Codice Civile art. 2381 - Presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati (1).

Renato Bernabai

Presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati (1).

[I]. Salvo diversa previsione dello statuto, il presidente convoca il consiglio di amministrazione, ne fissa l'ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all'ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri.

[II]. Se lo statuto o l'assemblea lo consentono, il consiglio di amministrazione può delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti.

[III]. Il consiglio di amministrazione determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega; può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Sulla base delle informazioni ricevute valuta l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società; valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione.

[IV]. Non possono essere delegate le attribuzioni indicate negli articoli 2420-ter, 2423, 2443, 2446, 2447, 2501-ter e 2506-bis.

[V]. Gli organi delegati curano che l'assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa e riferiscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni sei mesi (2), sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate.

[VI]. Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società.

(1) Articolo sostituito dall' art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6.

(2) Le parole «sei mesi» sono state sostituite alle parole «centottanta giorni» dall'art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, come modificato dall'art. 5 1r) d.lg. 6 febbraio 2004, n. 37.

Inquadramento

La norma in esame, nel testo originario, constava di un solo comma, contenente una disciplina poco più che embrionale dell'istituto della delega gestoria da parte del consiglio di amministrazione. È stata novellata funditus dalla riforma, con una disciplina specifica del rapporto tra consiglio di amministrazione e consiglieri delegati, che, senza escludere l'autonomia statutaria per un'ancor più analitica regolamentazione, delinea le rispettive competenze: disciplina estensibile, nei limiti di compatibilità, alle società informate al sistema monistico (art. 2409 noviesdecies); mentre, solo l'ultimo comma, concernente il dovere degli amministratori di agire in modo informato ed il potere di ciascuno di essi di chiedere informazioni agli organi delegati, è stato applicato anche al consiglio di gestione, nelle società caratterizzate dal sistema dualistico (art. 2409-undecies).

Costituisce indubbia novità della riforma l'accentuata distinzione di funzioni e responsabilità tra amministratori delegati e deleganti, resa palese dalla soppressione del generico dovere di vigilanza sull'andamento generale della gestione, previsto nel testo originario dell'art. 2392, secondo comma.

La delegabilità dei poteri del consiglio di amministrazione non rappresenta, peraltro, la regola, bensì solo una delle possibili scelte statutarie o assembleari: cosicché il funzionamento interamente collegiale dell'organo gestorio costituisce una modalità di organizzazione fisiologica la cui scelta è rimessa allo statuto o all'assemblea (Trib. Milano 20 maggio 2021).

Le funzioni del presidente del consiglio d'amministrazione

Il primo comma definisce le attribuzioni del presidente del consiglio di amministrazione. Si tratta di una disciplina che ha razionalizzato la pratica interpretativa precedente, richiamando principi già elaborati dal codice di autodisciplina per le società quotate 6 ottobre 1999 (in Soc., 2000, 109), mediante il riconoscimento di una serie di poteri, diretti non soltanto a coordinare l'attività consiliare, ma anche a stimolarla, in modo da garantire l'incisività del ruolo del consiglio di amministrazione e l'efficienza della sua attività.

In sede di legislazione delegata, nella riforma del 2003, lo schema del decreto legislativo approvato in data 29-30 settembre 2002, all'art. 2381, si limitava a rinviare integralmente allo statuto la determinazione dei poteri del presidente.

È dubbio se la dispositività della norma consenta all'autonomia privata il solo accrescimento, o non anche la riduzione, dei poteri presidenziali; il primo dei quali, nel subprocedimento volto alla regolare costituzione del collegio, riguarda la convocazione, consistente in un atto a struttura procedimentale con destinatario plurimo, da riferire al consiglio nella sua unità e non ai singoli componenti. Si effettua a mezzo avviso, con qualunque forma non esclusa dallo statuto, entro un termine non stabilito dalla legge ma comunque congruo; e deve raggiungere tutti gli amministratori e i sindaci (ed i consiglieri di sorveglianza, nel sistema dualistico: art. 2409-terdecies, ultimo comma), con una frequenza non inferiore ad una volta per anno – stante l'obbligo di redigere il progetto di bilancio dell'esercizio – ed a sei mesi in presenza di deleghe (salva una periodicità più ravvicinata prevista dallo statuto), per consentire lo scambio di informazioni tra organi delegati, consiglio di amministrazione e collegio sindacale sugli argomenti elencati al quinto comma.

Ulteriori convocazioni sono possibili, ed anzi doverose, su richiesta di singoli amministratori, che, pur essendo privi del potere di convocare autonomamente il consiglio, possono pretendere che il presidente vi provveda, con uno specifico ordine del giorno: tanto più, quando l'omessa convocazione comporti la loro responsabilità (Cass. I, n. 6238/1998, in un'ipotesi di perdite di capitale oltre il terzo, ex art. 2446).

Di sicuro, il potere del presidente è posto a garanzia dell'efficiente funzionamento dell'organo collegiale, onde non può tradursi in fattore di paralisi dello stesso.

Appare ammissibile, su base statutaria, attribuire il potere di convocazione ad un organo diverso dal presidente, come ad esempio il consigliere più anziano; o addirittura, stabilire a priori una regola generale di riunione del consiglio in giorni determinati, o un certo numero di volte, con periodicità fissa.

Le modalità della convocazione non sono prefissate rigidamente dalla legge e quindi rientrano nella libera disponibilità statutaria; o in difetto di regolamentazione, rimesse alla discrezionalità del presidente. La forma scritta è quella ordinaria, ma non prescritta a pena di invalidità.

Sono quindi ammissibili comunicazioni alternative, per posta elettronica (tanto più, che ora consente la certificazione del messaggio: d.m. 2 novembre 2005 del Ministro per l'Innovazione e le Tecnologie), fax, ed anche orali, per via telefonica. Problema diverso, naturalmente, è la possibilità di fornire, poi, la prova della regolare convocazione dell'amministratore assente in un eventuale giudizio di impugnazione della delibera consiliare.

L'avviso di convocazione deve contenere l'indicazione di data, luogo di riunione – ma solo quando questo sia diverso dalla sede sociale – e ordine del giorno.

Il luogo di convocazione della riunione del consiglio d'amministrazione coincide infatti, di norma, con la sede sociale; tuttavia, è legittima la scelta di un luogo diverso, non necessariamente dovuta ad indisponibilità temporanea della sede: salvo il limite dell'intenzionale disagio cagionato a consiglieri di cui si voglia impedire la presenza sgradita.

Altro elemento essenziale del subprocedimento di convocazione è l'ordine del giorno, che consente l'adempimento del dovere di agire informati, contestualmente imposto al sesto comma: altrimenti impossibile, in caso di deliberazioni a sorpresa, su temi suggeriti all'ultimo momento dal presidente o da singoli consiglieri.

Soddisfatta l'esigenza di una preventiva conoscenza dei punti all'ordine del giorno, non si ravvisano ragioni per inibire la richiesta di singoli consiglieri al presidente di inserire specifici argomenti all'ordine del giorno: non sembrando indicativa di una contraria volontà normativa – tanto meno di natura imperativa – la formula letterale “Il presidente... fissa l'ordine del giorno”, dal momento che l'intera disciplina dell'iter procedimentale di convocazione ha espressa natura dispositiva: come confermato dall'incipit del comma (“Salvo diversa previsione dello statuto...”).

Nella prassi societaria, ed in particolare negli statuti di società bancarie e finanziarie, sono piuttosto frequenti clausole che attribuiscono al presidente, in caso di necessità ed urgenza, poteri di ordinaria spettanza collegiale: prassi, da considerare legittima, fermi i limiti di legge inderogabili, riguardanti decisioni insuscettibili di delega (art. 2381, quarto comma).

Ulteriore funzione del presidente è quella di provvedere affinché informazioni adeguate sulle materie iscritte all'ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri. Si tratta di competenza di natura legale – e quindi originaria, inclusiva del potere di coordinamento dei lavori del consiglio – e ordinatoria.

La cura dei flussi informativi, da parte del presidente, tenuto a che vengano forniti dagli organi delegati adeguate informazioni sulle materie iscritte all'ordine del giorno con ragionevole anticipo, integra la funzione di garanzia; cosicché, l'omesso o negligente adempimento di tali compiti può integrare profili di responsabilità (Cass. pen., V, n. 23838/2007).

La collegialità dell'organo amministrativo è strumentale alla rapidità e alla ponderazione delle decisioni di carattere gestionale e differisce, quindi, dal metodo collegiale nelle deliberazioni dei soci, in cui è invece funzionale alla tutela della posizione soggettiva del singolo socio (Trib. Campobasso 31 ottobre 2007, in Soc., 2008, 1138, con nota di Dardes).

Il mancato rispetto delle modalità di convocazione dettate dalla norma o dallo statuto integra un vizio di procedimento, ed in particolare, un difetto concernente il modo di formazione della volontà consiliare. Prima della riforma del 2003, l'omessa convocazione di un amministratore, era ritenuta addirittura causa di inesistenza della delibera consiliare, nonostante la presenza di un numero di amministratori integrante sia il quorum costitutivo, sia quello deliberativo (e quindi, senza ammissibilità della prova di resistenza): suscettibile di riverberarsi, in senso radicalmente invalidante, sulle deliberazioni dell'assemblea in quel modo convocata (Cass. I, n. 9314/1995).

In senso contrario, si può ritenere che, ai fini della regolare imputazione giuridica della fattispecie al collegio, il vizio da omessa convocazione di uno dei membri non impedisca la costituzione di un organo, riunitosi nel numero legale previsto dal quorum strutturale; salva l'annullabilità della conseguente delibera consiliare. In ogni caso, legittimati a far valere il vizio riguardante l'irregolare convocazione degli amministratori non sono i soci, bensì, unicamente, i membri del collegio assenti o dissenzienti, nonché i sindaci (Cass. I, n. 12012/1998, in un caso di convocazione disposta dal presidente del consiglio di amministrazione senza il rispetto del termine libero di preavviso prescritto dallo statuto).

Il dichiarato disfavore del legislatore della riforma verso la nozione stessa di inesistenza della delibera induce quindi a ritenere che le deliberazioni adottate dagli amministratori irregolarmente convocati siano comunque riferibili all'organo collegiale ed espressione della sua volontà, ancorché viziate e dunque annullabili.

Si ritiene possibile, in dottrina, l'autointegrazione dell'ordine del giorno da parte della maggioranza consiliare.

Normalmente, della riunione viene redatto il verbale da un segretario sotto la direzione del presidente, con funzione meramente documentaria, destinato ad essere inserito nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione (art. 2421 n. 4). Fanno eccezione le delibere consiliari delegate per l'aumento di capitale, trasfuse in un verbale notarile – trattandosi di modificazione dell'atto costitutivo (art. 2443, terzo comma) – nonché quelle di emissione di obbligazioni (art. 2410, secondo comma).

Sul dibattuto problema della compatibilità della funzione amministrativa con un rapporto di lavoro subordinato, si è sostenuta la tesi negativa con riferimento specifico al presidente del consiglio di amministrazione, in assenza dell'indefettibile elemento della subordinazione ai fini della esistenza di un rapporto di lavoro; mentre, ne è stata ammessa la compatibilità, laddove siano accertati, in concreto, una mansione diversa da quella propria della carica sociale e l'assoggettamento ad un effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass. V , n. 36362/2021, in Giur. it., 2022, 1154, con nota di Bertolotti). Appartiene al giudice del lavoro la competenza a decidere sulla domanda di riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, parasubordinato o d'opera presentata dall'amministratore unico (Cass. Lav., VI, n. 12308/2019).

La delega delle attribuzioni

La delega di attribuzioni prevista al secondo comma è una deroga alla collegialità, giustificata da esigenze di maggiore speditezza e specializzazione che giustificano la concentrazione della funzione gestoria in una o più persone, nell'ambito del consiglio di amministrazione.

È il regime normale di amministrazione della s.p.a., costante, nelle società quotate. Non v'è dubbio che le competenze degli organi delegati siano di tipo derivativo: come si evince, all'evidenza, dal potere di avocazione che residua al consiglio nella sua pienezza.

La dizione letterale del secondo comma consente l'ammissibilità di un unico comitato esecutivo e, per contro, di una pluralità di amministratori delegati.

La differenza tra le due ipotesi risiede nella collegialità del metodo, propria del solo comitato esecutivo; le cui sedute sono soggette alle ordinarie regole di convocazione e redazione del verbale, da trascrivere, poi, nell'apposito libro previsto dall'art. 2421, comma 1, n. 6 c.c.

La delega (non prevista nella s.r.l.) è decisa dal consiglio di amministrazione , ma su autorizzazione dei soci, espressa nello statuto o dall'assemblea (ordinaria, secondo la dottrina prevalente) e dev'esser accettata dal soggetto officiato.

Accanto alle deleghe tipiche (autorizzate) sono comuni nella prassi le deleghe atipiche, frutto di riparto interno di mansioni; spesso neppure formalizzate in una delibera consiliare e consistenti in una divisione di fatto delle competenze. Prima della riforma venivano ritenute inopponibili ai terzi ed alla stessa società, quale causa di esonero da responsabilità solidale ex art. 2392 c.c., non potendosi ammettere che gli amministratori modificassero unilateralmente il regime della loro responsabilità (Cass. I, n. 12696/2003; Cass. I, n. 3483/1998).

La dizione attuale dell'art. 2392, primo comma, con l'esclusione dalla responsabilità solidale in caso di danni cagionati nell'ambito di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni “in concreto” attribuite ad uno o più amministratori, lascerebbe pensare, per contro, ad una rilevanza esimente anche della delega atipica, pur in assenza di autorizzazione alla delega formalmente prescritta dal secondo comma dell'art. 2381 c.c.

L'elenco dei divieti legali di delega, di cui al quarto comma, riguarda attività organizzative (obbligazioni, bilancio, aumento di capitale, riduzione per perdite, fusione e scissione) e deve intendersi tassativo; come tale, insuscettibile di estensione analogica.

Anche lo statuto può escludere la possibilità di delega; è dubbio se possa anche obbligare alla delega; come pure se siano legittime deleghe illimitate o generiche.

In presenza di delega, la cui configurazione spetta al consiglio nella sua collegialità, i doveri di controllo del collegio sono più contenuti ed è attenuata la responsabilità dei consiglieri deleganti, essendo venuto meno, per effetto della riforma, il generale obbligo di vigilanza.

In ogni caso, la delega non è abdicativa dei poteri del collegio, ma piuttosto istitutiva di una competenza concorrente, come si evince dal potere di direttiva ed avocazione che permane in capo al consiglio: cosa diversa dalla revoca della delega al singolo consigliere, decisa dal consiglio di amministrazione, che, nel silenzio dell'art. 2381, si deve intendere assistita da una giusta causa. Pertanto, in applicazione analogica dell'art. 2383, terzo comma, disciplinante la revoca degli amministratori da parte dell'assemblea, stante l'identità di ratio, va risarcito il pregiudizio economico e sociale conseguente alla revoca priva di giusta causa; soprattutto quando la delega comporti un'attività remunerata, suscettibile di valutazione professionale nel mercato dei managers (Cass. I, n. 7587/2016). Tale indirizzo trova conferma nella giurisprudenza più recente, in cui si è ritenuto che, nel silenzio dell'art. 2381, anche la revoca della delega da parte del consiglio di amministrazione debba essere assistita da giusta causa, a pena di risarcimento dei danni, in applicazione analogica dell'art. 2383, terzo comma. L'analogia suscita, peraltro, qualche perplessità, non sembrando assimilabile la ratio della revoca di una delega – che lascia salva la qualifica di amministratore – dalla revoca della stessa funzione gestoria, per lo più naturalmente associata ad un giudizio negativo di merito. In sede casistica si è ritenuta giusta causa di revoca della delega la necessità di una profonda ristrutturazione organizzativa, conseguente, ad es., a sviluppi nel campo della tecnologia o della normativa di sicurezza, tali da incidere negativamente sull'affidamento riposto sulle attitudini del delegato, indipendentemente da suoi inadempimenti. Non basterebbe, invece, all'uopo, una generica esigenza riorganizzativa dalla società (Cass. VI-I, n. 4954/2020, in Giur. it., 2020, 2162, con nota di Bertolotti; App. Torino 9 gennaio 2018 n. 69).

Il terzo comma delinea le prerogative del consiglio in presenza di deleghe: oltre alla ricordata determinazione del contenuto, dei limiti e delle eventuali modalità di esercizio, con il correlativo potere di direttiva e avocazione, il consiglio procede alla valutazione dell'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile (ma non pure, tecnico- patrimoniale, stando al dato letterale) della società; all'esame delle strategie industriali e finanziarie; alla valutazione dell'andamento della gestione: di cui si dovrà dare, poi, formalmente atto nella relazione sulla gestione, allegata al bilancio, ex art. 2428 secondo e terzo comma (ove si parla, al n. 6, dell'evoluzione prevedibile della gestione). Il tutto, sulla base dei flussi informativi provenienti dagli organi delegati, la cui frequenza, ai sensi del quinto comma, dev'essere almeno semestrale, ma può essere anche maggiore in caso di previsione statutaria, ovvero quando la società sia quotata.

L'art. 150 del T.U.F. prescrive, infatti, che gli amministratori riferiscano tempestivamente, secondo le modalità stabilite dallo statuto e con periodicità almeno trimestrale, al collegio sindacale sull'attività svolta e sulle operazioni di maggior rilievo economico, finanziario e patrimoniale, effettuate dalla società o dalle società controllate; in particolare, sulle operazioni nelle quali essi abbiano un interesse, per conto proprio o di terzi, o che siano influenzate dal soggetto che esercita l'attività di direzione e coordinamento.

Agli organi delegati compete la definizione dei predetti assetti organizzativi, che, come prescrive il quinto comma, devono essere adeguati alla natura e alle dimensioni dell'impresa; laddove, il controllo della loro effettiva adeguatezza spetta oltre che al consiglio d'amministrazione, anche ai sindaci (art. 2403, primo comma).

Al riguardo, la terminologia legale è variegata: gli organi delegati devono “curare” l'adeguatezza (art. 2381, quinto comma); il consiglio e i deleganti devono “valutarla” sulla base delle informazioni ricevute (art. 2381, terzo comma); ed il collegio sindacale deve “vigilare” su di essa (art. 2403, primo comma).

Ma, mentre è agevole la distinzione tra la fase attiva della predisposizione di adeguati assetti organizzativi, spettante ai consiglieri delegati, e quella di verifica e controllo, propria del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale, tra questi ultimi due organi, ad onta del diverso verbo utilizzato (“valutare” e “vigilare”) sembra sussistere un concorso in attività identiche; anche se la citata Relazione di accompagnamento limita la vigilanza dei sindaci alla permanente sussistenza di tale adeguatezza ed alla correttezza del concreto funzionamento dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato (art. 2403, primo comma). Né appare ancorata ad un saldo sostrato testuale la tesi che ravvisa la differenza nel carattere astratto della valutazione rimessa al consiglio di amministrazione, rispetto alla valutazione in concreto devoluta ai sindaci.

È dubbio se il sindacato giudiziale dell'adeguatezza degli assetti societari incontri limiti precisi, in applicazione della cd. Business judgement rule, tenuto conto che l'organizzazione della società e dell'impresa rientra, per antonomasia, nella sfera di discrezionalità degli amministratori.

Al riguardo, si è ritenuto in qualche pronuncia che la cura al riguardo dovuta dall'organo amministrativo delegato non abbia contenuto specifico e sia soggetta alla business judgement rule: restando, perciò, caratterizzata da un insopprimibile margine di libertà di scelta (Trib. Roma 15 settembre 2020). La tesi suscita qualche dubbio, in quanto l'emersione tempestiva di situazioni di crisi appare un obbligo di risultato nel sistema della legge: onde la défaillance degli assetti organizzativi nel rilevarla in tempo, sembra rientrare nell'ordinario sindacato giudiziale, tenuto conto dell'circostanze concrete conoscibili ex ante.

Si può notare come l'introduzione, nell'ordinamento delle società, del principio di adeguatezza – nella norma in esame, come pure nell'art. 149 Testo unico finanziario e nel d.lgs. n. 231/2001 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica), ove si parla di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati – costituisce riprova della tendenza del legislatore a tradurre in norme giuridiche principi elaborati dalla scienza aziendalistica.

È controverso, in dottrina, se al consiglio competa un potere debole (di mero controllo dei piani elaborati dai delegati), o forte (di decisione sui progetti elaborati dagli organi delegati): alla prima interpretazione induce il dato letterale del terzo comma, che prescrive che il consiglio di amministrazione valuti (non si dice: “approvi”) i piani strategici elaborati dagli amministratori delegati (peraltro, si tratta solo di un'eventualità: ... “quando elaborati”).

È giurisprudenza costante che all'amministratore di una S.p.A. non è consentito delegare ad un terzo poteri che, per vastità dell'oggetto ed entità economica, in assenza di precise prescrizioni preventive, facciano assumere al delegato la gestione dell'impresa e il potere di compiere le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale, di esclusiva spettanza degli amministratori (Cass. II, n. 24068/2022, in Giur. it., 2023, 1, 118, con nota di Vitale).

Il dovere di agire informati

L'ultimo comma impone l'incondizionato dovere di agire informati, che costituisce specificazione del generale obbligo di diligenza e si traduce in un potere-dovere di chiedere informazioni; ma, secondo l'opinione prevalente, non pure di esperire autonome indagini ispettive, a differenza dei sindaci (art. 2403-bis).

La riforma del 2003, lo ha sostituito al previgente obbligo di vigilanza, previsto dall'art. 2392, secondo comma. La Relazione di accompagnamento al progetto di riforma (paragrafo 6.III.4) chiarisce che l'eliminazione dell'obbligo di vigilanza di cui al secondo comma è stato ispirato al fine di evitare il rischio di responsabilità oggettiva, ostacolo e disincentivo all'assunzione della carica di amministratore da parte di professionisti qualificati: rischio, imputato, peraltro, da parte della dottrina, più che al tenore letterale della norma, ad una giurisprudenza troppo rigorista, che escludeva la responsabilità dell'amministratore non operativo solo se l'omissione di vigilanza fosse dipesa dal comportamento ostativo degli altri amministratori, pur diligentemente sollecitati; con onere della prova liberatoria a carico del convenuto (Cass. I, n. 12696/2003).

Soprattutto appariva disarmonica l'imposizione di un dovere, gravido di pesanti responsabilità, senza un corrispondente potere di ispezione che rendesse effettiva la vigilanza, consentendo di prevenire atti gestionali dannosi per la società.

Il nuovo testo indica la modalità di acquisizione delle informazioni, tramite richiesta di notizie agli organi delegati: modalità esclusiva, frutto della procedimentalizzazione dei controlli degli amministratori deleganti, ove si escluda, come detto, un potere di ispezione diretto sugli aspetti gestionali emergenti dalle scritture contabili e dalla documentazione (in senso ammissivo, invece, Salafia, Amministratori senza delega fra vecchio e nuovo diritto societario, in Soc., 2006, 292: che ne deriva la sostanziale identità dell'attuale disciplina con il previgente dovere di vigilanza ex art. 2392, secondo comma. In senso contrario, tra gli altri, Zamperetti, La convocazione e l'ordine del giorno del consiglio di amministrazione di S.p.A., in Soc., 2006, 276).

È configurabile una posizione di garanzia rilevante penalmente in capo all'amministratore non esecutivo, che sarà responsabile, per omesso impedimento, soltanto qualora sia dimostrata in capo al medesimo la rappresentazione dell'evento nella sua portata illecita (in termini di “conoscenza” e non di mera “conoscibilità”) e l'omissione consapevole di ogni sforzo per impedirlo. È affermazione ricorrente, sul punto, che la richiesta di informazioni ai consiglieri delegati sia doverosa nei soli casi di criticità già manifeste: prestandosi altrimenti ad una riedizione dell'abolito dovere generale di vigilanza che figurava nel testo previgente dell'art. 2392, secondo comma e che trasmodava, di fatto, in responsabilità oggettiva, per condotte dannose degli altri amministratori.

In applicazione del principio si è ritenuta, pertanto, la responsabilità dei consiglieri non operativi solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli in virtù della conoscenza - o della possibilità di conoscenza, in adempimento del dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. - di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze (Cass. I, n. 17441/2016). E cioè, in sostanza, in caso di inattività colpevole, nonostante la presenza di segnali d'allarme (Trib. Milano 31 ottobre 2016, in Soc., 2017, 881, con nota di Milano).

I principi derivanti dall'applicazione del dovere di «agire informati» di cui al sesto comma dell'art. 2381 c.c., valgono anche riguardo al rapporto tra l'amministratore che ha direttamente compiuto le operazioni vietate e gli altri amministratori delegati o partecipanti a un comitato esecutivo (Trib. Milano, 3 marzo 2015, in Giur. comm., 2016, II, 332, con nota di Corradi).

Tale ricostruzione dell'ambito del dovere di agire informati ha ricadute anche in sede penale.

In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ai fini della configurabilità del concorso per omesso impedimento dell'amministratore privo di delega è necessaria la prova della sua concreta conoscenza del fatto pregiudizievole per la società o, quanto meno, di «segnali di allarme» inequivocabili, dai quali sia desumibile l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento illecito, nonché della volontaria omissione di attivarsi per scongiurarlo (Cass. pen., V, n. 32252/2014).

In termini analoghi, Cass. I, n. 22848/2015 ha statuito, in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, che la Banca d'Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, ha unicamente l'onere di dimostrare l'esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo; mentre, spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno.

E ancora: ai fini dell'affermazione della responsabilità penale degli amministratori senza delega è necessaria la prova della concreta conoscenza – e non della mera conoscibilità – dei dati da cui poteva desumersi quanto meno il rischio del verificarsi di un evento pregiudizievole per la società: prova che necessita dell'allegazione, da parte dell'attore, del flusso informativo diretto verso gli amministratori non esecutivi (Trib. Napoli, 7 aprile 2014, in Foro nap., 2014, 895, con nota di Campanile).

In talune pronunce di legittimità sembra, tuttavia, che l'obbligo di agire informati sconfini, tuttora, in un obbligo di vigilanza; per lo meno in ambiti imprenditoriali, come quello bancario, caratterizzato da un dovere particolarmente stringente dei consiglieri non esecutivi, anche in ragione degli interessi protetti dall'art. 47 Cost., la cui rilevanza pubblicistica plasma l'interpretazione delle norme dettate dal codice civile.

Si è infatti affermato che in tema di sanzioni amministrative previste dall'art. 144 d.lgs. n. 385/1993, il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dall'art. 2381, terzo e sesto comma, e 2392 c.c. non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall'intero consiglio, hanno l'obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi: non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell'esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega (Cass. II, n. 2737/2013, n. 2737, in Riv. dir. comm., 2014, II, 133, con nota di Cicchinelli).

La Banca d'Italia ha emanato la disciplina regolamentare di cui alla circolare n. 264010 del 4 marzo 2008 “Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche”, successivamente sostituita dalla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013Disposizioni di vigilanza per le banche”, attuativa della direttiva europea 2013/36/UE (cosiddetta CRD IV). Le disposizioni precisano in maniera dettagliata i compiti e le funzioni di ogni singolo organo societario ed enunciano i doveri degli amministratori non esecutivi. Chiamati a svolgere un'importante funzione dialettica di monitoraggio sulle scelte compiute dagli esponenti esecutivi, devono fare da contrappeso a questi ultimi. In particolare, essi devono acquisire, avvalendosi dei comitati interni se esistenti, informazioni sulla gestione e sull'organizzazione aziendale. La Direttiva 2013/36/UE sull'accesso all'attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento (direttiva sui requisiti patrimoniali - CRD IV) pone criteri quantitativi e qualitativi per gli organi amministrativi e di controllo, e la Guide to fit and proper assessment della BCE elabora precise metodologie di valutazione dei candidati. Il livello di diligenza e perizia richiesto nelle banche è molto più elevato che non nelle ordinarie società. L'amministratore delegato non può infatti muoversi solo sulla base di informazioni ottenute agli amministratori delegati. Il dovere più stringente è prescritto in ragione delle funzioni pubblicistiche delle banche (art. 47 Cost.).

Nell'ambito della disciplina codicistica novellata nel 2003, non va sottaciuto il rischio di deresponsabilizzazione, dipendente dal venir meno del dovere di vigilanza degli amministratori non esecutivi, tale da indurli a considerare il loro ruolo una comoda sinecura.

Per converso, l'obbligo di valutazione del generale andamento della gestione sulla base della relazione degli organi delegati, pur non implicando, per l'ordinario, il controllo diretto sui singoli atti, espone gli amministratori non esecutivi a temibili rischi di responsabilità (così, anche la Relazione di accompagnamento, paragrafo 6.III.2).

La giurisprudenza più recente, nonostante la modifica del regime di responsabilità apportata dalla riforma del diritto societario del 2003, continua, di fatto, a gravare i consiglieri non esecutivi dell'obbligo di assumere ogni opportuna iniziativa per sanare le irregolarità gestorie, conosciute e conoscibili, pur in difetto di segnalazione da parte degli amministratori delegati o delle strutture di controllo interno. La tesi è stata sostenuta, come detto, soprattutto in tema di società bancarie o autorizzate alla prestazione di servizi di investimento, sotto il profilo che tutti gli amministratori sono nominati in ragione della loro specifica competenza, anche nell'interesse dei risparmiatori (Cass. II, n. 4519/2022, in Soc., 2022, con nota di Moioli; Cass. II, n. 30499/2022; Cass. II, n. 2620/2021, in Soc., 2021, 559, con nota di De Poli; Cass. II, n. 5606/2019; Cass. II, n. 27365/2018, in Giur. it., 2019, 856, con nota di Riganti). L'obbligo degli amministratori di agire in modo informato ai sensi dell'art. 2381, ultimo comma, c.c., pur quando non siano titolari di delega, si traduce nell'obbligo di agire per prevenire o eliminare le criticità aziendali conosciute o conoscibili (Cass. II, n. 19556/2020; App. Milano 10 giugno 2019 n. 2513). La colpa dell'amministratore non operativo può consistere quindi anche nel non aver rilevato colposamente i segnali dell'altrui illecita gestione, purché conoscibile sulla base di segnali inequivocabili (Cass. II, n. 8237/2019). In generale, la responsabilità degli amministratori privi di deleghe operative, non è fatta discendere da una generica condotta di omessa vigilanza, né tanto meno a titolo di responsabilità oggettiva, bensì dal non aver impedito fatti pregiudizievoli dei quali abbiano acquisito – o avrebbero potuto acquisire – conoscenza, anche di propria iniziativa, in adempimento dell'obbligo previsto dall'art. 2381 c.c. (Cass. II, n. 21602/2021). Con il che, la differenza di disciplina rispetto al regime previgente, pur non formalmente negata, diventa, invero, alquanto evanescente.

 

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