Codice Civile art. 2391 - Interessi degli amministratori (1).

Renato Bernabai

Interessi degli amministratori (1).

[I]. L'amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata; se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l'operazione, investendo della stessa l'organo collegiale; se si tratta di amministratore unico, deve darne notizia anche alla prima assemblea utile (2).

[II]. Nei casi previsti dal precedente comma la deliberazione del consiglio di amministrazione deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell'operazione.

[III]. Nei casi di inosservanza a quanto disposto nei due precedenti commi del presente articolo ovvero nel caso di deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo adottate con il voto determinante dell'amministratore interessato, le deliberazioni medesime, qualora possano recare danno alla società, possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro data; l'impugnazione non può essere proposta da chi ha consentito con il proprio voto alla deliberazione se sono stati adempiuti gli obblighi di informazione previsti dal primo comma. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione.

[IV]. L'amministratore risponde dei danni derivati alla società dalla sua azione od omissione.

[V]. L'amministratore risponde altresì dei danni che siano derivati alla società dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell'esercizio del suo incarico.

(1) Articolo sostituito dall' art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6.

(2) Le parole da «, se si tratta» alla fine del comma sono state aggiunte dall'art. 11 d.lg. 28 dicembre 2004, n. 310.

Inquadramento

Profondamente innovata dalla riforma appare la norma in esame, tradizionalmente volta a contrastare il conflitto di interessi degli amministratori, imponendo loro un obbligo di informazione e di astensione (già previsto dall'art. 150 cod. comm. 1882), a pena di invalidità della delibera assunta con il voto determinante dell'amministratore in conflitto, oltre al risarcimento del danno a suo carico.

La prevenzione del conflitto di interessi dell'amministratore – che gestisce un interesse esclusivamente altrui – resta tuttora la perdurante ratio della norma novellata, anche se il sintagma non appare più nella rubrica, in coerenza con il rilievo assunto da qualunque interesse laterale, anche non conflittuale: intendendosi per interesse l'aspettativa, da parte dell'amministratore, di un profitto personale ricavato dal compimento o dall'omissione di un'operazione riferibile alla società.

La principale innovazione consiste nel venir meno dell'obbligo di astensione dal voto dell'amministratore interessato (che quindi concorre alla formazione del quorum deliberativo, ex art. 2388) e, correlativamente, della sanzione penale prima prevista dall'art. 2631 (rimodulata nel reato di infedeltà patrimoniale dall'attuale art. 2634).

Parte della dottrina annette rilevanza anche agli interessi extrapatrimoniali – come, ad esempio, nell'ipotesi in cui l'amministratore intenda nominare ad un ruolo dirigente della società un proprio congiunto o amico – sulla base dell'obbligo testuale non solo di comunicare ogni interesse, ma di precisarne altresì la natura, i termini, l'origine e la portata. Deve trattarsi, comunque, di un interesse economicamente significativo, correlato alla carica, e non solo alla qualità di socio, ed indirizzato ad un'operazione, giuridica o materiale, discrezionale nell'an e nel quomodo.

In linea di principio, come la dottrina, soprattutto anglosassone, ha messo in evidenza, sono varie le reazioni possibili al rischio di conflitto di interessi: dal divieto assoluto di agire, al passaggio di mano (majority of minority rule) anche ad organi diversi (assemblea, consiglio di sorveglianza), fino al sindacato giudiziale di equità (fairness test). Inoltre, l'impostazione del problema sembra dipendere pure dalla questione teorica se il diritto di voto (in questo caso dell'amministratore) sia collegato all'interesse sociale, e quindi qualificabile come diritto-funzione.

La violazione degli obblighi imposti dalla norma comporta sia una tutela reale (annullamento della delibera) – e ciò, sebbene correttezza e buona fede, in tesi generale, siano regole di comportamento, e non di validità – sia una tutela obbligatoria (responsabilità dell'amministratore), che l'analisi economica del diritto assume, in linea di principio, essere preferibile a quella demolitoria.

La disciplina, emendata dalla riforma, mostra di essere improntata ad una visione non necessariamente patologica della compresenza di interessi personali dell'amministratore nei processi decisionali – pressoché inevitabile nelle grandi società – valorizzando, piuttosto, gli aspetti dell'informazione e della trasparenza: come posto in risalto dalla Relazione di accompagnamento al d.l. n. 6/2003, laddove recita “il maggior rigore di questa disciplina vuole sottolineare non solo che qualsiasi amministratore, essendo un gestore di patrimonio altrui, non può approfittare della sua posizione per conseguire diretti o indiretti vantaggi, ma soprattutto, il valore della trasparenza nella gestione delle società” (Relazione, III, 3).

Con formula riassuntiva, si è dunque passati da un divieto assoluto ad un obbligo di disvelamento (disclosure) in funzione di una decisione informata.

L'obbligo di dichiarazione dell'interesse

Il primo comma impone l'obbligo generale di comunicazione agli altri amministratori ed al collegio sindacale dell'interesse che l'amministratore abbia, per conto proprio o di terzi. L'amministratore unico deve darne notizia anche alla prima assemblea utile (l'avverbio “anche”, contenuto nella disposizione di chiusura, sottolinea la natura aggiuntiva di tale notizia rispetto all'obbligo generale di informazione del collegio sindacale previsto nella prima parte del comma); l'amministratore delegato deve altresì astenersi dal compiere l'operazione, investendone l'organo collegiale e dandone notizia al collegio sindacale.

Il testo previgente non contemplava queste due ultime fattispecie, disciplinando solo l'ipotesi della composizione in forma consiliare dell'organo amministrativo, salva la normativa generale civilistica dell'annullamento dei contratti ex art. 1394. Il dovere di comunicazione al collegio sindacale appare connesso con le funzioni di controllo gestorio attribuite a tale organo.

Dalla lettera della disposizione sembra esonerato dall'obbligo di astensione l'amministratore unico; ma tale conclusione appare dissonante con la mens legis, palesata nell'ipotesi finitima dell'amministratore delegato: nonostante l'assenza di un consiglio di amministrazione, in grado di intervenire e, al limite, avocare a sé l'operazione (art. 2381, terzo comma), renda, specularmente, ancora più doverosa la cautela dell'astensione da parte di un organo del tutto monocratico.

Più dubbio appare il correttivo, suggerito da qualche autore, della rimessione da parte dell'amministratore unico dell'operazione all'assemblea per ottenerne l'autorizzazione, ai sensi dell'art. 2364, n. 5.

Nell'ambito del consiglio di amministrazione, il consigliere interessato ha comunque diritto di voto sull'operazione e non può quindi essere escluso dal presidente; e l'unico rimedio è l'impugnazione prevista al terzo comma.

Si è affermato, in giurisprudenza, che il compimento da parte degli amministratori di una serie di atti in conflitto di interesse senza che vi sia traccia documentale del rispetto del procedimento previsto dall'art. 2391 costituisce grave irregolarità che giustifica il controllo giudiziario di cui all'art. 2409, ed anche la revoca degli amministratori (Trib. Milano 28 settembre 2016, in Soc., 2017, 279, con nota di Amorese).

La disposizione di cui al secondo comma riguarda solo l'ipotesi di composizione collegiale dell'organo gestorio e prevede l'obbligo di adeguata motivazione delle ragioni della convenienza dell'operazione che il consiglio di amministrazione vada egualmente a decidere, nonostante l'interesse palesato da un suo componente. Tale innovazione si ricollega ad un principio ormai sistematico di trasparenza, previsto anche in materia di gruppi (art. 2497-ter); e la motivazione appare particolarmente importante sotto il profilo dell'accertamento della responsabilità degli amministratori interessati ad operazioni rivelatesi dannose per la società.

La dizione letterale, in forma positiva, della disposizione sembra escludere, “a contrario”, l'obbligo motivo ove il consiglio deliberi, invece, di non dar corso all'operazione.

L'impugnazione della deliberazione pregiudizievole

Ai sensi del terzo comma, la delibera è invalida se vengano omesse la comunicazione dell'interesse o la motivazione adeguata della conseguente delibera assunta dal consiglio; ovvero la stessa sia assunta con il voto determinante dell'amministratore interessato: in tutti i casi, con produzione di un danno alla società.

La legittimazione attiva spetta ai singoli amministratori, con esclusione degli amministratori consenzienti, purché informati dell'interesse (nemo potest venire contra factum proprium), ed al collegio sindacale; o, nel sistema dualistico, al consiglio di sorveglianza e nel sistema monistico al comitato per il controllo interno, in virtù dei richiami di cui agli artt. 2409-undecies, secondo comma, e noviesdecies (di natura assorbente, rispetto al richiamo generale di cui all'art. 223-septies, primo comma, disp. att.).

Dato il tenore letterale dell'esclusione dei soli consiglieri consenzienti, si deve ritenere, per contro, la legittimazione degli amministratori astenuti.

La disciplina predetta va coordinata con il principio generale di inopponibilità ai terzi dei limiti del potere rappresentativo degli amministratori, di natura legale o statutaria. Dopo la riforma, che ha emendato l'art. 2384, inserendovi, al secondo comma, in aggiunta alle già previste limitazioni risultanti dallo statuto, anche quelle derivanti da una decisione degli organi competenti, si pone il problema della natura speciale, o no, della disposizione di cui all'art. 2391, terzo comma: in ipotesi, prevalente sulla regola generale dell'inopponibilità.

La dottrina appare divisa, tra chi ritiene la specialità e rileva come la presenza di una valida decisione degli organi competenti diventi nella specie un requisito legale e chi ritiene, invece, opponibili le sole deliberazioni autoesecutive, per le quali non si pone un problema di rappresentanza.

In ogni caso, la fattispecie disciplinata al terzo comma riguarda solo le delibere, e cioè atti collegiali del consiglio di amministrazione o del comitato esecutivo, il cui regime di opponibilità viene quindi ad essere diverso da quello dell'atto dell'amministratore unico, in caso di conflitto d'interessi, soggetto alla regola generale sulla rappresentanza volontaria (art. 1394).

  Il conflitto di interessi emerge in un momento anteriore, in quanto relativo all'esercizio del potere di gestione: ne consegue che quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo – omettendo, cioè, di darne preventiva notizia agli altri amministratori dal collegio sindacale e astenendosi dal compierlo in attesa della decisione dell'organo collegiale - l'incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell'art. 2391 c.c., bensì della disciplina generale di cui all'art. 1394 c.c. (Cass. n. 9054/2022 in Giur. it., 2022, 2430, con nota di Bertolotti; Cass. n. 255/2022). Egualmente, allorché la società per azioni sia gestita e rappresentata da un amministratore unico, non si applica l'art. 2391 c.c. – che riguarda il conflitto di interessi in presenza di un consiglio di amministrazione – sebbene la disciplina generale della rappresentanza, di cui all'art. 1394 c.c. (App. Napoli 24 novembre 2020 n. 4002). La disciplina della norma in esame si applica anche quando vi sia un'esenzione statutaria dal divieto di concorrenza di cui all'art. 2390 c.c. (Trib. Torino 26 novembre 2019, in Foro it., 2020, 1, 744).

La salvezza dei diritti dei terzi

La disposizione di cui al terzo comma fa salvi, in chiusura, i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione.

La buona fede implica ignoranza dell'invalidità; e si deve ritenere anche se dovuta a colpa grave, visto che, in tesi generale, la buona fede è esclusa solo dal dolo.

Riguardo all'onere della prova, sembra preferibile porre a carico della società la prova della mala fede dei terzi: sia per una presunzione di buona fede, che seppur formalmente enunciata in una diversa fattispecie (art. 1147, terzo comma), viene da parte della dottrina considerata di portata generale, sia perché la regola generale di cui all'art. 2384, secondo comma, configura il limite di opponibilità in forma di exceptio doli: e non sembra esservi una diversa ratio per porre, invece, l'onere della prova dell'ignoranza di tutti gli elementi di invalidità della delibera a carico del terzo, con enorme aggravio difensivo.

Per gli atti posti in essere dall'organo monocratico - amministratore unico o amministratore delegato - in assenza di delibera del consiglio di amministrazione, si dovrebbe applicare, come detto, l'art. 1394, la cui disciplina è riprodotta in tema di s.r.l. (art. 2475-ter, primo comma).

Conforme, sul punto, appare la giurisprudenza di legittimità: nella fattispecie prevista dall'art. 1394, il conflitto di interessi si manifesta al momento dell'esercizio del potere rappresentativo, mentre nel caso previsto dagli artt. 2373 e 2391 c.c. il conflitto di interessi (rispettivamente, in sede di assemblea e di consiglio di amministrazione) si manifesta al momento dell'esercizio del potere deliberativo; ne consegue che l'invalidità del contratto stipulato dall'amministratore unico dev'essere ricondotta alla disciplina dettata dall'art. 1394 c.c., anziché all'art. 2391 (Cass. I, n. 23089/2013).

Anche nell'ipotesi in cui il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l'incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell'art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l'esercizio del potere di gestione: in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l'atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), bensì della disciplina generale di cui all'art. 1394 (Cass. I, n. 3501/2013).

Per i contratti il cui contenuto sia stato predeterminato dalla delibera del consiglio di amministrazione, dovrebbe però valere ancora il regime dell'art. 2391, terzo comma. Peraltro, l'amministratore conserva pur sempre una sua discrezionalità e non ha quindi l'obbligo di eseguire incondizionatamente la delibera consiliare che ritenga, in ipotesi, invalida.

Il risarcimento del danno

La responsabilità dell'amministratore in conflitto di interessi comporta il risarcimento del danno derivato alla società dalla sua azione od omissione .

Il testo precedente parlava invece di perdite: e l'emendamento porta a ritenere incluso nel pregiudizio risarcibile non solo il danno emergente, ma anche il lucro cessante.

In materia di responsabilità degli amministratori spetta alla parte danneggiata, secondo le regole generali, provare il danno ed il nesso causale con il comportamento dell'amministratore, di cui sia allegata la natura inadempiente; mentre, l'amministratore convenuto potrà esimersi da responsabilità solo provando l'adempimento, o che l'inadempimento sia dovuto a fatto a lui non imputabile, ai sensi dell'art. 1218 (Cass. VI-I, n. 14072/2018).

Si è quindi ritenuto, in giurisprudenza, che quando tale comportamento non sia in sé vietato dalla legge o dallo statuto e l'obbligo di astenersi dal porlo in essere discenda dal dovere di lealtà, coincidente col precetto di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell'adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati, l'illecito è integrato dal compimento dell'atto in violazione di uno dei menzionati doveri: in tal caso, l'onere della prova dell'attore non si esaurisce nella prova dell'atto compiuto dall'amministratore, ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implichi violazione del dovere di lealtà o di diligenza (Trib. Milano 24 agosto 2011, in Soc., 2012, 493, con nota di Cassani).

L'ultimo comma, anch'esso nuovo rispetto al testo previgente, pone una responsabilità per danni a carico dell'amministratore che abbia sfruttato, a vantaggio proprio o di terzi, notizie od opportunità di affari appresi nell'esercizio del suo incarico. Il dato letterale non giustifica una nozione più lata del risarcimento ordinario, con inclusione anche del cosiddetto disgorgement of profits proprio della common law.

Si tratta di disposizione ispirata all'esperienza americana, in cui vige, tradizionalmente, il divieto di trarre profitto dalle cd. “corporate opportunities”.

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