Efficacia preclusiva del dissenso del genitore biologico nell'adozione in casi particolari

Marina Pavone
17 Ottobre 2018

In ipotesi di adozione in casi particolari, il diniego all'adozione posto dal genitore esercente la responsabilità genitoriale, seppure non convivente con il minore, può costituire impedimento all'adozione stessa?
Massima

Nell'ambito dell'adozione in casi particolari, il dissenso manifestato dal genitore titolare della responsabilità genitoriale, anche se non convivente con il figlio, ha efficacia preclusiva ai sensi dell'art. 46, comma 2, l. n. 184/1983, salvo che non sia stata accertata una situazione di disgregazione del contesto familiare d'origine del minore, in conseguenza del protratto venir meno del concreto esercizio di un rapporto effettivo con il minore stesso da parte del genitore esercente la responsabilità.

Il caso

La Corte d'appello di Roma conferma la decisione del Tribunale per i minorenni che ha respinto la domanda di adozione di un minore, ai sensi dell'art. 44, lett. d), l. n. 184/1983, a causa del dissenso opposto dalla di lui madre e, in ragione di un disagio psicologico manifestato dal minore e rilevato dalla ASL incaricata, modifica la pronuncia di primo grado revocando gli incontri liberi madre/figlio e i pernottamenti presso la stessa, nonché, incaricando il Servizio competente di predisporre un programma volto a ridurre la conflittualità tra gli affidatari e la madre del minore e un percorso di sostegno alla genitorialità.

Eccepiscono gli istanti che la Corte distrettuale avrebbe errato - evocando un orientamento minoritario - nel ritenere insindacabile il dissenso della madre naturale del minore, laddove un pieno e valido dissenso deve, invece, provenire da colui il quale abbia il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, sulla scorta di un rapporto effettivo caratterizzato di regola dalla convivenza. Lamentano, poi, gli affidatari, la mancata valutazione di altri elementi della vicenda quali, per esempio, il forte legame instaurato con il minore e l'assenza di un rapporto affettivo costante tra il bambino e la madre. I ricorrenti deducono, infine, la violazione delle norme sovranazionali volte a tutelare il superiore interesse del minore, contestando alla Corte di aver anteposto, a questo principio fondamentale, l'interesse esclusivo della madre, non avendo valutato adeguatamente i molteplici periodi di abbandono del figlio da parte della genitrice.

Rileva la Corte territoriale che il dissenso all'adozione da parte di coloro i quali esercitano la responsabilità genitoriale sul minore, di cui all'art. 46 l. n. 184/1983, va interpretato alla luce della l. n. 54/2006 che riconosce tale responsabilità (ex potestà) ad entrambi i genitori, seppure non conviventi con il minore. Pertanto, anche in secondo grado viene respinta la domanda di adozione sulla scorta dell'assunto che il diniego del consenso, da parte della madre, ha valore e rilevanza a prescindere dalla convivenza in sé.

A sostegno del ragionamento de quo vengono richiamate le seguenti circostanze:

- all'esito di un procedimento volto ad accertare lo stato di abbandono del minore vi è stata una dichiarazione di non luogo a procedere, atteso che la madre ha convissuto con lo stesso presso la famiglia affidataria;

- successivamente, pur non convivendo più con il figlio, la madre si è recata a fargli visita continuativamente, 1/2 volte a settimana;

- le visite della madre al figlio hanno trovato sempre un favorevole riscontro da parte di quest'ultimo; - gli affidatari, invece, hanno tenuto una condotta contraria alla ratio dell'istituto dell'affido, comportandosi piuttosto come sostituti genitoriali e non favorendo in alcun modo il minore nel consolidare il rapporto con la madre, così ponendolo in una trama ansiosa, fonte di un forte disagio e di ostacolo ad una sana crescita psichica.

Alla luce di ciò, la Corte territoriale ritiene che, a prescindere dalla mancata convivenza, la madre non abbia perduto l'esercizio effettivo e concreto della responsabilità genitoriale sul figlio atteso, altresì, che il Tribunale per i minorenni di Roma ne ha revocato la sospensione e la nomina del tutore provvisorio. Pertanto, il rifiuto dell'assenso all'adozione da parte del genitore naturale deve considerarsi assolutamente ostativo alla adozione stessa.

Tale argomentazione viene pienamente condivisa dalla Suprema Corte, la quale richiama, in primis, quale principio cardine in tema di adozione, l'interesse prevalente del minore «di vivere, per quanto possibile, con i propri genitori e di essere allevato nell'ambito della propria famiglia di origine» (Cass. n. 13435/2016) con la conseguenza che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità deve rappresentare l'“extrema ratio”. Tale ultima soluzionenon può prescindere da un giudizio prognostico del giudice, teso a verificare la possibilità effettiva ed attuale di un recupero della capacità genitoriale, nel quale il consenso del genitore rileva se conforme all'interesse del minore e se sorretto da un rapporto effettivo con lo stesso.

La pronuncia impugnata, pertanto, viene confermata dai giudici di legittimità in quanto ritenuta conforme al diritto, alla luce del fatto che la madre, nel caso di specie, non si è mai disinteressata del figlio tanto da non potersi ritenere che sia venuto meno l'effettivo esercizio della genitorialità da parte di quest'ultima.

La questione

In tema di adozione in casi particolari - nella quale non si verifica una rottura definitiva del rapporto del minore con la propria famiglia di origine (non sussistendo i presupposti per un'adozione legittima), ma si crea piuttosto uno status personale tra minore ed adottante radicato sul consenso delle parti - il diniego all'adozione posto dal genitore esercente la responsabilità genitoriale, seppure non convivente con il minore, può costituire impedimento all'adozione stessa, ai sensi dell'art. 46, comma 2, l. n. 184/1983?

Le soluzioni giuridiche

Alla soluzione del caso di specie la Corte giunge richiamandosi ad una precedente pronuncia (Cass. n. 18575/2015) nella quale si afferma che in tema di adozione particolare - ai sensi dell'art. 46, comma 2, l. n. 184/1983 – abbia efficacia preclusiva il dissenso del genitore che eserciti concretamente la responsabilità genitoriale sul minore e non ne sia soltanto mero titolare. Occorre, pertanto, che il genitore biologico abbia con il minore un rapporto effettivo, caratterizzato, di regola, dalla convivenza, con ciò escludendo qualsiasi valenza al dissenso del genitore che, invece, vanti soltanto una responsabilità formale alla quale non corrisponda l'esercizio concreto della stessa.

Tale ragionamento, muove le fila da una situazione di fatto molto diversa da quella in esame nella quale la madre naturale, esercente la responsabilità, non aveva mai instaurato un rapporto affettivo con la minore. Il disinteresse della madre alle esigenze di cura e crescita della figlia, in quella occasione, era palese e incontestato tanto che il dissenso di costei all'adozione è stato ritenuto del tutto privo di rilievo. Di contro, gli affidatari per anni avevano educato, istruito ed assistito la minore, favorendone le inclinazioni naturali e assicurandole un contesto familiare sereno e confortante.

Nel caso qui esaminato, invece, la Corte evidenzia come la madre del minore non si sia mai completamente disinteressata del figlio, seppure in mancanza di convivenza, tanto da aver continuato ad esercitare effettivamente la propria responsabilità genitoriale. Di contro, gli affidatari hanno tenuto un comportamento difforme rispetto allo spirito dell'affido e dell'adozione speciale, non solo evitando di favorire il rapporto madre/figlio, ma addirittura ostacolandolo e cercando progressivamente di estromettere la genitrice dalla vita affettiva del minore.

Dunque, il riferimento per il quale la convivenza tra genitore e minore sembra essere elemento caratterizzante “di regola” il concreto esercizio del rapporto affettivo con il minore, va inserito in un quadro più ampio nel quale, nel perseguire il fine ultimo dell'interesse del minore, il dissenso del genitore naturale all'adozione abbia efficacia preclusiva solo e soltanto quando quest'ultimo eserciti effettivamente la responsabilità genitoriale, da intendersi come esercizio delle reali e qualificanti modalità di svolgimento delle relazioni genitore/figlio, anche non conviventi, in linea con il dato costituzionale (artt. 29 e 30 Cost.). In tale contesto, la convivenza in sé non ha un valore assoluto, non essendo sufficiente a garantire da sola l'esistenza del rapporto familiare.

Ciò in linea con la giurisprudenza europea che sempre più richiama l'attenzione sulla realtà effettiva delle relazioni familiari, laddove per vita familiare (art. 8 CEDU) devono intendersi non solo i vincoli formali parentali e genitoriali, ma, ancor prima, le relazioni esistenti di fatto che compongono un ambiente familiare rispondente ai bisogni esistenziali del minore.

Nel caso di specie, si osserva, non è riscontrabile quella situazione di disgregamento dell'ambiente familiare d'origine del minore, unica ipotesi che avrebbe consentito al giudice di merito di non tener conto del dissenso all'adozione manifestato dalla madre.

La Corte conclude, pertanto, confermando il principio di diritto enunciato in precedenza evidenziando, però, che non è la convivenza l'elemento chiave per verificare la sussistenza della responsabilità genitoriale, ma piuttosto l'esercizio concreto ed effettivo del rapporto genitore/figlio al punto che il dissenso espresso dal genitore, benché non convivente, conserva il suo valore preclusivo all'adozione.

Osservazioni

Al fine di tutelare il minore che subisce una situazione di disagio familiare, quando non sussistono i requisiti per l'adozione piena (o legittimante – art. 7), il legislatore ha previsto (art. 44 l. n. 184/1983 e ss. modifiche) il peculiare istituto dell'adozione in casi particolari.

In assenza dei presupposti per l'adozione legittimante, mancando lo stato di adottabilità, dunque, è consentita l'adozione del minore:

a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre;

b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge;

c) quando il minore sia portatore di handicap e orfano di entrambi i genitori;

d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo.

Si tratta, in sostanza, di una disciplina intermedia rispetto ad un sistema binario che vede, da una parte, l'adozione piena (caratterizzata dalla rottura definitiva dei rapporti del minore con la famiglia di origine) come extrema ratio alla quale ricorrere solo quando la famiglia di origine non sia in grado, neppure in prospettiva, di attendere ai bisogni di cura ed assistenza del minore stesso, dall'altra, l'affidamento eterofamiliare volto a fronteggiare una situazione disagevole per il minore, ma solo temporanea.

L'adozione in casi particolari, consente, invece, al minore di vivere in una famiglia anche in mancanza di uno stato di abbandono permanente ed irreversibile qualora, tuttavia, l'adozione appaia la soluzione più opportuna e confacente all'interesse dello stesso. A fronte di una famiglia biologica deficitaria, che non riesce a garantirgli quel minimo di cure, apporto affettivo e sostegno psicologico indispensabili per un armonioso sviluppo della sua personalità, il minore ha diritto, infatti, a ricevere il supporto necessario per fronteggiare tale situazione, pur evitando di recidere definitivamente i legami con la propria famiglia.

Se già l'adozione in sé risponde alla necessità di bilanciare due interessi fondamentali, ovvero, quello del genitore a conservare un rapporto privilegiato con il figlio e quello del minore ad essere inserito a tutti gli effetti, anche giuridici, nella famiglia che se ne prende cura, nell'adozione particolare tale esigenza può dirsi maggiormente soddisfatta. Senza far venir meno il vincolo esistente con la famiglia di origine, verso la quale il minore conserva diritti e doveri, tale peculiare istituto consente, infatti, di formalizzare il rapporto affettivo instaurato da costui con i soggetti che ne hanno cura, sulla base di un consenso tra le parti coinvolte, creando uno status personale tra adottante e adottato.

Alla luce di tale premessa, la pronuncia esaminata appare confermare un orientamento già volto a riconoscere e tutelare quelle relazioni familiari che siano “effettive” e non solo dichiarate o meramente formali. E ciò in linea con la ratio stessa dell'istituto dell'adozione speciale in esame, nel quale la volontà del genitore esercente la responsabilità genitoriale rispetto all'adozione rileva non tanto, e comunque non solo, per l'investitura formale di tale responsabilità, quanto piuttosto per il reale esercizio della stessa, ovvero, per l'effettività del vincolo familiare.

È sempre in quest'ottica che appare chiaro come il dissenso - ai sensi dell'art. 46, comma 2, l. n. 184/1983 – debba essere riconosciuto come preclusivo all'adozione laddove il genitore che lo esprime eserciti effettivamente la responsabilità genitoriale, mantenendo con il figlio un concreto rapporto affettivo, nonché, di cura e di comprensione dei bisogni e delle necessità del minore, seppure in assenza di convivenza.

Si tratta, tra l'altro, di un arresto giurisprudenziale perfettamente rispondente sia al dato costituzionale che predilige la conservazione della compagine familiare, salvo che non vi sia una pregressa situazione di disgregazione della famiglia naturale del minore, sia ai richiami delle pronunce sovranazionali nelle quali, in tema di vita familiare, l'effettività delle relazioni esistenti tra le parti coinvolte va assumendo sempre maggiore rilevanza rispetto alla mera titolarità delle stesse.

Guida all'approfondimento

A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori. Commento teorico-pratico alla legge 4 maggio 1983 n. 184, Milano, 1983.

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