Codice Civile art. 2475 bis - Rappresentanza della società (1).

Guido Romano

Rappresentanza della società (1).

[I]. Gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società.

[II]. Le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dall'atto costitutivo o dall'atto di nomina, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società.

(1) V. nota al Capo VII.

Inquadramento

Il potere di rappresentanza consiste nel potere degli amministratori di manifestare ai terzi la volontà della società rappresentata, con effetti giuridicamente imputabili e, quindi, vincolanti per quest'ultima.

L'articolo in commento, in conformità al disposto di cui alla direttiva 2009/101/CE (ma già alla Direttiva n. 158/1968), attribuisce agli amministratori il potere di rappresentanza, potere che assume carattere inderogabilmente «generale», con conseguente irrilevanza del limite dell'oggetto sociale (così, Regoli, 142). In altre parole, «qualunque atto, tanto di ordinaria quanto di straordinaria amministrazione, compiuto da un amministratore rappresentante risulta essere vincolante per la società, salvi i limitati casi di dolo del terzo contraente o di violazione di una limitazione legale ai propri poteri da parte dell'amministratore» (Regoli, 142).

Sebbene l'intento del legislatore della riforma sia stato quello di predisporre, per ciò che attiene alla materia del potere rappresentativo di società a responsabilità limitata, un apparato normativo autonomo rispetto alla corrispondente disciplina della società per azioni, le regole dettate dall'articolo in commento appaiono in gran parte modellate sulla falsariga dell'art. 2384 c.c. (Abriani, 579).

In particolare, entrambe le discipline hanno lo scopo di rafforzare la tutela dei terzi che vengono a contrattare con la società. Tale obiettivo è perseguito, da un lato, con la qualificazione del potere di rappresentanza come «generale» e con la conseguente irrilevanza del limite costituito dall'oggetto sociale e, dall'altro, con la tendenziale inopponibilità ai terzi dei limiti convenzionali ai poteri degli amministratori (Regoli, 135).

La differenziazione tra i due tipi societari si rinviene in ciò che, a differenza della società per azioni ove, ai sensi dell'art. 2383, comma 2 c.c. e 2384, comma 1 c.c., la rappresentanza spetta a quegli amministratori cui lo statuto o la deliberazione di nomina lo attribuiscono, nelle società a responsabilità limitata il potere di rappresentanza è connaturale al potere gestorio.

La norma costituisce un contrappeso all'interno di un sistema in cui i poteri gestori degli amministratori possono essere liberamente modellati dai soci e, dunque, è finalizzata a garantire i terzi e la sicurezza delle contrattazioni con la società (Salvatore, 459).

La fonte del potere rappresentativo degli amministratori.

La disciplina dettata per la s.r.l. si distacca da quella della s.p.a. per ciò che attiene alla «fonte» del potere rappresentativo. Mentre, infatti, nella società azionaria, il potere di rappresentanza spetta soltanto agli amministratori ai quali detto potere sia stato specificatamente conferito in forza di investitura da parte dello statuto ovvero della deliberazione di nomina; nella società a responsabilità limitata il potere di rappresentanza è attribuito a tutti gli amministratori, senza distinzioni. Conseguentemente, nella s.r.l., il potere di rappresentanza trova la propria fonte nella legge e sembra connotarsi come una qualità legale intrinseca dell'ufficio di amministratore (Regoli, 135; Morandi, 1951; Dentamaro, 1975; Zanarone, 994; Ambrosini, 1578; Gisolfi, Lupetti;, 1330; Fiorio, 562).

In via generale, quindi, il potere di rappresentanza non deriva da un'investitura ad hoc, ma costituisce una qualifica legale intrinseca di ogni amministratore, il quale, di conseguenza, ha il potere di vincolare da solo la società indipendentemente dal regime di amministrazione prescelto.

Costituisce, peraltro, oggetto di dibattito se l'atto costitutivo possa attribuire solo ad alcuni di essi il potere di rappresentanza e, quindi, se sia possibile una dissociazione tra potere gestorio e potere rappresentativo. A favore della risposta affermativa, si rileva che tra le indicazioni che l'atto costitutivo deve necessariamente contenere rientrano quelle concernenti la rappresentanza della società (art. 2463, comma 2, n. 7 c.c.) e che l'art. 2383, comma 4, c.c. (richiamato dall'art. 2475, comma 2, c.c.) prevede che «entro trenta giorni dalla notizia della loro nomina gli amministratori devono chiederne l'iscrizione nel registro delle imprese indicando (...) a quali tra essi è attribuita la rappresentanza della società, precisando se disgiuntamente o congiuntamente». D'altra parte, il successivo art. 2475-ter c.c. parla di amministratori che hanno la rappresentanza della società e lascia, quindi, desumere che possono esservi amministratori che non hanno la rappresentanza in virtù di limitazioni poste dall'atto costitutivo o dall'atto di nomina (Gisolfi, Lupetti, 1330).

In definitiva, l'applicazione delle richiamate norme consente di affermare che, anche nelle società a responsabilità limitata, sia possibile attribuire il potere di rappresentanza soltanto ad alcuni amministratori ovvero ricollegarla alla titolarità di alcune cariche, quale, ad es., la carica di amministratore delegato o di presidente del c.d.a. (in questo senso Abriani, 580; Zanarone, 995; Carcano, 586; Sciuto, 3; Salvatore, 461; Regoli, 137 secondo il quale la regola posta dall'art. 2475-bis comma 1 costituisce una norma di default destinata ad assumere rilevanza nel silenzio dello statuto o dell'atto di nomina; Fiorio, 563 che parla di norma di carattere suppletivo).

Più problematica la questione se, alla luce del secondo comma della norma, tali limitazioni possano avere rilevanza esterna ed essere opponibili ai terzi. Secondo un primo orientamento, l'esclusione in capo a taluni amministratori della rappresentanza della società costituirebbe pur sempre una limitazione del potere rappresentativo (considerato nel suo complesso) e sarebbe quindi sottoposto alla disciplina del secondo comma dell'articolo in commento con conseguente irrilevanza nei confronti dei terzi che non abbiano agito intenzionalmente a danno della società (in questo senso, Bordiga, 594; Ambrosini, 1578; Fiorio, 571 secondo la quale se il potere rappresentativo discende direttamente dalla legge la dissociazione dei poteri che genera con l'attribuzione della rappresentanza solo ad alcuni amministratori costituisce una scelta organizzativa interna, frutto del potere dispositivo dei soci e, dunque, una limitazione che deriva dall'atto costitutivo o dall'atto di nomina, soggetta al regime previsto dall'art. 2475-bis comma 2). Tuttavia, secondo l'orientamento maggioritario, la norma di cui all'art. 2475-bis comma 2 presuppone pur sempre la titolarità del potere rappresentativo in capo al soggetto che ha agito per conto della società con la conseguenza che, escluso in capo a taluni amministratori dall'atto costitutivo detto potere, non vi sarebbe ragione per non ammettere la rilevanza della limitazione. Né tale conclusione è idonea a pregiudicare la posizione dei terzi, in quanto, come osservato in dottrina (Abriani, 580), l'unico elemento che i terzi devono preventivamente verificare rispetto alla stipulazione del negozio e che, conseguentemente, la società può loro opporre è la effettiva sussistenza, sulla base delle norme statutarie, del potere di rappresentanza in capo a quel determinato amministratore che contrae per conto della società. Sarebbe, d'altra parte, paradossale che la protezione del terzo e dei traffici cui si ispira l'art. 2475-bis comma 2 dispensasse addirittura il terzo persino dall'accertare l'effettiva attribuzione ad un amministratore di un qualsiasi potere rappresentativo (così, Sciuto, 8). La dissociazione tra potere gestorio e potere rappresentativo è, dunque, opponibile nei confronti dei terzi (così Abriani, 580; Carcano, 589; Salvatore, 462; Regoli, 138; Morandi, 1953; Gisolfi, Lupetti, 1341; Sciuto, 7, che evidenzia come, sul piano letterale altro è una «esclusione», ben altro è una «limitazione» del potere).

Al contrario, il potere di rappresentanza non può essere conferito a soci non amministratori o a terzi (Morandi, 1955; Regoli, 138 secondo il quale tali soggetti potrebbero essere investiti del potere di rappresentare la società solo in forza di una procura, anche generale ancorché non sostitutiva dei poteri spettanti per legge agli amministratori, secondo le comuni regole della rappresentanza negoziale ovvero ex art. 2203 c.c.).

Le modalità di esercizio del potere rappresentativo.

Sono dubbie le modalità di esercizio del potere rappresentativo e, precisamente, se, in caso di amministrazione pluripersonale, l'esercizio del potere in argomento debba avvenire necessariamente in forma congiuntiva ovvero se esso spetti a tutti gli amministratori titolari del potere in modo disgiuntivo.

Secondo l'orientamento che appare maggioritario, in mancanza di specifiche indicazioni contenute nell'atto costitutivo, deve ritenersi che, in applicazione analogica dell'art. 2266 c.c. dettato in tema di società personali, il potere di rappresentanza spetti disgiuntamente ed individualmente a ciascun amministratore (Dentamaro, 1977; Carcano, 586; Regoli, 139 secondo il quale le esigenze di speditezza dell'attività di impresa militano a favore di tale conclusione non solo nel caso in cui la società abbia adottato sistemi organizzativi di stampo personalistico, ma anche nel caso in cui abbia optato per modelli conformi al modello capitalistico; Gisolfi, Lupetti, 1331; Parrella, 112). Si evidenzia, in tal senso che il metodo collegiale trova giustificazione con riguardo al potere gestorio e non con riferimento alla fase dichiarativa in favore dei terzi della decisione già assunta (Abriani, 581). In senso contrario, però, si è posta autorevole dottrina secondo la quale il regime di rappresentanza disgiuntiva è collegato, nelle società personali, all'analogo regime di amministrazione (applicabile salva diversa previsione dell'atto costitutivo): al contrario, nella s.r.l., il regime suppletivo di amministrazione è costituito dal metodo collegiale che dovrebbe estendersi, in difetto di diversa previsione, anche all'esercizio del potere rappresentativo (Zanarone, 996; Bordiga, 595).

Si osserva, peraltro, che ove la società abbia optato per l'esercizio in via congiuntiva del potere gestorio, la medesima soluzione (salva ulteriore precisazione nell'atto costitutivo) dovrà valere anche per il potere di rappresentanza (Regoli, 140).

In giurisprudenza è stato osservato che la clausola dello statuto di una s.r.l. secondo cui la rappresentanza della società spetti congiuntamente al consiglio di amministrazione è opponibile ai terzi. L'atto compiuto dal solo presidente è inefficace nei confronti della società, salvo che il terzo contraente dimostri la dissociazione tra potere gestorio e potere di rappresentanza o comunque la fonte dei poteri attribuiti al presidente (Trib. Cagliari 18 settembre 2009).

Invalidità della nomina dell'amministratore investito della rappresentanza.

L'art. 2475, comma 2 c.c. richiama l'art. 2383 comma 5 c.c. secondo il quale le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l'adempimento della pubblicità di cui al comma 4, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza.

Così, l'adempimento degli obblighi pubblicitari produce (oltre a determinare una presunzione iuris et de iure di conoscenza dell'avvenuto conferimento del potere di rappresentanza) l'effetto di limitare l'opponibilità ai terzi delle eventuali cause di invalidità della nomina.

Prima degli adempimenti pubblicitari, l'invalidità dell'atto di nomina impedisce di riconoscere la titolarità del potere di rappresentanza organica in capo al soggetto nominato, con la conseguenza che dovranno applicarsi le regole ordinarie della rappresentanza volontaria (Regoli, 141; Carcano, 588). Dopo l'adempimento degli obblighi pubblicitari, invece, i vizi della nomina divengono inopponibili ai terzi, salvo il caso in cui la società sia in gradi di provare la mala fede del terzo (Regoli, 142, che, in nt. 22, precisa che la mala fede potrà essere provata anche attraverso il ricorso a presunzioni idonee a dimostrare che il terzo non poteva ignorare l'invalidità della nomina; Carcano, 588 secondo il quale la mala fede deve intendersi come conoscenza della invalidità del negozio da cui origina il potere di rappresentanza dei soggetti con i quali si agisce; Fiorio, 577): viene così maggiormente tutelata la posizione dei terzi che contraggono con la società per il tramite degli amministratori muniti di rappresentanza e che possono confidare sulla legittimità della investitura di questi ultimi.

Ci si chiede se – nonostante la differenza della formulazione letterale tra art. 2475 bis comma 2 (v. infra) e 2383 comma 5 – il presupposto di opponibilità al terzo debba essere ricostruito in termini analoghi (dubitativo, Abriani, 585).

Il limite dell'oggetto sociale.

Tanto nella s.p.a. che nella s.r.l., l'oggetto sociale non è più configurabile come limite legale per relationem del potere di rappresentanza, ma, semplicemente, quale limite legale del potere di gestione, in quanto quest'ultimo è limitato, nella sua estensione, ai soli atti che siano in concreto strumentali al perseguimento dell'oggetto sociale (Regoli, 150). L'attribuzione di una rappresentanza generale in capo agli amministratori, senza più indicazione del limite dell'oggetto sociale, estende i poteri del rappresentante ad ogni attività giuridica compiuta in nome della società, anche oltre i limiti, non sempre facilmente delineabili, dell'oggetto sociale (così, Salvatore, 464) che, al contrario, esaurisce la sua valenza soltanto nei rapporti interni senza assumere più rilievo esterno (Abriani, 582). I terzi hanno oggi l'onere di accertare soltanto l'esistenza dei poteri di rappresentanza degli amministratori e non anche l'ampiezza di tali poteri (quale definiti convenzionalmente dai soci) né l'estraneità dell'atto all'oggetto sociale (Gisolfi, Lupetti, 1335).

Conseguentemente, gli atti ultra vires rimangono vincolanti per la società.

In definitiva, gli atti posti in essere dagli amministratori in violazione delle limitazioni previste dall'atto costitutivo o dall'atto di nomina ovvero ancora esorbitanti rispetto all'oggetto sociale sono validi ed impegnativi per la società, operando la violazione di quei limiti esclusivamente sul piano interno alla società giustificando la revoca dell'amministratore per giusta causa ed il promovimento nei suoi confronti dell'azione di responsabilità.

Secondo taluni, l'atto estraneo sarebbe così sempre e comunque valido ed impegnativo per la società e potrebbe essere idoneo esclusivamente a far scattare i rimedi interni alla società (in questo senso, Restaino, 422; Salamone, 1105). Una simile soluzione è stata giudicata, tuttavia, eccessivamente rigida dalla dottrina maggioritaria secondo la quale il limite dell'oggetto sociale deve essere equiparato ad una limitazione statutaria dei poteri dell'amministratore con la conseguenza che potrà applicarsi ad esso il disposto del comma 2 dell'articolo in commento (Zanarone, 1005 che evidenzia, in nt. 30, che diversamente sarebbe paradossale che, mentre l'inopponibilità al terzo degli atti eccedenti le limitazioni statutarie troverebbe un'eccezione nell'ipotesi di dolo, identica eccezione non vi sarebbe per le ipotesi, più gravi, di atti estranei all'oggetto sociale; Sciuto, 29; Regoli, 152; Calandra Buonaura, 661; Corrias, 602, 605; Carcano, 594; Fiorio, 567). Così, l'estraneità dell'atto dal perimetro dell'oggetto sociale non sarà di regola opponibile ai terzi, salvo che la società non provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società.

In giurisprudenza è stato, tuttavia, osservato che gli atti eccedenti i limiti dell'oggetto sociale posti in essere dall'amministratore rimangono quindi, di regola, validi anche se si provi la malafede del terzo (cioè che questi fosse a conoscenza delle limitazioni stabilite dallo statuto) con l'unica eccezione dell'exceptio doli. Dal campo di operatività della norma testé esaminata esulano, tuttavia, le ipotesi in cui l'amministratore abbia agito con abuso di rappresentanza, cioè con superamento dei limiti legali (non convenzionali) del potere di rappresentanza, rimanendo questi comunque opponibili ai terzi. Tra tali ipotesi rientrano certamente gli atti che comportano una rilevante modifica dell'oggetto sociale quali, ad esempio, la cessione dell'azienda costituente la sola attività dell'impresa sociale non accompagnata dal contestuale riacquisto di altra azienda con la quale continuare l'attività d'impresa in precedenza esercitata (Trib. Roma 28 aprile 2011, in Vita not. 2011, 2, 1016).

Le limitazioni statutarie dei poteri. L'exceptio doli.

Il comma 2 della norma in commento prevede che le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dall'atto costitutivo o dall'atto di nomina, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società.

Tra le limitazioni statutarie rientrano le clausole che limitano i poteri rappresentativi degli amministrazione ad alcuni specifici atti oppure all'ordinaria amministrazione, ovvero agli atti con un valore inferiore ad un determinato importo ovvero ancora che richiedono, per talune tipologie di atti, la firma congiunta di più amministratori (Fiorio, 573).

La società resta, salva l'ipotesi di exceptio doli, vincolata all'atto posto in essere dagli amministratori che ecceda dai poteri rappresentativi di questi, essendo irrilevanti le dissociazioni tra potere gestorio e potere rappresentativo: in altre parole, la violazione dei limiti contenuti nell'atto costitutivo e delle altre ipotesi di mancanza o di eccesso di potere non costituisco ragioni di invalidità ovvero di inefficacia del negozio stipulato dall'amministratore (Abriani, 583). Il rilievo di tali limiti si esaurisce sul piano dei rapporti interni alla società giustificando la revoca dell'amministratore dall'incarico gestorio ovvero la proposizione di una azione di responsabilità nei suoi confronti ovvero ancora, qualora nella società sia presente il collegio sindacale, la denunzia ex art. 2408 c.c. (Regoli, 143; Parrella, 113; Ambrosini, 1579; Carcano, 597).

Per converso, il terzo, in quanto estraneo al rapporto fra amministratore legale rappresentante e società, non è legittimato a far valere le limitazioni al potere di rappresentanza dell'amministratore che derivino da atti interni della società, in quanto queste non incidono sulla efficacia e validità dell'atto compiuto dal legale rappresentante in eventuale violazione delle stesse, ma possono dar luogo soltanto ad azione di responsabilità della società nei confronti dell'amministratore legale rappresentante (Cass. n. 6291/2001; Cass. n. 22669/2004 che esclude la nullità dell'atto eccedente dai poteri di rappresentanza).

Come evidenziato dalla dottrina (Salvatore, 463), le ipotesi di limitazioni che non influiscono sulla validità degli atti compiuti ricorrono, a titolo esemplificativo, nei casi in cui il potere rappresentativo sia circoscritto a determinate categorie di atti; nei casi di separazione tra potere gestorio e potere rappresentativo; nei casi di mancata autorizzazione dell'assemblea per determinati atti laddove lo statuto prescriva l'intervento dei soci quale presupposto necessario per il compimento di un determinato atto; nei casi di mancanza firma congiunta per determinate categorie di atti.

L'atto di assunzione delle partecipazioni in società di persone ha natura di atto gestorio, in quanto tale riservato alla esclusiva competenza degli amministratori; da tale qualificazione discende che lo stesso è idoneo ad obbligare la società nei confronti dei terzi, anche nell'ipotesi di carenza della delibera assembleare, in quanto il difetto di autorizzazione dei soci ha una rilevanza meramente interna alla dinamica sociale, determinando esclusivamente la responsabilità dell'organo amministrativo nei confronti della società (Trib. Brindisi 7 gennaio 2013, in Giur. comm. 2014, 5, II, 906).

Secondo un orientamento, il comma 2 dell'art. 2475-bis è destinato a trovare applicazione anche nei confronti degli atti compiuti dall'amministratore munito del potere di rappresentanza, ma privo del potere di gestione e tali ipotesi si verificherebbero in caso di estraneità dell'atto dall'oggetto sociale ovvero in caso di dissociazione tra potere deliberativo e potere di rappresentanza con riferimento ad atti per i quali si richieda una decisione dell'organo amministrativo o dei soci (Abriani, 583). Si evidenzia, peraltro, che una simile ipotesi potrebbe verificarsi frequentemente con riferimento alla s.r.l. potendo l'atto costitutivo liberamente ripartire le competenze gestorie tra amministratori e soci. Anche tali ripartizioni e la conseguente stipulazione di contratti in assenza dei corrispondenti poteri gestori esauriscono il proprio rilievo sul piano dei rapporti interni alla società, quale giusta causa di revoca, quale motivo di proposizione dell'azione di responsabilità ovvero, in caso di presenza del collegio sindacale, quale motivo di denunzia ai sensi dell'art. 2408 (Abriani, 584; Fiorio, 576 secondo la quale «l'irrilevanza esterna della dissociazione tra poteri gestionali e poteri rappresentativi comporta quindi l'inopponibilità ai terzi degli atti che eccedano i limiti imposti da una decisione degli amministratori, che non siano preceduti dalla necessaria deliberazione dell'organo collegiale o assunti in forza di una decisione invalida, nonché di quelli compiuti dagli amministratori in assenza della decisioni dei soci richiesta da un amministratore o da un socio ex art. 2479 c.c., o imposta dallo statuto, o ancora di quelli attuati in violazione della decisioni dei soci assunta a seguito dell'opposizione di un amministratore quando sia scelto il regime dell'amministrazione disgiuntiva»).

Il rilievo puramente interno ed obbligatorio delle limitazioni statutarie cessa qualora i terzi abusino della tutela accordata dal legislatore (Regoli, 144). Si spiega, così, la ragione per la quale l'art. in commento faccia salva la prova che i terzi abbiano intenzionalmente agito a danno della società (exceptio doli). Il presupposto richiesto dal secondo comma dell'art. 2475-bis non è costituito da una generica mala fede del terzo ovvero dalla conoscenza o conoscibilità che egli abbia dell'esorbitanza dell'atto rispetto ai poteri di rappresentanza delineati nell'atto costitutivo o nell'atto di nomina (Abriani, 584; Dentamaro, 1981).

Al contrario, per l'annullamento del negozio stipulato dalla società è necessaria: 1) la conoscenza effettiva della concreta esorbitanza dell'atto; 2) la consapevolezza del pregiudizio che l'atto è suscettibile di arrecare alla società (così, Abriani, 584; Calandra Buonaura, 665; Fiorio, 585; Cass. n. 11315/2007; Cass. n. 4914/1998). Il comportamento abusivo del terzo può essere del tutto indipendente da un accordo collusivo o fraudolento con l'amministratore (Fiorio, 585).

Tuttavia, l'elemento soggettivo richiesto dalla norma non va inteso come specifica volontà di produzione di un danno alla società né come accordo fraudolento tra terzo ed amministratore (in questo senso, invece, Regoli, 144), essendo sufficiente la rappresentazione in capo al terzo della potenziale lesività dell'atto posto in essere dall'amministratore (così, ancora, Abriani, 585; Gisolfi, Lupetti, 1346; Fiorio, 585; Carcano, 596 che parla di dolo generico).

L'atto estraneo all'oggetto sociale o eccedente i limiti statutari è sottoposto ai principî di diritto comune della rappresentanza volontaria. Come tale esso non è nullo, ma inefficace (e, come tale, opponibile ai terzi, Corrias, 603); inoltre la società ha la facoltà di assumerne ex tunc gli effetti, ratificandolo (così, ancora, Abriani, 585; Gisolfi, Lupetti, 1346; Fiorio, 585).

I limiti legali.

In contrapposizione alle limitazioni «convenzionali» del potere di rappresentanza (che, come visto, ricomprendono anche l'estraneità dell'atto rispetto all'oggetto sociale), la dottrina ha individuato una serie di limiti «legali» a detto potere, limiti che sarebbero, secondo taluni autori, opponibili ai terzi, indipendentemente dallo stato soggettivo di questi.

Il legislatore, infatti, talvolta vieta in assoluto il compimento di un atto, altre volte lo riserva alla competenza dei soci spostando così la relativa decisione dall'organo gestorio all'assemblea

Viene, in primo luogo, in rilievo l'assunzione di partecipazioni in altre imprese che, per la loro misura e per il loro oggetto, modifichino sostanzialmente l'oggetto sociale (art. 2361 comma 1 c.c.). Infatti, il compimento di questo tipo di operazioni comporta un mutamento delle basi essenziali dell'impresa e, come tale, deve considerarsi precluso agli amministratori (Regoli, 154; Zanarone, 1008).

Vi sono, poi, altre ipotesi in cui il compimento dell'operazione non è, in assoluto, vietato, ma la decisione viene rimessa ai soci. Vengono, in questa prospettiva, in rilievo: a) l'acquisto di partecipazioni in società che comportino una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime (art. 2361, comma 2 c.c.); b) le modifiche sostanziali dell'oggetto sociale e le modificazioni rilevanti dei diritti dei soci (art. 2479, comma 2, n. 5 c.c.); c) la rinuncia o transazione dell'azione di responsabilità (art. 2393, comma 4 c.c.); d) la sottoscrizione reciproca di azioni (art. 2360 c.c.); f) i prestiti o garanzie per l'acquisto o la sottoscrizione di azioni proprie (art. 2358 c.c.); g) l'acquisto e la disposizione di azioni proprie (artt. 2357 c.c. e 2357-ter c.c.).

Secondo un orientamento, anche in questi casi si tratterebbe di limitazioni attinenti alla competenza gestoria dell'organo amministrativo (la cui violazione importerebbe un censura, sotto forma di revoca o di proposizione dell'azione di responsabilità, nei confronti dei componenti di detto organo, Ambrosini, 1579), con la conseguenza che gli atti compiuti in violazione di essi sarebbero assoggettati alla regola generale della tendenziale inopponibilità ai terzi e la società potrebbe svincolarsi dalle relative obbligazioni solo ricorrendo alla exceptio doli (così, Abriani, 586).

Secondo altra ricostruzione, invece, le limitazioni in argomento sono destinate a tutelare la società a non rimanere vincolata da atti che, per l'incidenza sull'organizzazione o sulla integrità patrimoniale o sui diritti dei soci, non possono essere alla iniziativa degli amministratori (Regoli, 156), ma richiedono l'intervento dei soci mediante una apposita decisione. Queste limitazioni non riguardano soltanto il potere di gestione, ma si ripercuotono sulla stessa legittimazione degli amministratori a vincolare la società con la conseguenza che esse possono essere fatte valere a prescindere dalle condizioni di cui al comma 2 dell'articolo in commento. Conseguentemente, l'atto compiuto dal rappresentante senza le suddette decisioni è inefficace nei confronti della società, salvo che sia la stessa legge a sanzionare in modo diverso il vizio dell'atto non autorizzato (è, ad esempio, il caso della mancanza dell'autorizzazione dei soci in merito al compimento di acquisti pericolosi laddove il combinato disposto degli artt. 2343-bis, comma 4 e 5, c.c. e 2465 c.c. stabilisce che la mancanza della autorizzazione non determina l'inefficacia dell'acquisto, ma la responsabilità solidale degli amministratori e dell'alienante).

Il problema è stato analizzato in particolar modo con riferimento agli atti di cui all'art. 2479, comma 2, n. 5 c.c. Si afferma, quindi, che nella categoria generale di atti ultra vires si distinguono quelli che, sebbene estranei all'oggetto sociale, non comportano una sua modifica, da quelli estranei in quanto modificativi dell'oggetto sociale. I primi, da individuarsi negli atti aventi contenuto instrinsecamente esorbitante dal perseguimento dello specifico programma economico della società, sono opponibili ai sensi dell'art. 2475-bis comma 2. I secondi sono sempre opponibili in quanto posti in essere in violazione di una limitazione legali (Fiorio, 579).

Tale differenza si giustifica in virtù del fatto che, mentre i primi costituiscono una deviazione meramente occasionale dall'oggetto sociale, che non muta permanentemente il settore di attività e il grado di rischio dell'investimento, i secondi realizzano, invece, una modificazione di fatto dell'oggetto sociale, e conseguentemente un mutamento permanente dei suddetti profili (Regoli, 156; in questo senso, anche Gisolfi, Lupetti, 1343). Ne consegue che, soltanto in relazione a tale ultima categoria di operazioni (quali, ad es., la cessione dell'azienda con modifica di fatto dell'oggetto sociale da società operativa a holding), il legislatore stabilisce, da un lato, la competenza decisoria dei soci, dall'altro, l'opponibilità incondizionata ai terzi della violazione di tale regola di competenza da parte degli amministratori (così, testualmente, Regoli, ivi).

Tra i limiti legali si possono annoverare: il trasferimento dell'intera azienda, l'assunzione di partecipazioni rilevanti in società operanti in settori differenti; la «trasformazione» della società da operativa a mera holding attraverso il conferimento dell'intera azienda in una società controllata; la sottoposizione della società ad una influenza dominante esterna (l'elenco è ripreso da Fiorio, 580).

Si precisa, peraltro, che alla mancanza dell'autorizzazione non può assimilarsi la presenza di una decisione invalida, in quanto, in tal caso, la possibilità di far valere l'inefficacia dell'atto posto in essere dal rappresentante troverebbe un limite in quanto stabilità dall'art. 2377, comma 7, c.c. (richiamato dall'art. 2479-ter c.c. per le s.r.l.), secondo cui l'annullamento della decisione dei soci non travolge i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della medesima (Zanarone, 1009, nt. 37; Calandra Buonaura, 674; Fiorio, 581).

In giurisprudenza si evidenzia che la partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361, comma 2 c.c., dettato per le società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5 c.c. Pertanto, accertata l'esistenza di una società di fatto insolvente della quale uno o più soci illimitatamente responsabili siano costituiti da società a responsabilità limitata, il fallimento in estensione di queste ultime costituisce una conseguenza ex lege prevista dall'art. 147, comma 1, l.fall., senza necessità dell'accertamento della loro specifica insolvenza (Cass. n. 1095/2016).

L'art. 2475-bis c.c., attribuisce agli amministratori di s.r.l. il potere di rappresentanza generale della società e stabilisce che ai terzi non sono opponibili le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dall'atto costitutivo o dall'atto di nomina, anche se pubblicate, salvo che si provi che i terzi hanno intenzionalmente agito a danno della società. Gli atti eccedenti i limiti dell'oggetto sociale posti in essere dall'amministratore all'insaputa degli altri amministratori rimangono quindi, di regola, validi anche se si provi la malafede del terzo (cioè che questi fosse a conoscenza delle limitazioni stabilite dallo statuto) con l'unica eccezione dell'exceptio doli. Dal campo di operatività della norma testé esaminata esulano, tuttavia, le ipotesi in cui l'amministratore abbia agito con abuso di rappresentanza, cioè con superamento dei limiti legali (non convenzionali) del potere di rappresentanza, rimanendo questi comunque opponibili ai terzi. Tra tali ipotesi rientrano certamente gli atti che comportano una rilevante modifica dell'oggetto sociale quali, ad esempio, la cessione dell'azienda costituente la sola attività dell'impresa sociale non accompagnata dal contestuale riacquisto di altra azienda con la quale continuare l'attività d'impresa in precedenza esercitata (Trib. Roma 28 aprile 2011, in Vita not. 2011, 2, 1016).

Più recentemente, secondo Trib. Piacenza, 14 marzo 2016 (in Banca, borsa, tit. cred. 2017, II, 380), la cessione dell'azienda e addirittura anche talora l'affitto di essa, trasformando l'attività sociale da produttiva a finanziaria, comportano una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale determinato nell'atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci a norma dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c.; le stesse pertanto non possono essere decise dagli amministratori, appartenendo alla competenza funzionale dell'assemblea dei soci. Tale riserva di competenza funzionale integra un limite legale ai poteri di rappresentanza degli amministratori, con la conseguenza che il difetto del potere rappresentativo, ai fini dell'annullamento dell'atto, è sempre opponibile ai terzi indipendentemente da qualsivoglia indagine in ordine al loro atteggiamento soggettivo. Il Tribunale di Piacenza, in particolare, ha pronunziato l'annullamento del contratto di cessione dell'azienda con conseguente condanna alla restituzione dell'azienda.

La dottrina, se da una parte, ha ritenuto condivisibile il presupposto da cui muove il Tribunale, non potendo dubitarsi che l'atto di disposizione dell'azienda che esaurisca il patrimonio della società ecceda i poteri che per legge spettano agli amministratori e che tale atto implichi una violazione del riparto legale delle competenze tra assemblea ed amministratori, dall'altra, ha evidenziato come la sanzione dovrebbe essere costituita dalla nullità del contratto e non già l'annullabilità ovvero la sua efficacia (De Luca, 380 ss., spec. 388 il quale precisa, altresì, che il negozio nullo perché compiuto in difetto di una deliberazione assembleare necessaria in ragione del riparto di competenze, a differenza di quello inefficace, non ammette la possibilità di ratifica).

Sempre in materia di riparto di competenze tra assemblea ed amministratori, si segnala la giurisprudenza in ordine alla rinuncia ed alla transazione dell'azione sociale di responsabilità in mancanza della preventiva delibera assembleare. La giurisprudenza di legittimità – sebbene con riferimento alla società per azioni, ma con espressione di principî adattabili, con gli opportuni correttivi, anche alla società a responsabilità limitata – ha precisato che compete esclusivamente all'assemblea dei soci il potere di deliberare sia la rinuncia all'esercizio dell'azione sociale di responsabilità, sia la transazione. Pertanto, la rinuncia o la transazione effettuata dal nuovo amministratore (o dal legale rappresentante della società) senza la preventiva delibera assembleare è affetta non da mera inefficacia, secondo la disciplina dell'atto posto in essere dal rappresentante senza poteri, ovvero da mera annullabilità, in base alle regole sul difetto di capacità a contrattare, ma da nullità assoluta e insanabile, deducibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile d'ufficio, atteso che detta delibera assembleare costituisce modo formale e inderogabile di espressione della volontà della società di cui non sono ammessi equipollenti (Cass. n. 1496/2011; Cass. n. 9901/2007).

Deve, peraltro, darsi conto di altra dottrina che muove dal carattere disomogeneo della categoria delle limitazioni legali del potere rappresentativo, disomogeneità resa manifesta dal fatto che il legislatore: talvolta vieta incondizionatamente l'atto con conseguente inefficacia di esso per la società; talvolta vieta l'atto, ma riconnette alla violazione una sanzione ovvero taluni obblighi riparatori lasciando intendere che resta ferma l'efficacia dell'atto; talvolta non vieta l'atto, ma ne condiziona il compimento al rispetto di un certo riparto di competenze interne. Ebbene, richiamato il disposto dell'art. 10 della Direttiva comunitaria (2009/101/CE) secondo il quale gli atti compiuti dagli amministratori obbligano la società nei confronti dei terzi, anche quando siano estranei all'oggetto sociale, «a meno che eccedano i poteri che la legge conferisce o consente di conferire ai predetti organi», si conclude affermando che va a ricadere senz'altro oltre il perimetro massimo dei poteri rappresentativi «il compimento di operazioni per le quali consti un divieto assoluto (o un'impossibilità giuridica)», mentre vi «resta incluso il compimento di quelle operazioni che gli amministratori, sia pure a certe condizioni (tipicamente: una previa deliberazione assembleare – come appunto nel caso previsto dall'art. 2479, n. 5 – o dello stesso consiglio di amministrazione), potrebbero efficacemente realizzare con terzi» (Sciuto, 34). Così, nel caso di compimento di operazioni che modifichino sostanzialmente l'oggetto sociale, se deve escludersi, nei rapporti interni, la legittimità della realizzazione di una simile operazione da parte degli amministratori senza una previa decisione dei soci, nei rapporti esterni quell'operazione resterebbe comunque impegnativa per la società, in quanto essa rientra pur sempre nei poteri rappresentativi che la legge, seppure alla condizione da essa determinata, «consente di conferire» agli amministratori. Si evidenzia come una tale soluzione sia anche rispettosa della posizione del terzo il quale deve poter confidare sull'efficace spendita del nome della società da parte di chi ne abbia la rappresentanza, senza accertare se, nel caso concreto e contingente, si siano verificati i presupposti procedimentali «interni» previsti dalla legge (Sciuto, 35).

Bibliografia

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