Codice Civile art. 2496 - Deposito dei libri sociali (1).Deposito dei libri sociali (1). [I]. Compiuta la liquidazione, la distribuzione dell'attivo o il deposito indicato nell'articolo 2494, i libri della società devono essere depositati e conservati per dieci anni presso l'ufficio del registro delle imprese; chiunque può esaminarli, anticipando le spese. (1) V. nota al Capo VIII. InquadramentoLe tre norme di chiusura della disciplina della liquidazione mirano a creare un sistema che, per quanto possibile, regoli in forma completa gli effetti conseguenti all'approvazione del bilancio finale di liquidazione, che resta l'atto di chiusura della vita della società: dopo che esso potrà considerarsi approvato, in una delle diverse forma esaminate nel commento dell'art. 2493, residueranno soltanto adempimenti consequenziali alla «morte» dell'ente societario. Tali adempimenti sono, per l'appunto, il deposito delle somme non riscosse, la cancellazione della società dal registro delle imprese e, infine, il deposito dei libri sociali presso l'ufficio del registro delle imprese. Con il che, da un lato, si determinerà l'estinzione definitiva della società e, dall'altro, si adotteranno tutti gli strumenti che consentano di assicurare, per quanto possibile, la definizione, anche successivamente all'estinzione, di rapporti e di situazioni giuridiche residuali rispetto all'estinzione dell'ente. Si tratta all'evidenza di materia che difficilmente consente una disciplina atta a garantire la completezza e l'idoneità a regolamentare tutte le ipotesi che la realtà concreta propone. Il deposito delle somme non riscosseLe somme spettanti ai soci che non siano state riscosse nel termine di novanta giorni dall'iscrizione in registro imprese del bilancio finale di liquidazione sono da considerarsi non rivendicate e dunque debbono essere lasciate a disposizione degli aventi diritto. Nella previsione dell'art. 2494 si coglie prontamente il fatto che il termine in questione coincide perfettamente con quello per la proposizione di reclami da parte dei soci dissenzienti rispetto al bilancio finale. Se si ipotizza una fattispecie in cui non vengano proposti reclami, è da considerare che i liquidatori, nello stesso giorno in cui accertano che il bilancio finale di liquidazione può considerarsi tacitamente e definitivamente approvato (appunto per la mancata proposizione di reclami), con la loro consequenziale liberazione nei confronti dei soci, si ritrovano a dover contestualmente accertare che quanto non è stato riscosso da essi soci è da considerare «giacente», cioè somme residuate all'estinzione della società e spettanti ai soci che non le hanno riscosse, ed a dover depositare dette somme presso una banca. La struttura della norma conferma chiaramente il principio secondo cui la pendenza del termine per la proposizione del reclamo non sospende il riparto di quanto nel bilancio finale risulti attribuito ai soci, altrimenti i due termini non potrebbero coincidere. Il legislatore, nel verificarsi del caso di mancata riscossione, pone a carico dei liquidatori (in realtà la norma utilizza un'espressione impersonale, ma non pare dubbio che i destinatari dell'obbligo di deposito siano i liquidatori, che hanno la disponibilità dei fondi sociali) l'obbligo di fare luogo al deposito delle relative somme presso una banca, con l'indicazione dei dati del socio ovvero, per il caso di azioni al portatore, con l'indicazione del numero delle stesse. La previsione, come è stato osservato, persegue un duplice scopo: - non sacrificare il diritto soggettivo del socio alla riscossione di quanto gli spetta, rispetto all'esigenza di immediata estinzione dell'ente; - nel contempo, non ritardare l'estinzione della società, in attesa di fare luogo al soddisfacimento del diritto di tutti i soci (Pasquariello, 1615). È pacifico in dottrina che il deposito attuato in questa forma realizzi gli effetti tipici dell'art. 1210, con la consequenziale liberazione della società (e dei liquidatori) da qualunque obbligo nei confronti dei soci aventi diritto. La circostanza singolare che si rileva da una lettura attenta della norma è che la stessa non fissa alcun criterio per la scelta della banca depositaria e, soprattutto, non pone a carico dei liquidatori alcun obbligo di comunicazione agli eventi diritto delle modalità con cui è stato eseguito il deposito. Potrebbe dunque venire a realizzarsi una situazione in cui il socio «dormiente», dopo un certo numero di anni, decida di riscuotere quanto gli spetti, ma non sia posto in grado di conoscere dove debba rivolgersi per procedervi. Per ovviare a tale vuoto disciplinare, in dottrina, si è ipotizzata una prassi virtuosa che suggerirebbe di provvedere ad indicare già nello statuto la banca depositaria, o di farlo nella delibera prevista dall'art, 2487, comma 1, ovvero, infine, che i liquidatori provvedano a redigere una comunicazione che contenga siffatta indicazione, magari in un documento di accompagnamento al bilancio finale, ovvero in altro atto depositato presso il registro delle imprese, in modo tale da soddisfare l'esigenza di informazione del socio dormiente. La cancellazione dal registro delle imprese: disciplina ed effettiConsiderazioni di ordine generale L'art. 2495, comma 1, è chiaro nel sancire a carico dei liquidatori l'obbligo di richiedere la cancellazione della società successivamente all'approvazione del bilancio finale di liquidazione: la norma risulta, invece, incompleta sotto il profilo dell'indicazione cronologica, nel senso che non viene fissato alcun termine né viene fornita altra indicazione in ordine ai tempi in cui si dovrebbe procedere all'adempimento. Si reputa in dottrina che, nel silenzio della norma, l'adempimento in questione debba essere comunque compiuto «senza indugio» e che per il caso in cui i liquidatori dovessero restare inerti, possano provvedervi sia i soci sia i sindaci sia (ma solo per il caso in cui l'approvazione del bilancio finale sia avvenuta in sede assembleare straordinaria) il notaio rogante il relativo verbale (Dimundo, 200; Nicolini, 2004, 1836). Il procedimento «amministrativo» di cancellazione evidentemente risulta assoggettato alle regole tipiche al presidio dell'iscrizione degli atti societari presso il Registro delle Imprese. Gli effetti della cancellazione La norma dell'art. 2495 si pone come norma centrale del sistema, anche per la sua portata innovativa, sul piano testuale, rispetto alla normativa previdente. L'art. 2495, comma 2, per come introdotto con la riforma del 2003, infatti, afferma con nettezza il principio secondo cui tutti gli effetti che conseguono alla cancellazione si determinano «ferma restando l'estinzione della società». Una simile affermazione si pone chiaramente in rottura con quelli che erano gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali ampiamente maggioritari nella vigenza del testo originario del codice civile, allorquando si riteneva che la cancellazione avesse effetti meramente dichiarativi (cfr. per tutti Cass. n. 10380/1998, in Giust. Civ. Mass., 1998, 2125 e Cass. n. 12553/2004, in Riv. not., 2005, 812), laddove l'estinzione effettiva della società potesse determinarsi esclusivamente in conseguenza della definitiva ed irreversibile estinzione di tutti i rapporti facenti capo alla società: con la conseguenza, molto incisiva sulla prassi giudiziaria, che si perveniva alla dichiarazione di fallimento di società già cancellate da lungo tempo, per il sol fatto che l'avvenuta cancellazione non si considerava idonea ad incidere sulla persistenza in vita della società. Non a caso si è richiamato il tema relativo alla prassi in materia fallimentare, considerato che una prima breccia nel sistema fu introdotta proprio con una pronuncia costituzionale (Corte cost. n. 319/2000, in Riv. dir. comm., 2000, II, 211) la quale dichiarò l'illegittimità dell'art. 10 l.fall. in conseguenza della disparità di trattamento che esso operava tra imprese individuali e imprese collettive nel non prevedere che il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento per l'impresa collettiva decorresse dalla cancellazione di essa dal registro delle imprese. Sulla base soprattutto di questa sollecitazione, il riformatore del diritto societario del 2003, assieme a quello del diritto fallimentare del 2006, hanno sostanzialmente introdotto un sistema che vuole sancire l'effetto costitutivo della cancellazione. È stato, peraltro, sottolineato il fatto che – pur a dispetto della chiarezza del nuovo testo normativo –il principio della natura costituiva della cancellazione non è riuscito a consolidarsi pienamente, residuando il convincimento diffuso che l'estinzione della società possa conseguire soltanto alla totale definizione dei suoi rapporti (cfr. sul punto Pasquariello, 1618). Anche in giurisprudenza si è registrata resistenza a recepire l'innovazione legislativa e ciò: tanto da parte del giudice di legittimità (Cass. n. 19347/2007 e Cass. n. 24039/2006), quanto da parte della magistratura di merito (Trib. Milano, 24 gennaio 2007, in Banca borsa tit. cred., 2007, 6, II, 763; Trib. Catania, 9 aprile 2006). In questo panorama, obiettivamente incerto, sono stati necessari ripetuti interventi delle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 4060/2010, in Giust. civ. Mass., 2010, 2, 242; Cass. S.U., n. 4061/2010, in Giust. civ., 2010, 12, I, 2797; Cass. S.U., n. 4062/2010, in Foro it., 2011, 5, I, 1498) nei quali si è sancito il principio secondo cui l'iscrizione della cancellazione della società nel registro delle imprese produrrebbe l'estinzione dell'ente, con la conseguenza che, indiscutibilmente, per le società di capitali, la cancellazione ha natura costitutiva. Peraltro, le stesse Sezioni Unite sono nuovamente intervenute sul tema in epoca di poco successiva agli enunciati appena riportati, sancendo un principio che certamente non ha contribuito a dare certezza sul tema; ed infatti, in relazione ad una fattispecie di cancellazione della cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese, secondo la previsione dell'art. 2191, il giudice di legittimità ha affermato che siffatta cancellazione della cancellazione avrebbe efficacia meramente dichiarativa, rendendo ai terzi opponibile la reviviscenza della società indebitamente cancellata, pur restando la stessa ormai estinta (Cass. S.U., n. 6070/2013, in Riv. not. 2013, 2, 407). Il panorama degli orientamenti, dunque, al di là degli encomiabili tentativi di introdurre chiarezza ed uniformità di vedute, resta tuttora improntato ad una significativa ambiguità, che non giova alla certezza dei rapporti giuridici. Le modalità di regolamentazione dei rapporti residuali L'art. 2495, comma 2, disciplina le iniziative esperibili dai creditori che siano rimasti insoddisfatti all'esito della estinzione della società, nei confronti della quale, evidentemente, essi non potranno più agire a causa della sua estinzione. La regola generale fissata dalla norma è nel senso che la pretesa dei creditori potrà essere indirizzata: - verso i soci, ma solo limitatamente a quanto essi abbiano riscosso sulla base del bilancio finale di liquidazione; - verso i liquidatori, a condizione che il mancato soddisfacimento delle ragioni creditorie azionate sia ad essi imputabile. Quanto si è poco più sopra osservato con riguardo all'effetto estintivo della società prodotto dalla cancellazione ha eliminato evidentemente ogni discussione (molto viva nel sistema originario del codice civile) in ordine alla sussistenza di una corresponsabilità tra socio e società con riguardo ai debiti residuali. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, nel disciplinare i rapporti residuali di società estinta con il Fisco, si è così pronunciata: “In tema di società di capitali, la disciplina dettata dall'art. 2495, comma 2, c.c., come modificato dall'art. 4 d.lgs. n. 6 del 2003, nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata della società, implica che nei debiti sociali subentrano "ex lege" i soci, sicché il Fisco, ove le proprie ragioni nei confronti dell'ente collettivo siano state definitivamente accertate (ad esempio, per mancata tempestiva impugnazione dell'atto impositivo, ovvero per intervenuta estinzione del relativo giudizio, o infine per intervenuto giudicato sostanziale) può procedere all'iscrizione a ruolo dei tributi non versati sia a nome della società estinta, sia a nome dei soci ("pro quota", in relazione ai relativi titoli di partecipazione), e ciò ai sensi degli artt. 12, comma 3, e 14, lett. b), d.P.R. n. 602 del 1973, nonché azionare comunque il credito tributario nei confronti dei soci stessi, non occorrendo procedere all'emissione di autonomo avviso di accertamento, ai sensi dell'art. 36, comma 5, d.P.R. cit., relativo al diverso titolo di responsabilità di cui al precedente comma 3 (nel testo antecedente alla modifica apportata dall'art. 28, comma 5, del d.lgs. n. 175 del 2014), di natura civilistica e sussidiaria. Ne discende che con l'impugnazione della cartella di pagamento conseguentemente loro notificata, i soci - ferma la definitività dell'accertamento nei confronti della società e la sua incontestabilità nel merito - possono lamentare l'inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo formatosi nei confronti della società, oppure contestare il fondamento della propria responsabilità, dimostrando di non aver conseguito utili dalla liquidazione” (Cass. n. 26211/2021). Resta invece vivo il dibattito circa i rapporti interni tra i soci: parrebbe preferibile l'orientamento che afferma il vincolo di solidarietà tra soci e non la responsabilità pro quota, nella misura in cui siffatta soluzione graverebbe eccessivamente (ed in difetto di una valida giustificazione giuridica) la posizione del creditore che intenda vedere soddisfatti i propri crediti (Dimundo, 220). D'altro canto, la regola sancita dall'art. 2495, comma 2, garantisce automaticamente al socio che abbia per intero soddisfatto le ragioni del creditore sociale la possibilità di rivalersi nei confronti degli altri soci, conformemente alle regole generali in materia di surrogazione legale. Resta controverso, in dottrina come in giurisprudenza (benché il tema non abbia registrato novità edite in epoca successiva alla riforma del 2003), se il diritto dei creditori ad agire nei confronti dei soci sia da considerarsi assoggettato alla prescrizione ordinaria decennale ovvero a quella breve, di cinque anni, che costituisce la regola generale nel diritto societario: a chi scrive pare che, del tutto a prescindere dal titolo che giustificava il credito nei confronti dell'ente ormai estinto, l'azione nei confronti dei soci che abbiano conseguito un riparto in esecuzione del bilancio finale di liquidazione trovi fondamento esclusivo nelle regole di diritto societario e, dunque, debba essere assoggettata alla relativa prescrizione breve. La responsabilità posta a carico dei liquidatori ha evidentemente un fondamento risarcitorio, da ricollegarsi alla violazione delle regole di diligenza nello svolgimento dell'attività di liquidazione. Il liquidatore, dunque, non risponde (né logicamente potrebbe) per il fatto di non avere soddisfatto i creditori in una situazione in cui le risorse patrimoniali e finanziarie della società non avrebbero consentito alcuna forma di soddisfacimento dei creditori (in una fattispecie del genere, certo non infrequente, il tema della responsabilità dei liquidatori si sposta sul terreno della tempestività o meno con cui essi abbiano attivato ogni opportuno meccanismo di tutela degli interessi dei creditori in una situazione di totale mancanza di risorse in capo alla società). Il liquidatore, invece, risponde per avere omesso il soddisfacimento dei creditori in una situazione oggettiva in cui lo stesso sarebbe stato possibile: si pensi al caso in cui egli abbia «svenduto» il patrimonio sociale, ovvero a quello in cui egli abbia omesso di rilevare un debito facilmente ricavabile dagli atti societari. In tutte queste circostanze, i liquidatori assumono una responsabilità (di natura pacificamente extracontrattuale) nei confronti dei creditori che siano rimasti insoddisfatti in ragione del negligente svolgimento delle funzioni liquidatorie. Il tema va chiuso con una valutazione che tenga conto della duplicità dell'iniziativa messa a disposizione del creditore, per effetto della quale si reputa che: - le azioni contro i soci sono cumulabili con quelle contro i liquidatori; - tra soci e liquidatori non esiste alcun beneficio di escussione, né vincolo di solidarietà (con il solo limite, evidentemente, ce la tutela del creditore non può spingersi sino al punto di garantire un soddisfacimento in eccesso rispetto alle sue ragioni); - i liquidatori che abbiano dovuto pagare i creditori avranno azione di rivalsa nei confronti dei soci: tanto, nella misura in cui i soci sono responsabili esclusivamente per il caso in cui abbiano fruito di risorse societarie in sede di riparto finale, risorse che sarebbero state naturalmente destinate a soddisfacimento dei diritti dei creditori. Da segnalare il fatto che l'art. 2495, comma 3, contiene un'importante innovazione finalizzata a favorire l'iniziativa del creditore: laddove la domanda introduttiva del processo avente ad oggetto la pretesa creditoria sia proposta entro un anno dalla cancellazione della società, il relativo atto può essere notificato presso l'ultima sede sociale, con enorme vantaggio dal punto di vista pratico in relazione a quelle che possono essere le indiscutibili difficoltà nel reperire soci o liquidatori. Le sopravvenienze e le sopravvivenze attive La natura costitutiva della cancellazione pone evidentemente in maniera più pressante il tema della sorte dei rapporti che non risultino definiti al momento della cessazione dell'ente e rispetto ad esso non si sono registrati orientamenti uniformi quanto meno sino ai più recenti interventi delle Sezioni Unite, che si sono espresse nel senso che la cancellazione della società di capitali produce effetti simili a quelli della morte della persona fisica, con la conseguenza che si attuerebbe una sorta di effetto successorio nei rapporti tra società e soci (Cass. S.U., n. 6070/2013, in Riv. not. 2013, 2, 407; Cass. S.U. , 12 marzo 2013). La questione assume rilevanza anche sotto il profilo processuale, nella misura in cui evidentemente l'estinzione dell'ente societario non potrebbe consentire la prosecuzione da parte sua del processo pendente, né dal lato passivo, né dal lato attivo. In quest'ottica, la giurisprudenza di legittimità ha reputato doversi applicare le regole generali in materia di successione nel processo e, in particolare, la 110 c.p.c. (Cass. n. 17860/2004). Il deposito dei libri sociali.Anche la norma dell'art. 2496, così come quella dell'art. 2494, dispone un obbligo di deposito conseguenziale all'ultimazione delle operazioni di liquidazione, benché poi non individui il soggetto che ne sia tenuto: in questo caso si tratta del deposito finalizzato alla conservazione dei libri sociali per i dieci anni successivi alla cancellazione. La disposizione, per l'appunto, prevede specificamente, secondo un rigoroso ordine logico, che, ultimata la liquidazione ed eseguita la distribuzione dell'attivo, ovvero effettuato il deposito delle somme non riscosse, i libri sociali debbano essere depositati e conservati per dieci anni presso il registro delle imprese, garantendosi a chiunque di procedere all'esame degli stessi, anticipandone le spese. Anche in questo caso ci si trova in presenza di una disposizione che non fissa un termine per l'esecuzione dell'adempimento. La norma, peraltro, non ricollega alcuna sanzione al mancato adempimento dell'obbligo in questione: ciò non di meno, non può dubitarsi del fatto che la violazione di esso possa essere fonte di responsabilità nella misura in cui non abbia consentito di acquisire informazioni da parte di chi ne aveva interesse in epoca successiva alla cancellazione. Ad avviso di alcuno, inoltre, il conservatore del registro delle imprese potrebbe anche rigettare l'istanza di cancellazione laddove rilevasse che la stessa non risulti accompagnata dal deposito dei libri (Pasquariello, 1629). È stato sottolineato che la norma qui in commento riproduce il testo dell'art. 2457 anteriore alla riforma del 2003 e che, dunque, il legislatore della riforma avrebbe sprecato un'opportunità per chiarire in maniera un po' più puntuale la nozione di «libri della società», ritenendosi da parte di alcuni che il riferimento generico è tale da essere estero anche ai libri ed alle scritture contabili, da parte di altri invece che debba applicarsi rigorosamente la lettura restrittiva imposta dall'art. 2421 (Niccolini, 1997, 624). Interessante, infine, notare che, quanto al diritto di accesso, la norma parrebbe adottare una soluzione estremamente ampia, tanto da contemplarne la possibilità di consultazione da parte di «chiunque» alla sola condizione che ne anticipi i costi: sarebbe singolare che, per effetto della cancellazione, divengano accessibili libri (quali ad esempio quello dei verbali del consiglio di amministrazione di s.p.a.) che di norma non sono accessibili neppure ai soci. Certo l'esercizio dell'accesso sarà regolamentato dal conservatore e risulterà difficile una sua significativa limitazione a fronte dell'espressione testuale della norma. BibliografiaDimundo, Sub artt. 2494-2495-2496, in Aa.Vv., La riforma del diritto societario, a cura di Lo Cascio, Milano, 2006; Niccolini, Sub art. 2494, in Aa.Vv., Società di capitali: commentario, a cura di Niccolini, Stagno d'Alcontres, II, Napoli, 2004; Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione delle società di capitali, in Tr. Colombo-Portale, Torino, VII, 3, 1997; Pasquariello, Sub artt. 2494-2495-2496, in Aa.Vv., Comm. breve al diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, Milano, 2017. |