Codice Civile art. 2389 - Compensi degli amministratori (1).Compensi degli amministratori (1). [I]. I compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all'atto della nomina o dall'assemblea. [II]. Essi possono essere costituiti in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall'attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione. [III]. La rimunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale. Se lo statuto lo prevede, l'assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche. (1) Articolo sostituito dall' art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6. InquadramentoOggetto della norma è il delicato e controverso tema del compenso degli amministratori di s.p.a., che ha assunto una centralità nevralgica per un'efficace gestione societaria: come rivelato anche dall'interesse a livello dell'Unione Europea palesato con la Raccomandazione della Commissione 2004/913/CE, del 14 dicembre 2004, relativa alla promozione di un regime adeguato per quanto riguarda la remunerazione degli amministratori delle società quotate, in cui si legge, al quinto “Considerando”, che “gli azionisti dovrebbero disporre di un resoconto chiaro ed esauriente della politica di remunerazione della società, il quale consenta loro di valutare la strategia seguita dalla società in materia di remunerazioni e rafforzi l'obbligo della stessa di render conto agli azionisti. Tale resoconto dovrebbe includere le informazioni relative alle forme di remunerazione integrative”. Come per il mandato (art. 1709), vi è una presunzione di onerosità della carica, che lascia salva l'ammissibile gratuità del compito, con rinunzia dell'amministratore al compenso, trattandosi di diritto patrimoniale disponibile: anche per fatti concludenti, mediante accettazione della nomina in una società il cui statuto preveda espressamente la gratuità dell'incarico, ovvero condizioni il compenso al conseguimento di utili (Cass., lav., n. 15382/2017). Fuori di questa ipotesi, l'amministratore vanta nei confronti della società un diritto soggettivo perfetto al compenso per l'incarico ricoperto, non comprimibile neppure per il caso di revoca. La giurisprudenza più recente ha ribadito che il diritto al compenso è disponibile e può anche essere oggetto di rinuncia o remissione del debito, anche tacita: la quale, tuttavia, può desumersi soltanto da un comportamento concludente, univocamente significativo della volontà abdicativa, non essendo sufficiente la mera inerzia nel richiederne il pagamento (Cass. VI-I, n. 24139/2018, in Foro it., 2018, I, 3904). La determinazione del compensoPremesso che tra i concetti di compenso (primo comma) e di retribuzione (menzionata al terzo comma) non v'è differenza sostanziale, la norma pone una distinzione tra i compensi dovuti a tutti gli amministratori ed i compensi agli amministratori investiti di cariche particolari. Per i primi, la determinazione può essere contenuta, in via generale e astratta, nello statuto (art. 2364, primo comma, n. 3) – con la conseguenza che la sua variazione deve essere approvata dall'assemblea straordinaria – oppure deliberata dall'assemblea ordinaria, senza necessità del parere del collegio sindacale, che è invece richiesto al terzo comma. Il mancato rispetto di tali previsioni dell'art. 2389 è stato oggetto anche di giurisprudenza penale. Integra, infatti, il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la condotta dell'amministratore che prelevi somme dalle casse sociali, a titolo di pagamento di competenze, ancorché su delibera del consiglio di amministrazione, in quanto la previsione di cui all'art. 2389 c.c. stabilisce che la misura del compenso degli amministratori di società di capitali, qualora non sia stabilita nello statuto, sia determinata con delibera assembleare (Cass. pen., V, n. 50836/2016; Cass. pen., V, n. 11405/2014). La scelta di fondo del legislatore si giustifica con la volontà di evitare che l'amministratore divenga “judex in causa sua”. Secondo parte della dottrina, invece, quando l'art. 2389, primo comma, recita “all'atto della nomina”, in contrapposizione alla determinazione assembleare, si riferisce sostanzialmente all'atto costitutivo (come si esprimeva la stessa norma, nel testo previgente) e riguarderebbe solo i primi amministratori ivi indicati; con la conseguenza che successive variazioni del compenso potrebbero essere determinate dall'assemblea ordinaria. Sennonché la tesi, coerente con il testo precedente alla riforma – che parlava, appunto, sia all'art. 2389 che all'art. 2364, primo comma, n. 3, di atto costitutivo (che deve indicare la nomina dei primi amministratori: artt. 2328, secondo comma, n. 11 e 2383, primo comma) – non sembra più collimare con la versione attuale dell'art. 2364, primo comma, n. 3, che richiama invece lo statuto, quale possibile fonte di determinazione del compenso. In tal senso, è, del resto, la giurisprudenza di legittimità, secondo cui la primazia della fonte statutaria importa che resti escluso che l'assemblea ordinaria possa accordare agli amministratori un compenso ulteriore rispetto a quello già previsto dallo statuto sociale, a nulla rilevando che quest'ultimo sia eventualmente stabilito nella forma aleatoria della partecipazione agli utili. (Cass. I, n. 8230/2006). Dopo la riforma, l'amministratore può votare anche sul proprio compenso, pur di natura aggiuntiva previsto dall'art. 2389, terzo comma: con l'unico obbligo di rivelare il proprio interesse, del resto ovvio, ai sensi dell'art. 2391 e l'obbligo del consiglio di amministrazione di motivare la determinazione conseguente. In caso di impugnazione della deliberazione assembleare che determina il compenso dell'amministratore ex art. 2389 c.c., non sussiste un conflitto immanente d'interessi, tale da condurre, in ogni caso, alla nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c.: onde, la società può essere rappresentata in giudizio dallo stesso amministratore che ne abbia la rappresentanza legale. La soluzione opposta produrrebbe, infatti, il rischio dell'esautoramento dell'organo amministrativo mediante il ricorso surrettizio al procedimento di nomina di un curatore speciale in tutte, o quasi, le cause di impugnazione delle delibere assembleari o consiliari (Cass. VI-I, n. 38883/2021, in Foro it., 2022, 1, 1085, con nota di De Luca). L'art. 2389 è richiamato nel sistema monistico (art. 2409-noviesdecies); ma non nel sistema dualistico (art. 2409-undecies). Sotto il profilo processuale, sussiste, allo stato, un contrasto sulla competenza in tema di controversie sul diritto al compenso. Così, si è affermato che vada attribuita alla cognizione della sezione specializzata in materia di impresa la controversia introdotta da un amministratore nei confronti della società e riguardante le somme da quest'ultima dovute in relazione all'attività esercitata, deponendo in tal senso, oltre alla ratio dell'art. 3, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 1682003, in quanto volto a concentrare tutta la materia societaria innanzi al giudice specializzato, anche la sua formulazione letterale: la quale, facendo riferimento alle cause ed ai procedimenti «relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario», si presta a comprendere, quale specie di questi, tutte le liti che vedano coinvolti la società ed i suoi amministratori, senza poter distinguere fra quelle che riguardino l'attività gestoria svolta dagli amministratori nell'espletamento del rapporto organico ed i diritti ad essi spettanti in forza del rapporto contrattuale che intercorre con la società (Cass. VI, n. 13956/2016). Ma, in senso contrario, si è negato che la controversia relativa al compenso spettante all'amministratore di una società di capitali per l'attività svolta in favore della società appartenga alla competenza del tribunale delle imprese, poiché ha ad oggetto il rapporto di lavoro, eventualmente parasubordinato, o di opera professionale tra detto soggetto e la società: fermo restando che la ripartizione delle funzioni tra sezioni ordinarie e specializzate di uno stesso tribunale non implica l'insorgenza di una questione di competenza, ma attiene alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno del medesimo ufficio, con conseguente inammissibilità del regolamento di competenza eventualmente proposto (Cass. VI, n. 11448/2014). All'amministratore, data la sua posizione apicale all'interno della società, non può essere riconosciuta la qualità di lavoratore subordinato, e quindi non gli è applicabile il principio costituzionale dell'equa retribuzione ex art. 36 Cost. Inoltre, in considerazione dell'immedesimazione organica tra la persona fisica e l'ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, il rapporto di amministrazione non è compreso tra quelli previsti dall'art. 409, n. 3, c.p.c. e pertanto il relativo compenso è pignorabile senza i limiti previsti dall'art. 545, comma 4, c.p.c. (Cass. S.U., n. 1545/2017). Tuttavia, è stato ritenuto che, stante natura di diritto soggettivo perfetto della pretesa al compenso, ove l'assemblea di una società di capitali, in mancanza di una disposizione nell'atto costitutivo, si rifiuti od ometta di stabilirlo, o lo determini in misura manifestamente inadeguata, l'amministratore può chiederne al giudice la determinazione, così come espressamente previsto per il mandatario, ex art. 1709 c.c. (Cass. lav., n. 8897/2014; Cass. I, n. 1647/1997). Per contro, l'approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall'art. 2389 cit., salvo che un'assemblea convocata solo per l'approvazione del bilancio, risultata totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori. È necessaria, infatti, un'esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio. Attesa la natura imperativa ed inderogabile della previsione normativa, l'attuazione di un bilancio che rechi il compenso non basta a determinarlo, occorrendo un esplicito punto all'ordine del giorno. È giurisprudenza consolidata, al riguardo, che la determinazione del compenso, ove non stabilita nell'atto costitutivo, necessiti di un'esplicita delibera assembleare, non surrogabile con l'approvazione del bilancio, in cui figuri tale compenso; e questo, perché la disposizione di cui all'art. 2389 c.c. si deve ritenere di natura imperativa ed inderogabile, in quanto dettata anche nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività economica: come dimostrato dal fatto che la percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea era prevista dall'art. 2630 c.c., secondo comma, n. 1 c.c. (abrogato dal d.lgs. n. 61/2002, art. 1) come delitto, che non poteva certo essere discriminato dall'approvazione del bilancio successivo alla consumazione. (Cass. S.U., n. 21933/2008). Integra, quindi, il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la condotta dall'amministratore che prelevi somme dalle casse sociali, a titolo di pagamento di competenze solo genericamente indicate nello statuto, senza una specifica delibera determinativa dell'assemblea (Cass. pen., V, n. 30105/2018). In ordine al quantum debeatur, si è affermato che i compiti che la società affida al suo amministratore riguardano la gestione stessa dell'impresa, costituita da un insieme variegato di atti materiali, negozi giuridici ed operazioni complesse, sicché, quand'anche taluni di questi atti ed operazioni possano compararsi all'attività di un prestatore d'opera, il rapporto che intercorre tra amministratore e società non può essere equiparato, in ragione del rapporto di immedesimazione organica tra essi esistente, a quello derivante dal contratto d'opera, intellettuale o non intellettuale; ne consegue che, al fine della liquidazione del compenso all'amministratore non determinato dalle parti al momento della nomina, non è consentito alcun riferimento automatico alle tariffe dei dottori commercialisti (Cass. I, n. 22046/2014). La misura del compenso non è censurabile nel merito, non potendo il giudice sostituirsi al compito istituzionale dell'assemblea: tuttavia, l'accertata irragionevolezza della misura del compenso, valutata in base al fatturato ed alla dimensione economica e finanziaria dell'impresa, da rapportare all'impegno chiesto per la sua gestione – con giudizio, peraltro, da operare ex ante, e non alla luce del risultato economico, rilevante eventualmente ai fini di una responsabilità per mala gestio – può portare all'annullamento per conflitto di interessi, ai sensi dell'art. 2373 c.c., della delibera assembleare determinativa del compenso degli amministratori, se diretta al soddisfacimento di interessi extrasociali, in danno della società (Cass. n. 28748/2008; Cass. I, n. 15942/2007; Trib. Milano 1 febbraio 2005, in Giur. it., 2005, 2110). Si è pure stabilito che il compenso dell'amministratore, ove non determinato nell'atto costitutivo dall'assemblea, possa essere stabilito dal giudice in via equitativa, tenuto conto del risultato utile dell'attività gestoria e sia liquidabile secondo il criterio del compenso per attività ed enti similari (Cass. VI-I, n. 6056/2021). Da tale giurisprudenza discende che in nessun caso il contratto di amministrazione possa considerarsi nullo in caso di mancata determinazione del compenso da parte dello statuto o dell'assemblea dei soci, ai sensi dell'art. 1346 c.c.). Il credito del compenso è soggetto a prescrizione quinquennale dalla data di cessazione dalla carica e si ritiene non assistito dal privilegio di cui all'art. 2751-bis. Il compenso variabileUna remunerazione costituita da un ammontare fisso, più o meno elevato e da una somma variabile, legata al rendimento, può costituire, in linea generale, un incentivo utile per ottenere prestazioni di rilievo da amministratori capaci. La forma maggiormente in uso è quella delle cd. stock options: operazioni, dalle caratteristiche alquanto mutevoli, volte ad attribuire agli amministratori il diritto di sottoscrivere azioni di futura emissione ad un prezzo determinato, con un margine di effettivo guadagno dipendente da eventuali incrementi del prezzo delle azioni. In questo senso si è evoluta la prassi delle grandi società quotate, ad imitazione del modello sviluppatosi negli Stati Uniti, dove ha conosciuto uno sviluppo vertiginoso: negli anni '90, in una fase di continua crescita dei mercati azionari, i compensi degli amministratori di società quotate hanno raggiunto livelli senza precedenti, grazie soprattutto agli aumenti della remunerazione variabile, legati al valore delle stock options, cresciuto ben nove volte in quel periodo: ciò che ha fatto schizzare in alto anche il rapporto tra compensi degli amministratori e salari dei dipendenti. Questa forma di compenso variabile presenta, peraltro, problemi di trasparenza e di informazione degli azionisti e del mercato. Da un lato, l'uso di tali strumenti a fini retributivi riduce, infatti, l'evidenza contabile dei costi della società, così da prefigurare un risultato di esercizio migliore di quello reale. Dall'altro, la prospettiva di profitto legata al rendimento della società di appartenenza – e ancor più di società eterodirette, appartenenti al medesimo gruppo – induce la tentazione di attuare operazioni strategiche di corto respiro, destinate, nell'immediato, ad influire sulla quotazione dei titoli sociali, con rialzi effimeri ed illusori. Vi è quindi il concreto pericolo di un conflitto di interessi: specie, quando l'aumento di capitale, in funzione delle stock options di azioni di nuova emissione, sia delegato allo stesso consiglio di amministrazione (art. 2443). La partecipazione agli utili e la concessione di opzioni per il futuro acquisto o la futura sottoscrizione di azioni a determinate scadenze e ad un prezzo già stabilito, previste nel secondo comma, sono l'unica disposizione di natura sostanziale dell'art. 2389, da intendersi solo esemplificative e di dubbia applicazione agli amministratori non esecutivi ed a quelli indipendenti. La dizione letterale della regola non sembra escludere compensi parametrati sul volume d'affari, che però avrebbero l'inconveniente di incoraggiare vendite anche ad acquirenti non solvibili (App. Milano 8 dicembre 1990, in Giur. it., 1991, 1, 2, 793). Le stock options esigono l'aumento di capitale, con esclusione del diritto di opzione, da motivare congruamente in relazione all'interesse della società, ex art. 2441, quinto comma. Stante la natura imprenditoriale dell'attività degli amministratori, non sarebbe applicabile, secondo parte della dottrina, il procedimento semplificato di cui all'ultimo comma dell'art. 2441, previsto per le azioni destinate ai dipendenti. Secondo tale tesi, è vero che gli amministratori possono anche essere dipendenti della società o della società controllante; ma la disposizione presuppone una parità di trattamento fra tutti i dipendenti, che non si verificherebbe nel caso di azioni concesse ai soli amministratori. L'ammontare complessivo dei compensi dev'essere indicato nella nota integrativa del bilancio (art. 2427, primo comma, n. 16 CC). La partecipazione agli utili di esercizio, quale forma di compenso, non sembra influenzata, in detrazione, da eventuali perdite pregresse, che potrebbero anche essere maturate in esercizi cui sia rimasto estraneo l'amministratore da remunerare. Del resto, neppure è prevista la possibilità simmetrica di una diminuzione del compenso in dipendenza del cattivo risultato economico dell'esercizio; a differenza che in Germania, ove l'Aufsichtsrat (equivalente al consiglio di sorveglianza) può diminuire il compenso stabilito per il Vorstand (consiglio di amministrazione) in caso di peggioramento economico della società. Immanente a tali modalità remunerative, in vario modo correlate all'andamento economico della società, è il rischio, come detto, di compensi eccessivi e di strategie imprenditoriali di breve periodo per giustificare le stock options. Oltre alla necessità di requisiti di trasparenza nella valutazione della condotta dell'amministratore, specialmente in occasione della cessazione dell'incarico. Il compenso di particolari caricheI compensi aggiuntivi per particolari cariche, di notevole rilevanza alla luce della tendenza all'accrescimento del potere di gestione degli organi delegati – che si sono andati trasformando da esecutori della volontà del consiglio in veri detentori del potere gestionale – vanno determinati dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale. Sembra doversene dedurre che la competenza generale dell'assemblea sussiste solo per gli amministratori privi di incarichi aggiuntivi. Nel terzo comma sono ravvisabili un elemento soggettivo, costituito dagli amministratori investiti di particolari cariche destinatari della regola, ed uno oggettivo, concernente l'importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, senza esclusione. La competenza del consiglio di amministrazione non si applica al compenso dovuto al comitato esecutivo, che invece è espressamente citato al primo comma ed è quindi stabilito dall'assemblea; laddove, al consiglio di amministrazione spetta la determinazione del compenso dell'amministratore delegato e del presidente del consiglio di amministrazione, che normalmente presiede anche l'assemblea e proclama i risultati delle votazioni (potere essenziale e originario). La delega è infatti un'attribuzione di poteri propri del consiglio di amministrazione, tendenzialmente stabile, che sembra quindi rientrare nella nozione di carica particolare. Nozione diversa, secondo un'interpretazione dottrinaria, è quella degli incarichi speciali che si esauriscano in riparto del lavoro interno al consiglio (attività preparatoria, istruttoria ecc.), senza spostare la competenza decisoria: per i quali, quindi, l'eventuale retribuzione sarebbe decisa dal consiglio d'amministrazione, con il parere del collegio sindacale, piuttosto che non dall'assemblea. Tra tali incarichi andrebbero annoverate la partecipazione degli amministratori all'organismo di vigilanza sul funzionamento del modello organizzativo idoneo a prevenire reati, di cui all'art. 6, primo comma, lettera b) d.lgs. n. 231/2001(Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche), l'istruzione di determinate delibere, l'acquisizione di informazioni specifiche, ecc. In ordine alla previsione di cui al terzo comma dell'art. 2389 c.c., si è ritenuto che il diritto ad una speciale remunerazione presuppone che le prestazioni esulino dal rapporto di gestione della società, senza che assuma rilevanza la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria e ordinaria (Cass. lav., n. 28148/2018). Nella giurisprudenza di merito più recente si trova enunciato il principio che la particolare carica richiamata dalla disposizione suddetta non può ritenersi riferita all'amministratore delegato, ma richiede l'esecuzione di una prestazione che fuoriesca dalla normale attività gestoria: nella quale, invece, rientrano le prestazioni richieste dalla delega di poteri amministrativi. Ne consegue che il compenso maggiore attribuito all'amministratore delegato può essere solo previsto nello statuto o deliberato dall'assemblea ex art. 2389, primo comma, c.c. onde, l'eventuale determinazione da parte dello stesso consiglio di amministrazione, in quanto adottata in violazione della distribuzione inderogabile dei poteri tra gli organi sociali, è assolutamente inefficace nei confronti della società, senza necessità di impugnazione: con l'ulteriore conseguenza che gli emolumenti corrisposti devono essere restituiti dall'amministratore beneficiario, ai sensi dell'art. 2033 c.c. (Trib. Roma 8 giugno 2020, n. 8230, in Soc., 2021, con nota di Perrino). La tesi suscita qualche perplessità, dal momento che le particolari cariche prefigurate dell'art. 2389, terzo comma, debbono, per espresso dettato, essere conformi allo statuto e questo è tipicamente il caso del comitato esecutivo e dell'amministratore delegato (art. 2381, secondo comma); mentre, ipotizzare una prestazione che fuoriesca dalla normale attività gestoria già prevista nello statuto appare evenienza atipica inconsueta. Con la stessa pronuncia, il Tribunale di Roma ha riconosciuto la legittimità di un trattamento di fine mandato o buonuscita, così come di premi per l'impegno profuso o i risultati raggiunti, purché previsti anch'essi nello statuto o deliberati dall'assemblea. Il riconoscimento gli emolumenti agli amministratori muniti di particolari poteri rientra tra le scelte organizzative dell'impresa ed è quindi discrezionale , entro i limiti della ragionevolezza (Trib. Roma 15 maggio 2019 n. 10212). Diverso è il regime di applicabilità della disposizione in esame nei sistemi monistico – in cui l'art. 2409 noviesdecies richiama l'art. 2389 – e dualistico, nel quale spetta invece al consiglio di sorveglianza la determinazione del compenso anche dei consiglieri di gestione destinatari di deleghe operative. In entrambi manca il collegio sindacale (che dovrebbe esprimere il parere sul compenso aggiuntivo ex art. 2389, terzo comma); ma nel primo, il compenso per il comitato di controllo è affidato all'assemblea. Problema a parte è costituito dalle cosiddette deleghe atipiche, non previste dallo statuto, né deliberate dall'assemblea; come tali, sospette di illegittimità e tuttavia, indirettamente avvalorate dall'art. 2392, primo comma, proprio in funzione discretiva della responsabilità degli amministratori verso la società, ove con esse si identifichi l'espressione letterale ivi adottata di “funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori”. Proprio perché non conformi a statuto, le deleghe atipiche, seppur siano legittime, non darebbero luogo a compensi aggiuntivi. Deve ritenersi invalida la deliberazione consiliare sui compensi aggiuntivi priva del parere motivato del collegio sindacale, pur se non vincolante. Nell'esprimerlo, i sindaci operano un controllo di legalità sostanziale, mediante la verifica dell'utilità della carica speciale, del corretto adempimento e dell'adeguatezza del compenso. In base al terzo comma, lo statuto può prevedere il potere dell'assemblea di fissare l'ammontare complessivo dei compensi spettanti agli amministratori, con o senza cariche speciali: eventualmente mediante limitazione della percentuale massima degli utili, ai fini della determinazione del compenso previsto dal secondo comma. È dubbio se rientrino nell'ambito applicativo della norma in esame, eventuali compensi specifici per incarichi particolari affidati in relazione alla specifica competenza di singoli amministratori: quali, ad esempio, la redazione del progetto di bilancio ad opera di un amministratore che sia, professionalmente, un commercialista, o la difesa della società in giudizio da parte dell'amministratore di professione avvocato. Secondo la giurisprudenza, l'amministratore di società cui sia demandato lo svolgimento di attività estranee al rapporto di amministrazione ha per queste diritto, ai sensi dell'art. 2389 c.c., ad una speciale remunerazione: sempre che tali prestazioni siano effettuate in ragione di particolari cariche che allo stesso siano state conferite e che esulino dal normale rapporto di amministrazione, ossia dal potere di gestione della società. Il parametro di distinzione deve individuarsi nell'oggetto sociale: cosicché rientrano tra le prestazioni tipiche dell'amministratore tutte quelle che siano inerenti all'esercizio dell'impresa, senza che rilevi (salvo che sia diversamente previsto dall'atto costitutivo o dallo statuto) la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria ed ordinaria (Cass. lav., n. 2861/2002; Cass. lav., n. 11023/2000; Trib. Palermo 26 maggio 2000, in Soc., 2000, 1235). Logico corollario di questa impostazione è che l'inadempimento o inesatto adempimento dell'incarico esterno danno luogo a normale azione risarcitoria di natura contrattuale, e non ad azione di responsabilità ex art. 2392 c.c. 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