Codice Civile art. 2508 - Società estere con sede secondaria nel territorio dello Stato (1).Società estere con sede secondaria nel territorio dello Stato (1). [I]. Le società costituite all'estero, le quali stabiliscono nel territorio dello Stato una o più sedi secondarie con rappresentanza stabile, sono soggette, per ciascuna sede, alle disposizioni della legge italiana sulla pubblicità degli atti sociali. Esse devono inoltre pubblicare, secondo le medesime disposizioni, il cognome, il nome, la data e il luogo di nascita delle persone che le rappresentano stabilmente nel territorio dello Stato, con indicazione dei relativi poteri. [II]. Ai terzi che hanno compiuto operazioni con le sede secondaria non può essere opposto che gli atti pubblicati ai sensi dei commi precedenti sono difformi da quelli pubblicati nello Stato ove è situata la sede principale. [III]. Le società costituite all'estero sono altresì soggette, per quanto riguarda le sedi secondarie, alle disposizioni che regolano l'esercizio dell'impresa o che la subordinano all'osservanza di particolari condizioni. [IV]. Negli atti e nella corrispondenza delle sedi secondarie di società costituite all'estero devono essere contenute le indicazioni richieste dall'articolo 2250; devono essere altresì indicati l'ufficio del registro delle imprese presso la quale è iscritta la sede secondaria e il numero di iscrizione. (1) V. nota al Capo XI. InquadramentoL'art. 2508 c.c. riproduce senza modificazioni il testo dell'art. 2506 c.c., come riformato dall'art. 2 del d.lgs. 29 dicembre 1992, n. 516, con cui fu data attuazione alla Direttiva n. 89/666/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989 («Undicesima Direttiva»), adottata al fine di assicurare la protezione delle persone che, per il tramite di una succursale, instaurano un rapporto con una società straniera, mediante la previsione di obblighi pubblicitari nello Stato di stabilimento della sede secondaria («considerando» 6). Ovviamente, per delineare l'ambito soggettivo della disposizione in commento, occorre comprendere quando una società può essere considerata società estera, facendo riferimento alle norme di diritto internazionale privato, che, per quanto riguarda lo Stato italiano, sono dettate dall'art. 25 della l. 31 maggio 1995, n. 218. L'ambito soggettivo di applicazione della norma.L'art. l, comma 1, dell'«Undicesima Direttiva», nel riferirsi alle «società soggette alla legislazione di un altro Stato membro», rinvia alla legge regolatrice di tutti i fenomeni riguardanti la vita delle società, senza chiarire quale sia l'ordinamento in forza del quale determinare la lex societatis applicabile. Tale richiamo, secondo un'interpretazione dottrinale, impone allo Stato membro, nel quale si verifichi lo stabilimento, di determinare, in base alle proprie norme di conflitto, se la società sia una società interna o una società soggetta alla legge di un altro Stato, con la conseguenza che, nel primo caso, l'ente viene in tutto e per tutto disciplinato dalla legge dello Stato ospitante, mentre, nel secondo caso, occorre esaminare le norme di conflitto, verificandone la compatibilità con i principî in materia di liberà di stabilimento. In base al primato del diritto dell'Unione, anche le norme di diritto internazionale privato sono infatti soggette a un giudizio di compatibilità con le regole e i principî di derivazione europea e, stante l'assenza di una disciplina uniforme di derivazione comunitaria delle norme di conflitto in materia di società, i riferimenti alla legge regolatrice delle società contenuti agli artt. l, comma 1, dell'«Undicesima Direttiva» e anche all'art. 54, comma 1, TFUE, devono essere interpretati alla luce degli obiettivi di integrazione stabiliti dal Trattato (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 70). Per quanto concerne l'ordinamento italiano, l'art. 25 l. n. 218/1995, al comma 1, sottopone le società alla disciplina della legge dello Stato in cui si è perfezionato il procedimento di costituzione, individuando, al successivo comma 2, in via esemplificativa, le materie che sono regolate dalla disciplina dello Stato di origine. La legge italiana abbraccia, dunque, la c.d. «teoria dell'incorporazione», ma non in toto, perché, nell'ultimo periodo del comma 1 dell'art. appena richiamato, introduce un'eccezione unilaterale a favore della legge italiana, nel caso in cui si trovino in Italia la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale delle società. Nella scelta della c.d. «teoria dell'incorporazione», quale criterio normativo principale per determinare la legge regolatrice delle persone giuridiche, e dunque il loro statuto personale, il legislatore italiano ha condiviso l'opzione fatta propria, tra gli altri, dagli ordinamenti della Gran Bretagna, Svizzera, Danimarca, Ungheria e Paesi Bassi, oltre che dagli Stati Uniti d'America. Hanno invece adottato il principio o «teoria della sede reale» Francia, Germania, Austria, Belgio, Grecia, Polonia, Slovenia, Spagna e Portogallo. In base a questo secondo parametro, le società vengono assoggettate alla legislazione dello Stato in cui hanno stabilito la loro sede amministrativa effettiva, ovverosia il luogo nel quale vengono assunte le decisioni interne relative alla gestione, a prescindere dal luogo di costituzione o da quello in cui è posta la sede legale o statutaria, essendo anche irrilevante il luogo prescritto dalla legge per le riunioni degli organi societari (Pederzini, 12). Quest'ultimo rilievo richiama peraltro un terzo criterio, in precedenza adottato, basato sulla «teoria del controllo», che guarda al luogo in cui si riuniscono i soci o gli amministratori, ma si tratta di un criterio oramai abbandonato da pressoché tutti gli Stati, per la sua sostanziale e riscontrata inaffidabilità. Come sopra accennato, il criterio della sede reale (o effettiva) è tuttavia recuperato dal nostro legislatore all'art. 25, comma 1, ultimo periodo, della l. n. 218/1995, nella parte in cui prevede l'applicazione del diritto italiano, se in Italia è la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale dell'attività sociale. Con la locuzione «sede dell'amministrazione» il legislatore intende riferirsi al luogo nel quale gli organi, ai quali istituzionalmente è devoluta la funzione gestoria, formano ed esprimono le deliberazioni che costituiscono la cosiddetta volontà sociale (in questo caso può instaurarsi una contrapposizione tra il dato formale della sede legale o statutaria e il dato reale del luogo nel quale le decisioni di gestione vengono effettivamente assunte). Il riferimento all'«oggetto principale» richiama invece il luogo nel quale, di fatto, si svolge la parte essenziale o predominante dell'attività di scambio o produzione di beni o di servizi, esercitata dalla società (Pederzini, 19). Secondo un orientamento della dottrina, legge italiana (applicabile, quale legge regolatrice, in forza della eccezione correttiva) e legge straniera (applicabile, quale legge regolatrice, in quanto legge del luogo di costituzione) sono destinate a trovare attuazione congiunta o cumulativa nel caso in cui la società estera abbia la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale dell'attività. Il criterio correttivo avrebbe, in altre parole, la forza di rendere anche la legge italiana applicabile a soggetti giuridici costituti al di fuori del territorio dello Stato, quindi, in linea di principio, sottoposti ad una legge straniera. Richiamando l'art. 17 della l. n. 218/1995, in forza del quale «È fatta salva la prevalenza sulle disposizioni che seguono delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera», si afferma che la norma abbia la funzione di tradurre in atto il precetto, rendendo applicabili nei confronti delle società incorporate all'estero, ma aventi in Italia la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale dell'attività, anche le prescrizioni italiane in materia societaria (Pederzini, 18). Non essendo però definite le norme che devono trovare applicazione, la dottrina si divide sulla esatta loro individuazione, richiamando a volte le norme «imperative» di diritto societario, destinate comunque a prevalere sull'autonomia negoziale dei contraenti, indipendentemente dal ricorrere dei caratteri di transnazionalità della fattispecie, ovvero, in attuazione di un principio fondamentale del diritto internazionale privato, le (assai meno numerose) norme di “applicazione necessaria”, ovvero ancora le norme materiali di «ordine pubblico interno» (Pederzini, 19). Altra parte della dottrina ritiene invece che, in questi casi, le società siano inizialmente regolate dalla legge del luogo dell'incorporazione e poi, a partire dal momento del trasferimento in Italia della sede dell'amministrazione o dell'oggetto principale dell'attività, vengono disciplinate dal diritto italiano, risolvendo in questo modo eventuali conflitti sulla base del principio tempus regit actum (Pederzini, 20). L'art. 2508 c.c. e il principio di libertà di stabilimento.Come anticipato, la disciplina deve comunque misurarsi con i principî del diritto UE in materia di libertà di stabilimento, esplicitati più volte nelle sentenze della Corte di giustizia. Per un completo esame delle pronunce che hanno riguardato tale argomento, si rinvia al commento all'art. 2507 c.c., essendo sufficiente in questa sede richiamare le sentenze relative al caso «Centros», al «caso Inspire Art» e al caso «Polbud». Nella decisione per prima richiamata (Corte giustizia CE, 9 marzo 1999, causa C-212/97, ma v. già Corte giustizia CE, 10 luglio 1986, causa C-79/85, caso «Segers»), la Corte di giustizia ha evidenziato che gli Stati ospitanti non possono imporre alle società, che si avvalgono della libertà di stabilimento, di osservare criteri di collegamento ulteriori rispetto a quelli dello Stato di origine, come lo svolgimento effettivo dell'attività nel paese di costituzione, né possono impedire che la sede secondaria sia anche sede amministrativa dell'impresa. Con specifico riferimento alla fattispecie esaminata, la medesima Corte ha quindi aggiunto che la scelta di costituire una società in un particolare Stato membro, al fine di avvalersi della possibilità di operare con un capitale sociale più esiguo di quello prescritto dalla legge dello Stato dello stabilimento secondario, non può comportare l'effetto di impedire alla società di decidere in quale ordinamento esercitare effettivamente la propria attività, perché rientra nella logica dell'appartenenza all'Unione trarre vantaggio dalle diversità delle singole discipline societarie nazionali (ove tale vantaggio non sia fraudolento, e cioè volto a eludere le obbligazioni nei confronti dei creditori privati o di quelli pubblici). Nella seconda decisione (Corte giustizia CE, 30 settembre 2003, causa C-167/01, caso «Inspire Art»), la medesima Corte ha ribadito che le ragioni per cui si decide di costituire una società in uno Stato piuttosto che in un altro sono prive di conseguenze sull'applicazione delle disposizioni sulla libertà di stabilimento, ma i singoli Stati possono adottate misure restrittive per reprimere i casi di abuso e di frode, che però devono superare il «test Gebhard», ovvero essere non discriminatorie, giustificate da motivi imperativi di interesse pubblico, idonee a garantire il raggiungimento dello scopo perseguito e proporzionate a quanto necessario per ottenere lo scopo prefissato, aggiungendo che non superano tale «test» le norme che subordinano l'esercizio della libertà di stabilimento a titolo secondario a condizioni relative al capitale minimo e alla responsabilità degli amministratori, stabilite dal diritto nazionale per la costituzione delle società. Entrambe le sentenze richiamate hanno inciso sulle disposizioni di conflitto degli Stati coinvolti, posto che in entrambi i casi era in discussione la compatibilità di norme di diritto internazionale privato di Paesi che, pur aderendo alla teoria dell'incorporazione pretendevano, nondimeno, di applicare ad alcune società straniere norme interne ritenute imperative. Sulla stessa linea si è posta una più recente pronuncia della Corte (Corte giustizia UE, 25 ottobre 2017, causa C-106/16, caso «Polbud»), la quale, in tema di trasformazioni transfrontaliere (trasferimento della sede legale in un diverso Stato membro, con applicazione della disciplina nazionale di questo Stato), ha ribadito (v. già in motivazione Corte giustizia CE, 16 dicembre 2008, causa C-210/06, caso «Cartesio») che sono in contrasto con gli artt. 49 e 54 TFUE, le legislazioni che subordinano il trasferimento della sede legale (principale) allo spostamento anche della sua sede effettiva e ha aggiunto che violano il principio della libertà di stabilimento anche le legislazioni che impongono di procedere alla liquidazione, per poter attuare la cancellazione dal Registro delle imprese dello Stato d'origine, precisando che gli interessi in conflitto con quello della società trasferente (e cioè gli interessi dei creditori, dei soci di minoranza e dei lavoratori) hanno una tutela eccessiva e sproporzionata con la previsione dell'obbligo di procedere alla liquidazione, in quanto la mera circostanza che una società trasferisca la propria sede in un altro Stato membro non comporta l'esistenza di una generale presunzione di frode e, dunque, non giustifica una restrizione ad una libertà fondamentale garantita dal diritto dell'Unione. Seguendo tali argomenti, la pressoché unanime dottrina ritiene che i principî che si ricavano dalle sentenze sopra richiamate impongono di disapplicare l'art. 25, comma 1, ultimo periodo, della l. n. 218/1995, nella parte in cui è disposta l'operatività della legge italiana se in Italia la società, pur costituita in un altro Stato dell'UE (o comunque aderente all'Accordo sullo Spazio economico europeo), ha la sede amministrativa o l'oggetto principale. Ovviamente la norma continua ad applicarsi nei confronti delle società straniere non UE ed anche delle società costituite in alcuno degli stati membri, che tuttavia sono al di fuori della disciplina del diritto di stabilimento, ai sensi dell'art. 54 TFUE (Pederzini, 25). In conclusione, secondo tale (condivisibile) orientamento, deve ritenersi che il criterio identificativo della lex societatis dettato nell'art. 25, comma 1, ultimo periodo, l. n. 218/1995 trovi integrale applicazione rispetto a tutte le società non protette dalle garanzie del Trattato. Se queste ultime, dopo la costituzione, trasferiscono la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale dell'attività in Italia, sono tenute a rispettare (anche, per alcuni, solo, per altri) la disciplina italiana in materia societaria. Se invece mantengono all'estero, nel Paese di costituzione o in altro Paese straniero diverso dall'Italia, la sede e l'oggetto principale, il criterio dell'incorporazione non viene esposto a deroghe, trovando integrale applicazione la lex loci incorporationis. Qualora, invece, a trasferire la sede amministrativa o l'oggetto principale dell'attività nel nostro Paese siano società a cui si applica la tutela della libertà di stabilimento dell'Unione europea, non si verifica alcuna deroga o diversificazione rispetto all'operatività generale delle norme dello Stato di costituzione, dovendo essere disapplicata la disposizione correttiva sopra descritta. La sede secondaria con rappresentanza stabile.Le società straniere che istituiscono in Italia una o più sedi secondarie sono a tutti gli effetti persone giuridiche di diritto straniero, soggetti la cui esistenza, capacità e struttura devono essere giudicate in base alla legge dello Stato nel quale sono state costituite. Tuttavia il legislatore, all'art. 2508 c.c., analogamente a quanto operato all'art. 25, comma 1, ultimo periodo, l. n. 218/1995, ha riconosciuto e valorizzato un fattore di collegamento con il territorio del nostro Stato, rendendo applicabile anche la legge italiana, ma solo a fini determinati. Rispetto all'ipotesi della localizzazione in Italia della sede amministrativa e dell'oggetto dell'attività d'impresa, ciò che qui rileva è la semplice istituzione di una sede secondaria con rappresentanza stabile. Si tratta dunque di una connessione di minore intensità col territorio italiano, che giustifica un minor controllo ed un più limitato comparto di norme interne da rendere operative ed applicabili nei confronti dell'ente straniero (Pederzini, 27). Sul punto è opportuno richiamare Trib. Roma 25 giugno 1980, ove, con riferimento ad un caso di istituzione in Italia di sede secondaria di società straniera, è stato precisato che il procedimento di costituzione, la capacità ed i caratteri della struttura organizzativa della società sono regolati dalla legge straniera, limitandosi il previgente art. 2506 c.c. (contenente disposizioni analoghe a quelle ora contenute nell'art. 2508 c.c.) ad assoggettare detta istituzione a talune specifiche disposizioni della legge italiana, differentemente da quanto previsto per le società costituite all'estero, che hanno in Italia la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale dell'impresa, per le quali è invece prevista l'applicazione di tutte le disposizioni della legge italiana. La norma in commento, nel prendere in considerazione l'articolazione territoriale che dà luogo all'applicazione della disciplina in materia di pubblicità degli atti sociali delle società estere, usa un termine non coincidente con quello utilizzato nell'«Undicesima Direttiva», in cui si fa riferimento alla nozione di succursale. Tale espressione, nell'ambito del diritto UE, indica un'articolazione di una impresa priva di autonomia giuridica rispetto alla casa madre e si distingue pertanto dalla nozione di «filiale o «affiliata», che, al contrario, indica un soggetto autonomo dal punto di vista giuridico. Sebbene la dottrina si sia domandata se la nozione di sede secondaria, ai sensi dell'art. 2508 c.c., possa, in astratto, riferirsi anche a sedi secondarie autonome dal punto di vista giuridico rispetto alla casa madre, alla luce della derivazione comunitaria della norma, si è, tuttavia, concluso che tale nozione – per un verso – debba coincidere con quella di succursale, utilizzata dal legislatore comunitario (dovendo, dunque, essere esclusa l'applicabilità dell'art. 2508 c.c. a sedi secondarie, costituite nella forma di soggetti giuridici autonomi rispetto all'impresa madre) e – per un altro verso – che essa non possa avere un'estensione più limitata rispetto alla nozione di succursale utilizzata nell'«Undicesima Direttiva», ponendosi altrimenti in contrasto con quest'ultima (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 80). La nozione di sede secondaria, come pure quello di succursale, sta dunque ad indicare un nucleo organizzato all'interno di una medesima unità d'impresa, distinto da quello della sede principale o di altre sedi secondarie, che gode di libertà di determinazione e di decisione, pur nell'ambito di un rapporto di subordinazione e di dipendenza, economica e amministrativa, rispetto alla casa madre. Essa deve essere istituita e organizzata per lo svolgimento di attività per conto della casa madre, in quanto, ove così non fosse, verrebbero meno le ragioni per le quali il legislatore europeo ha previsto l'imposizione degli obblighi pubblicitari. Pertanto, ove l'ufficio di rappresentanza non svolga alcuna attività che abbia rilevanza esterna e si limiti a dare visibilità all'impresa madre nel Paese di stabilimento, non scattano gli obblighi previsti nella Direttiva e neppure quelli previsti dall'art. 2508 c.c. (Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 81). D'altronde, perché si abbia una rappresentanza stabile è necessaria la presenza di una persona munita del potere rappresentativo sostanziale e processuale, che – stabilmente e non occasionalmente – agisca in nome e per conto della società. Una società straniera operante in Italia in via non prevalente né continuata, che non instaura sul territorio italiano né la sede dell'amministrazione, né una sede secondaria con rappresentanza stabile, né l'oggetto principale della sua attività d'impresa, non dovrà, dunque, iscriversi nel competente registro delle imprese, né sarà sottoposta alle disposizioni della legge italiana, salva la vincolatività delle norme di applicazione necessaria (Margiotta, 649). La giurisprudenza di merito, che di recente si è pronunciata sull'argomento, si è mostrata, in tutto, conforme a tale impostazione. In particolare (Trib. Roma 15 ottobre 2015) ha affermato che, anche con riferimento alle società estere di Stati extra UE, l'interpretazione dell'art. 2508 c.c. risente dell'elaborazione normativa e giurisprudenziale europea, sicché alla nozione di sede secondaria, utilizzata dal legislatore italiano non può essere data una portata meno estesa di quella di succursale, contenuta nella Direttiva 89/666/CEE. Ha poi precisato che, comunque, le formalità previste dall'art. 2508 c.c. sono prescritte solo in presenza di sedi secondarie con rappresentanza stabile in Italia, non essendo previsto alcun obbligo nel caso di società straniere che, senza istituire in Italia una sede secondaria, svolgano nel territorio italiano attività imprenditoriale anche in modo stabile e non saltuario. Ha quindi aggiunto che la sede secondaria deve essere attrezzata a livello sia materiale che operativo e vi deve essere un soggetto dotato di poteri di rappresentanza, per poter negoziare con i terzi, i quali, pur sapendo che i rapporti giuridici si stabiliranno con la casa madre, sedente all'estero, possono trattare direttamente con il preposto alla sede secondaria, senza necessità di rivolgersi alla casa madre. L'attività svolta dal soggetto preposto all'esercizio della sede secondaria, sia sul piano sostanziale che su quello processuale, fa infatti capo alla casa madre e è, a tutti gli effetti, parte integrante dell'attività esercitata dalla medesima casa madre. D'altronde, già Cass. I, n. 762/1969 aveva precisato che perché l'agenzia generale di una società straniera di navigazione possa essere considerata una sede secondaria di quest'ultima, non è sufficiente l'esplicazione, con carattere continuativo, nell'ambito del territorio nazionale, di attività nell'interesse e per conto della società straniera medesima, ma è necessaria l'individuazione di un nucleo organizzato collegato organicamente con la sede centrale estera e al quale sia stato proposto un soggetto giuridico investito della rappresentanza stabile in Italia della società stessa. Infine, come hanno di recente evidenziato le Sezioni Unite della Corte di cassazione, il fatto che una società commerciale di diritto estero istituisca in Italia una sede o una stabile organizzazione, alla quale demandi lo svolgimento di alcune attività, non vale ad attribuire a tale sede od organizzazione una personalità giuridica distinta ed autonoma da quella della società estera. Tale rilievo ha giustificato la condanna ex art. 96 c.p.c. della parte che aveva improntato le proprie difese allegando che, quando una società commerciale estera decentra in Italia talune attività, la sede italiana acquista ex se una personalità giuridica distinta ed autonoma da quella della casa madre (Cass. S.U., n. 22113/2023). Gli obblighi pubblicitari.Come sopra evidenziato, l'articolo in commento prevede particolari forme di controllo sulle società costituite all'estero, che abbiano nel territorio dello Stato sedi secondarie con rappresentanza stabile, escluse quelle, costituite in Stati extra UE (o comunque sottratte alla tutela della libertà di stabilimento prevista nel Trattato), che in Italia abbiano anche la sede amministrativa o l'oggetto principale della loro attività, perché a queste ultime si applica in toto il diritto italiano, in applicazione dell'art. 25, comma 1, l. 218/1995. In particolare, le società previste dall'art. 2508 c.c. sono soggette, per ciascuna sede, alle disposizioni della legge italiana sulla pubblicità degli atti sociali, che individua gli atti da rendere pubblici e le modalità con cui eseguire la pubblicità. Ai fini operativi, si deve ricordare che, in base all'art. 101-quater disp. att. c.c. (introdotto dall'art. 5 d.lgs. 29 dicembre 1992, n. 516, concernente l'attuazione in Italia dell'«Undicesima Direttiva»), le società comunitarie che stabiliscono in Italia più sedi secondarie con rappresentanza stabile, possono attuare la pubblicità dell'atto costitutivo, dello statuto e dei bilanci nell'ufficio del registro delle imprese di una soltanto delle sedi secondarie, depositando negli altri l'attestazione dell'eseguita pubblicità. Le medesime società devono inoltre pubblicare, secondo le medesime disposizioni, il cognome, il nome, la data e il luogo di nascita delle persone che le rappresentano stabilmente nel territorio dello Stato, con indicazione dei relativi poteri. L'adempimento degli obblighi pubblicitari previsti dall'art. 2508 comma 1, c.c. comporta l'estensione dei normali effetti della pubblicità previsti dalla legge italiana. L'art. 2508, comma 2, c.c. precisa comunque che ai terzi che hanno compiuto operazioni con la sede secondaria non può essere opposto che gli atti pubblicati ai sensi dei commi precedenti sono difformi da quelli pubblicati nello Stato ove è situata la sede principale. Ove, invece, le società non rispettino tali obblighi pubblicitari, e comunque finché non adempiano agli stessi, gli atti compiuti non sono opponibili in Italia ai terzi di buona fede e si producono pesanti effetti sul piano della responsabilità per le obbligazioni sociali, dal momento che per le stesse rispondono coloro che hanno agito in nome e per conto della società (v. il commento all'art. 2509-bis c.c.). L'applicazione delle disposizioni contenute all'art. 2508, comma 1, c.c. richiede comunque una verifica preventiva, al fine di stabilire se la società straniera sia assimilabile a uno dei tipi previsti dalla legge italiana, perché si possano individuare quali siano gli adempimenti pubblicitari in concreto applicabili all'ente straniero, trovando, nel caso contrario, applicazione la disciplina in materia di società per azioni (v. il commento all'art. 2509 c.c.). Inoltre, l'art. 2508, comma 4, c.c. prescrive che la corrispondenza delle sedi secondarie devono sempre contenere le indicazioni previste dall'art. 2250 c.c., nonché quelle relative all'ufficio del registro delle imprese presso la quale è iscritta la sede secondaria e il numero di iscrizione. All'art. 2508, comma 3, c.c., è infine stabilito che le società in questione, oltre che agli oneri pubblicitari, sono anche soggette, limitatamente alle sedi secondarie, alle disposizioni che regolano l'esercizio dell'impresa o che la subordinano all'osservanza di particolari condizioni (v. ad esempio le autorizzazioni richieste per l'esercizio dell'attività bancaria). Come evidenziato da attenta dottrina, tale disposizione chiarisce che l'adempimento degli obblighi pubblicitari sopra richiamati non esclude l'applicazione delle altre norme dell'ordinamento italiano applicabili alle sedi secondarie, tra le quali è possibile citare, ad esempio, quelle in materia di scritture contabili, le norme in materia di lavoro e quelle che prevedano particolari autorizzazioni per l'esercizio di determinate attività ((Biscaretti di Ruffia, Gambaro, 87). E in effetti, in tema di licenziamento, la giurisprudenza ha più volte ritenuto che, nel computo dei dipendenti della società estera con sede secondaria in Italia, effettuato al fine di verificare l'applicabilità o meno della tutela reale, occorre tenere conto solo di quelli presenti nel territorio nazionale, dovendosi ritenere che l'una o le più sedi secondarie presenti nel nostro territorio, assoggettate dall'art. 2508 c.c. alla legge italiana per plurimi aspetti, siano dotate di autonoma rilevanza anche a tali fini, pure in assenza di automa personalità giuridica, costituendo il criterio occupazionale un presupposto di applicazione della legge nazionale (Cass. IV, n. 19557/2016; Trib. Milano 21 novembre 2017). BibliografiaAa.Vv., Percorsi di diritto societario europeo, a cura di Pederzini, Torino, 2016; Abate, Dimundo, Lambertini, Panzani, Patti, Gruppi, trasformazione, fusione e scissione, scioglimento e liquidazione, società estere: artt. 2484-2510 c.c., Milano, 2003; Biscaretti di Ruffia, Gambaro, Delle società costituite all'estero: artt. 2507-2510, in Comm. S., Milano, 2013; Carbone, La riforma societaria tra conflitti di legge e principi di diritto comunitario, in Dir. comm. int. 2003, 89; Caterino, Le società straniere in Italia, in Manuale di diritto commerciale internazionale, a cura di Patroni Griffi, Milano, 2012; Enriques, Delle società costituite all'estero, in Comm. 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