Codice Civile art. 2341 bis - Patti parasociali (1).

Angelina-Maria Perrino

Patti parasociali (1).

[I]. I patti, in qualunque forma stipulati, che al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società:

a) hanno per oggetto l'esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano;

b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano;

c) hanno per oggetto o per effetto l'esercizio anche congiunto di un'influenza dominante su tali società, non possono avere durata superiore a cinque anni e si intendono stipulati per questa durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore; i patti sono rinnovabili alla scadenza.

[II]. Qualora il patto non preveda un termine di durata, ciascun contraente ha diritto di recedere con un preavviso di centottanta giorni (2).

[III]. Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai patti strumentali ad accordi di collaborazione nella produzione o nello scambio di beni o servizi e relativi a società interamente possedute dai partecipanti all'accordo.

(1) Articolo inserito dall' art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6.

(2) V. Avviso di rettifica in G.U. 4 luglio 2003, n. 153.

Inquadramento

I patti parasociali sono per struttura e funzione estranei al negozio sociale; parrebbe quindi, per essi, destinata a prevalere la dimensione dello scambio propria del contratto. Essi nascono, tuttavia, per influenzare la vita sociale, nei suoi diversi momenti, assembleare, gestionale e di controllo, mirando a condizionarla dall'esterno.

Il nesso tra contratto sociale e negozi a esso estranei, ma volti ad influirvi, non assume quindi veste di mera correlazione economica, bensì di collegamento negoziale (nella connotazione esplicata da Cass.S.U., n. 19785/15).

Il nesso di collegamento, sia pure accessorio, è da solo sufficiente a dar conto della ripercussione unilaterale diretta delle vicende del contratto di società sui patti parasociali. Risultano per conseguenza ultronee le costruzioni della propagazione delle vicende con altri meccanismi comunque proposte in dottrina, come, ad esempio, quello della presupposizione (Torino, 33; Divizia, 620 ss.).

Oltre che sul piano negoziale, peraltro, i patti possono acquisire altresì una dimensione organizzativa.

Le convenzioni, difatti, se destinate a durare nel tempo, finiscono col mimare tratti della società, potendo giungere a fissare griglie di regole prestabilite, che i paciscenti sono tenuti ad osservare di volta in volta e stabilmente nel tempo (Rordorf, 796), soprattutto qualora si atteggino come sindacati di voto.

La fisionomia dei patti parasociali risulta, in definitiva, dalla combinazione della dimensione negoziale con quella organizzativa.

(sull’esclusione della dimensione della parasocialità con riguardo agli accordi con causa traslativa, nonché a quelli tra società o soci e terzi futuri sottoscrittori di partecipazioni e, ancora, a quelli costitutivi di diritti reali parziali di godimento o di garanzia, Donativi, 61 ss).

Regime giuridico: i patti parasociali nel codice civile e nel d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.

I patti parasociali erano già contemplati per le società quotate e in parte regolati dagli artt. 122 e seguenti del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58. Con la riforma del diritto societario il legislatore ha inteso intervenire sulla loro possibile proiezione sul mercato, provando a ridurne gli effetti distorsivi e ad amplificare quelli capaci di rinsaldare gli equilibri sociali, là dove ha promosso le convenzioni capaci di stabilizzare gli assetti proprietari ed il governo della società.

Il che spiega la scelta, dopo la previsione nel d.lgs. n. 58/1998 dei patti per le società quotate, di circoscrivere l'ambito di applicazione degli artt. 2341-bis e 2341-ter c.c. alle società per azioni (e per accomandita per azioni e alle cooperative, in base al richiamo contenuto nell'art. 2454 c.c.), nonché alle società, anche non per azioni, che controllino quelle per azioni, ossia alle società maggiormente esposte a rapida circolazione delle partecipazioni e a frammentazione della compagine sociale.

Esplicita è al riguardo la relazione al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, secondo cui è con riguardo al tipo sociale società per azioni che è più sentita l'esigenza di garantire regole certe e definite in considerazione della maggiore rilevanza per il pubblico e per il mercato finanziario.

Nella medesima direzione si è mosso, più di recente, il d.lgs. 19 novembre 2007, n. 229, che, nell'attuare la Direttiva 2004/25/CE concernente le offerte pubbliche di acquisto, ha integrato il d.lgs. n. 58/1998:

- assoggettando alla disciplina dell'art. 122 i patti «volti a favorire o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un'offerta pubblica di acquisto o di scambio, ivi inclusi gli impegni a non aderire ad un'offerta» (art. 4);

- sanzionando con l'inefficacia a norma dell'art. 104-bis, comma 2, gli accordi che, nel periodo di adesione all'offerta, fissino limitazioni al diritto di voto nelle assemblee volte a deliberare sugli atti e sulle operazioni diretti a contrastare il conseguimento delle finalità stabilite dall'art. 104 del d.lgs. n. 58/1998 (art. 2);

- sanzionando con l'inefficacia prevista dall'art. 104-bis, comma 3, i patti parasociali che prevedano limitazioni al diritto di voto nelle assemblee volte a modificare lo statuto o a nominare gli amministratori dopo la chiusura di un'offerta pubblica di acquisto che abbia fatto acquistare all'offerente almeno il 75% del capitale con diritto di voto nelle deliberazioni di nomina e di revoca degli amministratori e dei componenti il consiglio di gestione e di sorveglianza (art. 2).

Non è esclusa la possibilità che patti parasociali siano stipulati per altre forme di società.

Lo stesso legislatore, anzi, lo ha ammesso, allorquando ha previsto la competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale («in materia di patti parasociali, anche diversi da quelli regolati dall'articolo 2341-bis del codice civile»: art. 3, comma 2, lett. c, del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168); ma a questi patti, estranei al novero di quelli contemplati dal d.lgs. n. 58/1998 e dal codice civile, resterà applicabile, come la stessa Relazione ha sottolineato, la disciplina generale dell'autonomia privata e dei contratti.

Della non coincidenza degli ambiti ha dato conto anche la giurisprudenza di legittimità, la quale, nel definire come patto parasociale atipico una transazione volta a ridefinire i rapporti già regolati da un precedente accordo parasociale, poiché stabiliva un regolamento complementare rispetto a quello statutario, ha sottolineato che la nozione di accordo parasociale contemplata dall'art. 3, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 168 del 2003, è più ampia di quella prevista dall'art. 122 del TUF e dall'art. 2341-bis c.c., posto che vi rientrano tutti gli accordi con cui i soci, o alcuni di essi, attuano un regolamento di rapporti, non vincolante nei confronti della società, difforme o complementare rispetto a quanto previsto dallo statuto sociale (Cass., sez. VI, n. 2335/23).

Manca, quindi, un paradigma di disciplina della convenzione parasociale, perché sono prospettabili tre diversi orditi di regolamentazione, soltanto in parte reciprocamente permeabili:

- il primo, concernente i patti parasociali inerenti a società quotate, insensibile alle regole fissate dal codice civile, come si evince non soltanto, indirettamente, dal comma 2 dell'art. 2325-bis c.c., secondo cui «le norme di questo titolo si applicano alle società con azioni quotate in mercati regolamentati in quanto non sia diversamente disposto da altre norme di questo codice o di leggi speciali», ma anche, direttamente, dal comma 1 dell'art. 3 d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, il quale, nell'introdurre l'art. 9.69 nel d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ha conseguentemente aggiunto all'art. 122 del d.lgs. n. 58/1998 il comma 5-bis in virtù del quale «ai patti di cui al presente articolo non si applicano gli artt. 2341-bis e 2341-ter del codice civile»;

- il secondo, riguardante i patti menzionati dagli artt. 2341-bis2341-ter c.c., relativi, si è visto, alle sole società per azioni, nonché alle società, anche non per azioni, che controllino queste ultime, che va integrato, per gli aspetti non disciplinati, con le regole ritraibili dal diritto dei contratti e dallo stesso diritto delle società;

- il terzo, relativo ai patti concernenti società diverse dalle precedenti, che si traduce senz'altro nell'applicazione di regole e prescrizioni dell'autonomia privata, del diritto dei contratti e del diritto delle società.

Le integrazioni di disciplina sono anzitutto apprestate dal complesso delle disposizioni di diritto comune sulle associazioni non riconosciute, allorquando le convenzioni diano un assetto organizzativo ai rapporti che s'instaurano tra i paciscenti, funzionali all'esecuzione nel tempo dei patti, pur dovendosi escludere che la struttura così delineata possa acquisire soggettività giuridica (Torino, 86 e 90).

Ne deriva una particolare complessità dei tradizionali controlli di causalità, liceità e meritevolezza, cui i patti vanno sottoposti, i quali da un lato risentono delle relazioni con i canoni di ordine pubblico economico che presidiano il diritto delle società e dall'altro vanno coordinati col principio di tipicità delle società.

I contratti parasociali menzionati dal legislatore sono difatti atipici (Macrì,  passim ), perché il legislatore non ne detta uno schema regolamentare astratto compiuto.

Ai patti menzionati dal legislatore si aggiungono d'altronde quelli che il legislatore non menziona, o che menziona per escluderli dall'ambito delle regole che appronta: si pensi ai patti strumentali ad accordi di joint venture e a quelli relativi a società interamente possedute dai partecipanti all'accordo, che l'art. 2341-bis, u.c., c.c. esclude dal proprio ambito di applicazione, o ai patti di sindacato difensivi di minoranza, in relazione ai quali si è coniata l'etichetta di patti extrasociali, non soggetti alla regole speciali previste dal codice civile (Rescio, 447).

È sufficiente, invece, il controllo di legalità qualora il vincolo assunto dai contraenti si ponga in contrasto con norme imperative o appaia comunque tale da configurare uno strumento di elusione di quelle norme o dei principî generali dell'ordinamento che a esse sono sottesi (Cass. I, n. 6898/2010; sulla natura parasociale degli impegni a non stipulare patti parasociali, Donativi, 69).

Si profilano poi ulteriori necessità d'integrazione, qualora si abbia riguardo a società straniere in Italia o a società italiane all'estero.

Nell'interpretazione e nell'applicazione della normativa di diritto internazionale privato delle società resta ancora fondamentale la distinzione tra ordinamento che definisce l'identità e l'organizzazione della società, cui si applica la lex societatis e ordinamento che ne regola le attività, soggetta alla lex mercatus (Ballarino, 3 ss.).

Il Regolamento (CE) n. 593/2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), esclude difatti dal proprio ambito di applicazione (art. 1, lett. f), tra le altre, le «questioni inerenti al diritto di società». Sul punto, si è stabilito (Cass. S.U., n. 26984/2020) che, nelle controversie relative a patti parasociali, non trova applicazione il titolo di giurisdizione esclusiva che l'art. 22, punto 2, del Regolamento Ce n. 44 del 2001, riserva al giudice dello Stato membro in cui si trova la sede della società per le cause sulla validità, nullità o scioglimento della stessa o delle decisioni dei suoi organi; ciò in ragione della necessità di interpretare in senso restrittivo le regole che, fissando titoli giurisdizionali speciali o esclusivi, pongono deroghe al titolo generale di cui all'art. 2 del Regolamento medesimo - il quale radica la giurisdizione in capo al giudice dello Stato membro nel cui territorio il convenuto ha il proprio domicilio -, nonché in considerazione del rilievo che l'ambito circoscritto alle parti dell'efficacia dei patti parasociali esclude che essi possano incidere sulla "validità delle decisioni" degli organi della società, rimanendo quest'ultima soggetto terzo rispetto a detti patti.

I patti parasociali hanno suscitato l'attenzione altresì della giurisprudenza unionale, che ne ha fatto risaltare l'incisività anche sui collegamenti fra enti.

Il riferimento è a casi di appalto pubblico, in cui occorreva verificare se l'amministrazione aggiudicatrice, come ad esempio un ente locale, potesse essere dispensata dall'avviare una procedura di aggiudicazione, in ragione dell'esercizio sull'affidatario di un controllo analogo a quello da essa praticato sui propri servizi.

Ebbene, in ipotesi del genere, si è reputato potenzialmente idoneo a conferire il controllo, tale da esonerare l'amministrazione dallo svolgimento della procedura di aggiudicazione, la sottoscrizione di un patto parasociale (Corte giustizia UE 29 novembre 2011, cause C-182 e 183/11, Soc. Econord c. Comune di Cagno). Inoltre, nel dettare la nozione di impresa controllante ai fini della Direttiva n. 98/59/Ce del 20 luglio 1998, ha riconosciuto la rilevanza dei patti tra soci in seno al datore di lavoro (Corte giustizia UE 7 agosto 2018, cause C-61, 62 e 72/17, Bichat e altri).

La parasocialità: identificazione della fattispecie.

Ai fini dell'identificazione dei requisiti minimi del patto parasociale si parte dalla considerazione che esso riguarda i rapporti personali tra i soci, risultando in quanto tale estraneo al piano sociale, concernente l'organizzazione della società (Cass. I, n. 13877/2017; Cass. I, n. 9846/2014; Cass. n. 6898/2010).

Approssimativo e non risolutivo è sembrato il criterio formale, costruito sull'inserimento della convenzione nel documento costitutivo della società, di modo che l'estraneità del patto al documento ne evidenzierebbe la natura parasociale: non si può escludere che i patti risultanti da un documento autonomo possano avere efficacia sociale, soprattutto in considerazione del fatto che la prassi applicativa conosce ipotesi di patti stipulati da tutti i soci.

Inaffidabile è anche il criterio volontaristico, che indaga la volontà delle parti in ordine alla natura sociale di una determinata pattuizione, soprattutto ove si consideri che anche quanto alla società per azioni gli elementi dello schema tradizionalmente delineato dall'art. 2247 c.c., calibrato sullo svolgimento di una comune attività d'impresa, che si valga di risorse comuni, si fondi sulla volontà comune ed implichi un rischio comune, sembrano minati sin dalle fondamenta.

Il fondamento della società per azioni, difatti, non è più necessariamente il contratto, che è la radice della comunanza: l'art. 2328 c.c. prevede, a seguito della riforma, che la società possa essere costituita, oltre che per contratto, anche per atto unilaterale.

Il criterio identificativo finisce col risiedere, nella gran parte dei casi, nella portata degli effetti dell'obbligazione derivante dall'accordo e, quindi, in definitiva, su considerazioni empiriche: il patto parasociale, a differenza da quello sociale, genera diritti e obblighi personali tra i soci, ma non produce, almeno direttamente, effetti sul funzionamento e sull'organizzazione della società.

Ben si può verificare che un patto tipicamente parasociale, come quello di prelazione, dal quale scaturiscono soltanto obblighi e diritti reciproci in capo alle parti che l'hanno stipulato, si trovi collocato nell'atto costitutivo o nello statuto sociale.

Un tale patto può essere stipulato reciprocamente anche tra tutti i soci, i quali perciò si obbligano ad accordarsi l'un l'altro preferenza in caso di alienazione della quota di partecipazione in società di cui ciascuno sia titolare, senza che per questa sua conformazione esso cambi natura, in quanto seguita a non essere destinato a riflettersi sulla conformazione dell'ente societario.

Può essere difatti connaturale al patto parasociale, oltre alla dimensione dello scambio, altresì quella organizzativa, propiziata da clausole come quelle di prelazione o di gradimento, la pattuizione delle quali si prefigge d'incidere sul rapporto tra l'elemento capitalistico e quello personale della società, accrescendo il peso del secondo rispetto a quello del primo nella misura che i soci ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell'ente.

Si è quindi sostenuto (Cass. I, n. 7614/1996; conf., Cass. I, n. 12012/1998) che, se è vero che una clausola di prelazione non può essere introdotta a maggioranza nello statuto della società, se prima essa non sia stata approvata da tutti i soci, al fine di potere a essa riannodare efficacia reale e non soltanto obbligatoria, vero è altresì che non è necessario il consenso unanime dei soci per eliminare dallo statuto sociale una clausola di prelazione a suo tempo regolarmente stipulata e inserita, a fini organizzativi dell'ente, in detto statuto. Ciò perché, si è spiegato, il significato e l'effetto di una simile deliberazione stanno appunto – ed esclusivamente – nel privare quella clausola della sua valenza sociale, ossia della sua capacità di incidere sul modello organizzativo che la società si è data, con il conseguente venir meno di ogni efficacia reale del patto di prelazione, indipendentemente dagli eventuali riflessi che ne possano scaturire sulla valenza parasociale del medesimo patto (quella, invece, non disponibile da parte della maggioranza).

Una tale ipotesi dà conto della categoria, elaborata proprio in relazione ai patti parasociali, dell'efficacia corporativa, che si traduce nell'opponibilità dei patti alla società e che si distingue dall'efficacia reale, in ragione dell'inopponibilità di essi ai terzi; il che si verifica soprattutto nel caso della sottoscrizione del patto da parte di tutti i soci (Portale, 1).

In realtà, poiché la società origina pur sempre da un contratto e il contratto è integrato dallo statuto, che fissa le regole di vita interna e di funzionamento dell'ente, la clausola di prelazione in esso inserita diviene parte del complessivo regolamento contrattuale, che, ovviamente, non può che riguardare tutti i soggetti che ne sono parti, ossia in primis la società e poi tutti i soci, compresi quelli pretermessi, e anche, eventualmente, i non soci ai quali il diritto di prelazione sia stato riconosciuto (si veda, in argomento, Trib. Milano, 20 ottobre 2016, secondo cui, posto che l'atto di vendita di partecipazioni societarie in violazione del diritto di prelazione statutariamente previsto è valido, ma inopponibile alla società ed ai soci, pur rimanendo ferma, se non impugnata, la deliberazione di aumento del capitale sociale approvata col voto del socio titolare delle quote così acquistate, sono comunque inefficaci gli acquisti, in esito al disposto aumento, della parte di capitale sociale corrispondente alla quota oggetto dell'atto di vendita inopponibile).

I partecipanti ai patti.

Non riveste, invece, forza qualificante l'aspetto soggettivo del patto, ossia il piano dei suoi partecipanti.

Il legislatore ha sul punto preferito un atteggiamento agnostico, giacché sia l'art. 2341-bis c.c., sia l'art. 122 del d.lgs. n. 58/1998 nulla prevedono circa le possibili parti dell'accordo parasociale, lasciando dunque aperta la possibilità che esso venga stipulato anche tra o con soggetti diversi dai soci.

La nozione di patto parasociale non presuppone necessariamente che tutti i paciscenti rivestano la qualità di socio: rimane, cioè, parasociale anche il patto concluso tra soci e terzi, qualora l'accordo abbia ad oggetto l'esercizio da parte dei soci di diritti, facoltà o poteri loro spettanti nella società (Cass. I, n. 15963/2007): bisogna aver riguardo non già al contenuto del patto o della clausola, bensì alla loro collocazione entro l'area del sociale, secondo che i soci abbiano incluso le regole da essi stabilite nello statuto della società o, viceversa, in stipulazioni collaterali.

Non si ravvisano, quindi, ostacoli alla stipulazione dei patti da parte, oltre che dei soggetti cui spetta l'esercizio delle prerogative sociali, come il creditore pignoratizio o l'usufruttuario, anche degli obbligazionisti, i quali esercitano il diritto di voto nell'assemblea loro riservata, nonché dei titolari degli strumenti finanziari partecipativi previsti dagli artt. 2346, u.c., 2349, comma 2, e 2447-ter, lett. e) c.c., i quali pure votano nelle situazioni previste dagli artt. 2351, comma 5 e 2447-octies c.c.

Sono quindi ravvisabili diverse categorie di patti parasociali, che annoverano, oltre ai patti tra soci ed a quelli tra soci e terzi, anche quelli tra soci e società, quelli tra terzi e società e quelli tra terzi non soci (nel senso, invece, che nella società per azioni i patti parasociali richiedono la necessaria partecipazione di almeno un socio, in ragione del collegamento funzionale col contratto di società, vedi Cons. St. V, n. 5845/2008). Coerente è quindi la giurisprudenza secondo cui il patto parasociale non è inciso dalla successiva modifica, seppur radicale, delle quote di partecipazione dei contraenti al capitale sociale (Cass. I, n. 18138/2018).

Quanto ai patti che coinvolgono la società, con riguardo

al caso della stipulazione di una clausola di prelazione di acquisto di quote sociali contenuta in un patto parasociale e, nel contempo, ancora di analoga clausola di prelazione statutaria (sia pure avente un oggetto più limitato, riguardando i soli atti di trasferimento a titolo oneroso e non anche quelli a titolo gratuito), la giurisprudenza (Cass. I, n. 12956/2016) ha chiarito che, mentre la prelazione convenzionale ha esclusivamente effetti obbligatori tra le parti e la sua eventuale violazione, comportando unicamente un obbligo di risarcimento del danno in capo al soggetto inadempiente, non pone in discussione il corretto funzionamento dell'organizzazione sociale o la formazione del capitale, la prelazione statutaria ha efficacia reale e, in caso di violazione, è opponibile anche al terzo acquirente.

Segue. La trasmissibilità della qualità di parasocio.

È al socio uti singulus e non già alla partecipazione sociale che pertengono le situazioni di diritto e di obbligo fissate dal patto parasociale, che assumono quindi connotazione personale, di modo che sono tendenzialmente intrasmissibili, anche qualora si abbia riguardo all'obbligo scaturente da un sindacato di blocco, che, pure, è volto a tutelare la compattezza della compagine sociale.

La previsione di vincoli alla circolazione della partecipazione è anch'essa un'obbligazione parasociale, pur sempre di natura esclusivamente personale, di modo che il riferimento agli eventuali futuri titolari delle azioni attualmente detenute dai firmatari del patto altro significato non può assumere se non quello di un impegno a cedere dette azioni solo a chi sia a propria volta disposto ad aderire al medesimo accordo parasociale (Cass. I, n. 9975/1995).

Anche la trasmissione delle situazioni soggettive di diritto e di obbligo scaturenti dai patti, dunque, richiede autonoma forma negoziale.

Qualora, inoltre, la configurazione del patto come contratto aperto all'adesione di terzi incida sull'assetto di controllo della società, può insorgere, quanto alle società quotate, al cospetto dei presupposti contemplati dagli artt. 106 e 109 d.lgs. n. 58/1998, l'obbligo solidale di offerta pubblica di acquisto (Rordorf, 786).

Profili particolari si prospettano poi in relazione alla trasmissibilità mortis causa delle situazioni in questione.

Non sembrano ravvisabili, si è sottolineato (Divizia, 626), significative differenze rispetto alla trasmissione inter vivos, nel caso di attribuzione della partecipazione sociale a titolo di legato. Questo perché, trattandosi di un'attribuzione a titolo particolare, pur sempre viene in considerazione la cessione della partecipazione e dei diritti e obblighi a essa relativi, stavolta da parte del testatore, in favore di un soggetto determinato; di modo che la natura personale delle situazioni soggettive in questione opera anche in relazione al legatario, impedendo la trasmissione.

Rispetto alla successione a titolo particolare, in quella a titolo universale manca la volontaria dismissione della partecipazione azionaria, sia nel caso di successione ab intestato, poiché la successione è regolata dal legislatore e non già dal testatore, sia anche in quella testamentaria, perché la volontà del testatore è indirizzata a disciplinare la sorte dell'intero asse ereditario, non già specificamente della partecipazione sociale alla quale afferisca il patto parasociale.

L'assenza di rilevanza della volontà dovrebbe far propendere per la conferma, anche per quest'aspetto, della regola dell'intrasmissibilità.

Qualora le parti del patto parasociale abbiano convenuto la trasmissibilità mortis causa della posizione di contraente, implicitamente, ma inequivocabilmente affermandone la fungibilità, prevale la dimensione di istituzione del patto, che evoca l'applicazione, in via integrativa, delle norme sulle associazioni non riconosciute e, in particolare, dell'art. 24 c.c., secondo il quale, appunto, «la qualità di associato non è trasmissibile, salvo che la trasmissione sia consentita dall'atto costitutivo o dallo statuto» (Divizia, 628, che esprime, peraltro, perplessità sull'applicabilità della disciplina nel caso del legato).

La natura modificativo-evolutiva di fusione e scissione comporta che esse non siano di ostacolo all’operatività del patto parasociale (sull’applicabilità dell’art. 111 c.p.c. in caso di scissione, vedi Cass. S.U., n. 23225/2016; cfr., anche Cass. S.U., n. 21970/2021, la quale sottolinea che nel caso di fusione per incorporazione tutti i rapporti, sia sostanziali, sia processuali, proseguono in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione: "proseguono", in quanto ne muta appunto il titolare, sebbene l'oggettivo rapporto resti il medesimo).

A seguito e per effetto di entrambe le operazioni straordinarie, l'efficacia obbligatoria del patto parasociale parrebbe quindi compatibile col subentro del socio della società risultante dalla fusione o dall'incorporazione nel patto parasociale accessorio.

Gli effetti del patto parasociale.

Frequente è il ricorso allo schema della stipulazione a favore del terzo (Cass. I, n. 17200/2013), invocato anche a proposito del patto concluso, in occasione della cessione del pacchetto azionario, tra vecchi e nuovi soci, in forza del quale i primi s'impegnano a porre in grado la società di pagare determinati debiti pregressi, con conseguente legittimazione a pretenderne l'adempimento, nei confronti dei promittenti, sia del terzo beneficiario, la società, sia degli stipulanti, i nuovi azionisti, moralmente ed economicamente interessati a che il patto sia adempiuto in favore della società di cui fanno parte (Cass. I, n. 2493/1993).

La ricostruzione è stata ripresa anche successivamente (Cass. I, n. 9846/2014), là dove si è fatto leva sulla natura dei patti parasociali, che riguardano i rapporti personali tra soci, per affermare che allorquando taluni soci si impegnano a eseguire prestazioni a beneficio della società si integra la fattispecie del contratto a favore di terzo, ai sensi dell'art. 1411 c.c.; di questo, si è aggiunto, sono legittimati a pretendere l'adempimento sia la società, quale terzo beneficiario, sia i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati a che l'obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte. Lo schema è stato applicato anche in relazione all'amministratore, là dove si è stabilito che affinché l'amministratore designato in un patto parasociale acquisti, ai sensi dell'art. 1411 c.c., il diritto soggettivo all'espressione del voto in assemblea, da parte dei soci sottoscrittori del patto, in favore della sua nomina e di un determinato compenso, in esso decisi, occorre che sia accertato l'intento dei soci di attribuire direttamente ed immediatamente al terzo un diritto soggettivo, potendo allora, in tal caso, l'amministratore vantare una pretesa risarcitoria al riguardo, ove ne sussistano tutti gli elementi costitutivi (Cass, I, n. 36092/2021).

La giurisprudenza di merito tende, invece, a escludere la configurabilità della stipulazione a favore del terzo, in base alla considerazione che, in virtù del patto parasociale, non può scaturire tra stipulanti e società soggetti alcuna posizione attiva o passiva, e quindi reciprocamente di credito o di debito (Trib. Milano 19 aprile 2010, nonché, con riferimento al patto di non concorrenza, Trib. Arezzo 13 luglio 2011).

L'estraneità funzionale, prima ancora che morfologica, al contratto sociale dei patti parasociali, in cui si compendia l'essenza della parasocialità, comporta altresì l'applicazione delle regole proprie del patto e non già di quelle del contratto di società.

Al riguardo, la giurisprudenza ha segnalato che:

- sul piano delle regole di competenza, al cospetto di una clausola contenuta in un patto parasociale che preveda la devoluzione alla competenza di un foro esclusivo qualsiasi controversia concernente la validità, l'interpretazione, l'esecuzione o la risoluzione del patto, spetta al giudice individuato da tale clausola la cognizione della domanda cautelare fondata sull'asserita violazione del patto medesimo, avente ad oggetto il diritto di prelazione e di gradimento in occasione della cessione di quote di una società, non rilevando in contrario il fatto che lo statuto della società delle cui quote si tratta individui un diverso foro per le controversie relative ai rapporti sociali che la riguardano (Trib. Torino, 3 novembre 2006);

- su quello del regime della prescrizione, è inapplicabile la prescrizione breve quinquennale ed è applicabile, invece, quella ordinaria: ciò in quanto la prescrizione stabilita dall'art. 2949 c.c. riguarda quei diritti che derivano dalle relazioni che si istituiscono fra i soggetti dell'organizzazione sociale in dipendenza diretta del contratto di società o di situazioni determinate da relazioni sociali (Cass. I, n. 14094/2004).

L'accessorietà e, comunque, l'estraneità del patto parasociale al contratto sociale ha per altro verso indotto a ritenere che, in tema di imposta sulle donazioni, se la cessione contestuale del capitale avvenga in parti uguali ed i legittimari prevedano misure per assicurare il controllo societario ai sensi dell'art. 2359, comma 1, n. 1 c.c. in un patto parasociale non registrato accessorio e successivo, l'esenzione prevista dall'art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346/1990 non trova applicazione, atteso che i presupposti del trattamento agevolativo devono sussistere, per espressa previsione normativa, al momento della stipula del patto di famiglia (Cass, V, n. 6591/2021).

Durata dei patti, recesso e rinnovazione.

Tra i pochi tratti di disciplina apprestati dal legislatore in relazione ai patti parasociali che menziona e riconosce, v'è la previsione della loro durata: di tre anni quanto ai patti accessori a società quotate o a quelle che le controllano (art. 123 d.lgs. n. 58/1998); di cinque anni per quelli accessori a società per azioni (escluse le joint venture contemplate dall'art. 2341, u.c., c.c.) o a società che le controllano. Chiude la disciplina l'art. 223-undecies disp. trans. c.c., secondo il quale il limite di cinque anni si applica ai patti parasociali stipulati prima del 1° gennaio 2004 e decorre dalla medesima data.

La durata più lunga prevista dal codice civile si confà alla tendenziale maggiore stabilità degli investimenti nelle società non quotate; una possibile maggiore durata dei patti è prevista per le società in house (art. 16, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 175/2016) e per quelle a partecipazione mista (art. 17, comma 4, lett. d), del decreto).

A ogni modo in entrambi i casi la clausola dei patti che ne preveda un termine di durata superiore a quello rispettivamente previsto di tre e di cinque anni si deve ritenere sostituita ex lege, in base allo stesso art. 2341-bis, secondo cui i patti ivi previsti «si intendono stipulati per questa durata anche se le parti hamnno previsto una durata maggiore». Si è, peraltro, precisato (Arb., 9 gennaio 2009) che i patti parasociali la cui durata è rapportata ad eventi che potrebbero verificarsi tanto il giorno successivo alla loro stipulazione, quanto molti decenni dopo, vanno considerati come stipulati a tempo indeterminato, senza che possa a essi applicarsi il limite di cinque anni previsto dall'art. 2341-bis c.c., trattandosi di norma riguardante i soli patti parasociali stipulati anteriormente alla riforma del diritto societario con durata superiore a quella massima legale stabilita dallo stesso articolo, e non anche quelli a tempo indeterminato.

Qualora il limite di durata non sia previsto, il legislatore riconosce a ciascun contraente il diritto di recesso con un preavviso di centottanta giorni, consentendogli, in definitiva, di integrare il regolamento contrattuale apponendo un termine alla durata del rapporto: mediante la titolarità del diritto le parti determinano per relationem il contenuto del contratto.

Il che evidenzia la strumentalità del termine di durata alla salvaguardia del diritto di uscita del parasocio. L'individuazione di questa ratio si presta a dar conto anche del più breve limite di durata previsto per le società quotate, per le quali la redditività potenziale è più instabile ed a ritenere che la pattuizione di accordi ragguagliati alla vita della società o a quella degli aderenti sia da equiparare a quella di accordi a durata indeterminata, col conseguente riconoscimento ai contraenti della facoltà di recesso. Si prospetta, al riguardo, l'incongruità del termine di cinque anni, perché i patti sono generalmente stipulati in relazione all'elezione degli amministratori, destinati a rimanere in carica per un triennio.

L'integrazione del regolamento contrattuale tendenzialmente perpetuo o comunque di durata indefinita mediante il conferimento del diritto di recesso, anche immediato, qualora ricorra una giusta causa (al riguardo, secondo Cass., I, n. 18138/18, anche ad assumere l'equiparazione della disciplina del recesso dal patto parasociale a quella del recesso dal contratto di società, non rientra nelle ipotesi di giusta causa di recesso dal patto parasociale il genere delle delibere dell'aumento di capitale)., risponde al principio di conservazione del contratto, del quale si salvaguarda la validità in rapporto al canone di ordine pubblico di disfavore nei confronti dei vincoli obbligatori di durata eccessiva (in relazione al regime antecedente alla riforma societaria, vedi, in termini, Cass. I, n. 6898/2010; Cass. I, n. 14865/2001; in precedenza, nel senso che il patto parasociale stipulato senza limite di durata non fosse meritevole di tutela, Cass. I, n. 9975/1995).

Quanto alle società quotate, in virtù dell'art. 123 del d.lgs. n. 58/1998 all'esercizio del diritto di recesso si applicano gli adempimenti pubblicitari stabiliti dal precedente art. 122; e la previsione si deve ritenere estesa anche al recesso per giusta causa dai patti a tempo determinato.

Autonoma facoltà di recesso è poi riconosciuta dall'art. 122, comma 3, del d.lgs. n. 58/1998, secondo cui gli azionisti che intendano aderire a un'offerta pubblica di acquisto o di scambio promossa ai sensi degli articoli 106 o 107 possono recedere senza preavviso dai patti indicati nell'art. 122.

La dichiarazione di recesso non produce effetto se non si è perfezionato il trasferimento delle azioni. Qualora il socio aderisca all'offerta pubblica di acquisto soltanto con una parte delle azioni vincolate, potrà fruire del diritto di recesso parziale dal patto parasociale. 

Si è, al riguardo, ritenuta valida la clausola russian roulette contenuta in un patto parasociale che non prevede l'applicazione delle norme sulla valorizzazione della partecipazione in caso di recesso ( Corte App. Roma 3.2.2020).

La pattuizione di clausole del patto parasociale che rispondano al medesimo obiettivo, come, ad esempio, giustappunto quella che garantisca al socio il recesso ad nutum, potrebbe lasciar ferma la maggior durata del vincolo (Rescio, Speranzin, 726, nt. 2).

Sia l'art. 2341-bis c.c., sia l'art. 123 TUF stabiliscono che i patti parasociali sono rinnovabili alla scadenza.

Si dubita che il rinnovo possa essere tacito, come espressione del principio di libertà delle forme che presidia i patti, in quanto una clausola di rinnovo tacito potrebbe schermare una convenzione senza durata, nella quale il recesso sarebbe consentito soltanto al termine di ciascun quinquennio o di ciascun triennio, a seconda della società, chiusa o quotata; ma il rinnovo tacito sembra usuale modalità di rinnovo e comunque non impedirebbe a ciascun contraente di sciogliersi dal vincolo.

Esigenze di chiarezza e di trasparenza inducono o a ritenere che le clausole di rinnovo automatico non possano funzionare a maggioranza, che il diritto di disdetta debba essere riconosciuto in maniera incondizionata e che non possano essere pattuite penali.

Inoltre, l'eventuale rinnovo tacito dovrebbe operare per una durata equivalente a quella originaria.

Si dovrebbe distinguere in base al contenuto del patto: se la durata è fissata in anni, mesi o giorni, il patto si rinnoverebbe per una durata analoga; se, invece, la durata è stabilita con l'individuazione di una data fissa, il patto diverrebbe a tempo indeterminato.

Il contenuto dei patti tra autonomia contrattuale e riconoscimento del legislatore.

Entro gli argini delle frammentarie regole di disciplina dinanzi illustrate, il legislatore ha proceduto alla mera ricognizione dei contenuti più frequenti dei patti, ossia:

a) l'esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o in quelle che le controllano;

b) la fissazione di limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano e

c) l'esercizio anche congiunto di un'influenza dominante su tali società,

ai quali ha aggiunto, in relazione alle società quotate, i patti che prevedono l'acquisto di azioni o che si riferiscono ad altri strumenti finanziari da cui discenda il diritto di acquistare o sottoscrivere azioni in futuro, i patti di sola consultazione tra i soci e, da ultimo, quelli volti a favorire o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un'offerta pubblica di acquisto o di scambio, inclusi gli impegni a non aderire ad un'offerta.

Aperta è la discussione in dottrina in ordine al significato da assegnare al fine e alla portata della stabilizzazione (se da riferire alle finalità soggettive, a quelle oggettive o alla portata degli effetti del patto, nonché se da ancorare necessariamente a più assemblee: vedine sintesi in Selleri, 300).

La stabilizzazione è tuttavia nozione atecnica, che designa l'effetto del patto e che può essere conseguita con una pluralità di tecniche, la concreta modulazione delle quali è affidata all'esercizio dell'autonomia privata dei contraenti. Di queste, una possibile e non certo l'unica, è la previsione di una relazione di controllo: di qui la conseguenza che la disciplina sugli accordi parasociali può essere applicabile anche ai patti fra soci di minoranza, qualora ne consegua un effetto di stabilizzazione.

Le maglie larghe della regolamentazione, la quale si risolve nella fissazione delle due sole regole del limite di durata e dell'obbligo di trasparenza, ha dunque lasciato pressoché intatto lo spazio dell'autonomia privata, che, sia pure indirettamente, ha favorito e comunque ha riconosciuto. 

Recente applicazione si è avuta nella giurisprudenza di merito, a proposito della clausola russian roulette, con la quale si prevede che, al verificarsi di una situazione di deadlock non altrimenti risolvibile, a uno o entrambi i soci paciscenti è attribuita la facoltà di rivolgere all'altro socio un'offerta di acquisto della propria partecipazione, contenente il prezzo che si è disposti a pagare per l'acquisto della stessa. Il socio destinatario dell'offerta non è, tuttavia, in una posizione di mera soggezione di fronte a tale iniziativa, ma risulta titolare di un'alternativa che può liberamente percorrere: a) può, infatti, accettare l'offerta, e quindi vendere la propria partecipazione al prezzo indicato dalla controparte; b) può, invece, ribaltare completamente l'iniziativa e farsi acquirente della partecipazione del socio offerente, per il prezzo che quest'ultimo aveva indicato. Si è, quindi, considerato che questa clausola, anche se contenuta in un patto parasociale, propizia la stipulazione di un contratto  e non vìola alcun principio generale in tema di necessaria bilateralità del procedimento di formazione del contratto, essendo la volontà delle parti già compiutamente espressa in modo preventivo (App. Roma 3.2.2020. confermata da Cass., I, n. 22375/23, sulla quale vedi infra).

Restano fermi, tuttavia, alcuni vincoli stabiliti in particolari settori, che si riverberano sui patti: significativo è l'orientamento in base al quale (Cass. I n. 28978/2019) , in tema di appalti pubblici, è nullo il patto parasociale intercorso tra i concorrenti riuniti in ATI, che non rispecchi la percentuale di partecipazione ai lavori indicata nel documento presentato in sede di offerta, in forza dell'art. 37 del d.lgs. n. 163/2006 - nel testo applicabile ratione temporis prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 47 del 2014, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2014 -, a tenore del quale la mancata corrispondenza tra partecipazione all'ATI ed esecuzione dei lavori comporta la "nullità del contratto", trattandosi di precetto imperativo non derogabile dall'autonomia delle parti.

La giurisprudenza ha sottolineato (Cass. I, n. 9975/1995) che il vincolo nascente dal patto di sindacato, proprio perché si forma all'esterno dell'organizzazione sociale, non riesce ad impedire in alcun modo al socio di determinarsi all'esercizio del voto in assemblea come meglio egli creda, sicché il funzionamento dell'organo assembleare non è in questione. Il vincolo obbligatorio assunto opera come qualsiasi altro possibile motivo soggettivo e individuale che possa spingere un socio ad assumere in assemblea un certo atteggiamento e a esprimere un determinato voto. Né è possibile pretendere che «la volontà individuale di coloro che sono chiamati a votare in assemblea si formi spontaneamente in quella stessa sede, libera e monda da qualsiasi eventuale pregresso condizionamento».

La stessa inderogabilità della norma attributiva del potere di nomina degli amministratori all'assemblea, si è aggiunto (Cass. I, n. 14865/2011), non è posta in discussione dall'accordo di voto, in ragione del suo rilievo interamente interno al rapporto parasociale, che non incide su quel potere assembleare, cui il patto non pone limiti od ostacoli sul piano dell'organizzazione societaria (Cass. I, n. 5963/2008).

Ricognizione dei patti più frequenti nella prassi operativa: i sindacati di voto ed i sindacati di blocco.

Il sindacato di voto evocato dalla lettera a) dell'art. 2341-bis c.c. (nonché dall'art. 122 del d.lgs. n. 58/1998) concerne il solo esercizio del diritto di voto e, quindi, può designare sia il patto col quale si predetermina il contenuto del voto, sia quello di organizzazione della decisione, mediante il quale si regoli il meccanismo di formazione della volontà comune.

Ne restano fuori gli accordi che riguardano la titolarità del voto, come, ad esempio, quelli che conferiscano il diritto al nudo proprietario anziché all'usufruttuario o al creditore pignoratizio (Rescio, I sindacati di voto, 588).

Si è anche affermata la validità del sindacato di voto che deliberi a maggioranza per teste e non già tenendo conto delle quote di partecipazione (Trib. Genova, ord. 8 luglio 2004).

A differenza del sindacato di voto, che ha natura di contratto associativo, in quanto i partecipanti al patto, obbligandosi ad esercitare il loro diritto di voto nella materia convenuta, s'impegnano allo svolgimento di un'attività comune, per il perseguimento di uno scopo comune, di genesi parasociale, ma destinato a spiegare effetti diretti sul piano del rapporto sociale, il c.d. sindacato di blocco è contratto di scambio.

Stipulando il sindacato di blocco, i soci assumono difatti obblighi reciproci, di norma concernenti il divieto di alienazione delle proprie azioni, oppure la subordinazione del relativo trasferimento al gradimento o alla prelazione degli altri partecipanti al patto. La rilevanza sociale è quindi indiretta, e si traduce di norma nell'intento d'impedire l'ingresso nella società di soggetti non graditi, consolidando l'assetto di potere esistente, nonché nell'ostacolare i trasferimenti delle partecipazioni anche in seno agli stessi soci stipulanti, al fine di non minare i rapporti di forza determinatisi nella società.

Ne deriva l'inapplicabilità a essi della disciplina prefigurata per i contratti associativi dagli artt. 1420,1446,1459 e 1466 c.c., di modo che, in particolare, il venir meno anche di uno solo dei parasoci stipulanti comporta lo scioglimento del sindacato.

L'oggetto di questi patti è un diritto esistente nel patrimonio personale del socio, agli atti di disposizione del quale la società, in quanto persona giuridica titolare di un patrimonio distinto da quello dei propri stessi soci, è, in linea di principio, estranea (Cass. I, n. 12797/2012).

Va, tuttavia, segnalato che i limiti alla trasferibilità incidono non sul trasferimento della proprietà dei titoli, che l'acquirente comunque acquisisce, ma sul piano della legittimazione all'esercizio dei diritti sociali.

Si è inoltre sottolineato che a norma di riferimento del sindacato di blocco è, invece, ravvisabile nell'art. 1379 c.c., che consente la pattuizione del divieto di alienare entro convenienti limiti di tempo e che spiega effetti meramente interni, di modo che la sua inosservanza non interferisce sulla validità del contratto stipulato in violazione del divieto (Cass. I, n. 12797/2012).

Analoghe considerazioni sono state spese per le clausole di prelazione e di gradimento contenute nei patti parasociali; l'efficacia interna della prelazione oggetto di patto parasociale ha indotto la giurisprudenza di legittimità ad ammetterne la coesistenza con la prelazione statutaria, che, a differenza dell'altra, incide sul corretto funzionamento dell'organizzazione sociale o sulla formazione del capitale (Cass. n. 12956/2016).

Dubbio è se siano riconducibili al sindacato di blocco, se oggetto di patti parasociali, le clausole di accodamento e trascinamento (tag e drag-along), in virtù delle quali, rispettivamente, si conferisce al finanziatore il diritto di vendere a un terzo la propria partecipazione e alle medesime condizioni anche le azioni degli altri soci, così trascinandoli con sé (drag-along), oppure, in virtù del diritto di accodamento (tag-along, piggy-back), qualora il socio di maggioranza venda le proprie azioni ad un terzo, anche il socio di minoranza potrà partecipare all'affare vendendo al medesimo prezzo ed alle medesime condizioni, in tal modo prendendo parte alla divisione del premio di maggioranza.

Se ne prospetta quindi la finalità di stabilizzazione evocata dall'art. 2341-bis c.c., al fine di propiziare l'applicazione della regola legale che fissa il limite di durata quinquennale o triennale, a seconda della società cui afferiscano (Macrì, Patti parasociali e attività sociale, 48).

Indipendentemente dall'inquadramento dogmatico di queste pattuizioni, si è rimarcato che la loro finalità non sta nella conservazione degli equilibri della società, ma nella regolazione della fase di dismissione della partecipazione sociale, rispondendo per conseguenza ad obiettivi antitetici rispetto a quello di stabilizzazione (Divizia, 63).

Il che comporterebbe l'inapplicabilità e del limite di durata previsto per i patti parasociali contemplati dal legislatore, e di quello stabilito in generale, anche per i patti parasociali non contemplati, dall'art. 1379 c.c.

I patti di finanziamento partecipativo e le relazioni col divieto del patto leonino...

Non di rado si registrano in giurisprudenza casi in cui un socio vende a altro soggetto, estraneo alla compagine e alle dinamiche della società, una quota della propria partecipazione oppure un certo numero di azioni, al fine di ottenere un finanziamento, a un tasso orientativamente inferiore a quello ordinariamente applicato dalle banche. Di contro, il soggetto finanziatore si premunisce contro i rischi di perdite connessi all'acquisto mercé un patto collaterale, col quale la controparte gli attribuisce un'opzione di vendita (c.d. put) e assume l'obbligo di corrispondergli, ad una certa scadenza, l'esborso versato per l'acquisto, maggiorato degli interessi pattuiti, o anche dei versamenti a patrimonio netto nelle more compiuti.

Una parte della giurisprudenza di merito (App. Milano 19 febbraio 2016, che ha confermato Trib. Milano 31 dicembre 2011) reputa che un tale patto sia elusivo della ratio della disciplina posta dall'art. 2265 c.c. e rispondente ad interessi non meritevoli di tutela.

A sostegno di questa tesi si argomenta che l'essenzialità del rischio di perdite nella fisionomia della causa societaria sta nel fatto che è giustappunto questo rischio a propiziare l'esercizio accorto dell'attività economica, rendendola capace di produrre utili, tal che l'esclusione di uno o più soci dal rischio di perdite rischierebbe d'indurre un insormontabile conflitto d'interessi tra i soci spinti soltanto dalla prospettiva di maggiore redditualità e quelli attenti anche ai rischi insiti nelle iniziative da assumere.

L'estensione dell'applicabilità dell'art. 2265 c.c. alle società di capitali, inoltre, discenderebbe dal fatto che il socio influisce sulla gestione mediante il voto e risente dell'esito economico dell'attività, sia pure nei limiti della somma o del bene conferito. L'estensione ai patti parasociali, poi, deriverebbe dal collegamento genetico e funzionale di questi patti al contratto di società, sul quale si proiettano, potendone alterare struttura e funzione

funzione (contra, nega la transtipicita` del divieto del patto leonino e l'applicazione di esso alle societa` di capitali Spolidoro, 632).

Si sottolinea, peraltro, la capacità dell'acquisizione di cosiffatte partecipazioni temporanee di perseguire rilevanti finalità di politica economica, mediante il sostegno di nuove imprese nella complicata fase di avvio, la sovvenzione di programmi pluriennali di sviluppo o di ammodernamento, o di risanamento a condizioni meno onerose rispetto al credito bancario.

A tal punto il finanziamento anima queste regolamentazioni, che se n'è prospettata una causa mista societaria e di finanziamento, capace di dissolvere i dubbi di sopraffazione usuraria che hanno segnato, almeno nella fase iniziale, l'identificazione della ratio del divieto di esclusione dalle perdite; e, al cospetto dell'obiezione d'inanità di questa costruzione a escludere il contrasto col divieto posto dall'art. 2265 c.c., si è adombrata, con esiti dubbi, la conversione dei patti di retrocessione in patti con causa di credito.

Né miglior sorte è arrisa alla costruzione del patto parasociale di put a prezzo predefinito come controdichiarazione concernente il negozio dissimulato, là dove il contratto di società rappresenterebbe il contratto simulato, giacché il socio finanziatore, in virtù del patto di put, esercita il potere di cui è titolare per conto proprio e nel proprio interesse.

Dal canto suo, la giurisprudenza di legittimità (Cass. I, n. 8927/1994; conf., Cass. I nn. 642/2000 e 24376/08) ha stabilito che il limite all'autonomia statutaria posto dall'art. 2265 c.c. postula che l'esclusione dalle perdite o dagli utili sia assoluta e costante: assoluta, nel senso che deve precludere ogni forma di partecipazione; costante, nel senso che deve contrassegnare lo status di socio, così come delineato nel contratto di società.

La Corte di cassazione ha così riconosciuto la possibilità di dissociazione tra rischio, incombente sugli altri soci, e potere, conferito al socio finanziatore; e ha riconosciuto altresì che è rispondente a interessi meritevoli di tutela, armonici con quelli societari, il patto parasociale, animato da precipue finalità di finanziamento, che contempli l'esclusione del finanziatore dai rischi, nonostante gli siano stati conferiti i poteri amministrativi.

Sviluppando queste considerazioni, si è ritenuto (Trib. Firenze 16 luglio 2015) che non violi il divieto di patto leonino il patto parasociale con funzione di garanzia, la cui ragione giustificatrice è il bilanciamento, sul piano del rapporto sinallagmatico, dell'obbligazione di finanziare la società in relazione all'ammontare della quota di capitale che il socio acquista). A tanto si è aggiunto (Trib. Milano 6 agosto 2015; Trib. Milano 13 settembre 2011) che, riguardato sotto il profilo della causa concreta, in base a parametri di coerenza e razionalità, il patto parasociale di cui si parla risponde a causa di finanziamento a tassi convenienti, o comunque maggiormente convenienti rispetto a quelli altrimenti conseguibili tramite il ricorso agli operatori finanziari in quel momento storico, indirizzato al rilancio o anche soltanto alla conservazione della società. 

E poiché il finanziamento è di norma oneroso, la clausola put, mediante la quale il finanziatore si garantisce il recupero del capitale investito e il conseguimento del profitto programmato, è servente rispetto al perseguimento della causa concreta che sorregge il contratto. Si ravvisa, quindi, la meritevolezza del patto di finanziamento partecipativo, anche in base alla considerazione che il socio finanziatore assume tutti i diritti e gli obblighi del proprio status, poiché il meccanismo della clausola put  si pone sul piano della circolazione delle azioni e non già su quello della ripartizione dei rischi e degli utili ( Cass. I, nn. 17498/2018 e 17500/2018 ).

Anche da ultimo ( Cass. I n. 27227/21; conf., T Roma 8 novembre 2019) si è ritenuta valida la previsione all'interno di essi di opzioni put e call tra i soci stipulanti, identificandosi la causa concreta del negozio con una forma di garanzia per il socio finanziatore, come tale rientrante nell'autonomia contrattuale concessa ai soci e pertanto meritevole di tutela da parte dell'ordinamento. Su posizione diversa si pone l'indirizzo della giurisprudenza di merito secondo il quale è nulla per frode al divieto di patto leonino l'opzione di vendita di partecipazione sociale a prezzo predefinito contenuta in un patto parasociale mediante la quale il socio beneficiario, oltre a poter partecipare alla gestione dell'impresa sociale, si assicuri il disinvestimento ad un corrispettivo superiore a tutte le somme sino a quel momento versate alla società, perché, si sostiene, "è immeritevole di tutela il mero intento — di per sé sotteso alle opzioni put a prezzo predeterminato — di reperire ed erogare un finanziamento svincolato dal rischio d'impresa, senza che possano essere evocati a sostegno della diversa tesi: i) né la progressiva diluizione del nesso «potere-rischio» nel diritto societario, che non avrebbe comunque inciso «sulla struttura fondamentale del rapporto sociale ... in riferimento alla messa in comune di patrimoni per lo svolgimento di attività economica della quale si sopportano simmetricamente i rischi e, dunque, si è interessati alla miglior conduzione»; ii) né l'apertura di nuove tecniche di finanziamento tipicamente «azionarie» anche alla s.r.l., che continuerebbe ad essere caratterizzata da una struttura fortemente personalistica, sicché, nel tipo s.r.l., sarebbe ancor più rilevante l'interesse, obliterato dalla pattuizione leonina, «della società ad essere gestita mediante il contributo e l'apporto di ogni socio, nessuno escluso, ai fini del suo buon governo» (Trib. Milano 23.7.2020).

Nel dibattito sulla estensione del divieto di patto leonino nelle società di capitali, si è inserito l'indirizzo che propende per la validità di un'opzione parasociale put a prezzo predefinito in un caso in cui il socio finanziatore garantito dall'opzione put era una società finanziaria regionale, ossia una società partecipata da ente regionale, costituita allo scopo di erogare finanziamenti volti a favorire lo sviluppo di p.m.i. o a supportarle in situazioni di crisi temporanea (Trib. Roma, 16 febbraio 2022).

Si va anche facendo strada la tesi della necessità di un'indagine in concreto sulla causa della pattuizione: la valutazione della meritevolezza della causa delle clausole attributive del diritto di opzione put per la vendita a un altro socio di una partecipazione sociale in una societa` di capitali, a condizioni tali da assicurare l'immunita` del titolare di tale diritto dalle perdite e un determinato rendimento, deve essere volta a verificare che in concreto non si determini un'alterazione della causa del contratto di societa`o un'esclusione assoluta del socio dalle perdite (App. Milano 13 febbraio 2020, che ha dichiarato la nullita` della clausola, tenendo conto anche del fatto che il socio titolare del diritto di opzione put disponeva di diritti di opposizione a operazioni potenzialmente diluitive della sua quota e di partecipazione alla gestione della societa`, della mancata ricapitalizzazione della societa` e del fatto che il socio titolare del diritto di opzione put lo aveva esercitato dopo che la societa` partecipata era diventata insolvente).

Si è, invece, stabilito (Corte App. Roma 3 febbraio 2020, cit.) che la clausola russian roulette contenuta in un patto parasociale non vìola il divieto di patto leonino, poiché con essa i contraenti non incidono in modo radicale sulla causa societatis. La giurisprudenza di legittimità (Cass., I, n. 22375/23), nel confermare l'indirizzo di quella di merito, ha ritenuto clausola legittima, in base alla considerazione che essa propizia l'equilibrio negoziale e implica il coinvolgimento dei soci nella gestione societaria. Ha, tuttavia, sollecitato la valutazione del rispetto del canone di buona fede, al fine di evitare, nei casi in cui vi sia una forte divergenza economico-finanziaria fra le parti, che un soggetto possa abusare della clausola per espellere l'altro partner anche di fronte a una situazione di stallo non effettiva o unilateralmente imposta, dando luogo a quella che è chiamata lack of choice (ossia la perdita di quel potere di scelta in capo all'oblato che fonda sul pianto strutturale l'equilibrio della clausola rendendo incerto al dichiarante quale sarà l'esito del meccanismo da lui stesso azionato).

Segue... e di quello del patto commissorio.

Il patto parasociale incorrerebbe, inoltre, nel divieto di patto commissorio sancito dall'art. 2744 c.c. o lo eluderebbe, perché il meccanismo prefigurato prevede l'anticipato trasferimento al mutuante del bene dato in garanzia, ossia della partecipazione sociale, a fronte della concessione del finanziamento, accordandogli nel contempo un'opzione (mediante l'inserimento della clausola put) che in definitiva gli consente di conservare la proprietà della partecipazione, qualora decida, appunto, di non venderla.

Si può sul punto replicare che il congegno in questione non prevede affatto che la proprietà passi al creditore-acquirente, ossia al finanziatore, in caso d'inadempimento del debitore-venditore, ossia del socio finanziato. Di contro, la clausola put è convenuta per l'ipotesi opposta, ossia per il caso in cui la garanzia, ossia la partecipazione sociale, sia di valore inferiore al capitale che il finanziatore ha erogato e che vuole in restituzione maggiorato degli interessi.

I sindacati di gestione.

Il sindacato di gestione comporta l'impegno dei contraenti a rispettare le determinazioni che la direzione del sindacato assuma in ordine alla gestione della società.

In relazione a un'ipotesi di tal fatta, la giurisprudenza di legittimità (Cass. I, n. 8221/2012) ha sostenuto che costituisca giusta causa di revoca dell'amministratore di una società per azioni, agli effetti dell'art. 2383, comma 3, c.c., la sua adesione al patto parasociale che rimette le scelte gestorie alla volontà maggioritaria dei relativi contraenti. In particolare, si è ravvisata, per il fatto stesso della stipulazione del patto parasociale, una situazione immanente di conflitto tra soci amministratori e società, scaturente dall'inderogabile funzione gestoria di cui sono investiti gli amministratori e alla quale essi nella sostanza abdicano mercé la stipulazione del patto (ribadita, anche da ultimo, nella giurisprudenza di merito: Trib. Milano 21.12.20, GI, 2021, 1890).

Il sindacato di gestione non è capace, di per sé, d'interferire direttamente con le delibere consiliari, né con atti compiuti dagli amministratori in mancanza di tali delibere: quindi, non riesce a provocare, almeno immediatamente, l'applicazione né dell'art. 1394 né dell'art. 2391 c.c.

E ciò in quanto il patto esplica efficacia meramente obbligatoria: l'obbligazione assunta dal socio di maggioranza è soltanto quella di adoperarsi diligentemente affinché il consiglio di amministrazione tenga la condotta auspicata, laddove il terzo/consiglio di amministrazione resta libero di tenerla.

Anche in relazione al regime antecedente alla riforma del diritto societario, la giurisprudenza di legittimità, posto che i patti parasociali sono accordi atipici volti a disciplinare unicamente i rapporti interni tra gli azionisti ad essi aderenti, ha ritenuto che il vincolo che ne discende operi su un terreno esterno a quello dell'organizzazione sociale; e dal carattere «parasociale» ha inferito l'esclusione della relativa invalidità ipso facto (Cass. I, 5 marzo 2008, n. 5963).

È innegabile, tuttavia (Rordorf, 795), che un tale patto è destinato ad influire sull'operare degli amministratori della società, sul presupposto che costoro siano più o meno direttamente legati ai soggetti che partecipano al sindacato e che, in conseguenza dell'assunzione di un tale obbligo, si configuri a carico dell'amministratore un «dovere di doppia fedeltà, nei confronti della società e nei confronti del sindacato».

Per conseguenza l'adesione ad un sindacato di gestione elide alla radice il requisito dell'indipendenza. Anzi, al contrario, dà corpo ad una situazione, almeno potenziale, di dipendenza, in quanto in questo caso l'amministratore accetta di dipendere da un centro di comando esterno alla società.

La giurisprudenza ha per conseguenza ravvisato la configurabilità della giusta causa di revoca dall'incarico: «la giusta causa della revoca dell'amministratore di società, che ai sensi dell'art. 2383, comma 3, c.c. esclude il diritto dell'amministratore al risarcimento del danno prodotto dall'anticipato scioglimento del rapporto, può derivare anche da fatti non integranti inadempimento, ma richiede pur sempre un quid pluris rispetto al mero dissenso (alla radice di ogni recesso ad nutum), ossia esige situazioni sopravvenute (provocate o meno dall'amministratore stesso) che minino il pactum fiduciae, elidendo l'affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e le capacità dell'organo di gestione, in modo tale da poter fondatamente ritenere che siano venuti meno, in capo allo stesso, quei requisiti di avvedutezza, capacità e diligenza di tipo professionale che dovrebbero sempre contraddistinguere l'amministratore di una società di capitali» (Cass. I, n. 16526/2005 e, quanto al regime successivo alla riforma del diritto societario, Trib. Milano 24 maggio 2010).

I patti contenenti clausole di esonero degli amministratori da responsabilità

L'opinione tradizionale è fermamente attestata sulla invalidità di tali determinazioni, facendo leva sulla natura superindividuale dell'interesse sociale e addirittura sullo stesso interesse pubblico dell'economia generale, presidiato dalle norme che garantiscono l'ordinato svolgimento e la ponderata determinazione dell'azione sociale.

In questo contesto, le regole sulla responsabilità spiegano una chiara e preziosa efficacia deterrente.

La giurisprudenza al riguardo ammonisce che la scelta tra il compimento o no di un certo atto di gestione nonché delle modalità di tale compimento non è mai di per sé sola suscettibile di essere apprezzata alla stregua di responsabilità, «per l'impossibilità stessa di compiere una simile valutazione con un metro che non sia quello dell'opportunità e perciò di sconfinare nel campo della discrezionalità imprenditoriale» (Cass. I, n. 3652/1997; conf., Cass. I n. 3409/13 e n. 1783/15).

Si è, invece, osservato (Trib. Roma, 28 settembre 2015) che la rinuncia pattizia all'azione di responsabilità da parte dei soci «entranti» non appare in contrasto con nessuna delle norme imperative ricavabili dagli art. 2392 e 2393 c.c. in quanto, da un lato, tale pattuizione interviene alla conclusione del mandato gestorio e, quindi, in un momento in cui l'acquirente delle azioni o delle quote (e sottoscrittore del patto parasociale) è posto nelle condizioni di esaminare l'andamento della gestione e i risultati di essa e, dall'altro, la natura successiva dell'accordo, che intervenga a conclusione dell'incarico gestorio, esclude che la pattuizione parasociale sia censurabile sotto il profilo della violazione della funzione deterrente delle norme sulla responsabilità degli amministratori.

L'efficacia obbligatoria dei patti parasociali.

Affermazione corrente è che i patti parasociali e comunque anche quelli extrasociali, ossia quelli che non rientrino nell'enumerazione operata dal legislatore, siano dotati di efficacia obbligatoria e non reale.

Pervero, talora neanche pienamente di questa: si consideri l'art. 123, comma 3, d.lgs. n. 58/1998, a norma del quale «gli azionisti che intendano aderire ad un'offerta pubblica di acquisto o di scambio promossa ai sensi degli artt. 106 e 107 possono recedere senza preavviso dai patti indicati nell'art. 122. La dichiarazione di recesso non produce effetto se non si è perfezionato il trasferimento delle azioni». Il che val quanto dire che i patti in questione non hanno particolare forza cogente, considerato il potere di supremazia consistente nella facoltà di esercizio unilaterale e ad nutum dello ius poenitendi riconosciuto dalla norma.

La qualificazione come obbligatoria dell'efficacia dei patti è assunta in più accezioni, nessuna delle quali corrispondente in pieno a quella generale di diritto civile.

L'accezione più comune è che l'efficacia è obbligatoria, perché il patto non è idoneo a produrre effetti nei confronti della società, ma soltanto nei confronti dei soci. Isolata è rimasta al riguardo la pronuncia (Trib. Genova, ord. 8 luglio 2004) con la quale in via cautelare si è vietata l'iscrizione nel libro soci del trasferimento della partecipazione sociale, sussistendo il fondato sospetto di violazione di un sindacato di blocco e, più in generale, si è ritenuto ammissibile un provvedimento di urgenza, ex art. 700 c.p.c., che obblighi il socio a votare in conformità a quanto deciso dalla maggioranza dei partecipanti al sindacato di voto cui il socio aderisce.

La portata della decisione è, in realtà, da ridimensionare, giacché la lettura del provvedimento evidenzia che la cessione delle partecipazioni sociali era avvenuta in violazione non soltanto del sindacato di blocco, ma anche di una clausola di prelazione inserita nello statuto.

E comunque, qualora il patto di prelazione sia stato inserito, mediante apposita clausola, nell'atto costitutivo o nello statuto di una società (Cass. I, n. 24559/2015), esso non cessa di rivestire la natura convenzionale attribuibile ai patti parasociali; di modo che l’efficacia reale del patto, che si traduce nell'opponibilità di esso ai terzi, compreso l'acquirente della partecipazione sociale, non vale, invece, a radicare il fondamento di un'azione di retratto, finalizzata all'esercizio di un preteso diritto di riscatto del bene in questione.

Resta, invece, la difformità del deciso rispetto alla regola dell'obbligatorietà dell'efficacia del patto parasociale in rapporto all'obbligo di votare, in quanto, di per sé, l'inadempimento degli obblighi derivanti dal patto non è destinato a rilevare nei confronti della società infirmando la validità della delibera assembleare, a meno che non sia possibile dimostrare l'esistenza in concreto di un conflitto d'interessi rilevante a norma dell'art. 2373 c.c. oppure la violazione di altre specifiche disposizioni regolanti il diritto d'intervento e di voto del socio in assemblea (Cass. I, n. 9975/1995; esclude espressamente l'invalidità della delibera assunta in violazione del patto l'art. 9, comma 6, del d.lgs. n. 175/2016).

I mezzi di coercizione negoziale indiretta all'esecuzione dei patti.

Si diceva che in virtù della natura obbligatoria degli effetti derivanti dai patti l'atto compiuto o il contratto stipulato in violazione del patto è valido ed efficace.

Di qui l'esigenza d'indurre i contraenti a rispettarlo spontaneamente.

Utile strumento, sovente utilizzato, è il trasferimento fiduciario delle azioni o della quota di partecipazione, mediante il quale il fiduciante ne trasferisce al fiduciario la proprietà piena ed esclusiva, ma accompagna il trasferimento con un contratto di mandato gratuito, concernente gli obblighi derivanti dal patto parasociale. Si è al riguardo precisato (Cass. I n. 5507/2016) che l'intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie integra gli estremi dell'interposizione reale di persona per effetto della quale l'interposto ne acquista la titolarità, pur essendo obbligato ad attenersi alle indicazioni dell'interponente nonché a ritrasferirle a quest'ultimo, ad una scadenza convenuta o al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario, con la conseguenza che legittimato all'esercizio della prelazione prevista da clausola statutaria è l'interposto e non l'interponente. 

Se n'è tratta la conseguenza, quanto alla disciplina, che, posto che l'attività di amministrazione esercitata dalla società fiduciaria su incarico del fiduciante consegue ad un mandato senza rappresentanza, le azioni a tutela della proprietà dei beni ad essa affidati spettano al fiduciante, mentre quelle inerenti alla gestione dei beni stessi spettano al fiduciario (Cass. I n. 29410/2020). Al riguardo, si è aggiunto, per stabilire se l'ammontare della penale convenuta in un patto parasociale è manifestamente eccessivo, il giudice, nel valutare l'interesse del creditore all'adempimento, deve considerare i fatti occorsi e i comportamenti tenuti durante il rapporto parasociale (Cass. I, n. 18138/2018).

La tutela esperibile.

L'orientamento tradizionale esclude l'esperibilità della tutela in via d'urgenza di pattuizioni parasociali, che, di norma, in considerazione della fluidità delle dinamiche societarie, si prospetta come l'unica efficace; e tanto fa, argomentando dalla natura di facere infungibile della condotta da ordinare.

Si è quindi respinta la richiesta cautelare di ordinare di votare in assemblea in conformità a quanto stabilito nel patto oppure di sospendere la convocazione dell'assemblea o di inibire l'esercizio del voto (Trib. Roma, ord. 20 dicembre 1996); si è inoltre rigettata la richiesta del socio di minoranza di inibire il voto in assemblea al socio di maggioranza, perché inadempiente rispetto ad un patto parasociale (Trib. Ancona 10 giugno 1998) e, facendo leva sulla natura obbligatoria dell'efficacia del patto parasociale, si è esclusa la coercibilità mediante misure cautelari atipiche (Trib. Belluno, ord. 27 marzo 2010); si è poi respinta, anche in ragione dell'infungibilità del facere, la domanda cautelare volta ad ottenere l'ordine al socio di una società per azioni, in ottemperanza alle pattuizioni contenute in un patto parasociale, di impartire opportune istruzioni agli amministratori della società in ordine alla gestione di quest'ultima (Trib. Modena, ord. 2 dicembre 2010).

In relazione, invece, a un patto parasociale avente a oggetto obblighi di convocazione dell'assemblea sociale, si è affermato che nella richiesta d'urgenza di inibitoria di tenere l'assemblea societaria o di vietare ad un socio di partecipare a detta assemblea, difetta la dimostrazione del pregiudizio irreparabile, perché in caso di illegittimità o nullità della delibera può essere proposta opposizione e contestualmente richiesta la sospensione degli effetti, ex art. 2377 e 2378 c.c. (Trib. Roma 2 novembre 1999).

La questione sembra oggi in larga parte superata.

E ciò in virtù dell'introduzione dell'art. 614-bis c.p.c., il quale si attaglia giustappunto all'ipotesi in cui la condanna abbia ad oggetto un «facere infungibile» ovvero un «non fare», essendo essa una misura coercitiva indiretta per i predetti obblighi, mutuata dai modelli di esecuzione indiretta previsti da alcuni Stati europei (astreintes del diritto francese o contempt of Court anglosassone), riconosciuti applicabili anche dal regolamento Ce n. 44/2001 del 22 dicembre 2000, e finalizzata alla coartazione della volontà del debitore, tale da indurlo ad adempiere il provvedimento di condanna al fine di evitare il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell'adempimento (Trib. Cagliari, 20 aprile 2016).

Si va quindi profilando come maggioritaria l'opinione propensa ad includere tra i provvedimenti di cui all'art. 614-bis quelli cautelari (Trib. Cagliari 19 ottobre 2009). Il che dovrebbe comportare l'esperibilità della tutela cautelare d'urgenza a presidio degli obblighi di facere derivanti dalle pattuizioni parasociali.

Conclusione, questa, che non entra in collisione con la natura obbligatoria dell'efficacia derivante dai patti: i limiti derivanti da questa qualificazione rilevano difatti nei confronti della società, laddove la condanna al facere mira all'esecuzione del patto fra le parti, sia pure a mezzo della rilevanza, necessariamente esterna, degli effetti derivanti dall'adempimento dei patti.

L'efficacia meramente obbligatoria dei patti parasociali ha indotto la giurisprudenza ad affermare che l'unica sanzione per il caso di loro violazione è la tutela risarcitoria (App. Roma 21 febbraio 2019). Ma, di recente, si è reputata ammissibile l'adozione di un provvedimento d'urgenza con cui si inibisce a un parasocio di votare contro quanto stabilito nei patti parasociali nel caso in cui quest'ultimo manifesti l'intenzione di non adempiere  (Trib. Milano 9 ottobre 2022).

Va segnalato anche l'indirizzo secondo il quale la durata limitata nel tempo del contratto parasociale contenente un'opzione put non implica che, a fronte dell'inadempimento di una delle parti intervenuto nel periodo di vigenza del contratto, non si possa proporre domanda di adempimento o di risoluzione successivamente allo scadere del termine di durata del contratto stesso, sicché tale contratto non entra in conflitto con le regole che circoscrivono la validità dei patti parasociali (Trib. Roma 8 novembre 2019).

 

L'arbitrabilità delle controversie riguardanti i patti.

L'art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, secondo il quale «gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell'articolo 2325-bis del codice civile, possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale», concerne le sole clausole compromissorie statutarie, cioè quelle ospitate dagli atti costitutivi delle società.

Di contro, si è rimarcato, il patto parasociale, che istituisce rapporti puramente accessori a un preesistente sodalizio e non costituisce una società nuova, non è interessato – per difetto della natura statutaria – dalla regola speciale (Trib. Pescara 19 ottobre 2009). Di qui la conseguente validità della clausola compromissoria che demandi tutte le controversie relative al patto ad arbitri (Trib. Trieste 6 ottobre 2017). 

Valida è altresì la clausola compromissoria contenuta in un patto parasociale, che non demandi la nomina di tutti i membri del collegio arbitrale ad un soggetto estraneo alla società, proprio perché l'art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 5/2003 è applicabile alle sole clausole compromissorie contenute negli statuti (Trib. Prato, 15 giugno 2010).

In tema di arbitrato societario, si veda altresì l'apposito commento in questo Codice, Parte I.

Bibliografia

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