Codice Civile art. 2473 - Recesso del socio 1 .Recesso del socio 1. [I]. L'atto costitutivo determina quando il socio può recedere dalla società e le relative modalità. In ogni caso il diritto di recesso compete ai soci che non hanno consentito al cambiamento dell'oggetto o del tipo di società, alla sua fusione o scissione, alla revoca dello stato di liquidazione [al trasferimento della sede all'estero]2alla eliminazione di una o più cause di recesso previste dall'atto costitutivo e al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell'oggetto della società determinato nell'atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci a norma dell'articolo 2468, quarto comma. Restano salve le disposizioni in materia di recesso per le società soggette ad attività di direzione e coordinamento. [II]. Nel caso di società contratta a tempo indeterminato il diritto di recesso compete al socio in ogni momento e può essere esercitato con un preavviso di almeno centottanta giorni 3; l'atto costitutivo può prevedere un periodo di preavviso di durata maggiore purché non superiore ad un anno. [III]. I soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale. Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso; in caso di disaccordo la determinazione è compiuta tramite relazione giurata di un esperto nominato dal tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte più diligente; si applica in tal caso il primo comma dell'articolo 1349. [IV]. Il rimborso delle partecipazioni per cui è stato esercitato il diritto di recesso deve essere eseguito entro centottanta giorni 4 dalla comunicazione del medesimo fatta alla società. Esso può avvenire anche mediante acquisto da parte degli altri soci proporzionalmente alle loro partecipazioni oppure da parte di un terzo concordemente individuato da soci medesimi. Qualora ciò non avvenga, il rimborso è effettuato utilizzando riserve disponibili o, in mancanza 5, corrispondentemente riducendo il capitale sociale; in quest'ultimo caso si applica l'articolo 2482 e, qualora sulla base di esso non risulti possibile il rimborso della partecipazione del socio receduto, la società viene posta in liquidazione. [V]. Il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se la società revoca la delibera che lo legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società.
[2] Le parole« al trasferimento della sede all'estero» sono state soppresse soppresse dall'art. 51, comma 2, d.lgs. 2 marzo 2023, n. 19. Ai sensi dell'art. 56, comma 2, del medesimo decreto, il citato art. 51 si applica a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto. La società che ha trasferito la sede statutaria all'estero prima di tale data mantenendo l'iscrizione nel registro delle imprese continua a essere regolata dalla legge italiana e, ai fini della giurisdizione e della legge applicabile, la sua sede si considera ubicata presso il registro delle imprese presso il quale ha mantenuto l'iscrizione. Per l'applicazione, v., inoltre, quanto disposto dai commi 1, 4 e 5 del d.lgs. n. 19, cit. [5] Le parole «, in mancanza,» sono state sostituite alle parole «in mancanza» dall'art. 3 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, come modificato dall'art. 51pp)d.lg. 6 febbraio 2004, n. 37. InquadramentoLa riforma del diritto societario ha di molto ampliato le ipotesi legali di recesso. Il recesso nelle società a responsabilità limitata assume una funzione di tecnica di disinvestimento (Zanarone, 777; Revigliono, 7; Piscitello, 2006, 734), tanto più importante ed efficace in quanto la partecipazione sociale è ben difficilmente negoziabile sul mercato: esso diviene uno strumento di contrattazione con gli altri soci (e, in particolare, con i soci di maggioranza) e, quindi, di negoziazione delle decisioni. A differenza della disciplina anteriore alla riforma del diritto societario, l'art. in commento non disciplina le modalità di esercizio del recesso. Ferma restando la possibilità dell'atto costitutivo di disciplinare dette modalità, si ritiene possibile colmare la lacuna mediante applicazione analogica della disciplina prevista per le società per azioni dall'art. 2437-bis c.c. (v.). Le cause di recesso previste nell'atto costitutivo.Il legislatore demanda all'autonomia statutaria di individuare ipotesi di recesso e di disciplinarne le modalità di esercizio, ulteriori rispetto a quelle inderogabilmente previste dall'art. in commento. In ragione dell'amplissima autonomia conferita, può assurgere a causa di recesso qualsiasi atto o fatto, anche esterno alla società che abbia su di essa una qualche incidenza, così come l'assunzione di qualsiasi decisione da parte degli organi sociali (aumento di capitale, mutamento sistema di amministrazione, compimento di un particolare atto di gestione, etc.) (Calandra Buonaura, 302). In questa prospettiva, sarà possibile anche prevedere il recesso per un solo socio come diritto particolare a lui attribuito (Ventoruzzo, 438; Revigliono, 185; Piscitello, 2015, 476; contra, Cera, 472 secondo il quale i diritti particolari potrebbero riguardare soltanto l'amministrazione della società o la distribuzione degli utili), sempre che la causa che giustifica il suo esercizio sia formulata nell'atto costitutivo con sufficiente determinatezza, per consentire ai terzi di conoscerla ex ante (Guizzardi, 214). È oggetto di dibattito se l'atto costitutivo possa prevedere il recessoad nutum(ovviamente nell'ipotesi di società contratta a tempo determinato) ovvero il recesso per giusta causa. Quanto alla prima ipotesi, la tesi favorevole si fonda, oltre che sull'ampiezza dei poteri conformativi dello statuto lasciati all'autonomia privata, sulla circostanza che il sistema della società a responsabilità limitata è caratterizzata da minori esigenze di tutela dell'integrità del capitale sociale (Stella Ricther, 404; Ventoruzzo, 204; Consiglio Notarile di Milano, massima 74, che precisa, però, che la clausola ammissiva del recesso ad nutum richiederebbe comunque il preavviso di 180 giorni). In senso contrario, si è però osservato (Guizzardi, 212; Piscitello, 2015, 476; Zanarone, 781) che il recesso ad nutum trova la sua ragion d'essere nella durata indeterminata della società ove costituisce un correttivo a favore del socio, mentre nella società a durata determinata appare prevalente l'interesse dei creditori alla salvaguardia dell'integrità del capitale sociale come previsto dalla legge delega (art. 3 lett. f). Inoltre, si evidenzia, in senso contrario, che l'assoluta libertà di recedere e, quindi, la possibilità per il socio di sottrarsi in qualsiasi momento ed al di fuori di qualsiasi presupposto, agli impegni derivanti dallo svolgimento dell'attività sociale risulti contraddittoria con gli interessi dei soci, venendo a pregiudicare la serietà, la stabilità e la continuità del progetto imprenditoriale (Revigliono, 29). Parte della dottrina considera, poi, illegittima la clausola dell'atto costitutivo che preveda, genericamente e senza alcuna ulteriore precisazione, la possibilità di recedere per giusta causa, sulla base della considerazione che il generico rinvio alla categoria della giusta causa comporterebbe il rischio di legittimare ogni circostanza soggettiva riguardante la posizione del socio, indipendentemente dall'effettiva incidenza sull'organizzazione della società compromettendo, anche in tale ipotesi, l'integrità del capitale sociale (Revigliono, 48; Zanarone, 782; Guizzardi, 213). Sempre in tale prospettiva, si osserva che non appare consono il richiamo all'art. 2285 per le società personali, in quanto, in queste ultime, i creditori sono tutelati dalla responsabilità sussidiaria del socio per le obbligazioni sociali assunte fino alla data del recesso. In questa prospettiva, neppure l'adozione di uno statuto di s.r.l. ispirato ad un modello personalistico consentirebbe di ritenere ammissibile il recesso per giusta causa, sia in ragione della difficoltà di individuare il modello effettivamente prescelto dai soci, sia in ragione dell'ambiguità e della genericità della nozione di giusta causa, che si pone in contrasto con l'interesse dei terzi a conoscere ex ante le ipotesi legittimanti il recesso (Revigliono, 46). Così, mentre sarebbe illegittima una clausola che richiamasse genericamente il concetto di giusta causa, l'atto costitutivo potrebbe procedere alla individuazione analitica di singole ipotesi specifiche (Cera, 474; Revigliono, 44). La dottrina maggioritaria è, però, favorevole all'ammissibilità di una simile clausola (Piscitello, 2015, 474; Calandra Buonaura, 304; Stella Richter, 404), in ragione dell'ampiezza dell'autonomia statutaria e sulla sostanziale attenuazione che il principio di tutela e di conservazione subirebbe rispetto alla s.p.a. (Stella Richter, 405). Le fattispecie legali di recesso.Dopo avere demandato all'autonomia privata la possibilità di enucleare fattispecie convenzionali di recesso, il legislatore ha previsto che «in ogni caso» il diritto di recesso compete ai soci in una serie di situazioni che vanno a formare un vero e proprio elenco legale. Proprio in ragione dell'inciso «in ogni caso» la dottrina ritiene che le cause legali siano inderogabili dall'autonomia privata e ciò pur in assenza di una norma analoga a quella dell'art. 2437, comma 6, dettata per la società per azioni (Guizzardi, 215; Revigliono, 56; Salvatore, 416; Stella Richter, 405; Frigeni, 448). Dalla inderogabilità delle cause legali di recesso discende poi l'impossibilità per i soci di rendere statutariamente più gravoso l'esercizio del diritto di recesso (nelle fattispecie legali), perché altrimenti se ne indebolirebbe l'imperatività (Guizzardi, ibidem). La prima causa legale di recesso, indicata nell'articolo in commento, attiene al cambiamento dell'oggetto sociale. Esso presuppone una deliberazione societaria volta a modificare la formulazione letterale dell'attività sociale indicata nell'atto costitutivo, con la conseguenza che non assume rilievo il mutamento dell'attività in concreto esercitata dalla società (Guizzardi, 216; Annunziata, 469). Infatti, ai fini del recesso, il mutamento dell'oggetto sociale deve essere valutato in relazione all'attività indicata nell'atto costitutivo e non già a quella effettivamente e concretamente esercitata (Revigliono, 87; Frigeni, 453). Sono ricomprese nell'ambito della fattispecie legittimante il recesso le situazioni in cui il cambiamento dell'oggetto si sostanzia nell'integrale sostituzione dell'attività indicata nell'atto costitutivo ovvero nell'aggiunta, rispetto a quest'ultima, di settori o segmenti di attività sostanzialmente diversi che non possono essere considerati uno sviluppo dell'attività originariamente svolta (Revigliono, 86). Legittima il recesso anche un restringimento dell'ambito di attività rispetto a quello indicato nell'atto costitutivo dal momento che esso si traduce in una modifica delle condizioni oggettive dell'investimento originario (Revigliono, ivi). La norma non richiede, come invece avviene per la società per azioni, che il cambiamento dell'oggetto sociale sia «significativo». Questo mancato riferimento ha portato una parte della dottrina a ritenere che giustifichino il recesso anche cambiamenti non rilevanti e minimali (Piscitello, 2006, 731; Maltoni, 2003, 308) ovvero modificazioni indirette (attuate attraverso operazioni diverse dalla modifica della corrispondente clausola statutaria) purché sostanziali (Zanarone, 789). La maggiore ampiezza del potere riconosciuto al socio di s.r.l. si spiega, oltre che sulla innegabile differenza terminologica, sulla base dell'ulteriore considerazione che il carattere significativo della modifica nella società per azioni rientra in un quadro di minor tutela complessiva che in questo tipo societario viene accordata al singolo socio di fronte alle istanze di funzionalità del gruppo di controllo anche per la maggiore facilità che l'azionista ha di utilizzare un mezzo di disinvestimento alternativo al recesso quale il trasferimento della partecipazione (Zanarone, 798, nt. 29). Altri autori, al contrario, ritengono comunque necessario che la modificazione sia tale da determinare un'alterazione della sostanza e dell'identità dell'operazione di investimento come originariamente eseguita dal socio, anche se ciò non si traduca necessariamente in un aggravamento delle condizioni di rischio (Guizzardi, 217; Revigliono, 82; Stella Richter, 405; Frigeni, 453). In questa prospettiva non legittimano l'esercizio del diritto di recesso l'aggiunta o l'eliminazione di attività complementari, accessorie o strumentali rispetto all'attività principale (Guizzardi, ibidem; Revigliono, 85). Il cambiamento dell'oggetto sociale per deliberazione dell'assemblea legittima l'esercizio del recesso, perché consente un cambiamento significativo dell'attività della società, senza che occorra verificare se l'operatività degli amministratori successiva alla delibera abbia reso effettivo e attuale il mutamento del settore di attività (Trib. Torino, 3 luglio 2017, in IlSocietario.it). Costituisce causa legale di recesso il cambiamento del tipo societario. A differenza dell'art. 2437, comma 1, lett. b, dettato per la società per azioni, la norma in commento non parla di trasformazione e, dunque, sembrerebbe escludere il diritto di recesso in caso di trasformazione della società in ente non societario. La dottrina, tuttavia, ritenendo l'omissione frutto di un mancato coordinamento delle norme, propende per una lettura ampia della norma e riconosce il diritto di recesso in tutte le ipotesi di trasformazione, omogenea ed eterogenea (Ventoruzzo, 443; Guizzardi, 218; Annunziata, 474; Frigeni, 454). In questo ordine di concetti, la norma sarà applicabile in tutte le ipotesi in cui muta la natura del soggetto a cui viene imputata l'attività della società (Zanarone, 792; Frigeni, 454). Spetta, quindi, al socio il diritto di recesso in caso in cui una s.r.l. lucrativa si trasformi in s.r.l. consortile ovvero in una s.r.l. impresa sociale (Frigeni, 454). Giustificano il recesso anche la fusione e la scissione: si tratta di ipotesi non previste nella disciplina delle società per azioni, dove tali operazioni possono dare àdito al recesso solo se comportano, anche implicitamente, una delle situazioni che lo legittimano (Zanarone, 793). La differenza tra le due discipline è stato spiegato ponendo mente al diverso ruolo dei soci nei due tipi societari: in particolare, nella società a responsabilità limitata, il socio è interessato non solo alle condizioni dell'investimento, ma anche alla compagine sociale che le operazioni di fusione e di scissione possono sconvolgere consentendo l'ingresso di estranei (Zanarone, 793; Revigliono, 123; Guizzardi, 474). Ci si è, poi, interrogati sul momento in cui il socio può esercitare il diritto di recesso: se, cioè, tale diritto diventi attuale al momento della deliberazione assembleare, ovvero al momento della stipulazione dell'atto di fusione o di scissione. Sebbene gli effetti dell'operazione si producano soltanto con la stipulazione del relativo atto (costituendo le deliberazioni delle assemblee delle società coinvolte atti preparatori), appare preferibile l'opinione secondo la quale il socio può recedere a seguito dell'assunzione da parte della società della deliberazione relativa (Guizzardi, 220; Annunziata, 475; Revigliono, 310). Tale conclusione viene giustificata in relazione alla dizione letterale della norma, la quale fa riferimento al socio che «non ha consentito» all'operazione, dizione che implica necessariamente il riferimento alla decisione dei soci. Inoltre, viene evidenziato che se il recesso fosse ricollegabile alla iscrizione dell'atto di fusione o di scissione, la società non potrebbe, attesa l'irreversibilità dell'operazione successivamente alla iscrizione nel registro delle imprese, deliberare la revoca della causa che ha giustificato l'esercizio del recesso (art. 2473, u.c.) (Revigliono, 310). Quindi, mentre l'esercizio del recesso si ricollega all'assunzione della delibera di fusione, il suo definitivo perfezionamento presuppone che l'operazione di fusione sia stata portata a termine mediante iscrizione del registro delle imprese dell'atto di fusione (Frigeni, 456). In caso di scissione non proporzionale di s.r.l., al socio di minoranza che non abbia approvato il progetto di scissione è riconosciuto il diritto di far acquistare la propria quota per un corrispettivo determinato secondo i criteri stabiliti per il recesso dall'art. 2473, comma 3, con indicazione specifica del socio o del terzo gravato dell'obbligo di acquisto; in caso di disaccordo sul valore della quota da attribuire al socio, la determinazione è affidata ad un esperto nominato dal tribunale secondo equo apprezzamento (Trib. Roma, 20 aprile 2015, in Banca borsa tit. cred., 2017, II, 766). Ulteriore situazione legittimante il recesso è la revoca dello stato di liquidazione che la società può sempre deliberare, ai sensi dell'art. 2487-ter c.c., con le maggioranze previste per la modificazione dell'atto costitutivo. Qui il diritto di recesso costituisce il contrappeso all'interesse della società alla prosecuzione dell'attività sociale. È, quindi, consentito al socio dissenziente di salvaguardare il proprio diritto alla quota di liquidazione e, dunque, a percepire il rimborso di essa attraverso il meccanismo sostitutivo del recesso anziché attraverso la procedura di liquidazione della società (Guizzardi, 221). Tuttavia, in pendenza del termine di sessanta giorni previsto dall'art. 2487-ter, comma 2, e, comunque, in presenza di opposizione dei creditori alla deliberazione di revoca dello stato di liquidazione, il recesso non potrà dirsi efficace non essendovi certezza in ordine al presupposto che lo legittima (Guizzardi, 222). Giustifica l'esercizio del recesso il trasferimento della sede sociale all'estero, in quanto anche esso importa un mutamento delle condizioni dell'investimento importando l'applicazione di una diversa normativa nazionale (Ventoruzzo, 320). Il catalogo dell'art. 2473 prosegue indicando, tra le cause che legittimano il recesso, l'eliminazione di una o più cause di recesso previste dall'atto costitutivo. In tali casi il diritto attribuito al socio dissenziente costituisce uno strumento di reazione difronte alle decisioni della maggioranza che incidono sull'assetto organizzativo della società (Annunziata, 488). Secondo l'orientamento maggioritario, giustificano l'esercizio del diritto di recesso anche le modificazioni statutarie che, pur senza eliminare formalmente il recesso, ne aggravino le modalità di esercizio o ne riducano la portata (Guizzardi, 223; Revigliono, 138; Zanarone, 788, nt. 27), purché dette modifiche non si risolvano in meri ritocchi, ma importino realmente una compressione del diritto originariamente previsto. In giurisprudenza, si osserva che il diritto di recesso compete, in ogni caso, ai soci che non hanno acconsentito a modifiche statutarie, fra le quali rientra, per l'appunto, l'ipotesi di eliminazione di una o più cause di recesso. Il passaggio da un regime di durata a tempo indeterminato, che comporta il corollario del diritto del socio al recesso ad nutum, ad un regime di durata a tempo determinato, che tale regime esclude, equivale ad un'ipotesi di eliminazione di una causa di recesso (Cass. n. 9662/2013). Importa il diritto di recesso anche il compimento di operazioni che comportano una sostanziale modifica dell'oggetto della società. La fattispecie si presenta complementare con quella, sopra esaminata, di cambiamento formale dell'oggetto sociale. Con tale dizione il legislatore ha voluto fare riferimento alle operazioni deliberate dai soci ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, le quali, pur non traducendosi in una modifica formale dell'atto costitutivo, abbiano l'effetto di incidere in modo significativo, alternandolo, sull'ambito di attività indicata nell'atto costitutivo (Guizzardi, 224). Si tratta, dunque, delle decisioni riservate ai soci per le quali non è derogabile il ricorso al metodo assembleare ai sensi dell'art. 2479, commi 2 e 4, c.c. È controverso se il diritto di recesso spetti al socio anche quando le operazioni che importino un sostanziale modifica dell'oggetto della società siano poste in essere dagli amministratori in assenza di ogni deliberazione assembleare. Alcuni autori sottolineano la identità di ratio tra la fattispecie in esame e quella espressamente prevista in cui la modificazione sia autorizzata dai soci (Ventoruzzo, 446): tale comune ratio va ricercata nell'esigenza di salvaguardare la posizione del socio di fronte a qualunque mutamento sostanziale dell'oggetto sociale che si realizzi. Secondo altra parte della dottrina, le operazioni compiute dagli amministratori in assenza di una decisione dei soci e, quindi, in violazione della riserva di competenza prevista dall'art. 2479, sono radicalmente inefficaci: conseguentemente, il socio non avrebbe alcuna legittimazione o interesse a recedere, potendo egli agire per far valere l'inefficacia dell'atto compiuto dagli amministratori (Revigliono, 94; Guizzardi, 226). È richiesto che, per potere effettivamente e concretamente incidere sulla sfera del socio, le modifiche «di fatto» assumano carattere di permanenza; devono essere, cioè, dotate di effetti durevoli (e non temporanei ovvero meramente strumentali alla realizzazione di obiettivi statutari), traducendosi in una contrazione o un ampliamento dell'attività della società (Revigliono, 103). In altre parole, il riferimento alla modifica «sostanziale» consente di affermare che le operazioni modificative dell'oggetto sociale devono incidere in maniera permanente e durevole sull'investimento del socio importando una modificazione, qualitativa o quantitativa, dell'attività sociale che si traduce in un apprezzabile cambiamento delle condizioni dell'investimento (Guizzardi, 226; Revigliono, 105). Dunque, le modificazioni devono avere una consistenza: a) quantitativa, occorrendo valutare l'incidenza economica della modifica in relazione al tipo, alla natura ed all'ambito territoriale dell'attività esercitata; b) qualitativa, dovendosi verificare se l'operazione gestoria sia effettivamente in grado di comportare un effettivo mutamento dell'attività (Revigliono, 104). Giustifica il recesso anche il compimento di operazioni che comportano una rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci ai sensi dell'art. 2468, comma 4, c.c. Posto che ai sensi della richiamata norma, salva diversa disposizione dell'atto costitutivo, i diritti particolari attribuiti ad alcuni soci possono essere modificati solo all'unanimità, la causa di recesso in esame si riferirebbe, appunto, al solo caso in cui l'atto costitutivo preveda la modificabilità a maggioranza di tali diritti, potendo in difetto di norma contrattuale il socio dissenziente sempre evitare la modificazione esprimendo il proprio voto contrario (Guizzardi, 227; Annunziata, 492; Revigliono, 152). Secondo altra parte della dottrina, tuttavia, il riferimento alle «operazioni» ed alla loro idoneità ad incidere in maniera «rilevante» sui diritti particolari porta a ritenere che la norma prenda in considerazione le modifiche indirette di tali diritti. Il diritto di recesso sorge solo a fronte di una decisione dei soci e spetta non solo a coloro che, in quanto titolari del diritto particolare, siano direttamente lesi, ma ad ogni socio non consenziente, in coerenza con la regola legale per la quale per le modifiche dei diritti particolari occorre il consenso unanime (Maltoni, 2014, 451, Daccò, 130). Inoltre, sebbene la norma prenda in esame soltanto la «modificazione» dei diritti particolari, deve ritenersi che il recesso sia giustificato anche in ipotesi di eliminazione dei medesimi (Guizzardi, ibidem). La pretesa lesione del diritto di sottoscrizione dell'aumento di capitale sociale, spettante a tutti i soci proporzionalmente alle partecipazioni da essi possedute, non può legittimare il recesso del socio alla stregua del combinato disposto degli artt. 2473, comma 1, e 2468, comma 4, c.c., riferendosi questi ultimi alla sola ipotesi in cui vengano attribuiti a singoli soci, dall'atto costitutivo, «particolari diritti in materia di amministrazione della società o distribuzione degli utili», ovverosia diritti diversi, quantitativamente o qualitativamente, da quelli normalmente spettanti a ciascun socio sulla base della partecipazione detenuta (Cass. n. 22349/2015, secondo la quale a fronte della delibera con cui il c.d.a. di una s.r.l. ha statuito l'aumento di capitale sociale, sottoscrivibile dai soci con conferimenti in denaro o in natura, non è riconoscibile il diritto di recesso del socio, né con riferimento all'ipotesi prevista dall'art. 2473, né rispetto a quella prevista dall'art. 2481-bis c.c.). Il recesso in caso di durata indeterminata della societàIl secondo comma della disposizione in commento prende espressamente in considerazione l'ipotesi di società contratta a tempo indeterminato stabilendo che, in tal caso, il diritto di recesso compete al socio in qualsiasi momento e può essere esercitato con un preavviso di almeno centottanta giorni che l'atto costitutivo può elevare fino al massimo di un anno. La norma tutela l'interesse del socio al disinvestimento evitando che egli resti «prigioniero» della società in assenza di un mercato delle partecipazioni sociali. Il diritto di recesso spetta a ciascun socio che lo può esercitare in qualunque momento: non essendo correlato ad alcuna deliberazione societaria, esso spetta anche al socio di maggioranza (Piscitello, 2006, 722). È dubbio se giustifichi il recesso anche la previsione di una durata della società che ecceda la vita di uno dei soci, non ripetendo la norma il disposto di cui all'art. 2285 c.c., che equipara tale ipotesi alla durata indeterminata della società. In senso favorevole all'estensione del diritto di recesso (quanto meno nell'ipotesi in cui il socio sia una persona fisica) si è espressa una parte della dottrina che ha evidenziato come, per l'uomo, la perpetuità del vincolo si misuri in relazione alla durata della propria vita (Annunziata, 495; Revigliono, 215; Ventoruzzo, 448). Altra parte della dottrina ha, tuttavia, messo in luce l'eccezionalità della previsione del recesso ad nutum con la conseguenza che il diritto di recesso andrebbe riconosciuto solo nell'ipotesi di società formalmente contratte a tempo indeterminato (Guizzardi, 230; Zanarone, 798; Piscitello, 2006, 723).
La giurisprudenza ha osservato che in tema di società a responsabilità limitata, la previsione statutaria di una durata della società per un termine particolarmente lungo (nella specie, l'anno 2100), tale da superare qualsiasi orizzonte previsionale non solo della persona fisica, ma anche di un soggetto collettivo, ne determina l'assimilabilità ad una società a tempo indeterminato; ne consegue che, in base all'art. 2473, comma 2, compete al socio in ogni momento il diritto di recesso, sussistendo la medesima esigenza di tutelare l'affidamento del socio circa la possibilità di disinvestimento della quota da una società sostanzialmente a tempo indeterminato (Cass. n. 9662/2013). Recentemente, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 8962/2019) ha ulteriormente precisato quanto già affermato nella richiamata decisione del 2013, evidenziando che, ai fini dell'equiparazione tra durata eccessivamente lunga (nella specie, 2050) e durata indeterminata occorre avere riguardo non già alla aspettativa di vita del recedente o alla durata media di vita del scoio-persona fisica (circostanze queste irrilevanti), ma alla «ragionevole data di compimento del progetto imprenditoriale». L'indicazione di una durata della società assolve, infatti, scopo di optare per una determinazione dell'aspettativa di vita di una società in funzione della possibilità che il progetto di attività, che con essa si intende perseguire, possa essere, sia pure indicativamente, determinato. Al contrario, una data oltremodo lontana nel tempo ha, almeno di norma, l'effetto di far perdere qualsiasi possibilità di ricostruire l'effettiva volontà delle parti circa l'opzione fra una durata a tempo determinato o indeterminato della società, cosicché tale indicazione si risolve o in un mero esercizio delimitativo che equivale nella sostanza al significato della mancata determinazione del tempo di durata della società ovvero in un sostanziale intento elusivo degli effetti che si produrrebbero con la dichiarazione di una durata a tempo indeterminato, con necessità conseguente, in quest'ultimo caso, di un intervento correttivo dell'interprete che garantisca il riconoscimento della tutela accordata dal legislatore al socio in una società che non preveda una determinazione del tempo della sua durata. A tale orientamento si è, peraltro, uniformata la giurisprudenza di merito che, tuttavia, più che alla ragionevole data di compimento del progetto imprenditoriale, guarda alla durata della vita del socio. Tale giurisprudenza ha, dunque, riconosciuto al socio di s.r.l. il recesso ad nutum, previsto quale causa legale di recesso in caso di società a tempo indeterminato dall'art. 2473, comma 2, nell'ipotesi della previsione di una durata della società che ecceda la vita media di un essere umano, tenuto conto dell'età anagrafica (di tutti i soci o anche di uno solo). La decisione si spiega in ordine alla mancata tutelabilità di vincoli contrattuali di durata illimitata ovvero di durata oggettivamente superiore alla vita media dei soci o del singolo socio (Trib. Roma, 22 ottobre 2015, in IlSocietario.it; ma già Trib. Roma, 19 maggio 2009, in Foro it., 2010, I, 3567, secondo cui, quando il termine di durata di una società a responsabilità limitata, previsto dall'atto costitutivo, sia superiore alla normale durata della vita umana, la società deve considerarsi come contratta a tempo indeterminato, con conseguente facoltà, per i soci, di recedere ad nutum). Una simile conclusione deve essere, poi, verificata in relazione all'ipotesi in cui uno o tutti i soci della s.r.l. siano persone giuridiche. Dovendosi escludere che il recesso non possa operare per i soci-persone giuridiche in quanto implicherebbe una diseguaglianza tra i soci, una parte della dottrina propone di applicare il criterio della vita umana tenendo conto dell'età e della presumibile durata della vita di coloro che fanno parte della compagine sociale della persona giuridica (Revigliono, 221), con la precisazione che la situazione legittimante il recesso vada riferita all'età non di uno solo dei soci, ma di tutti i soci della persona giuridica (Revigliono, 222). Altri autori, invece, pur ammettendo il recesso in tali ipotesi, prendono in considerazione la durata della società socia che deve eccedere la durata media della vita umana, a prescindere dall'età anagrafica dei soci (Annunziata, 495). Infine, il diritto di recesso spetterà al socio anche in caso di proroga a tempo indeterminato della società, in quanto la previsione di un termine di durata determina l'affidamento del socio a che, scaduto il termine, si addivenga alla liquidazione della propria partecipazione in conseguenza dello scioglimento della società così che la proroga del termine rappresenta un pregiudizio per la posizione del socio (Guizzardi, ibidem). Ulteriori cause legali di recesso.Ulteriori ipotesi di recesso sono stabilite, a favore del socio di una società a responsabilità limitata, da altre disposizioni del codice civile o da leggi speciali. In particolare, l'art. 2469 c.c. prevede il recesso in ipotesi di intrasferibilità o di vincoli al trasferimento della partecipazione sociale. L'art. 2481-bis c.c. prevede, poi, che l'aumento di capitale possa essere attuato anche mediante offerta di quote di nuova emissione a terzi, ma consente, in tali ipotesi, ai soci che non hanno consentito alla decisione di esercitare il diritto di recesso. Infine, l'art. 34 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 prevede che le modifiche dell'atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale e che i soci assenti o dissenzienti possono, entro i successivi novanta giorni, esercitare il diritto di recesso. Il recesso parziale.È dubbio se – in assenza di previsioni statutarie che possano certamente ammettere o vietare il recesso parziale (Cera, 477) – il socio possa esercitare il recesso per una parte soltanto della propria partecipazione alla società riducendo così il proprio investimento. La tesi negativa, maggioritaria in dottrina (Stella Richter, 410; Frigeni, 209; Ventoruzzo, 212; Zanarone, 776; Salvatore, 420; contra, Consigli Notarili Triveneto, massima I.H.11) si fonda sul dato testuale della norma che non prende in esame il recesso parziale (a differenza della disciplina del recesso nella società per azioni) ovvero sulla natura unitaria della partecipazione sociale e, dunque, sulla sua indivisibilità, non essendo stata riprodotta la disposizione di cui al previgente art. 2482, che espressamente sanciva la divisibilità della quota, ovvero ancora sulla considerazione della centralità della persona del socio. Secondo un autore, l'inammissibilità del recesso parziale non discende da limiti di carattere strutturale ovvero dall'impossibilità di scindere o dividere la quota, ma dalla tendenziale preminenza della persona sulla partecipazione e nella conseguente identificazione della prima nella seconda (Revigliono, 335). In altre parole, il recesso è consentito al socio come tale ed in presenza di cause che determinano il suo interesse a sciogliersi dal vincolo societario, con la conseguenza che il suo esercizio deve riguardare l'intera sua partecipazione alla società (Cera, 477). In senso contrario si è, però, osservato che, ove il legislatore ha inteso escludere il recesso parziale, lo ha fatto espressamente (come nel caso di socio cooperatore, art. 2532) e che, in realtà, la risoluzione della problematica dipende dalla soluzione accolta in ordine al problema della divisibilità delle quote nella società a responsabilità limitata. Infatti, nell'ipotesi di recesso parziale, la quota viene in parte mantenuta ed in parte liquidata, realizzando un frazionamento, non diversamente da quanto avviene in seguito ad una cessione parziale (Piscitello, 2015, 471). In questa prospettiva, ove si ritenga che la quota non sia frazionabile (proprio in ragione della mancanza di una norma che ciò autorizzi), necessariamente deve concludersi per l'inammissibilità del recesso parziale. Si è, tuttavia, osservato che la divisione della quota non comporta una alterazione delle regole di funzionamento della società, essendo le decisioni devolute alla maggioranza calcolata per quote di capitale e, dunque, non costituisce una turbativa dei meccanismi decisionali (Piscitello, 2015, 472; Guizzardi, 238). Secondo un autore (Maltoni, 2014, 451 ss.), il problema pretende una soluzione non astratta e generalizzante, ma calibrata sulla configurazione degli assetti societari creati dai patti sociali: se l'oggetto sociale e i patti evidenziano una logica di mero investimento sottesa alla partecipazione, con facoltà di cessione parziale della partecipazione, non si vedono ostacoli ad ammettere la possibilità di un recesso parziale che costituisce pur sempre una tecnica di disinvestimento alternativa alla cessione. Qualora invece lo statuto sia caratterizzato dall'attribuzione a singoli soci di situazioni soggettive peculiari e diversificate rispetto al resto della compagine, si dovrebbe valutare come i soci hanno complessivamente disciplinato il loro disinvestimento, sempre facendo riferimento alle clausole volte a disciplinare la cessione della partecipazione di tali soci e gli effetti sulle loro situazioni soggettive: allo stesso modo potrà operare il recesso. In giurisprudenza si afferma che la verifica di compatibilità del recesso parziale con le regole organizzative della singola s.r.l. deve considerare da un lato l'esistenza di limiti statutari espliciti o impliciti alla divisibilità o alla cessione parziale della quota, dall'altro l'esistenza di clausole che diano una forte impronta personalistica alla società e una connotazione unitaria e indivisibile alla partecipazione, ad es. attribuendo al socio «particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società o la distribuzione di utili» (art. 2468, comma 3, c.c.) od obbligandolo a conferire la propria opera o servizi a favore della società (art. 2464 c.c.): in assenza dei suindicati limiti e clausole, il recesso parziale è valido ed efficace (Trib. Torino, 3 luglio 2017, in IlSocietario.it). Le modalità di esercizio del recesso, il termine di efficacia e la perdita dello status socii (rinvio)Il recesso è una dichiarazione unilaterale negoziale recettizia che si perfeziona, producendo gli effetti suoi propri, con la conoscenza legale da parte della società, in applicazione della regola generale di cui all'art. 1334 c.c. L'atto di recesso – in quanto, come detto, atto unilaterale recettizio che produce i suoi effetti dal momento in cui la dichiarazione giunge a conoscenza del destinatario – non è suscettibile di revoca, né può essere subordinato a condizioni che ne rendano incerti nel tempo gli effetti (Cass. n. 5548/2004; Trib. Milano, 5 marzo 2007, in Giur. it., 2007, 2775). La disciplina della società a responsabilità limitata non prevede espressamente (a differenza dell'omologa disciplina della società per azioni) un termine per l'esercizio del recesso. La giurisprudenza ha, dunque, affermato che in caso di recesso del socio di s.r.l. esercitato successivamente alla trasformazione in s.p.a., in considerazione del rafforzamento della tutela del diritto al disinvestimento dei soci di minoranza, rispetto a quella della stabilità del vincolo associativo, dovuto alle nuove caratteristiche personalistiche del tipo societario della s.r.l. configurato dalla riforma del 2003, la disciplina del diritto di recesso è quella dettata per le s.r.l. dall'art. 2473, comma 2, c.c. che non prevede termini di decadenza, essendo contrario alla lettera del comma 1 della citata norma, nonché alla "ratio legis" e alla buona fede, assoggettare il socio dissenziente ai ridotti termini di esercizio del recesso fissati per le s.p.a. dall'art. 2437-bis c.c., da ritenersi non applicabile analogicamente per la diversità di presupposti del recesso nei due tipi societari. Pertanto, in detta ipotesi, il diritto di recesso del socio va esercitato nel termine previsto nello statuto della s.r.l., prima della sua trasformazione in s.p.a., e, in mancanza di detto termine, secondo buona fede e correttezza, quali fonti di integrazione della regolamentazione contrattuale, dovendo il giudice del merito valutare di volta in volta le modalità concrete di esercizio del diritto di recesso e, in particolare, la congruità del termine entro il quale il recesso è stato esercitato, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti (Cass., n. 28897/2018). Sebbene il recesso del socio da una società a responsabilità limitata sia negozio unilaterale recettizio, i suoi effetti sono destinati a prodursi alla scadenza del termine di preavviso, giusta le previsioni dello statuto, dettate dalle esigenze proprie del settore in cui la società opera (Trib. Roma, 24 maggio 2010, in Foro it., 2012, I, 290). Con il ricevimento, da parte della società, della raccomandata con la quale è stato esercitato il recesso, questo è pienamente efficace: esso diviene irrevocabile da parte del recedente e non può essere sottoposto a condizioni. Una volta esercitato, infatti, la situazione societaria si cristallizza e la società è posta nelle condizioni di adottare le decisioni sulla base di dati stabili. Il legislatore non prende espressamente posizione in ordine alla questione, assai dibattuta sia antecedentemente che successivamente alla riforma del diritto societario, in ordine alla operatività del recesso ed alla conseguente perdita dello status socii da parte del recedente (per gli approfondimenti si rimanda al commento dell'art. 2437-bis c.c.). I dati normativi da cui occorre muovere sono, comunque, costituiti dalla natura dell'atto di recesso come atto unilaterale recettizio i cui effetti si producono nella sfera della società dal momento in cui questa riceve la relativa comunicazione. Sotto altro profilo, l'ultimo comma della disposizione in commento afferma che alla società è data la possibilità, come si vedrà infra, di porre nel nulla i presupposti del recesso provvedendo a revocare la delibera che lo giustificava oppure a deliberare lo scioglimento della società. Si tratta di dati normativi ambivalenti che sono stati letti dagli interpreti in maniera contrastante. Secondo un primo orientamento, la dichiarazione di recesso apre un procedimento, che comprende la verifica della legittimazione a recedere, l'eventuale revoca dei presupposti da parte della società e, infine, la liquidazione: la dichiarazione, dunque, non comporta per il socio l'acquisizione di un diritto soggettivo intangibile alla liquidazione della quota, in quanto la perdita dello status di socio presuppone pur sempre la liquidazione della partecipazione. Consegue da una simile impostazione che, fino alla liquidazione suddetta, il socio mantiene inalterati i diritti e gli obblighi connessi alla sua posizione potendo così intervenire e votare in assemblea, nonché impugnare le relative deliberazioni. Diversamente, si osserva che la perdita dello status socii si verifica dal momento in cui la delibera diventa irrevocabile per lo spirare del termine a disposizione della società per revocare la delibera che ha dato luogo al recesso. Secondo altro orientamento, infine, il recesso opera immediatamente dal momento del ricevimento della dichiarazione di recesso da parte della società e che, dunque, da tale momento viene meno la qualità di socio. Anche la giurisprudenza è divisa tra le posizioni ora descritte presenti in dottrina. Secondo un primo orientamento, la dichiarazione di recesso del socio da una società a responsabilità limitata è immediatamente produttiva di effetti, non appena ricevuta dalla società, e comporta l'immediato scioglimento del rapporto sociale, con riferimento al socio receduto: consegue che il receduto non può partecipare alle successive assemblee e votare. In particolare, nel momento in cui la società ha ricevuto la dichiarazione di recesso del socio, muta la posizione del socio receduto, il quale diventa titolare del diritto alla liquidazione della quota (Trib. Roma, 25 gennaio 2017, in IlSocietario.it; Trib. Catanzaro, 26 febbraio 2014, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, II, 352; Trib. Roma, 11 giugno 2012, in Riv. dir. soc., 2012, 687, Trib. Trapani 21 marzo 2007, in Giur comm., 2009, 529; Trib. Roma 11 maggio 2005, in Vita not., 2006, 323; Trib. Arezzo 16 novembre 2004, in Corr. mer., 2005, 279). Una parte della giurisprudenza riconosce al socio, nel periodo intercorrente tra l'esercizio del recesso e la liquidazione della quota, la perdurante titolarità dei diritti amministrativi e patrimoniali (in particolare dei diritti agli utili già deliberati) di cui alla partecipazione sociale, nonché il diritto di impugnare tutte le delibere a cui sia interessato e rispetto a cui non sia in conflitto di interessi (Trib. Roma, 7 luglio 2011, n. 14708, in Giur. comm., 2013, II, 274). Si segnala, in particolare, una pronunzia secondo la quale, sebbene il recesso esercitato da un socio sia già efficace con la ricezione della relativa dichiarazione da parte della società, pur in difetto di annullamento delle azioni o di liquidazione del loro valore, il socio receduto è legittimato a impugnare la delibera assembleare che ha costituito il fondamento dell'esercizio del suo diritto di recesso e a chiederne la sospensione in sede cautelare (Trib. Napoli, ord. 14 gennaio 2011, in Giur comm., 2012, II, 697). Infine, secondo altra impostazione, il recesso del socio da una società per azioni è atto unilaterale recettizio, il cui effetto non è di determinare l'immediata cessazione del rapporto sociale, ma di attivare necessariamente il complesso meccanismo di liquidazione del valore e rimborso della quota di partecipazione al capitale sociale al cui esito, solamente, cessa il rapporto predetto (Trib. Tivoli, 14 giugno 2010, in Giur. it., 2011, 1086). In questa prospettiva, non si può negare lo status di socio a colui che, pur avendo manifestato la volontà di uscire dalla compagine sociale, non ha ancora la certezza – né giuridica, né di fatto – di poter realizzare questo intento, che potrebbe essere vanificato dagli altri soci (App. Milano, 21 aprile 2007, in Soc., 2008, 1121). La revoca della causa che legittima il recesso.Come nella società azionaria, anche nella s.r.l. è attribuito alla società uno ius poenitendi: la società può porre nel nulla il recesso esercitato eliminando gli effetti della delibera che quel recesso ha giustificato. L'u.c. dell'art. in commento, infatti, prevede che il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se la società revoca la delibera che lo legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società. La norma prende in considerazioni due ipotesi di «sterilizzazione» degli effetti del recesso, la prima costituita dalla revoca della delibera che lo legittima, la seconda dalla deliberazione di scioglimento della società. La ratio della norma va ravvisata nella volontà del legislatore di consentire alla società di evitare che l'esercizio del recesso da parte di uno o più soci ed il conseguente rimborso delle quote possano determinare una rilevante alterazione della situazione patrimoniale e finanziaria della società, con compromissione dell'operatività stessa dell'ente (Revigliono, 316). Si tratta di un eccezionale favor per i soci di maggioranza (Zanarone, 818; Calandra Buonaura, 305; Frigeni, 451), i quali possono «sterilizzare» il diritto dei soci di minoranza sulla base di una analisi dei costi e benefici o attraverso la revoca della delibera e, quindi, la prosecuzione dell'attività sociale, che evita l'esborso conseguente alla liquidazione del recedente, oppure attraverso lo scioglimento della società, che pone tutti i soci, e non solo il recedente, in condizione di essere liquidati. La norma si discosta dalla corrispondente disciplina della s.p.a., laddove non fissa alcun termine (previsto, invece, dall'art. 2437-bis c.c. in 90 giorni) per l'adozione della deliberazione di revoca o di scioglimento della società. Rimasto del tutto minoritario l'orientamento secondo il quale la società può procedere senza limiti di tempo (Galletti, 1915), poiché prolungherebbe eccessivamente una situazione di incertezza, taluni hanno fatto ricorso al termine di 180 giorni previsto dall'art. in commento per il rimborso del recedente (Garcea, 496). La dottrina maggioritaria, però, sembra orientata a ritenere applicabile analogicamente il termine, previsto per la s.p.a., di 90 giorni (Revigliono, 324; Frigeni, 451), in ragione della differenza tra il termine per l'adempimento dell'obbligo di rimborso ed il termine in argomento che è finalizzato a precludere il rimborso medesimo (Zanarone, 817, nt. 98). Il tema del termine per l'adozione della delibera di revoca ha delle interferenze con lo stato del procedimento di liquidazione della quota, potendo intervenire la revoca nel corso di detto procedimento il quale non si è ancora completato, ovvero una volta che il procedimento di liquidazione si è concluso con la definitiva uscita del socio dalla compagine sociale (amplius, Annunziata, 517). Nella prima ipotesi, il recesso dovrà ritenersi privo di effetti; nella seconda, la delibera non potrebbe più incidere sulla posizione individuale del soggetto che è definitivamente fuoriuscito dalla compagine sociale (tuttavia, Annunziata, 518 distingue le seguenti ipotesi: 1) se la revoca della delibera è assunta prima del decorso del termine di 180 giorni di cui all'art. 2473, comma 4, la revoca sarà idonea a sterilizzare il recesso solo ove essa intervenga prima della liquidazione della quota; 2) se la delibera è assunta dopo il decorso del termine di 180 giorni, la deliberazione di revoca non sarà comunque idonea ad incidere sulla posizione del socio). Alla revoca è equiparato l'accertamento giudiziale della invalidità della deliberazione che ha dato luogo al recesso: tanto l'accoglimento della domanda quanto la sospensione cautelare dell'efficacia sono idonei sia a precludere l'esercizio del recesso, sia a privare di efficacia la dichiarazione di recesso eventualmente manifestata (Frigeni, 451; Zanarone, 818, nt. 100). Anche la deliberazione di messa in liquidazione della società, per potere incidere sulla posizione del recedente, deve intervenire prima che si sia completato l'iter di liquidazione della quota (Annunziata, 518, secondo il quale non sarebbe idoneo ad incidere sulla posizione del recedente lo scioglimento deliberato oltre i 180 giorni; Revigliono, 327). In giurisprudenza si afferma che, in materia di revoca della delibera che legittima il recesso da s.r.l., è applicabile analogicamente il termine di 90 giorni previsto dall'art. 2437-bis, comma 3, c.c., dettato in materia di s.p.a., stante l'evidente identità di ratio (Trib. Chieti, 17 febbraio 2011, in Vita not., 2011, 1622: peraltro, il tribunale, sulla base della considerazione del termine di 180 giorni entro il quale deve essere eseguito il rimborso della quota di partecipazione del socio, ha ritenuto che giammai la società potrebbe superare tale termine per rendere inefficace il recesso, essendosi a quel punto sicuramente e definitivamente consolidato il diritto del socio ad essere estromesso dalla società). Se il legislatore non ha indicato per la s.r.l. il termine di 90 giorni per la revoca della delibera legittimante il recesso, ha comunque mantenuto espressamente quello, tassativo e non prorogabile neppure statutariamente, di 180 giorni per la liquidazione della quota del recedente, con ciò significando che, in mancanza di questa, il procedimento concesso alla società per definire bonariamente la posizione del socio recedente ha termine e sorge, in favore del recedente stesso, il diritto di agire per la liquidazione della quota in via contenziosa (Lodo arbitrale Milano, 10 marzo 2006, in Soc., 2007, 745). In giurisprudenza, si è affermato che l'esigenza di certezza e di rapida definizione degli assetti societari interessati dal recesso di uno o più soci è inconciliabile con l'attribuzione al socio recedente della facoltà di revocare la dichiarazione di recesso, già comunicata alla società, o di modificarne la portata subordinandola a condizioni (Cass. n. 5548/2004). La liquidazione della quota.La norma tende a far conseguire al socio receduto un valore tendenzialmente corrispondente al valore reale (di mercato) della propria partecipazione (Stella Richter, 231; Calandra Buonaura, 316; Piscitello, 2015, 477) e non, come in passato, sulla base del bilancio di esercizio. In assenza di un mercato delle partecipazioni in società a responsabilità limitata che consenta l'immediata individuazione del valore della quota, deve essere in primo luogo determinato il valore dell'intero patrimonio sociale (intera azienda sociale) ipotizzando una reale contrattazione finalizzata alla cessione e non alla liquidazione e, quindi, rapportando tale importo alla percentuale di possesso di cui è titolare il socio recedente (Piscitello, 2006, 731; Guizzardi, 250; Annunziata, 520, secondo il quale il valore di mercato è il valore che intrinsecamente il patrimonio sociale avrebbe qualora fosse oggetto di scambio e, quindi, un valore che deve riflettere il valore corrente dei cespiti aziendali oltre che il valore dell'avviamento; sul punto, amplius, Tucci, 479). La norma non prevede, poi, l'adozione di un particolare criterio di stima: potranno, dunque, essere utilizzati tutti i metodi aziendalistici che possono concorrere ad una valutazione del patrimonio più aderente al valore reale, tenendo anche conto delle prospettive reddituali (Revigliono, 377). Pur se oggetto di contrasto in dottrina, devono ritenersi applicabili i cc.dd. premi di maggioranza o sconti di minoranza, in quanto essi contribuiscono all'individuazione del valore di mercato della quota (Revigliono, 381). La liquidazione della quota del socio receduto di una società a responsabilità limitata deve effettuarsi sulla base dell'ultimo bilancio approvato relativo all'esercizio chiuso precedentemente alla delibera che legittima l'esercizio del diritto di recesso (App. Venezia, 21 aprile 2009, in Giur. comm., 2011, II, 133). Il nuovo art. 2473 c.c. stabilisce che il rimborso della partecipazione al socio receduto avviene in proporzione del patrimonio sociale, che è a tal fine determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso. Pertanto la nuova disciplina delle s.r.l., nell'ipotesi che nulla lo statuto preveda per la liquidazione della quota al socio receduto, fa riferimento, alla “consistenza patrimoniale”, volendo così indicare che non si è vincolati al risultato dei dati contabili (Trib. Lecco, 4 marzo 2010). La dottrina maggioritaria evidenzia la legittimità delle clausole dell'atto costitutivo che prevedano criteri di liquidazione più favorevoli per il socio e ciò sia con riferimento alle cause legali di recesso che con riferimento a quelle previste convenzionalmente nell'atto costitutivo (Zanarone, 831; Annunziata, 523; Consigli notarili Triveneto, massima I.H.13). Condizioni peggiorative dei criteri di liquidazione della quota sarebbero possibili soltanto per le ipotesi convenzionali di recesso in ragione dell'ampio spazio di cui gode l'autonomia statutaria (Piscitello, 2015, 478; Ventoruzzo, 309): al contrario, per le cause legali di recesso sarebbe illegittima una clausola statutaria che fissasse criteri di liquidazione peggiorativi rispetto a quelli indicati nel codice (Tucci, 483). Una parte della dottrina, tuttavia, evidenzia come il valore di mercato previsto dalla norma in argomento costituisca un giusto equilibrio tra l'interesse del socio alla massimizzazione del valore della propria partecipazione e quello della società e dei creditori sociali al mantenimento delle risorse patrimoniali della società, che verrebbe compromesso da una sopravvalutazione della quota del socio recedente. Conseguentemente, il criterio previsto dall'art. 2473 comma 3, sarebbe inderogabile anche a favore del socio ed a prescindere dalla natura, legale o convenzionale, della causa di recesso (Guizzardi, 252). La valutazione della quota deve avvenire al momento del recesso, per tale intendendosi la data di ricezione della comunicazione con la quale viene manifestata alla società la volontà del socio (Guizzardi, 253; Tucci, 481). Secondo altra parte della dottrina, invece, sulla base del tenore letterale del co. 4 dell'art. 2473, il momento determinante sarebbe la spedizione della comunicazione della volontà di recedere (Zanarone, 828, nt. 126). Dovranno essere oggetto di valutazione, ai fini della determinazione del valore della quota, anche eventuali operazioni in corso (Tucci, 481). Fermo restando che appare compito degli amministratori predisporre una proposta di liquidazione da sottoporre al socio interessato, in caso di disaccordo sulla determinazione del valore, la valutazione dovrà essere fatta da un esperto nominato dal tribunale il quale agirà come arbitratore ai sensi dell'art. 1349 con la conseguenza che, qualora la stima così operata sia manifestamente iniqua o erronea, dovrà provvedere il giudice. Secondo un orientamento presente in giurisprudenza, qualora sussista un conflitto tra la società e il socio sul diritto di quest'ultimo di recedere, non è ammissibile ricorrere al procedimento di determinazione giudiziale (attraverso la nomina dell'esperto) del valore della quota previsto dall'art. 2473 c.c., in quanto procedimento avente natura di volontaria giurisdizione (così, App. Torino, 18 ottobre 2010, in Soc., 2011, 106; Trib. Salerno, 13 ottobre 2009, in Corr. mer., 2010, 274). Secondo altro orientamento, la circostanza che il giudizio introdotto dalla richiesta del socio di nomina dell'esperto per la valutazione della partecipazione del recedente si svolga in sede di volontaria giurisdizione non implica l'impossibilità, per l'organo giudicante, di potere valutare incidentalmente (senza efficacia di giudicato) la legittimità del recesso medesimo. Né tale valutazione è impedita dalla circostanza che gli amministratori non abbiano proceduto alla preventiva, rispetto alla deliberazione che giustifica il recesso, determinazione del valore della liquidazione delle azioni (in questo senso, Trib. Roma, 30 aprile 2014, in Giur. comm., 2015, II, 864; Trib. Roma, 8 luglio 2016). In altre parole, la nomina dell'esperto può essere richiesta non solo in caso di contestazione in senso tecnico (ossia in caso di contrasto positivamente ingenerato da una scorretta determinazione operata dall'organo amministrativo), ma anche nelle ipotesi di totale (asserito) inadempimento degli amministratori. Ove, cioè, questi non ottemperino all'obbligo di determinare il valore di liquidazione delle azioni si verifica, comunque, una situazione di conflitto obiettivo tra l'interesse del socio ad esercitare il diritto di recesso ed il comportamento inerte serbato dagli amministratori che, sostanzialmente, equivale alla contestazione del diritto di recesso del socio stesso. Si evidenzia, in giurisprudenza, che, laddove il termine dilatorio entro il quale deve avvenire l'effettivo rimborso del valore della quota previsto nello statuto non coincida con quello previsto dell'art. 2473, comma 4, c.c., deve applicarsi la disposizione del codice, mancando una deroga in favore della disciplina pattizia (come invece nel caso di recesso ad nutum, a proposito del termine di preavviso che, fissato per legge in 180 giorni, può essere previsto in termini di maggiore durata nell'atto costitutivo, purché non superiore ad un anno, ex art. 2473, comma 2, c.c.) (Trib. Roma, 22 ottobre 2015, in IlSocietario.it). Il procedimento di liquidazione della quota.L'art. 2473, comma 4, dispone che il rimborso delle partecipazioni per cui è stato esercitato il diritto di recesso deve essere eseguito entro centottanta giorni dalla comunicazione del medesimo fatta alla società. Il termine potrebbe essere modificato dallo statuto essendo previsto nell'esclusivo interesse dei soci (Maltoni, 2003, 309; Stella Richter, 389; contra, Consigli Notarili Triveneto, massima I.H.14). Quanto al procedimento di liquidazione, il quarto comma dell'art. 2473 ripete, con alcuni adattamenti, la stessa scansione di quello previsto per la società per azioni e mira a realizzare l'uscita del recedente senza sottrarre ricchezza alla società, mantenendo inalterata la proporzione delle partecipazioni dei soci (Piscitello, 2015, 478). La norma articola, dunque, cinque possibili soluzioni: acquisto da parte dei soci, acquisto da parte di un terzo concordemente individuato, rimborso mediante riserve disponibili; riduzione del capitale sociale ai sensi dell'art. 2482; in caso di impossibilità di liquidare la quota con tali metodologie, scioglimento della società. Secondo la dottrina (Galletti, 1920; Revigliono, 342; Piscitello, 2007, 733) le fasi sarebbero poste in ordine di subordinazione inderogabile. Le ipotesi previste possono, poi, essere inquadrate in due gruppi: il primo implica tecniche che non comportano esborsi a carico della società (acquisto da parte degli altri soci o del terzo), il secondo comporta la necessità di attingere ai mezzi della società o utilizzando le riserve disponibili ovvero, in mancanza, riducendo il capitale (Zanarone, 836 il quale precisa che sussiste una rigida consequenzialità tra i due gruppi e tra le soluzioni interne al secondo gruppo, mentre non vi sarebbe alcuna consecuzione necessaria tra l'acquisto da parte dei soci o del terzo). In primo luogo, la norma prevede che il rimborso avvenga attraverso l'acquisto da parte degli altri soci proporzionalmente alle loro partecipazioni oppure (in caso di mancato acquisto da parte dei soci) da parte di un terzo concordemente individuato da soci medesimi. In tali casi, il termine «rimborso» assume un significato più economico che giuridico, atteso che il denaro ricevuto dal recedente appare pur sempre il corrispettivo di una vendita della propria quota, laddove il rimborso in senso tecnico dovrebbe essere invece legato alla restituzione di somme versate alla società e pertanto provenienti dal patrimonio di questa (Magliulo, 287). La fattispecie in esame realizza una ipotesi di trasferimento in senso tecnico della partecipazione sociale. Mentre nella disciplina della s.p.a. (artt. 2437-bis, comma 2, e 2437-quater c.c.) il recedente rimette nella disponibilità della società e, per essa, degli amministratori il potere di alienare i titoli azionari e, proprio in vista dell'attribuzione alla società della legittimazione a disporre delle azioni, egli deve depositare queste ultime presso la sede sociale senza poterne disporne, nella s.r.l. non è previsto alcun divieto di cedibilità della partecipazione, né alcuna formalità volta a vincolare la medesima o alcuna esplicita attribuzione di poteri agli amministratori, o un meccanismo di ordine pubblicitario in relazione alle fasi che precedono la formalizzazione dell'eventuale acquisto della quota da parte dei soci. Si esclude l'applicabilità in via analogica della disciplina della s.p.a. alla s.r.l. e, in particolare, si esclude che gli amministratori possano disporre autonomamente della quota del recedente (Revigliono, 346 ss.; Zanarone, 837 ss.). In particolare, si osserva che l'attribuzione agli amministratori di un potere dispositivo sulla partecipazione del recedente costituisce oggetto di una norma di carattere eccezionale in quanto incidente sulla facoltà di disposizione del recedente e determinante una limitazione delle sue prerogative proprietarie (Revigliono, 347). D'altra parte, se si volesse applicare analogicamente la disciplina di cui all'art. 2437-quater c.c., occorrerebbe immaginare la possibilità di iscrivere nel registro delle imprese l'offerta in opzione della quota da parte degli amministratori, ma tale strada appare preclusa dal principio di tipicità degli atti iscrivibili nel registro delle imprese e dalla conseguente circostanza che, nell'ambito di un tipo sociale come la società a responsabilità limitata, gli atti inerenti alla circolazione della partecipazione idonei all'iscrizione sono compiutamente previsti dagli artt. 2470,2471 e 2471-bis c.c. (Revigliono, 347; Giud. Registro Roma, 14 marzo 2018). Secondo la dottrina, il socio che recede accetta, implicitamente, che le modalità di liquidazione della quota si realizzino secondo lo schema delineato dalla legge e, quindi, in particolare, acconsente a che la partecipazione possa essere acquistata dagli altri soci o da un terzo assumendo, quindi, un obbligo di cedere la partecipazione nei confronti di quei soci o di quei soggetti terzi che intendano esercitare il diritto di opzione loro attribuito (Revigliono, 348): gli amministratori dovranno, quindi, secondo tale dottrina, comunicare a tutti i soci l'avvenuta dichiarazione di recesso, raccogliere la disponibilità all'acquisto da parte dei soci superstiti e, quindi, invitare il recedente ad addivenire al perfezionamento dell'atto di trasferimento che dovrà essere redatto nella forma idonea ad ottenere l'iscrizione nel registro delle imprese; l'inadempimento dell'obbligo di cooperare al perfezionamento della vicenda traslativa da parte del recedente legittimerà gli altri soci all'esperimento dell'esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre ai sensi dell'art. 2932 c.c. (Revigliono, 348; Magliulo, 289; Zanarone, 839, secondo il quale il recedente, avendo dichiarato la propria volontà di abbandonare la società, ha dato ormai causa al sorgere di un corrispondente vincolo nei confronti di quest'ultima, secondo lo schema del contratto a favore di terzi, dove il contratto è quello sociale, promittente il socio receduto, stipulante la società, terzi gli altri soci o l'acquirente da essi individuato, nella cui sfera giuridica si produce ex art. 1411 c.c. il diritto a pretendere dal recedente la prestazione della volontà contrattuale diretta al trasferimento della partecipazione). Del medesimo avviso la giurisprudenza (Giud. Registro Roma, 14 marzo 2018) che precisa, altresì, che l'atto di trasferimento interviene tra il socio receduto e gli altri soci dichiaratisi disponibili all'acquisto, con l'unica peculiarità che il corrispettivo, che assume la funzione di rimborso, viene determinato dagli amministratori: deve, invece, escludersi che gli amministratori possano procedere direttamente ed autonomamente alla vendita della quota del receduto agli altri soci o al terzo da essi individuato (come se si trattasse di una vendita in danno). Ove non si proceda all'acquisto da parte degli altri soci o di un terzo, il rimborso viene effettuato utilizzando riserve disponibili o in, mancanza, corrispondentemente riducendo il capitale sociale (con applicazione dell'art. 2482 c.c.). Quanto all'utilizzo di riserve disponibili, occorre verificare la compatibilità di una simile situazione alla luce del disposto di cui all'art. 2474 c.c., che vieta alla società di compiere operazioni sulle proprie quote. Mentre secondo una parte della dottrina, in tal caso, si avrebbe un acquisto delle partecipazioni da parte della società (che affronterebbe il relativo esborso economico) e, quindi, una eccezione alla regola generale di cui all'art. 2474 (Masturzi, 91), altra dottrina qualifica il rimborso mediante riserve come un acquisto pro quota da parte dei soci, da individuarsi quale accrescimento proporzionale e gratuito del valore nominale delle singole partecipazioni dei soci non recedenti (Revigliono, 357; Zanarone, 840; Tanzi, 1546; Galletti, 1914). Dal punto di vista sostanziale si verifica un'operazione assimilabile ad una riduzione del capitale ed al suo contestuale aumento gratuito, di ammontare pari a quanto attribuito al socio receduto; contabilmente, infatti, la società si troverà, al termine del procedimento, ad avere il capitale pari alla misura anteriore al recesso, ed una diminuzione delle riserve disponibili. La partecipazione al capitale degli altri soci risulterà, quindi, proporzionalmente accresciuta (Ruotolo, Paolini). In mancanza di riserve disponibili, il rimborso deve avvenire mediante la riduzione del capitale sociale. La riduzione deve avvenire nella misura del valore attribuito alla partecipazione del socio receduto e non assorbito dalle riserve disponibili (Zanarone, 841; Magliulo, 294). Tale modalità costituisce un onere che la società deve assolvere se vuole evitare lo scioglimento (Zanarone, 843). Ove non sia possibile procedere al rimborso della partecipazione neppure mediante riduzione del capitale sociale, la società viene posta in liquidazione. Lo scioglimento della società determina l'arresto del procedimento di liquidazione della quota del receduto e la «conversione» del suo diritto nel diritto ad ottenere la quota di liquidazione secondo le modalità che presiedono alla procedura di liquidazione delle società di capitali (Revigliono, 364). Sarà obbligo degli amministratori accertare la causa di scioglimento della società e procedere alle relative iscrizioni nel registro delle imprese (Annunziata, 569). BibliografiaAnnunziata, Sub art. 2473, in Società a responsabilità limitata, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, a cura di Bianchi, Milano, 2008, 561; Calandra Buonaura, Il recesso del socio di società di capitali, in Giur. comm. 2005, I, 291; Cera, Le clausole statutarie che determinano il diritto di recesso del socio, in S.r.l. Commentario, a cura di Dolmetta e Presti, Milano, 2011, 470; Daccò, «Diritti particolari» e recesso dalla s.r.l., Milano, 2013; Frigeni, Le fattispecie legali di recesso, in S.r.l. Commentario, Milano, 2011, 446; Galletti, Sub art. 2473, in Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, Padova, 2005; Garcea, Profili procedimentali del recesso, in S.r.l. 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