Codice Civile art. 2641

Rosa Pezzullo

Codice civile, approvato con regio decreto 16 marzo 1942, n. 262 (1).

(1) Il r.d. 16 marzo 1942, n. 262 è stato pubblicato nella G.U. del 4 aprile 1942, nn. 79 e 79-bis.

Inquadramento

L'art. 2641 c.c., inserito nell'ambito delle disposizioni penali in materia di società dall'art. 1 del d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61, ha sancito la regola dell'obbligatorietà della confisca dei proventi derivati dai reati societari previsti dal Titolo XI e dei beni utilizzati per commetterli, quando vi sia stato provvedimento di condanna o di applicazione della pena su richiesta, in tal modo sottraendo la confisca dall'area tradizionale della misura di sicurezza (art. 240 c.p.) ed arricchendo il quadro delle figure ablative speciali (Musco, 21) .

La natura afflittiva di tale misura rappresenta un elemento di controtendenza rispetto al complessivo quadro di ridimensionamento del trattamento sanzionatorio in materia di illeciti societari operato con la riforma del 2002 (Perdonò, 382), ma, a ben guardare, l'apparente rigore sanzionatorio della confisca cozza con la concreta, limitata e sporadica applicazione delle fattispecie contemplate dal titolo XI. Ed invero, i ridotti termini di prescrizione applicabili, la procedibilità a querela di alcune fattispecie, nonché le numerose ipotesi in cui è possibile l'estinzione del reato mediante il compimento di condotte riparatorie (artt. 2627,2628,2629,2633 c.c.), mostrano come la confisca in questione presenti a ben vedere margini ristretti di operatività, stante la necessità di una condanna o dell'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (Masullo, 1343; Perdonò, 382).

Correttamente sono state segnalate le peculiarità della confisca in questione rispetto al modello generale di cui all'art. 240 c.p., stante la conversione delle ipotesi di confisca facoltativa (a cui sono improntate in linea generale le ipotesi della confisca del codice penale) in confisca obbligatoria, con implicita rinuncia a qualsiasi accertamento in ordine alla pericolosità della cosa (Musco, 22).

Natura giuridica

L'automatismo della confisca, come ricavabile dall'espressione «è ordinata la confisca», ha portato alcuni autori ad inquadrare tale misura sanzionatoria nel novero delle pene accessorie (Mezzetti, 200).

Le misure di sicurezza, infatti, sono generalmente facoltative, salvi i casi di confisca obbligatoria, di cui al 2° comma dell'art. 240 c.p., che a sua volta ammette ulteriori eccezioni in corrispondenza del 3° e 4° comma della medesima disposizione. La stessa previsione della confisca «per equivalente» o «per valore», che presuppone l'assenza di corrispondenza tra beni sottoposti alla misura ablatoria e specifico reato commesso, confermerebbe il carattere sanzionatorio ed accessorio delle conseguenze previste dall'art. 2641 c.c. (Perdonò, 382).

La giurisprudenza di legittimità, pare, invece, ricomprendere pur sempre la confisca in esame nel genus della misura di sicurezza patrimoniale ex art. 240 c.p., avendo evidenziato che la persona offesa non ha titolo per richiedere la confisca ex art. 2641 c.c., che, essendo una misura di sicurezza è di esclusiva pertinenza del pubblico ministero e per promuovere la misura cautelare prevista dall'ordinamento per l'effettività della sua applicazione (Cass. pen. V, n. 21458/2005).

L'oggetto della confisca di cui al primo comma

Il primo comma dell'art. 2641 individua l'oggetto della confisca nel prodotto o profitto del reato e nei beni utilizzati per commetterlo.

In relazione a tale elencazione in primo luogo, va rilevata l'assenza del riferimento al prezzo del reato, nozione che va tenuta ben distinta da quella di prodotto e profitto, che indicano il risultato utile direttamente generato dall'illecito, postulando la necessaria presenza di un legame di derivazione causale dal reato (secondo il criterio della cd. pertinenzialità diretta). Tuttavia, è stato ritenuto che il prezzo che rappresenta il corrispettivo «motivante» della scelta di commettere il reato, può pur sempre costituire oggetto di confisca secondo le regole generali della confisca obbligatoria di cui al secondo comma l'art. 240 c.p. (Musco, 23).

Il prodotto del reato coincide con le conseguenze immediate dell'attività criminosa ovvero con l'insieme degli oggetti creati, trasformati, adulterati o acquisiti con l'illecito (Perdonò, 383).

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come il prodotto si identifichi con il risultato che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita (Cass. pen. S.U., n. 9149/1996). In particolare, è stato ritenuto che è soggetto alla confisca di cui all'art. 2641 e, pertanto, al sequestro preventivo, ai sensi dell'art. 321, comma secondo, c.p.p., ove sussista il fumus commissi delicti della fattispecie criminosa di cui all'art. 2634 c.c. (infedeltà patrimoniale), il bene, oggetto della appropriazione-distrazione che costituisce il prodotto del reato e quindi, il risultato della condotta criminosa, fatta salva la previsione dell'art. 240, comma terzo, c.c. (Cass. pen. V, 21458/2005).

Per profitto si intende il lucro, cioè il vantaggio economico che si ricava dalla commissione del reato (Perdonò, 384). La determinazione del profìtto del reato non appare operazione di agevole soluzione», e tanto, sia in relazione al carattere di diretta ed immediata derivazione causale del vantaggio economico dell'attività del reo, sia per quanto concerne le modalità di determinazione del profitto in materia imprenditoriale (Perdonò, 384).

Le Sezioni Unite in due consecutive pronunce del 2004, riguardanti, entrambe, due sequestri preventivi, ex art. 321, comma 2, c.p.p., di cose confiscabili ai sensi dell'art. 240 c.p. hanno definito il profitto come «vantaggio di natura economica» o «beneficio aggiunto di tipo patrimoniale», puntualizzando la necessità della stretta derivazione causale del profitto dal reato, senza, peraltro, chiarire il rapporto tra il concetto di profitto e quello di lucro, e affrontare la questione del se, nel generico riferimento al vantaggio di natura economica debba essere compreso anche il mero risparmio (Cass. pen. S.U., n. 29951/2004).

La Corte ha, poi, affrontato il tema del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di somme di denaro che costituiscono «profitto del reato», affermando che il sequestro deve ritenersi ammissibile sia quando la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l'attività criminosa, sia ogni qual volta vi siano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare (Cass. pen. VI, n. 23773/2003). Al riguardo, la Cassazione ha chiarito che la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta, purché sia attribuibile all'indagato.

Anche per il denaro deve però pur sempre sussistere il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale tra il «bene» sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa).

Nella seconda sentenza del 2004, le Sezioni Unite sono tornate ad affrontare la questione della definizione del profitto confiscabile, facendo nuovamente riferimento al «vantaggio di natura economica» che deriva dal reato, precisando che all'espressione profitto non va, comunque, attribuito il significato di «utile netto» o di «reddito», indicando esso, invece, un «beneficio aggiunto di natura economica». Nella occasione, pur non analizzando specificamente il tema delle componenti strutturali del profitto, la Corte ha affermato testualmente: «deve essere tenuta ferma, però, in ogni caso – per evitare un'estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa scaturire da un reato – l'esigenza di una diretta derivazione causale dall'attività del reo, intesa quale stretta relazione con la condotta illecita» (Cass. pen. S.U., n. 29952/2004).

Una successiva sentenza delle Sezioni Unite, in materia di sequestro preventivo preordinato alla confisca di cui all'art. 322-ter c.p., ha consolidato l'orientamento in questione, affermando che il profitto corrisponde all'«utile ottenuto in seguito alla commissione del reato», e il prodotto al '«risultato, cioè al frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita» (Cass. pen. S.U., n. 41936/2005).

Il principio della diretta derivazione causale del profitto dal reato è stato, rivisitato in senso estensivo da una ulteriore pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con riferimento alla confisca- misura di sicurezza del profitto della concussione, risolvendo un contrasto giurisprudenziale fra l'indirizzo nomofilattico secondo cui, ai fini della confisca prevista dall'art. 240 c.p., il profitto avrebbe richiesto una stretta e diretta correlazione del bene da aggredire con l'oggetto del reato (non potendo attribuirsi rilievo ad ogni altro legame di derivazione meramente indiretto e mediato), ed altro orientamento più estensivo, che aveva, invece, considerato profitto anche i beni acquisiti con l'impiego dell'immediato prodotto del reato, recepì quest'ultimo indirizzo, affermando che non era possibile ritenere che le utili trasformazioni dell'immediato prodotto del reato e gli impieghi redditizi del denaro di provenienza delittuosa potessero impedire la sottrazione al colpevole di ciò che era stato il preciso obiettivo del disegno criminoso perseguito.

Nell'occasione, le Sezioni unite, quanto al profilo strutturale del profitto, hanno specificato che esso è costituito dal «lucro» cioè dal «vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato» (Cass. pen. S.U. , n. 10208/2008).

Quanto invece al profilo del nesso di derivazione del profitto dal reato, la S.C. ha ritenuto che nel concetto in questione devono essere compresi non soltanto i beni che l'autore del reato «apprende» alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche qualsiasi trasformazione che il danaro illecitamente conseguito subisce a seguito del suo investimento, a condizione, tuttavia, che detta trasformazione sia collegabile in modo diretto al reato stesso e al profitto immediato – cioè il danaro conseguito – e sia soggettivamente attribuibile all'autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto.

In tale quadro di riferimento, deve essere evidenziato come, invece, nell'ambito della disciplina del d.lgs. n. 231/2001 sia stata maggiormente avvertita la necessità di una differente approccio metodologico nella individuazione della nozione di profitto del reato, privilegiando non già e non solo il profilo causale, quanto, piuttosto, i profili strutturali del medesimo, in quanto collegato ad attività economica imprenditoriale, come tale lecita.

Il tema è in qualche modo collegato alla natura sanzionatoria della confisca in questione e di tale diverso approccio si ha indiretta conferma anche nella elaborazione della giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di presupposti per l'adozione di misure cautelari reali, per i quali va registrata la particolare attenzione in merito ai presupposti giustificano il sequestro preventivo.

Sicché, si richiede che il giudice debba verificare la sussistenza del fumus commissi delicti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato (Cass. pen. V, n. 18078/2010; Cass. pen. V, n. 37695/2008; Cass. pen. VI, n. 35786/2012; Cass. pen. VI, n. 45591/2013).

I principî elaborati nella materia in esame dimostrano una tendenziale omologazione delle misure cautelari reali a quelle personali: i principî di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, previsti per le misure cautelari personali, sono applicabili anche alle misure cautelari reali, dovendo il giudice motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato della misura cautelare con altre misure meno invasive (Cass. pen. IV, n. 18603/2013).

La terminologia adoperata nel codice civile per la descrizione dei «beni utilizzati» per commettere il reato in luogo dell'espressione del codice penale «cose che servirono o furono destinate» a commetterlo, da un lato, sembra consentire di includere tra gli oggetti confiscabili anche il denaro, dall'altro, sembra limitare la confisca obbligatoria ai soli beni effettivamente utilizzati per la commissione del reato, lasciando inalterato il regime di facoltatività per quel che riguarda i beni solo destinati ad essa (Musco,22).

La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, costituiscano «beni utilizzati per commettere il reato» di cui all'art. 2638 c.c., confiscabili ai sensi dell'art. 2641 c.c., anche mediante l'apprensione di beni per valore equivalente, i finanziamenti concessi da un istituto di credito a terzi per l'acquisto di azioni ed obbligazioni dello stesso istituto, finalizzati a rappresentare una realtà economica del patrimonio di vigilanza dell'ente creditizio diversa da quella effettiva, con ostacolo delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (Cass. pen. V, n. 42778/2017).

Inoltre, la S.C. ha evidenziato come sia soggetto alla confisca obbligatoria di cui all'art. 2641 e, pertanto, al sequestro preventivo, ai sensi dell'art. 321, comma secondo, c.p.p., il bene utilizzato per commettere il reato di corruzione fra privati, dovendo attribuirsi tale qualifica con riferimento al momento storico del perfezionamento dell'accordo criminoso (e verificando che tale caratteristica sia stata mantenuta nel momento successivo dell'esecuzione dell'accordo) quale mezzo concretamente utilizzato dalle parti per far conseguire ad uno dei soggetti indicati dall'art. 2635 c.c. l'utilità illecita, indipendentemente dal fatto che il bene stesso non sia strutturalmente funzionale alla commissione del reato e che successivamente ad essa non abbia conservato una destinazione illecita (Cass. pen. V, n. 33027/2017). Nella fattispecie, la S.C. ha analizzato un'ipotesi di sequestro finalizzato alla confisca di immobile acquistato dal corrotto con mutuo proprio, allo scopo di farne oggetto di un contratto di locazione stipulato con il corruttore che prevedeva la corresponsione di canoni superiore ai ratei mensili di mutuo, consistendo proprio in tale differenza il prezzo del reato di cui all'art. 2635 c.c.; nella circostanza, la S.C. ha ritenuto legittimo il diniego di restituzione dell'immobile anche dopo il venir meno del contratto

di locazione, osservando che tale tipo di sequestro richiede solo l'esistenza del nesso strumentale, anche occasionale, fra la res e la perpetrazione del reato, e non esige invece alcun rapporto di stabile asservimento della cosa alla commissione del reato che si traduca in una prognosi di pericolosità connessa alla sua libera disponibilità.

L'ipotesi della confisca per equivalente prevista al secondo comma.

Una delle novità di maggior rilievo della riforma del 2002 è rappresentata dalla previsione dell'istituto della confisca per equivalente di cui al secondo comma dell'art. 2641, quando risulti impossibile l'individuazione o l'apprensione dei beni originariamente coinvolti nella dinamica delittuosa, stabilendosi appunto che in tal caso essa abbia ad oggetto «una somma di denaro o beni di valore equivalente» (Musco,24).

L'istituto mira a impedire che l'impiego economico dei beni di provenienza delittuosa possa consentire al colpevole di garantirsi il vantaggio che era oggetto specifico del disegno criminoso e trova il suo fondamento e il suo unico limite nel profitto derivato dal reato – non essendo commisurata in alcun modo, né alla colpevolezza del reo, né alla gravità dell'illecito – e prescinde dalla pericolosità che in qualsiasi modo possa derivare dalla cosa o dall'uso della stessa. Per questo motivo, nonostante la definizione codicistica dell'istituto come misura di sicurezza patrimoniale, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono che l'effettiva ratio della stessa consista nel sostanziale ampliamento dell'ambito oggettivo delle cose confiscabili per finalità prettamente sanzionatorie.

  Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di valore, per la sua sussidiarietà alla confisca diretta ai sensi dell'art. 2641  c.c., è subordinato alla impossibilità, anche solo transitoria e reversibile, di individuare e apprendere i beni costituenti il prodotto, profitto o strumento del reato (Cass. pen. V, n. 6391/2021).

Peraltro, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2641, comma secondo, c.c., nella parte in cui sottopone alla confisca per equivalente i beni utilizzati per commettere il reato di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, di cui all'art. 2638 del medesimo codice, per violazione degli artt.3, 27,42,117 Cost. (in relazione quest'ultimo all'art.1 del primo protocollo addizionale CEDU e 17 e 49 CDFUE), non sussistendo sproporzione fra la condotta punita da tale disposizione e la confisca per equivalente dei mezzi utilizzati per attuarla (Cass. pen. V, n. 1991/2018).

Bibliografia

Barazzetta, La confisca nei reati societari, in I nuovi reati societari, a cura di Giarda, Seminara, Padova, 2002; Masullo, Sub art. 2641 c.c., in Le fonti del diritto italiano. Leggi penali d'udienza, a cura di Padovani, Milano, 2003; Mezzetti, I reati societari, in Diritto penale d'impresa, a cura di Ambrosetti, Mezzetti, Ronco, Bologna, 2008; Musco, I nuovi reati societari, Milano, 2007; Perdonò, Sub art. 2641 c.c. Confisca, in Diritto penale dell'economia, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Milano, 2017.

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