Codice Civile art. 2509 - Società estere di tipo diverso da quelle nazionali (1).

Eleonora Reggiani

Società estere di tipo diverso da quelle nazionali (1).

[I]. Le società costituite all'estero, che sono di tipo diverso da quelli regolati in questo codice, sono soggette alle norme della società per azioni, per ciò che riguarda gli obblighi relativi all'iscrizione degli atti sociali nel registro delle imprese e la responsabilità degli amministratori.

(1) V. nota al Capo XI.

Inquadramento

L'art. 2509 c.c. non ha subito modifiche a seguito della riforma del diritto delle società del 2003, salvo la sua numerazione, passata dall'art. 2507 c.c. all'art. 2509 c.c., per effetto dello spostamento di due articoli all'interno di tutto il capo concernente le società costituite all'estero.

Ai fini dell'applicazione dell'articolo in esame, assume fondamentale rilievo comprendere quali caratteristiche debba avere un ente straniero per essere considerato «società», nonché individuare gli elementi caratterizzanti, che consentano di assimilare una società estera ad uno dei tipi societari previsti nel nostro ordinamento.

Delimitato l'ambito applicativo della norma, sia per quanto riguarda gli obblighi pubblicitari e sia per ciò che attiene alla disciplina della responsabilità degli amministratori, l'operatività di queste disposizioni deve poi essere attentamente vagliata alla luce di principî dell'Unione in tema di libertà di stabilimento.

La nozione di «società» ai fini dell'applicazione dell'art. 2509 c.c.

Per comprendere quali caratteristiche debba avere un ente straniero per essere disciplinato dall'art. 2509 c.c., occorre senza dubbio fare riferimento a quanto stabilito dall'art. 2507 c.c. e, dunque, tenere presenti i principî dell'ordinamento europeo (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 95).

In effetti, nell'art. 54, comma 2, TFUE, è contenuta una definizione dell'espressione «società» ai fini del diritto di stabilimento, ove si legge che «per società si intendono le società di diritto civile o di diritto commerciale, ivi comprese le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi di lucro».

Si tratta di una definizione ampia, che fa riferimento agli aspetti economici (cioè all'attività svolta dagli enti), prima che a quelli relativi alla loro conformazione giuridica. Può dunque ritenersi che la nozione di «società», ai fini della disciplina in esame, comprenda tutte le forme organizzative meta-individuali, create per l'esercizio di attività economiche (Enriques, 86).

D'altronde non è oggi più possibile distinguere tra persone giuridiche unipersonali e pluripersonali, dopo che, da un lato, la «Dodicesima Direttiva» (Direttiva n. 89/667/CEE) in materia di società ha definitivamente introdotto, anche negli stati comunitari che non la conoscevano, la società a responsabilità limitata con un unico socio e, da un altro lato, la legge di riforma del diritto societario ha introdotto, anche in Italia, la società per azioni unipersonale (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 96).

In dottrina, si è inoltre (correttamente) precisato che le disposizioni di cui all'art. 2509 c.c. si devono applicare anche alle «società» non personificate, ogniqualvolta due o più persone conferiscano beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividere gli utili, posto che l'elemento qualificante della categoria delle società viene individuato, dall'art. 54 TFUE, solo nel fine di lucro e non anche nella natura pluripersonale dell'ente (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 97).

Le società estere di tipo diverso da quelle regolate nel nostro ordinamento.

Un diverso problema è quello che concerne il giudizio di assimilabilità o meno delle società estere ai tipi societari previsti nel codice civile o, comunque, in disposizioni di legge nazionali (si pensi, ad esempio, alle società a partecipazione pubblica).

Come ritenuto da attenta dottrina, non sembra opportuno pretendere una completa identità della società straniera ad uno specifico tipo societario italiano. La specificità e la diversa evoluzione storica dei singoli ordinamenti giuridici, infatti, non consentono di ipotizzare detta identità anche laddove, come tra gli Stati membri dell'Unione europea, sia stata effettuata una larga armonizzazione del diritto delle società. Al fine di assimilare una società estera ad un corrispondente tipo societario, bisogna dunque fare riferimento ai principî essenziali, funzionali e sostanziali, che regolano i diversi tipi societari quali, a titolo di esempio, la disciplina delle responsabilità per le obbligazioni sociali, la struttura corporativa e la destinazione degli utili, al fine di assimilare una società estera ad un corrispondente tipo societario italiano (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 98).

Ove tale assimilazione non sia possibile, e comunque la forma giuridica dell'ente può essere qualificata come societaria, nei termini sopra indicati, opereranno le disposizioni dell'art. 2509 c.c.

Ambito operativo della norma.

L'imprecisione delle rubriche degli articoli del Capo XI e, in particolare, della rubrica (così come del testo) dell'art. 2509 c.c. rispetto a quella dell'art. 2508 c.c., ha alimentato a lungo incertezze circa l'ambito di applicazione soggettivo della disposizione in esame, posto che l'art. 2508 c.c. è intitolato «Società estere con sede secondaria nel territorio dello Stato», mentre la rubrica dell'art. 2509 c.c. contiene il generico riferimento alle «Società estere di tipo diverso da quelle nazionali», senza specificare di quali società estere si tratti e cioè se la norma riguardi tutte le società estere «atipiche», che in qualche modo operano nel nostro Stato, oppure se essa si riferisca, come l'art. 2508 c.c., alle sole società estere «atipiche» che hanno in Italia una sede secondaria, in particolare disciplinando gli adempimenti pubblicitari e il regime delle responsabilità relativi all'attività compiuta nella sede italiana.

Nonostante in passato vi siano stati orientamenti contrastanti, attualmente la dottrina maggioritaria ritiene che l'art. 2509 c.c., come l'art. 2508 c.c., si applichi solo alle sedi secondarie delle società estere con rappresentanza stabile in Italia. Si deve infatti tenere conto che la ratio della norma è quella di attribuire a coloro che entrano in contatto con siffatte società le più ampie garanzie possibili, in tema di pubblicità degli atti e di responsabilità degli amministratori, non avendo pertanto senso prevedere tale garanzia con riferimento alle società a cui si applichi già la legge italiana (ai sensi dell'art. 25, comma 1, ultimo periodo, l. n. 218/1995), e neppure con riferimento alle società che con l'Italia abbiano soltanto un contatto transitorio, non fondato su una stabile rappresentanza (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 110).

A tale argomento logico-sistematico, la medesima dottrina ha aggiunto anche argomenti fondati sull'esegesi storica della norma, tenendo conto che, nel codice del commercio del 1882, le disposizioni corrispondenti a quelle riportate agli artt. 2508 e 2509 c.c. (nella versione originaria del codice civile contenute negli artt. 2506 e 2507 c.c.) erano tutte contenute in un unico articolo, l'art. 230, che appunto disciplinava le società estere con sede secondaria, o rappresentanza, in Italia (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 111).

Le Società Europee

È comunque senza dubbio sottratta alla disciplina dell'art. 2509 c.c. la Società Europea (SE), introdotta nell'ordinamento italiano dal Regolamento (CE) n. 2157/2001 (v. il capitolo ad essa dedicato), che prevede, quanto meno per gli aspetti essenziali, una disciplina uniforme, comune a tutti gli stati dell'Unione, e poi rinvia alle leggi dell'uno o dell'altro Stato membro per il resto. In virtù del principio di supremazia del diritto europeo su quello interno infatti, le disposizioni del menzionato Regolamento prevalgono su quelle nazionali.

Le Anstalten e le Treuunternehmen del Liechtenstein

In passato ha suscitato un ampio dibattito, sia in dottrina sia in giurisprudenza, il tema del riconoscimento e del trattamento in Italia delle Anstalten e delle Treuunternehmen del Liechtenstein.

Com'è noto, si tratta di enti personificati, previsti dalla legislazione di tale Stato accanto alle più classiche figure della società per azioni, della società a responsabilità limitata e, ancora, delle fondazioni e delle associazioni.

In particolare, l' Anstalt può essere costituita da uno o più fondatori ed è dotata di un proprio patrimonio, con il quale risponde delle obbligazioni assunte. Il fondatore, che gode di anonimato e può assommare in sé tutti i poteri concernenti la gestione dell'impresa, pur restando la responsabilità limitata ai beni conferiti.

La Treuunternehmen, o «impresa fiduciaria» trae invece origine dal «Business Trust» anglosassone e costituisce, come l'Anstalt, uno strumento per esercitare l'attività commerciale in un regime di responsabilità limitata, anch'essa con la possibilità dell'anonimato.

Superando numerose pronunce di merito che, a partire dagli anni sessanta, avevano escluso la possibilità di dare riconoscimento giuridico all'Anstalt, la Corte di cassazione, investita per la prima volta della questione (Cass. II, n. 3352/1977), ha invece affermato che l'Anstalt e le società fiduciarie del Liechtenstein possono essere considerate come persone giuridiche nell'ordinamento italiano, sia perché, ai sensi dell'art 16 disp. prel. c.c., l'ente che, costituito in Italia, non potrebbe conseguire la personalità giuridica, può, se costituito in uno Stato estero ove gli sia attribuita detta personalità, vederla riconosciuta in Italia, purché sia rispettata la condizione di reciprocità, e sia perché l'atto di riconoscimento della personalità giuridica dell'Anstalt e delle società fiduciarie, anche se (allora) contrastante con la norma (in Italia) inderogabile di cui all'art 2332 c.c., non può ritenersi contrario all'ordine pubblico.

Tale orientamento è stato ribadito in successive altre sentenze (v. Cass. I, n. 1659/1978; Cass. I, n. 2414/1980; Cass. I, n. 198/1985; Cass. I, n. 3089/1985; Cass. III, n. 1853/1993; Cass. II, n. 14870/2000).

Come evidenziato da attenta dottrina, anche oggi deve pervenirsi alle stesse conclusioni, tenuto peraltro conto che il principio della necessaria pluralità dei soci fondatori di una società è stato superato, come già evidenziato, prima dall'adozione della «Dodicesima Direttiva» sulla società a responsabilità limitata con socio unico e poi dall'entrata in vigore della legge di riforma del diritto societario del 2003, che prevede esplicitamente la società per azioni unipersonale. Inoltre, si deve considerare che ora il riconoscimento dell'Anstalt, così come delle Treuunternehmen, è disciplinato dall'art. 25 l. n. 218/1995, per il quale gli enti citati, così come tutte le società ed enti stranieri, sono regolati dalla legge dello Stato nel quale si è perfezionato il procedimento di costituzione (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 107).

Gli obblighi relativi all'iscrizione degli atti sociali.

Come già evidenziato, l'art. 2509 c.c. ha stabilito che le succursali delle società estere di tipo diverso da quelli previsti nel nostro ordinamento sono soggette agli obblighi relativi alla pubblicità degli atti sociali previsti per le società per azioni.

La dottrina si è posta il quesito su quali siano gli atti da iscrivere nel registro delle imprese italiano. Se, cioè, siano quelli previsti dallo Stato di origine della società oppure quelli previsti dalla legislazione italiana.

A favore della prima tesi militerebbe la circostanza che, come sopra evidenziato, le società in questione, pur avendo una sede secondaria con rappresentanza stabile, restano comunque società estere. Tuttavia, se si tiene conto che la norma si configura come norma di applicazione necessaria, ai sensi dell'art. 17 l. n. 218/1995, deve concludersi che, come per l'art. 2508 c.c. è la legge italiana a dover stabilire quali siano gli atti da iscrivere nel registro delle imprese, nonché le modalità di tale iscrizione (Enriques, 6).

Ai fini operativi, si deve comunque ricordare che, in base all'art. 101-quater disp. att. c.c. (introdotto dall'art. 5 d.lgs. 29 dicembre 1992, n. 516, concernente l'attuazione in Italia dell' «Undicesima Direttiva»), le società comunitarie che stabiliscono in Italia più sedi secondarie con rappresentanza stabile possono attuare la pubblicità dell'atto costitutivo, dello statuto e dei bilanci nell'ufficio del registro delle imprese di una soltanto delle sedi secondarie, depositando negli altri l'attestazione dell'eseguita pubblicità.

La responsabilità degli amministratori

L'art. 2509 c.c. ha infine stabilito che il regime della responsabilità degli amministratori di società estere «atipiche», che abbiano istituito succursali in Italia è quello previsti per gli amministratori delle società per azioni.

Come evidenziato da attenta dottrina, il senso della disposizione in esame risulta chiaro soltanto se si considera l'interpretazione restrittiva della norma, che, come sopra illustrato, deve intendersi riferita all'attività svolta in Italia dagli amministratori di società estere che, nel nostro Stato, hanno sedi secondarie con rappresentanza stabile, ovviamente con riferimento all'attività compiuta in tale sede. Si tratta, in altre parole, di una norma posta a tutela dei terzi che, nel nostro Stato, entrano in contatto con la società straniera tramite la sua sede. Non ha pertanto senso ipotizzare che la responsabilità di cui si parla sia in generale quella concernente l'intera attività svolta dagli amministratori, né che essa comprenda la responsabilità di questi ultimi nei confronti della società, essendo evidente che la disciplina riguardi i rapporti esterni della società straniera, in particolare con i terzi e i creditori, e dunque i danni previsti e disciplinati dagli artt. 2394 e 2395 c.c. (Enriques, 90).

Secondo una lettura ancora più restrittiva della norma, il rinvio alla disciplina in tema di responsabilità degli amministratori deve essere ulteriormente circoscritto alle sole ipotesi di inadempimento agli obblighi pubblicitari, secondo la previsione di cui all'art. 2509-bis c.c., ma tale tesi è stata aspramente criticata, soprattutto perché non appare esservi alcuna affinità di presupposti tra le due ipotesi di responsabilità previste nei due articoli (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 115).

L'art. 2509 c.c. e il principio di libertà di stabilimento.

La dottrina si è interrogata sulla conformità della norma in esame ai principî di diritto dell'Unione europea in tema di libertà di stabilimento.

Alcuni interpreti hanno affermato che l'art. 2509 c.c. rispetta le condizioni che la Corte di giustizia ha dettato ai legislatori nazionali, che, al fine di evitare abusi e frodi, intendano porre limiti alla libertà di stabilimento, sussistendo le quattro condizioni richieste dal c.d. «test Gebhard» (non discriminazione, presenza di motivi imperativi e di interesse pubblico, idoneità a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e proporzionalità). Secondo tale tesi dunque le disposizioni dell'art. 2509 c.c. trovano legittimamente applicazione anche con riferimento alle società estere «atipiche», regolate dalla legge nazionale di un altro Stato membro dell'Unione e rientranti nella categoria degli enti a cui si applicano i principî sulla libertà di stabilimento. In assenza di un corrispondente tipo societario nazionale infatti, non vengono applicate norme discriminatorie, perché si tratta delle stesse norme previste per le società per azioni costituite in Italia, da ritenersi proporzionate e idonee a tutelare l'esigenza di tutelare i terzi che entrano in rapporto con dette società (Caterino, 457).

Altra dottrina, con riferimento alla disciplina prevista dall'art. 2509 c.c. in tema di responsabilità degli amministratori, richiamando i principî enunciati nelle sentenze della Corte di Giustizia, in particolare nel caso «Uberseering» (Corte giustizia CE, 5 novembre 2002, causa C-208/00) e nel caso «Inspire Art» (Corte giustizia CE, 30 settembre 2003, causa C-167/01), ha invece sostenuto la tesi opposta. Secondo tale orientamento, l'estensione della disciplina interna, ad opera dello Stato che ospita la sede secondaria della società estera, modifica di fatto la struttura societaria dell'ente e perciò lede la libertà di stabilimento. Ha quindi affermato che il disposto dell'art. 2509 c.c. deve essere disapplicato, almeno con riguardo alle società che sono regolate dalla legge nazionale di uno Stato dell'UE e che rientrano nella definizione di cui all'art. 54 TFUE (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 116; Carbone, 89).

Esaminando in particolare l'ultima delle sentenze appena richiamate, quella relativa al caso «Inspire Art» (Corte giustizia CE, 30 settembre 2003, causa C-167/01), emerge, in effetti, che la Corte di giustizia ha ritenuto che non superano il «test Gebhard» (non discriminazione, motivi imperativi di interesse pubblico, idoneità e proporzionalità) le misure che subordinano l'esercizio della libertà di stabilimento a titolo secondario al rispetto di condizioni relative al capitale minimo o alla responsabilità degli amministratori, stabilite dal diritto nazionale dello Stato di accoglienza per la costituzione delle società.

Traendo spunto da una recente pronuncia della Corte di giustizia, si deve tuttavia considerare che, nel caso «Inspire Art», la controversia riguardava i limiti alla libertà di stabilimento, e cioè le condizioni poste dallo Stato ospitante al valido ingresso della sede secondaria della società estera, mentre nella specie si tratta di verificare la disciplina applicabile in tema di responsabilità degli amministratori della società estera, che è incontestato possa validamente costituire, e, anzi, abbia già costituito, una sede secondaria in Italia.

Il riferimento è a Corte giustizia UE, 10 dicembre 2015, causa C-594/14, caso «Kornhaas», ove la Corte ha ritenuto non contraria alla libertà di stabilimento la legge di uno Stato membro che ha applicato a una società straniera, con centro di interessi principale nel suo Stato, la disposizione nazionale (si tratta dell'art. 64 GmbHG tedesco), che – a differenza dello Stato di origine – sancisce la responsabilità degli amministratori per i pagamenti effettuati dopo che la società è divenuta insolvente. La Corte ha fondato la decisione sul rilievo che tale norma non tocca il principio della libertà di stabilimento, perché non riguarda né il rifiuto da parte di uno Stato membro di riconoscere la capacità giuridica di una società costituita in conformità al diritto di un altro Stato membro, che abbia trasferito la propria sede effettiva sul proprio territorio (v. Corte giustizia CE, 5 novembre 2002, causa C-208/00, caso «Uberseering»), né l'apposizione di condizioni «in entrata», in relazione alla disciplina della responsabilità personale degli amministratori (v. Corte giustizia CE, 30 settembre 2003, causa n. 167/01, caso «Inspire Art»), ma trova applicazione successivamente al riconoscimento di detta società.

La questione è dunque ancora aperta, assumendo in particolare grande rilevanza la conferma, o meno, dell'impostazione teorica da ultimo adottata dalla Corte di giustizia.

Bibliografia

Aa.Vv., Percorsi di diritto societario europeo, a cura di Pederzini, Torino, 2016; Abate, Dimundo, Lambertini, Panzani, Patti, Gruppi, trasformazione, fusione e scissione, scioglimento e liquidazione, società estere: artt. 2484-2510 c.c., Milano, 2003; Biscaretti di Ruffia e Gambaro, Delle società costituite all'estero: artt. 2507-2510, in Comm. S., Milano, 2013; Carbone, La riforma societaria tra conflitti di legge e principi di diritto comunitario, in Dir. comm. int. 2003, 89; Caterino, Le società straniere in Italia, in Manuale di diritto commerciale internazionale, a cura di Patroni Griffi, Milano, 2012; Enriques, Delle società costituite all'estero, in Comm. S.B., Bologna, 2007; Margiotta, Il trasferimento della sede all'estero, in Riv. not. 2004, 649; Patriarca, Filiale bancaria e rappresentanza commerciale, in Banca borsa tit. cred. 2012, 271; Petrelli, Lo stabilimento delle società comunitarie in Italia, in Riv. not. 2004, 343; Santa Maria, Biscaretti di Ruffia, Le società estere, in Tr. C. M., Milano, 2015.

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