che possono essere fisicamente separate senza pregiudizio reciproco, data dalla destinazione, la quale, a sua volta, importa un legame di diversa resistenza che determina o meno l'indivisibilità (Cass. II, n. 962/2005). Peraltro, con risalente decisione, si era rilevato che il principio della non divisibilità delle parti comuni era stato già previsto nel codice civile del 1865, in forza del combinato disposto degli artt. 562 e 682 secondo i quali tetti, lastrici solari, muri perimetrali, accessi e portoni erano stati esclusi dal frazionamento (Cass. II, n. 267/1969). Non manca una considerevole casistica giurisprudenziale che affronti la questione in termini di possibilità di pervenire alla divisione delle parti e dei servizi comuni del condominio, tenendo conto che, sebbene il principio di cui all'art. 1119 c.c. sia di carattere generale, ogni decisione è determinata dalla peculiarità del caso. Destinare il cortile comune a parcheggio non dà luogo alla divisione del cortile, ma costituisce innovazione avente ad oggetto le modalità di uso del cortile comune, con finalità di razionalizzare tale uso e quindi rendere più comodo il godimento dell'area, senza pregiudicare il godimento di alcuno dei partecipanti alla comunione (Cass. II, n. 6573/2015). Già in precedenza la Corte si era espressa nel senso che individuare nel cortile singoli posti, eventualmente delimitandoli con apposite strisce di segnaletica orizzontale, non comporta una immutazione materiale innovativa, o uno scioglimento della comunione del bene, poiché sia la destinazione, sia la consistenza fisica, sia la comproprietà del cortile non sono modificate da tali opere, che semplicemente ne rendono più ordinato e razionale l'uso paritario (Cass. II, n. 5997/2008). Differente il caso in cui dopo la divisione il cortile fosse destinato a fabbricarvi autorimesse, perché in questo caso si violerebbe il dettato dell'art. 1119 c.c. (Cass. II, n. 4806/1978). Non sono divisibili i c.d. «volumi tecnici» ossia quelli destinati a contenere gli impianti tecnici del fabbricato (quali i vani ascensore, caldaia, autoclave, contatori) o altri beni comuni (quale il vano scale) e quelli insuscettibili di separato o autonomo godimento, per essere vincolati all'uso comune, in virtù della loro naturale destinazione o della loro connessione materiale e strumentale rispetto alle singole parti dell'edificio (Cass. II, n. 4528/2003); gli impianti di erogazione dei servizi comuni, pena la loro inattitudine ad assolvere la loro funzione in caso di modifiche radicali sulle installazioni esistenti che, comunque, hanno l'effetto di alterare la funzionalità che era propria dell'intero complesso (Trib. Roma 25 ottobre 2016); l'impianto fognario (App. Napoli 4 marzo 2011); l'area di accesso a due fabbricati contigui, ma di diversi proprietari, in relazione alla quale il giudice deve tener conto della diminuzione del valore complessivo dell'area, che sarebbe causata dalla divisione, nonché degli effetti che essa produrrebbe sull'efficienza, funzionalità e comodità dell'accesso ai fabbricati (Cass. II, n. 7044/2015) e, più in generale, la scala, che serve di accesso a diversi piani o frazioni di piano di un edificio e che deve essere considerata, nella sua struttura unitaria e in relazione al fine a cui serve, come bene comune indivisibile per presunzione di legge, salvo che il contrario non risulti dal titolo. Conseguentemente vanno considerati tra le cose comuni anche i pianerottoli, che costituiscono elementi della scala, della quale rendono possibile la funzione (Cass. II, n. 38/1963). BibliografiaAndreoli, I regolamenti di condominio, Torino, 1961; Bisogni-Sabeone, I beni comuni e la loro utilizzazione, Padova, 1993; Branca, Comunione e condominio negli edifici, Libro terzo della proprietà, Bologna-Roma, 1982; Cassano, Manuale pratico del nuovo condominio, Santarcangelo di Romagna, 2013; Celeste, Divisione delle parti comuni dell'edificio, in Condominioeelocazione.it, 2018; De Renzis-Ferrari-Nicoletti-Redivo, Trattato del condominio, Padova, 2008; Dogliotti-Figone, Il condominio, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, Torino, 2001; Giuggioli-Giorgetti, Il nuovo condominio, Milano, 2013; Lazzaro-Di Marzio-Petrolati, Codice delcondominio, Milano, 2017; Nasini, Locazione (o costituzione del diritto di superficie) a favore dei condomini o terzi avente ad oggetto beni comuni per realizzare interventi fotovoltaici: delibere, maggioranze e limiti, in Arch. loc. 2011, 147; Peretti-Griva, Il condominio di case divise in parti, Torino, 1960; Rezzonico, Manuale del condominio, Milano, 2008; Salis, Patto di indivisione e condominio di case, in Riv. giur. edil. 1963, I, 1121; Scrima, Le parti comuni, in Il nuovo condominio, Torino, 2017. |