Codice Civile art. 2395 - Azione individuale del socio e del terzo (1).Azione individuale del socio e del terzo (1). [I]. Le disposizioni dei precedenti articoli non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori. [II]. L'azione può essere esercitata entro cinque anni dal compimento dell'atto che ha pregiudicato il socio o il terzo. (1) V. nota al Capo V. InquadramentoL'art. 2395, efficacemente definito “il fermaglio del sistema”, rappresenta la norma di chiusura del sistema di responsabilità degli amministratori di società di capitali, delineando un'azione i cui presupposti sono costituiti non solo dalla condotta illecita dell'amministratore, in violazione dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto, ma anche dall'incidenza diretta dei suoi effetti pregiudizievoli sul patrimonio personale del socio o del terzo. Quest'ultima è l'elemento aggiuntivo e distintivo che ne fa una fattispecie speciale rispetto all'ordinaria responsabilità verso la società ed i creditori sociali, disciplinata dagli artt. 2393-2394, in cui, pure, la condotta dell'amministratore può essere – e normalmente è – produttiva di un danno nei confronti dei soci (o anche dei creditori), ma solo quale conseguenza riflessa del pregiudizio subito dal patrimonio sociale (Cass. I, n. 269/2004). È da notare come l'istituto sia presente anche nella s.r.l., disciplinato in modo espresso dall'art. 2476, comma 6, venuta meno la relatio all'art. 2395 prevista, prima della riforma, dall'art. 2487; e sia ritenuto perfino estensibile, in via analogica, alle società di persone (Cass. I, n. 16416/2007). L'art. 2395 c. c. esige che il pregiudizio subito dal socio non sia il mero riverbero del depauperamento del patrimonio sociale, bensì derivi direttamente dal comportamento illecito degli amministratori. Pertanto, né l'inattività dell'assemblea, né la perdita del capitale sociale, né l'inadempimento contrattuale, che siano, in ipotesi, ad esso imputabili, integrano di per sé i presupposti della norma, in quanto la prima inerisce al mero funzionamento degli organi sociali e non comporta necessariamente un danno alla società o al socio; mentre, il capitale è un bene della società, e non dei soci, i quali dalle perdite subiscono soltanto un danno riflesso a causa della diminuzione di valore della propria partecipazione (Cass. I, n. 15220/2010). Al riguardo, dev'essere posta in risalto la diversità tra il requisito speciale dell'incidenza diretta del danno sul patrimonio del socio o del terzo, che è il presupposto dell'esercizio dell'azione e riguarda l'an debeatur, ed il requisito generale del danno risarcibile, analogamente configurato dall'art. 1223 come conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento, che, come messo in evidenza da un'attenta dottrina, attiene, invece, al quantum debeatur. Gli esempi di responsabilità diretta tratti dalla casistica giurisprudenziale attengono, per lo più, all'infedele rappresentazione della situazione finanziaria della società: tale, da indurre terzi ad acquistare azioni della società, ritenuta florida, o a non esercitare il diritto di opzione in sede di ricostituzione del capitale resa necessaria, ex art. 2447, dalla falsità della situazione patrimoniale (Cass. I, n. 3656/2018), o a proseguire le forniture (Trib. Milano 21 giugno 2016, in Riv. dir. soc., 2017, 461, con nota di Munari). La gamma delle applicazioni è peraltro assai variegata: ricade, ad es., nella fattispecie in esame anche la distrazione di somme versate in conto aumento di capitale che costringa i soci ad un nuovo esborso; come pure la sistematica violazione del diritto di questi all'informazione. Il socio o il terzo che esercitino l'azione individuale sono onerati della prova del danno e della sua imputabilità immediata e diretta a fatto illecito degli amministratori che sia commesso nell'esercizio dell'ufficio gestorio, in violazione della legge o dello statuto . In particolare, il nesso causale dev'essere accertato con esame rigoroso, secondo un principio di causalità ancorato al criterio del “più probabile che no”: come si evince, letteralmente, dall'avverbio “direttamente” contenuto nella disposizione, univoco nell'escludere che l'inadempimento e la pessima amministrazione del patrimonio sociale siano sufficienti a dare ingresso all'azione di responsabilità. Ne consegue che, nel caso paradigmatico di bilancio contenente indicazioni non veritiere che si assumano avere causato l'affidamento incolpevole del terzo circa la solidità economico-finanziaria della società e la sua decisione di contrattare con essa, l'attore ha l'onere di provare non solo tale falsità, ma anche, con qualsiasi mezzo, il nesso causale tra il dato artefatto e la propria determinazione di concludere il contratto, da cui sia derivato, poi, un danno in ragione dell'inadempimento della società alle proprie obbligazioni (Cass. I, n. 17794/2015; Cass. I, n. 5450/2015; Cass. I, n. 21130/2008). Per contro, il venir meno, o il ridursi della quota di liquidazione spettante al socio per effetto di mala gestio resta estraneo alla fattispecie in esame, dal momento che viene lesa una mera aspettativa, suscettibile di divenire un diritto perfetto, una volta verificatasi la causa di scioglimento, solo a condizione che permanga un attivo patrimoniale da redistribuire (Cass. S.U., n. 22659/2006; Cass. I, n. 19955/2011; Cass. I, n. 18599/2008). In conclusione, più che essere residuale rispetto alle azioni sociali e dei creditori, l'azione individuale ex art. 2395 ha una sua connotazione autonoma; anche se può concorrere, in concreto, con esse, con cui ha in comune il presupposto che la condotta illecita dell'amministratore sia inerente alla gestione sociale, e si traduca, quindi, in atti commessi nell'esercizio dell'ufficio: ciò che giustifica la previsione in una norma ad hoc all'interno del sottosistema societario, distinta dalla regola generale del neminem laedere, che resta deputata a sussumere ogni altro illecito aquiliano di diritto comune, estraneo alla funzione gestoria (art. 2043). Secondo l'opinione della prevalente dottrina, anche la responsabilità configurata dalla norma in esame ha, peraltro, natura extracontrattuale, data l'impossibilità di predeterminare l'ambito dei soggetti tutelati, presupposto di un'obbligazione di natura contrattuale: com'è evidente nell'ipotesi ricorrente di danno da bilancio falso, in cui i terzi indotti ad investire entrano in contatto con la società in seguito all'illecito e sono quindi, per definizione, indeterminabili “a priori”. Non basta, dunque, il mero inadempimento di un'obbligazione da parte della società per coinvolgere anche l'amministratore : sebbene sia ammissibile, in casi particolari, anche la sua responsabilità solidale, di natura extracontrattuale, risultando ormai acquisito il concetto della tutela aquiliana del credito. A tal fine è, tuttavia, necessario che tra l'inadempienza della società ed il comportamento di chi abbia esercitato (anche solo in via di fatto) le funzioni di amministratore di una società esista un nesso di causalità necessaria (Cass.I , n. 17110/2002, in un caso in cui era stato accertato che la distrazione di somme versate da terzi alla società era stata operata dall'amministratore, con incidenza causale sull'inadempienza della società). Come detto, il danno si ripercuote direttamente sul patrimonio individuale, senza transitare previamente per quello sociale, che ne resta impregiudicato; seppur non benefici di un vantaggio riflesso, come nel caso, più volte scrutinato in giurisprudenza, dell'investimento in azioni operato da terzi sulla base di una apparente, ma fallace, prosperità di bilancio. Non mancano, peraltro, margini di dubbio nell'aree grigie di confine; come ad esempio nell'ipotesi di distribuzione di utili resa impossibile da azioni depauperative del patrimonio sociale compiute dall'amministratore: vicenda, soggetta a soluzione diversa, a seconda che il riparto sia stato già deliberato dall'assemblea (o debba esserlo in forza di clausola statutaria, certamente valida, stante la derogabilità in subiecta materia della regola per cui il socio di società di capitali non ha un diritto all'utile) assurgendo, così, a vero diritto di credito (cfr. Trib. Milano 28 settembre 2006, in Giur. it., 2007, 387); o resti ancora al rango di aspettativa, posto che gli utili sono parte del patrimonio sociale finché l'assemblea non ne deliberi la distribuzione (Cass. I, n. 1027/2004). In chiusura di analisi, occorre peraltro dar conto che l'ampliamento, in sede concettuale, della nozione di responsabilità contrattuale, mercé l'inclusione di qualunque inadempimento di una preesistente obbligazione – non solo da contratto, ma anche da contatto – ha dato adito, presso parte della dottrina, ad un riesame critico della natura giuridica della responsabilità ex art. 2395, tradizionalmente definita aquiliana, tradottosi nella sua riqualificazione contrattuale: da contatto, appunto, o da violazione dei doveri di protezione. Si conferma costante, nella giurisprudenza più recente, l'indirizzo secondo cui il discrimine tra l'azione individuale e l'azione sociale di responsabilità degli amministratori risiede nella circostanza che il danno lamentato si sia verificato direttamente e solo nella sfera giuridica del singolo socio o del terzo, a prescindere dall'esistenza, o no, del danno al patrimonio sociale: con esclusione, quindi, di pregiudizi che siano il mero riflesso del depauperamento del patrimonio della società (Cass. I, n. 11223/2021, in Giur. comm., 2023, 2, 485, con nota di Sudiero, ed in Soc., 2022, 269, con nota di Pacilli; App. Milano 21 marzo 2022 n. 927). Di per sé, l'inadempimento contrattuale di una società non può implicare responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell'altro contraente ex art. 2395 c.c., atteso che la responsabilità di natura extracontrattuale postula fatti illeciti direttamente imputabili ad un comportamento colposo o doloso degli amministratori medesimi; laddove ne ricorrano gli estremi, può peraltro configurarsi un concorso tra l'inadempimento della società e l'illecito dell'amministratore (Cass. I, n. 7272/2023). È irrilevante che il comportamento dell'amministratore sia stato conforme agli interessi della società o a vantaggio di questa (Cass. VI-I, n. 9206/2020; Trib. Milano 18 novembre 2021 n. 9505, in Giur. it., 2022, 902 con nota di Cagnasso; Trib. Milano 13 febbraio 2020 n. 1368). La legittimazione del socio e del terzo permane anche dopo il fallimento della società (Cass. III, n. 14778/2019; Trib. Milano 25 novembre 2021 n. 9755; Trib. Latina 29 agosto 2019 n. 2071). La responsabilità diretta può anche discendere dalla violazione degli obblighi di vigilanza e controllo imposti dall'art. 2392, comma 2, c. c., sussistente anche nel caso di deleghe conferite in applicazione dell'art. 2381 c. c. (Cass. I, n. 5045/2023). La diversità di causa petendi rispetto all'azione sociale di responsabilità (art. 2393 c. c.) e all'azione dei creditori (art. 2394 c. c.) rende inammissibile la prospettazione dell'azione diretta di cui all'art. 2395 c. c. solo in comparsa conclusionale, quando siano ormai maturate le preclusioni previste nel processo ordinario di cognizione (Trib. Milano 8 luglio 2019, in Soc., 2020, 727, con nota di Pototschnig). Rientra nella fattispecie in esame il risarcimento del danno da omesse, false o inesatte informazioni al mercato, e la relativa azione è esperibile non solo da soci, ma anche da soggetti estranei, titolari di strumenti finanziari diversi dalle azioni, o da chi non sia più socio al momento dell'esercizio d'azione: con la conseguenza che non è necessaria la prova della qualità di socio (Trib. Milano 20 novembre 2021, in Soc., 2022, 749, con nota di De Luca). Tale responsabilità nasce dalla propalazione di informazioni fuorvianti e permane fino a che non se ne sveli la falsità e intervenga la rettifica (Trib. Milano 7 luglio 2021, in Soc., 2022, 475, con nota di De Poli). Occorre la prova, peraltro, che il bilancio non veritiero abbia avuto un'incidenza causale nella decisione del terzo di compiere l'investimento rivelatosi, poi, dannoso (Trib. Milano 30 aprile 2021 n. 3644). La responsabilità diretta, ex art. 2395 c. c., sussiste anche nei confronti del liquidatore che non abbia proceduto ad una corretta e fedele ricognizione dei beni sociali e adempiuto all'obbligo di pagare i debiti nel rispetto della par condicio creditorum, secondo l'ordine di preferenza e senza alcuna pretermissione (Cass. III, n. 521/2020, in Giur. it., 2020, 350, con nota di Cerrato; in Foro it., 2020, 1, 915, con nota di Niccolini; in Fall., 2020, 329, con nota di Fabiani; in Soc., 2020, 802, con nota di Garilli). La responsabilità diretta degli amministratori può concorrere con quella della società, in forza dell'immedesimazione organica, richiedendosi unicamente che l'atto dannoso si manifesti come esplicazione dell'attività della società, in quanto tenda al conseguimento dei suoi fini istituzionali (Cass. V, n. 12675/2018). Anche l'amministratore di fatto che sia responsabile di un danno diretto a soci o a terzi è responsabile ex art. 2395 c. c. ed è tenuto quindi al risarcimento (Trib. Milano 26 gennaio 2020, in Giur. it., 2021, 372, con nota di Di Micco). In materia di azioni di responsabilità degli amministratori per danni diretti, sussiste la giurisdizione italiana e si applica la legge italiana anche quando la condotta sia posta in essere dall'amministratore di una società straniera, purché il fatto o il danno siano commessi o si manifestino in Italia (Trib. Milano 11 maggio 2020, in Soc., 2020, 1216, con nota di De Luca). Il termine di prescrizioneLa riforma del 2003, che ha lasciato inalterato il primo comma, ne ha aggiunto un secondo, in cui stabilisce in cinque anni, dal compimento dell'atto, il termine entro cui può essere esercitata l'azione. Al riguardo, si osserva come l'evoluzione giurisprudenziale in tema di responsabilità mostri una tendenza a dilatare il termine di prescrizione, ancorandolo alla data della concreta conoscibilità del danno. La norma generale di cui all'art. 2947 in tema di responsabilità aquiliana pone, infatti, come dies a quo il giorno in cui il fatto si è verificato; e nel fatto intende ricompreso anche l'evento la più recente giurisprudenza, spintasi a differire la decorrenza del termine a partire non solo dalla conoscenza del fatto, ma perfino dalla conoscibilità del nesso causale (Cass. S.U., n. 576/2008). Per contro, l'art. 2395, comma 2, fa decorrere il termine dal compimento dell'atto, ponendosi nettamente in controtendenza con tale indirizzo. Alla stregua di una formulazione così rigida, analoga a quella dell'art. 2393, comma 4, si è quindi espressa, in dottrina, la tesi della natura decadenziale del termine. Siffatta configurazione darebbe adito, però, a forti dubbi di legittimità costituzionale: sia, per la diversità di trattamento con fattispecie affini di illecito extracontrattuale, sia soprattutto perché, nella specie, il pregiudizio potrebbe perfino non essere coevo al compimento dell'atto, o comunque, restare inconoscibile con l'ordinaria diligenza, in contrasto con la regola generale di cui all'art. 2935. 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