Codice Civile art. 2344 - Mancato pagamento delle quote (1).

Fernando Platania

Mancato pagamento delle quote (1).

[I]. Se il socio non esegue i pagamenti dovuti, decorsi quindici giorni dalla pubblicazione di una diffida nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, gli amministratori, se non ritengono utile promuovere azione per l'esecuzione del conferimento, offrono le azioni agli altri soci, in proporzione alla loro partecipazione (2), per un corrispettivo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti. In mancanza di offerte possono far vendere le azioni a rischio e per conto del socio, a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla negoziazione in mercati regolamentati (2).

[II]. Qualora la vendita non possa aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori possono dichiarare decaduto il socio, trattenendo le somme riscosse, salvo il risarcimento dei maggiori danni.

[III]. Le azioni non vendute, se non possono essere rimesse in circolazione entro l'esercizio in cui fu pronunziata la decadenza del socio moroso, devono essere estinte con la corrispondente riduzione del capitale.

[IV]. Il socio in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto.

(1)Articolo sostituito dall' art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6. Il testo dell'articolo recitava: «[I]. Se il socio non esegue il pagamento delle quote dovute, gli amministratori, decorsi quindici giorni dalla pubblicazione di una diffida nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, possono far vendere le azioni a suo rischio e per suo conto, a mezzo di un agente di cambio o di un istituto di credito. [II]. Qualora la vendita non possa aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori possono dichiarare decaduto il socio, trattenendo le somme riscosse, salvo il risarcimento dei maggiori danni. [III]. Le azioni non vendute, se non possono essere rimesse in circolazione entro l'esercizio in cui fu pronunziata la decadenza del socio moroso, devono essere estinte con la corrispondente riduzione del capitale. [IV]. Il socio in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto».

(2) Le parole «alla loro partecipazione» sono state sostituite alle parole «della loro partecipazione» e le parole «in mercati regolamentati» sono state sostituite alle parole «nei mercati regolamentati» dall'art. 5 1e) d.lg. 6 febbraio 2004, n. 37.

Inquadramento

La disposizione regola le ipotesi in cui uno dei soci, dopo avere effettuato il versamento del 25% del conferimento in denaro, non proceda, in tutto od in parte, al versamento del residuo. Malgrado alcune voci dottrinali che, basandosi sull'assenza di una specificazione da parte del legislatore, ritengono la procedura delineata dall'articolo in commento applicabile anche alle ipotesi di conferimenti in natura, la disposizione è destinata solo ai conferimenti in denaro poiché negli altri conferimenti v'è la liberazione contestuale dell'intero capitale e, quindi, non è neppure concepibile una mora nel versamento.

La richiesta di completamento del versamento può essere fatta dagli amministratori in ogni momento successivo all'iscrizione della società nel registro delle imprese, non essendo possibile prevedere nelle società per azioni, contrariamente a quanto accade nelle società a responsabilità limitata (art. 2466 c.c.), un termine per il versamento, risultando inopponibile alla società anche ogni eventuale diverso patto tra soci. La disposizione dell'art. 260 c.c.i .i. autorizza il giudice delegato  nella liquidazione giudiziale della società ad emettere decreto ingiuntivo per il pagamento dei versamenti non ancora eseguiti «quantunque non sia scaduto il termine per il pagamento».

La disposizione è applicabile anche nell'ipotesi contemplata dall'art. 2332 c.c., considerato che, anche in caso di declaratoria di nullità della società, i soci non sono liberati dall'obbligo di effettuare i versamenti fino a quando non siano stati completamente estinti i debiti sociali.

E' stato specificato (sia pure in una fattispecie relativa ad una società a responsabilità limitata), che la disciplina del mancato completamento dei versamenti trova applicazione anche nelle ipotesi di sottoscrizioni successive alla costituzione della società (Trib. Roma – Sez. Specializzata – 28 novembre 2017); tuttavia l'eventuale inadempimento all'obbligo di versare le somme necessarie per l'aumento di capitale non estende la disciplina della vendita in danno alle azioni in precedenza sottoscritte e già integralmente liberate (Cass. n.1185/2020).

Versamento. Compensazione

Le procedure previste dall'art. 2344 sono alternative agli ordinari strumenti di esecuzione degli obblighi contrattuali, ben potendo, infatti, gli amministratori preferire ottenere, per via coattiva, il completamento del versamento.

Tenuto al versamento è il socio; se nel frattempo le azioni sono state cedute prima dellìintegrale sottoscrizione, ai sensi dell'art. 2356 c.c. l'alienante è obbligato in solido con gli acquirenti al versamento per i tre anni successivi al trasferimento, ma solo dopo che sia risultata infruttuosa la richiesta proposta nei confronti dell'acquirente; se le azioni sono state concesse in usufrutto, l'onere di provvedere al versamento grava sull'usufruttuario, in base all'art. 2352 c.c., salvo il suo diritto di ottenere la restituzione la somma versata al termine dell'usufrutto. Nel caso di riporto, l'onere deve gravare sul riportato e non sul riportatore, pur se la richiesta è effettuata quando la proprietà dei titoli era attribuita al riportatore; è onere, infine, del debitore procedere al pagamento, in caso di sottoposizione delle azioni a pegno o sequestro.

In caso di concessione di leasing azionario, che si deve ritenere possibile anche alla luce delle nuove disposizioni della l. 4 agosto 2017, n. 124, all'art. 1, comma 136, ovviamente l'onere di provvedere al versamento grava sul concedente.

Come già ricordato, l'art.260 c.c.i.i.. consente al giudice delegato di emettere un decreto ingiuntivo per ottenere il versamento delle somme residue. Ai sensi dell'art. 474, n. 3, c.p.c., che attribuisce la natura di titolo esecutivo anche agli atti notarili, deve ritenersi che lo stesso atto costituivo, che contiene l'impegno di ogni socio alla sottoscrizione del capitale nella misura espressamente indicata, possa avere l'idoneità a costituire direttamente titolo esecutivo nei confronti del socio.

In merito alla competenza sulla vertenza che potrebbe sorgere in relazione all'obbligo del socio di provvedere al pagamento, la Suprema Corte ( Cass  n.24444/ 2019) ha specificato che la controversia avente ad oggetto l'obbligo di versamento del capitale sociale di una società è compromettibile in arbitri poiché relativa a diritti inerenti al rapporto sociale inscindibilmente correlati alla partecipazione del socio, sicché, anche nel caso di fallimento della società, la clausola compromissoria statutaria resta opponibile al curatore fallimentare che abbia chiesto il decreto ingiuntivo, ex ex art.260 c.c.i.i..,, nei confronti di un socio della fallita per i versamenti ancora dovuti.

Ovviamente qualora, anche a seguito dell'azione esecutiva, non fosse possibile ottenere l'intero importo ancora dovuto, potrebbero essere attivate le altre procedure previste dalla norma in esame.

Piuttosto delicato è il tema se il socio possa opporre in compensazione alla società eventuali suoi controcrediti.

È però da escludere, innanzitutto, che il socio possa liberarsi della sua obbligazione offrendo alla società qualcosa di diverso dal denaro. Il contenuto dell'obbligazione del socio è determinata, una volta per tutte, dall'atto costitutivo e gli amministratori non possono procedere all'accettazione di utilità diverse neppure facendo ricorso alla disciplina dell'art. 2343-bis, prima illustrate (Cass. n. 3577/2005).

La giurisprudenza tuttavia ha ammesso che l'obbligo di versamento possa essere adempiuto anche mediante compensazione avendo la Cassazione ritenuto che essa non determina un mutamento dell'originaria obbligazione pecuniaria (Cass. n. 6711/2009).

Non sono di ostacolo alla compensazione le disposizioni sulla postergazione dei crediti del socio; infatti la trasformazione di un finanziamento in conferimento, per effetto della compensazione, risulta pur sempre coerente con la finalità dell'art. 2467 c.c. che è quella di evitare che i soci possano avvantaggiarsi della loro posizione a danno dei creditori; nella sostanza il socio finisce per rafforzare patrimonialmente la società anche attraverso tale modalità, esattamente come l'avrebbe fatto se avesse sottoscritto un aumento di capitale fin dall'origine (Trib. Bologna 31 gennaio 2019 in Il Societario 28 novembre 2019).

Recentemente la giurisprudenza di merito è tornata sull'argomento ( Trib. Palermo 6 luglio 2021 n. 2863 in Dejure) assumendo che la compensazione non è attuabile con riferimento a debiti relativi alla sottoscrizione del capitale in sede di atto costitutivo, in quanto i conferimenti iniziali possono essere costituiti solo da beni inidonei a formare oggetto di garanzia patrimoniale,    ritenendola applicabile solo all'ipotesi di aumento di capitale nella quale tale modalità di estinzione del debito del socio non determina un pregiudizio per i creditori; tuttavia tale posizione richiama giurisprudenza della Cassazione risalente agli anni 90 ed una concezione del capitale sociale oramai largamente superata dalla dottrina. Inoltre, le pronunce giurisprudenziali richiamate nella sentenza escludevano la compensazione in relazione ai versamenti da effettuare ancor prima della costituzione della società (che ovviamente non possono essere compensati con nessun debito per la mancanza addirittura della società) ma non certamente la compensazione con il debito derivante dall'obbligo di liberare completamente il capitale sottoscritto con l'atto costitutivo.    ( sull'argomento vedasi anche il commento all'art. 2342 cc, § 2)

Va, però, segnalata la posizione di chi ritiene che l'esigenza della società di acquisire denaro fresco da impiegare nell'attività economica possa essere soddisfatta con l'introduzione, ai sensi dell'art. 1246, n. 4, c.c., nell'atto costitutivo o anche nello statuto, di una clausola che impedisca la compensazione (Platania, 12).

E' sempre possibile liberare l'aumento di capitale sottoscritto mediante compensazione con un credito del socio da finanziamento, anche nel caso in cui il termine per il rimborso non sia ancora scaduto.  Non osta a tale operazione neppure il fatto che ricorrano le condizioni per la postergazione dei crediti dei soci stabilite dall'articolo 2467 codice civile, in quanto applicabili alle società per azioni (Cass. n. 2018/16291), posto che la conversione del credito da finanziamento in capitale di rischio concorre alla protezione degli interessi dei creditori terzi tutelati da tale disposizione. L'assemblea non deve obbligatoriamente deliberare sulla compensabilità del debito da sottoscrizione, se non per escluderla richiedendo  la liberazione dell'aumento mediante versamento in denaro. Consiglio Notarile di Firenze Massima n. 23/2011.

La messa in mora.

L'ultimo comma prevede che il socio in mora nei versamenti non possa esercitare il diritto di voto.

Si tratta di comprendere se, ai fini della sospensione del diritto di voto, occorra una formale intimazione ovvero se essa dipenda dal solo fatto del mancato versamento.

Sul punto occorre osservare che i pochissimi precedenti della Cassazione sono stati emessi in relazione a fattispecie che riguardavano società a responsabilità limitata nelle quali, come in precedenza sottolineato, è possibile prevedere un termine per l'adempimento. Com'è noto, scaduto il termine per l'adempimento, non è necessaria la messa in mora se la prestazione deve essere eseguita presso il domicilio del creditore (art. 1219, secondo comma, n. 3, c.c.).

Per Cass.  n. 1874/1995 e Cass.  n. 585/2015, la diffida al socio moroso degli amministratori, prevista dall'articolo secondo le formalità specificate, non occorre per la decadenza dai diritti corporativi, poiché la speciale diffida risulta prodromica esclusivamente all'inizio della procedura di vendita in danno. Anzi, specifica la giurisprudenza, la diffida può essere emessa solo nei confronti del socio già moroso.

Ciò porta a ritenere, ma solo per la società a responsabilità limitata, che per la sospensione dai diritti corporativi (come previsto dall'art. 2466 c.c.), non sia necessario un particolare atto degli amministratori, essendo sufficiente la sola mora nel versamento delle somme occorrenti per liberare completamente le quote sottoscritte, conseguente alla scadenza del termine per il versamento.

Non sembra, però, possibile ritenere la stessa cosa per le società per azioni (e per le società a responsabilità limitata nelle quali non sia stato previsto un termine per il versamento).

Come già più volte specificato, per le s.p.a. non è possibile prevedere un termine per l'adempimento e, quindi, occorre una specifica richiesta degli amministratori rivolta a tutti i soci spettando, infatti, agli amministratori richiedere il completamento dei versamenti in conformità del disposto dell'art. 1183 c.c. Solo dopo che gli amministratori abbiano, per iscritto, richiesto il versamento, i soci potranno effettivamente ritenersi in mora (trascorso l'eventuale termine autonomamente concesso loro dagli amministratori) a meno che il socio abbia, sempre per iscritto, dichiarato di non volere adempiere (in conformità all'art. 1219 c.c.).

Gli altri soci non possono, però, far accertare la mora di altro socio se, in precedenza, non sia stata intimata dagli amministratori, poiché il potere di richiedere ai soci i versamenti compete solo all'organo amministrativo.

L'effetto della sospensione del diritto di voto, tuttavia, consegue automaticamente, quale sanzione, alla mora; in altre parole gli amministratori possono scegliere se richiedere o meno i versamenti (a tutti i soci e non solo ad alcuni, per evitare differenze di trattamento ingiustificate), ma, una volta chiesto l'adempimento, alla mora consegue l'effetto automatico della sospensione del diritto di voto.

Va segnalata la posizione dottrinale secondo cui la sospensione del diritto di voto potrebbe essere esclusa con deliberazione dell'organo amministrativo ed anche sostituita con altra (Pisani Massamormile 514).

Per effetto della sola messa in mora, il socio è sospeso dall'esercizio del diritto di voto, ma non dagli altri diritti corporativi e patrimoniali tra cui il diritto a percepire gli utili eventualmente maturati, salva la facoltà per la società di compensare il debito con il credito verso il socio. 

 

Conseguentemente  permane in capo al socio anche il diritto di agire per la nullità della delibera, fermo restando che la qualità di socio debba perdurare fino alla pronuncia (Cass. n. 4372/2003).

È stato affermato, nel vigore del sistema precedente alla riforma, che alla sospensione del diritto di voto consegue anche la sospensione del diritto di impugnazione delle delibere annullabili, per l'inscindibile collegamento tra voto e diritto di impugnativa (Trib. Milano 7 luglio 1994, in Soc. 1995, 537; vedasi anche, sul punto, Cass. n. 13169/2005, per cui il socio le cui azioni sono state sequestrate non può né votare, né impugnare le delibere). Si può dubitare, però, di tale orientamento, perché non fondato su un espresso dettato legislativo, necessario per sopprimere un così rilevante diritto del socio. Sulla portata dei diritti che  residuano  al socio moroso è intervenuta recentemente la Cassazione precisando che, pur pendente il procedimento di mora, non è precluso al socio di esercitare il diritto di controllo della gestione sociale ( Cass 1185/2020). 

Conseguentemente  permane in capo al socio anche il diritto di agire per la nullità della delibera, fermo restando che la qualità di socio debba perdurare fino alla pronuncia (Cass. n. 4372/2003).

La diffida

Ma la messa in mora dei soci non è sufficiente per procedere alla procedura di adempimento in danno, essendo necessaria la diffida prevista dall'art. 2344.

Fermi gli effetti della mora già verificatasi, gli amministratori per procedere alla vendita in danno dovranno far pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale una diffida ad adempiere nel termine (inderogabile, Pisani Massamormile, 481) di quindici giorni, vanamente trascorso il quale, in primo luogo, le azioni dovranno essere offerte ai soci in proporzione alla loro partecipazione, per un prezzo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti.

A seguito del mancato adempimento, dopo la diffida, entro il termine di quindici giorni, agli amministratori che non intendano agire per il recupero forzoso delle somme (eventualmente anche nei confronti dell'alienante) si apre la possibilità di mettere in vendita, prima ai soci, in proporzione alla loro partecipazione al capitale, e poi a terzi, per il tramite di un intermediario autorizzato o di una banca, le azioni, ad un prezzo che, però, non può essere in nessun caso inferiore a quello necessario per coprire integralmente la parte mancante del conferimento, come espressamente indicato dalla norma.

Il prezzo può essere, invece, superiore.

Qualora non si riuscisse a trovare, in tutto od in parte, acquirenti che provvedano al versamento dei conferimenti mancanti, gli amministratori devono dichiarare decaduto il socio; sebbene la disposizione attribuisca una mera facoltà agli amministratori, una corretta interpretazione delle norme sulla tutela del capitale impone di ritenere che la declaratoria di decadenza costituisca un obbligo per gli amministratori, poiché altrimenti non si potrebbe procedere alla necessaria riduzione del capitale.

È poi preferibile ritenere che non tutte le azioni debbano essere estinte; secondo un risalente, ma sempre condivisibile orientamento giurisprudenziale (App. Firenze, 14 gennaio 1964, in Banca borsa tit. cred. 1964, II, 581), la società ben potrebbe considerare integralmente liberate quelle azioni che risultano coperte dall'iniziale versamento del socio moroso, apparendo più conforme agli interessi della società ritenere interamente liberata una sola parte delle azioni piuttosto che considerare non liberate tutte le azioni non integralmente sottoscritte dal socio. La possibilità di trattenere le somme già riscosse costituisce una sorta di penale  (Signorelli, Mancata esecuzione dei conferimenti, Il Societario, 3 luglio 2017) alla quale, conseguentemente, la società, per mezzo dei suoi amministratori, può rinunciare.

Secondo la giurisprudenza (Cass. n.13514/2021 che è peraltro intervenuta su una fattispecie relativa a società a responsabilità limitata ma affermando principi certamente validi anche per le spa) qualora le azioni non liberate appartengano ad un soggetto nei cui confronti è stata aperta procedura di concordato, non è possibile procedere alla vendita coattiva delle sue quote neppure in caso di mora nei pagamenti, ostandovi il disposto dell'art. 178 L.F. Ha osservato la Cassazione che il rimedio previsto dall'art. 2344 c.c. ha natura esecutiva essendo finalizzato ad ottenere l'immediato soddisfacimento coattivo del credito della società, prevedendosi, in caso di mancanza di offerte d'acquisto degli altri soci, l'immediata vendita all'incanto della quota del socio moroso, senza che la società debba procurarsi aliunde un titolo esecutivo. Quindi, anche tale evento rientra tra le ipotesi contemplate 54 c.c.i.i., se richiesta dal debitore di divieto di azioni esecutive in danno del debitore nei cui confronti è aperta una procedura di concordato preventivo non rilevando neppure che la disciplina sia ispirata a tutelare l'integrità ed effettività del capitale sociale ed a conseguire sempre e comunque l'effetto della sua liberazione.

Analogo effetto ha anche l'ammissione del debitore moroso nel pagamento delle quote alla procedura di concordato minore ai sensi dell'art. 78 lett. d) c.c.i.i. ( dovendosi escludere che il socio moroso possa ricorrere alla procedura di ristrutturazione dei debiti prevista per il solo consumatore attesa la natura non consumeristica del debito) .  

L'enunciazione del principio pone però alcuni problemi di coordinamento della normativa societaria con quella concorsuale.  Infatti da quanto statuito, discendono come corollari: che il credito verso il socio in concordato preventivo ha natura concorsuale; il credito deve essere considerato chirografario, non essendo previsto alcun privilegio, ed è, pertanto, falcidiato nella misura prevista dalla proposta per tali crediti; il soddisfacimento di questo credito come gli altri chirografari può avvenire solo dopo che siano stati soddisfatti i crediti privilegiati; infine, il pagamento della percentuale chirografaria e l'adempimento del concordato ha effetti esdebitatori per la parte non pagata.

Ciò, però, produce effetti sul capitale della società creditrice; innanzitutto se l'apertura del concordato è precedente alla diffida, risulta impossibile (e comunque sarebbe senza effetto) procedere alla messa in mora del socio poiché questi si trova legalmente nella posizione di non potere pagare fino alla chiusura del concordato e comunque secondo i termini previsti nella proposta concordataria; ovviamente non possono neppure offrirsi le azioni non integralmente liberate agli altri soci, disporre la decadenza del socio, l'acquisizione delle somme già versate e la riduzione del capitale. Ed ancorchè le azioni del socio debitore fossero necessarie a raggiungere il capitale minimo, gli effetti dell'apertura del concordato non consentirebbero di ritenere la società versare in ipotesi di scioglimento per riduzione del capitale al di sotto del minimo legale. 

Poiché l'effetto esdebitatorio consegue all'approvazione del concordato da parte dei creditori e alla omologazione del concordato da parte del Tribunale, la società dovrà valutare l'impatto del concordato sul capitale (per la parte che non verrà soddisfatta dalla debitrice), senza, però, disporre la vendita delle azioni o la esclusione del socio in quanto, il socio deve ritenersi completamente adempiente agli obblighi derivanti dalla sottoscrizione. Dovrà, però, essere disposta la riduzione del capitale se la quota non versata determini una riduzione del capitale in misura superiore ad un terzo, dovendo il deficit patrimoniale, conseguente alla applicazione delle regole concordatarie, essere trattata alla stregua di una sopravvenienza passiva disciplinata dall'art. 2446 c.c. a somiglianza di quanto potrebbe accadere in caso di revoca del conferimento ai sensi dell'art. 2901 c.c.

Le azioni, quindi, potranno semmai esser vendute dal concordato nell'ambito della procedura e l'acquirente non sarà neppure tenuto al pagamento degli importi ancora dovuti.

Va invece esclusa, al rapporto derivante la sottoscrizione del capitale, l'applicazione della disciplina dei contratti pendenti di cui all'art. 97 c.c.i. i. che consente al debitore di chiedere lo scioglimento dei contratti se non più strategici per la procedura; infatti, secondo la definizione della legge fallimentare, i contratti pendenti sono solo quelli che risultano non eseguiti da entrambi i contraenti, mentre nel caso contemplato dall'art. 2344 cc, la società avrebbe già integralmente adempiuto alla sua obbligazione verso il socio attribuendogli le azioni relative al versamento promesso.

In caso di liquidazione giudiziaria , , invece, non sussistono ostacoli all'integrale applicazione dell'art. 2344 c.c. non essendo nemmeno necessaria l'insinuazione al passivo.

La declaratoria di decadenza deve essere pronunciata dall'organo amministrativo, ed è impugnabile dal socio moroso, ledendo direttamente i suoi interessi (Trib. Milano 29 marzo 2014, in Soc., 2015, 177) non ostandovi l'intervenuta perdita della qualità di socio, poiché con l'impugnazione egli tende a ripristinare tale qualità (Cass.  n. 18845/2016).

Prima di procedere alla necessaria riduzione, è concesso, comunque, alla società un ulteriore termine, fino alla fine dell'esercizio in cui è stata dichiarata la decadenza, per potere procedere alla vendita delle azioni.

La delibera di riduzione del capitale deve essere assunta dall'assemblea straordinaria; qualora questa non vi provveda, gli amministratori dovranno attivare la procedura prevista dall'art. 2446, secondo comma, applicabile a tutti i casi di necessaria riduzione del capitale.

Nel sistema precedente la riforma si era escluso che l'assemblea dei soci potesse ridurre il capitale ai sensi dell'art. 2445 c.c. liberando il socio moroso dall'obbligo di effettuare i versamenti ancora dovuti, non verificandosi un caso di esuberanza del capitale.

Ancorché la riforma abbia ammesso la possibilità di riduzioni del capitale per ipotesi diverse dall'esuberanza, ancora oggi deve ritenersi esclusa questa possibilità, poiché ciò rappresenterebbe una violazione delle disposizioni sulla parità di trattamento dei soci, che devono essere pur sempre applicate nella riduzione del capitale disposta ai sensi dell'art. 2445 c.c. Solo una delibera unanime potrebbe, forse, consentire tale soluzione; rimarrebbe, comunque, la possibilità per i creditori di proporre opposizione.

il mancato pagamento del sovrapprezzo azioni

Vedi sub art. 2442, § 11

Bibliografia

Liva, La regola della postergazione non pregiudica la sottoscrizione del capitale con compensazione del credito, Il societario, 2019; Pisani Massamormile, I conferimenti nelle società per azioni, Milano, 2015;  Platania, I conferimenti nelle spa, Milano, 2011.  

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