Codice Civile art. 2416 - Impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea (1).Impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea (1). [I]. Le deliberazioni prese dall'assemblea degli obbligazionisti sono impugnabili a norma degli articoli 2377 e 2379. Le percentuali previste dall'articolo 2377 sono calcolate con riferimento (2) all'ammontare del prestito obbligazionario e alla circostanza che le obbligazioni siano quotate in mercati regolamentati. [II]. L'impugnazione è proposta innanzi al tribunale, nella cui giurisdizione la società ha sede, in contraddittorio del rappresentante degli obbligazionisti. (1) V. nota al Capo V. (2) Le parole «Le percentuali previste dall'articolo 2377 sono calcolate con riferimento» sono state sostituite alle parole «Le quote previste dall'articolo 2377 s'intendono riferite» dall'art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, come modificato dall'art. 5 1aa) d.lg. 6 febbraio 2004, n. 37. InquadramentoLa norma in commento ricostruisce lo statuto delle delibere invalide dell'assemblea degli obbligazionisti facendo puntuale richiamo alle tipizzazioni espresse dagli artt. 2377 c.c. (annullabilità) e 2379 c.c. (nullità) del codice civile in materia di atti invalidi resi dall'assemblea dei soci. Si supera così il vuoto normativo che connotava la disciplina antecedente alla novella del 2003, laddove il richiamo non era esteso anche all'art. 2379 c.c.; ma tanto non aveva impedito alla dottrina di ritenere comunque applicabili, alle delibere in questione, le ipotesi di nullità previste per le decisioni dei soci (Petitti, 237). La norma non contiene un esplicito richiamo alle disposizioni di cui all'art. 2378 c.c., in origine presente prima della novella. E ciò rende più che legittimo il dubbio della estensibilità di tali disposizioni anche alle impugnazioni in oggetto, con tutte le conseguenze che ne derivano in ordine alle peculiari indicazioni normative offerte da tale ultima disciplina, avuto riguardo in particolare alla conversione della domanda in azione risarcitoria laddove le obbligazioni siano cedute incidendo sulla quota minima idonea a fondare la legittimazione; le regole sul giudizio cautelare; il differimento del merito del giudizio al decorso del termine di cui al comma 5 dell'art. 2378 c.c.; l'iscrizione dei provvedimenti di sospensione e annullamento nel registro delle imprese. Sotto questo versante, in linea con la tesi della non diretta applicabilità della disciplina dettata per l'impugnazione delle delibere assembleari societarie, può evidenziarsi che i profili di stabilità e celerità sottesi alle previsioni di cui ai commi 2 e 5 dell'art. 2378 c.c. non sembrano pedissequamente riproponibili per il contenzioso legato alle delibere dell'assemblea degli obbligazionisti; che lo strumento della cautela atipica ex art. 700 c.p.c. supporta adeguatamente le ragioni di tutela anticipatoria correlate alle impugnazioni in esame; che le esigenze di propalazione correlate alla iscrizione nel registro delle imprese ben possono essere mutuate dalla previsione a monte della pubblicità legale imposta per la delibera impugnata dall'art. 2415 c.c. L'azione, del resto, alla stessa stregua di quanto previsto dal comma 1 dell'art. 2378 c.c., va promossa, in ragione di quanto dettato dal comma 2, innanzi al tribunale ove risulta allocata la sede della società, previsione del tutto superflua ove dovesse ritenersi l'implicita l'applicabilità delle regole di procedura disposte per l'impugnazione delle decisioni dell'assemblea dei soci. Legittimati ad impugnare sono gli obbligazionisti che possiedono l'uno per mille del monte titoli, in caso di obbligazioni quotate; ovvero il 5 per cento di quelle ancora non estinte, se si tratta di obbligazioni non quotate. In linea di principio, nulla esclude l'operatività, ai sensi del comma 4 dell'art. 2377 c.c., della commutazione dell'azione di annullamento in risarcitoria ove ci si trovi innanzi ad obbligazionisti collocati al di sotto delle suddette soglie: va tuttavia chiarito che la relativa pretesa non potrà vedere passivamente legittimata la società anche quando, come accade per le decisioni che portano ad una rimodulazione delle condizioni del prestito, l'iniziativa in questione sia derivata da una proposta dell'emittente. L'azione andrebbe dunque proposta in danno dell'assemblea degli obbligazionisti, con tutte le difficoltà di ricostruzione della fattispecie che unta tale ipotesi interpretativa porta con sé. Malgrado quanto previsto dal comma 2 dell'art. 2377 c.c., non sono legittimati all'azione di annullabilità gli amministratori della emittente né il collegio sindacale, soggetti estranei all'organo deliberante (Clarizia, 322). Più discussa è la possibilità di attribuire siffatta legittimazione al rappresentante comune in nome dell'interesse unitario che raggruppa tutti gli obbligazionisti a supporto della relativa nomina (in termini D'Ambrosio, 691). Una volta, tuttavia, che si ritenga, come non sembra controvertibile, che solo gli obbligazionisti assenti, dissenzienti o astenuti (ai sensi del comma 2 dell'art. 2377 c.c.) possano impugnare, resta da comprendere in che termini il superiore interesse comune degli obbligazionisti, mentre legittima il rappresentante ad agire pur in assenza di una iniziativa in tal senso da parte dei soggetti immediatamente interessati, al contempo non permette ai soggetti presenti non dissenzienti di impugnare comunque la delibera, malgrado il contegno tenuto in assemblea. Sotto il versante della legittimazione passiva, infine, l'azione vede, come contraddittore dell'obbligazionista che impugna, il rappresentante comune. Se non risulta nominato il rappresentante comune, l'obbligazionista che impugna può attivarsi perché alla nomina provveda, in surroga all'assemblea, il tribunale ai sensi del comma 2 dell'art. 2417 c.c. In alternativa, può citare in giudizio tutti gli obbligazionisti che hanno votato in senso favorevole alla deliberazione impugnata (App. Milano, 17 novembre 1998). Le ipotesi di invalidità tipizzate dal codice.Il legislatore del codice, si è detto, ripete, in tema di obbligazioni, la dicotomia tra annullabilità e nullità tipizzata in materia di deliberazioni dell'assemblea dei soci. La regola è offerta dalla annullabilità: la contrarietà alla legge (meno immediato è il riferimento alla conflittualità rispetto allo statuto) rende in genere annullabili le relative decisioni, nel termine di 90 giorni dalla iscrizione nel registro delle imprese (comma 6 dell'art. 2377 c.c.), decorso il quale si verifica la stabilizzazione del deliberato. Impugnata la delibera annullabile, l'esito demolitorio del giudizio è impedito dalla successiva adozione di una nuova delibera, questa conforme al dato normativo di riferimento (comma 8 della norma suddetta). La situazione tipica di annullabilità, avuto riguardo al tema della modifica delle condizioni del prestito, in particolare, attiene, nel merito, ad una riscontrata violazione dell'interesse comune degli obbligazionisti, elemento cui vanno indefettibilmente improntate le deliberazioni dell'assemblea, così da rendere recessiva la scelta della maggioranza laddove la soluzione adottata risulti sproporzionata rispetto alla obiettiva situazione della emittente posta a fondamento della proposta di revisione delle condizioni di emissione. La scelta della maggioranza si trasforma, infatti, in un eccesso di potere in danno degli obbligazionisti dissenzienti. Anche il difetto di informazione sulle condizioni giustificative della modifica potrebbe legittimare l'annullabilità, influendo sulla consapevolezza che deve accompagnare la scelta degli obbligazionisti rispetto al tema oggetto di deliberazione Non rileva al fine (della compiuta informazione pre-assembleare), tuttavia, la mancata nomina del rappresentante comune. Tale circostanza, non inficia in radice la deliberazione. Se è vero che manca, nel caso, il corredo informativo che il suddetto organo fornisce agli obbligazionisti prima delle relative decisioni, è parimenti incontrovertibile che questi ultimi possono recepire aliunde le notizie utili ad una consapevole espressione della volontà assembleare (Trib. Mantova, 15 ottobre 2010, in Giur. merito, 2011, 7-8, 1855). Semmai, l'assenza del rappresentante comune incide sul piano probatorio, favorendo, anche sul piano logico, la dimostrazione della assenza delle necessaria informazione che deve precedere la decisione degli obbligazionisti. La tipizzazione della ipotesi di nullità e la generalizzazione assorbente dell'annullabilità impone poi di riportare sotto quest'ultima egida le ipotesi che, senza mettere in discussione la stessa esistenza in sé della delibera da impugnare, si concretano in una carenza di potere da parte dell'organo deliberante. Tale ad esempio potrebbe essere considerata la delibera di rinunzia parziale agli interessi avuto riguardo agli accessori non maturandi ma già maturati laddove si ritenga che la maggioranza degli obbligazionisti non è legittimata ad incidere sulle posizioni dei dissenzienti già entrate nel patrimonio di questi ultimi. L'art. 2379 c.c. definisce nulle le delibere assunte in assenza di convocazione, quelle non verbalizzate, quelle dall'oggetto illecito o impossibile. In tali casi, la stabilizzazione si realizza al decorso del termine di tre anni dalla iscrizione nel registro delle imprese. Ai sensi del comma 3 dell'art. 2379, non si potrà ritenere la nullità quando la convocazione, pur se non conforme alle indicazioni statutarie, era comunque in grado di realizzare lo scopo legato alla informazione in tal senso rivolta agli interessati (potendosi in tal caso riscontrare l'annullabilità della decisione). Né alla nullità per difetto di convocazione si potrà pervenire quando l'obbligazionista pretermesso sia comunque intervenuto all'assemblea, prestando il suo assenso allo svolgimento dell'assemblea: vero che la norma in commento non richiama l'art. 2379-bis, comma 2, che tale principio tipizza; a ben vedere tuttavia, si tratta di un canone generale, che merita applicazione diffusa (Picardi, 876). Il verbale poi (art. 2379, comma 3, c.c.) non può ritenersi mancante nell'ottica della nullità laddove vi sia la data della deliberazione, emerga l'oggetto, risulti sottoscritto se non da chi ha convocato, quantomeno dal notaio. Più dubbia l'utilità al fine della sottoscrizione degli amministratori laddove a convocare sia stato il rappresentante comune, considerata la diversa consistenza della presenza all'assemblea degli obbligazionisti ascritta all'organo gestorio rispetto a quanto previsto per l'assemblea dei soci. Anche per la nullità, inoltre, la pronunzia demolitoria è preclusa dalla assunzione di una nuova deliberazione che superi il vizio riscontrato (in ragione della catena di richiami offerta dal combinato disposto di cui agli artt. 2416,2379, comma 4, e 2377, comma 8, c.c.). E non vi sono ragioni per escludere l'emittente dai terzi che l'ultimo comma dell'art. 2377 c.c. tutela, avuto riguardo ai deritti quesiti in forza della delibera originaria. Non sembra, infine, che possa operare la sanatoria prevista dal comma 2 dell'art. 2379-bis c.c. (mancanza del verbale superata dalla verbalizzazione resa a posteriori ma comunque prima della successiva assemblea). La sanatoria opera ex tunc, sin dalla prima deliberazione, come è noto. La possibilità che, nei tre anni per impugnare, una nuova assemblea (momento finale per la possibile sanatoria) non venga convocata crea, in coerenza, una situazione di incertezza destinata a pregiudicare la negoziabilità dei titoli (Antuori, 240). Il conflitto di interessi.L'art. 2415, comma 4, c.c. esclude la società che possiede obbligazioni dalla partecipazione all'assemblea speciale. Non esclude invece la partecipazione del socio dell'emittente che sia anche obbligazionista. Situazione, questa, che pone il tema relativo alla applicabilità del disposto di cui all'art. 2373 c.c. Per quanto in contatto tra loro, compagine sociale e gruppo di obbligazionisti vivono una situazione di potenziale conflitto destinata a sostanziarsi quando l'evolvere negativo della realtà economica e finanziaria dell'emittente finisce per imporre una rivisitazione delle condizioni della emissione. Ciò, come ovvio, porta i soci a vedere con favore la compressione delle pretese dei creditori, così da salvaguardare la capacità dell'emittente di far fronte con regolarità ai diversi debiti, scongiurando l'evoluzione della crisi verso l'incapienza patrimoniale, grazie al sacrificio (per quel che qui interessa) degli obbligazionisti (Colombo, 1191). Il socio anche obbligazionista vive dunque la peculiare esperienza di identico portatore di esigenze contrapposte, dando luogo a conflittualità che possono portare all'estremo dell'annullabilità ex art. 2373 c.c. A voler ritenere la strada in questione perseguibile sul piano della coerenza sistematica, occorre comunque accertare il portato della decisività del voto espresso dal soggetto in conflitto di interessi rispetto all'approvazione della delibera. Va poi riscontrata la titolarità di un interesse del votante, per conto proprio o di terzi, che confligga con quello comune degli obbligazionisti. Infine l'invalidità della decisione presuppone comunque la verifica di un danno, anche solo potenziale, derivante alla categoria pretermessa dall'esecuzione della delibera. Gli ultimi due profili danno corpo alle maggiori difficoltà di verifica. Il conflitto, ad esempio, deve essere concreto. Non è sufficiente, così, solo una partecipazione dell'obbligazionista nell'emittente; occorre, anche, che la stessa sia di rilievo, per favorire un possibile accostamento alla posizione di interesse propria della società debitrice. Inoltre, va dato risalto ai riflessi positivi, immediati, per il patrimonio della società e, indirettamente, per quelli dei soci, che derivano dalla decisione dell'assemblea speciale. Non è poi detto che una soluzione vantaggiosa per l'emittente determini, necessariamente, un danno (almeno potenziale) per il gruppo di obbligazionisti. Lo sarà di certo quando si creano discrasie all'interno della stessa classe di obbligazionisti, come potrebbe accadere quando, approvando una proposta di concordato, si determino classi differenti tra obbligazionisti facenti parte della medesima emissione, infrangendo il valore della unitarietà intorno al quale ruota il relativo gruppo organizzato. Ma, prescindendo da tale ipotesi, poco probabile già solo in ragione di quanto previsto dall'art. 160, comma 1, lett. c), l. fall., resta da dire che il danno, sempre seguendo l'esempio della proposta di concordato, potrebbe riscontrarsi quando una valutazione comparatistica tra la prospettiva fallimentare e la soluzione concordataria legittimi maggiori possibilità di soddisfazione per i dissenzienti tramite la liquidazione fallimentare piuttosto che aderendo al concordato. Nel caso il voto determinante, reso da un obbligazionista socio di controllo dell'emittente, potrebbe concretare quella situazione di dannosa conflittualità utile, a giustificare il rimedio invalidante previsto dall'art. 2373 c.c. L'inesistenza.Anche dopo la novella del 2003, ispirata a dare pieno accoglimento alle esigenze di stabilità delle decisioni delle organizzazioni assembleari in nome della funzionalità e della certezza dell'azione della società, obiettivo realizzato attraverso la tipizzazione in termini di invalidità di ipotesi che in precedenza la giurisprudenza ricostruiva in termini di inesistenza, nonché legando la gran parte delle nullità ad un termine, per quanto ampio, di decadenza, si continuano a riscontrare soluzioni interpretative, emerse in giurisprudenza, dirette a qualificare in termini di inesistenza decisioni affette da vizi così intensi da mettere in dubbio ontologicamente l'atto assembleare (Stella Richter, 283). Non si sottrae a tale problematica la categoria delle invalidità delle delibere assembleari in disamina. Il riprodotto binomio tra annullabilità e nullità mantiene, infatti, intatto, anche all'interno della dinamica propria dei vizi inerenti alle delibere dell'assemblea speciale degli obbligazionisti, il tema della inesistenza delle decisioni, affette da vizi tanto gravi da mettere in discussione l'esistenza stessa dell'atto. E così si è ritenuto che in caso di emittente che ha dato luogo a più prestiti obbligazionari, la presenza di tante organizzazioni degli obbligazionisti quanto sono le emissioni, con distinte assemblee (ed eventualmente distinti rappresentanti comuni), ciascuna delle quali è chiamata a deliberare su materie di interesse comune dei sottoscrittori del prestito al quale afferisce l'organizzazione, rende inesistente l'eventuale modificazione delle condizioni del prestito approvate con il concorso determinante dei sottoscrittori di obbligazioni rivenienti da un'emissione diversa (Cass. n. 7693/2006). BibliografiaAutuori, Sub artt. 2415 - 2420, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Milano, 2006; Brancadoro, Sub art. 2416, in Società di capitali: commentario, a cura di Niccolini, Stagno d'Alcontres, Napoli, 2004; Clarizia, Assemblea degli obbligazionisti e rappresentante comune, in Soc. 1991, 320; Campobasso, Le obbligazioni, in Tr. Colombo-Portale, Torino, 1994; Colombo, Il conflitto di interessi nell'assemblea degli obbligazionisti che delibera sull'approvazione della proposta di concordato preventivo, in Soc. 2014, 1191; D'Ambrosio, in Codice commentato delle nuove società, a cura di Bonfanti, Corapi, Marziale, Rordorf, Salafia, Milano, 2004; Petitti, I titoli obbligazionari delle società per azioni, Milano, 1964; Picardi, Sub art. 2415 c.c., in Commentario al Codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2005; Stella Richter, L'inoppugnabilità delle deliberazioni degli organi sociali, in Riv. soc. 2017, 283. |