Natura della condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c. e criteri di liquidazione proposti dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano

Raffaella Caminiti
23 Ottobre 2018

Dottrina e giurisprudenza, nel tempo, hanno dato luogo a un vivace dibattito sulla natura della condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c., interpellandosi se ad essa possa attribuirsi una funzione risarcitoria o, piuttosto, sanzionatoria del litigante temerario, il quale si sia servito dello strumento processuale a fini dilatori, incrementando il carico del contenzioso giudiziario e ostacolando la ragionevole durata del processo.
Natura giuridica della disposizione di cui al comma 3 dell'art. 96 c.p.c.

Il tema dell'abuso del processo è oggetto da tempo di grande attenzione da parte della dottrina processualcivilistica.

Basti pensare che, già nel 1964, De Stefano aveva scritto un articolo molto approfondito sull'argomento anticipando di fatto gli sviluppi che esso avrebbe avuto sotto il profilo normativo e giurisprudenziale, né si può certo dimenticare l'apporto fondamentale che ha dato Taruffo con alcuni saggi e molti articoli nella ricostruzione comparatistica di questa categoria giurisprudenziale che, secondo questo Autore, rappresenta un fenomeno preoccupante che rischia di colpire al cuore i diritti soggettivi che le parti intendono tutelare nel processo civile.

Un contributo altrettanto importante allo studio dell'abuso del processo lo ha dato anche una monografia di Ghirga la quale, partendo dal presupposto che non tutti i processi servono alla giustizia e che occorre prendere in considerazione le finalità pubblicistiche e superindividuali del giudizio, ha proposto di inserire nel sistema un vaglio di meritevolezza della tutela richiesta, con la possibilità per il giudice di applicare questo criterio quale condizione processuale di accesso al giudizio.

Negli ultimi anni il tema in questione ha conosciuto una vera e propria esplosione che si è tradotta nella pubblicazione di numerosi articoli e monografie anche in parallelo con i principi enunciati dalla giurisprudenza con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione del 2007 (Cass. civ., Sez. Un. 15 novembre 2007, n. 23726) e con l'entrata in vigore della l. n. 69 del 18 giugno 2009, che ha introdotto un nuovo comma all'art. 96 c.p.c. secondo cui «in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento a favore di controparte di una somma equitativamente determinata».

La formulazione alquanto generica e imprecisa contenuta in tale norma ha dato luogo ad un vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza sulla natura giuridica di questo istituto. Come spesso accade nel nostro Paese, due sono gli orientamenti che si sono schierati in campo.

Da una parte una dottrina minoritaria – seppur qualificata – che, anche alla luce della collocazione sistematica dell'istituto in parola, ne ha valorizzato la sua natura risarcitoria (Busnelli; Scarselli Porreca; Bianca).

Questa tesi dottrinaria, che riconduce tale istituto nell'ambito della responsabilità aquiliana, individua il requisito dell'ingiustizia del danno nella connotazione soggettiva dell'iniziativa giudiziaria, ovvero nell'aver agito o resistito con dolo o colpa grave, non potendosi altrimenti considerare ingiusto il danno che sia conseguente all'esercizio di un diritto fondamentale costituzionalmente garantito.

Secondo una diversa tesi, che ha avuto l'avallo della maggioranza della dottrina (LUCCHINI; GUASTALLA; DALLA MASSARA; CARRATTA; MORANO CINQUE) e della giurisprudenza di legittimità (ex pluribus, Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902 ), la norma ha natura sanzionatoria.

In particolare, la Corte di cassazione ha riconosciuto che lo scopo precipuo di questa condanna pecuniaria è quello di scoraggiare l'abuso del processo a tutela dell'interesse pubblicistico al corretto funzionamento del sistema giustizia, indipendentemente dal verificarsi di un danno della controparte.

In pratica, secondo la Cassazione l'art. 96, comma 3 c.p.c. ha «introdotto una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte (richiesta, invece, nelle originarie fattispecie, per giurisprudenza costante), sia dalla prova di un danno riconducibile alla condotta processuale dell'avversario» (così, Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902 cit.; v. inoltre, Cass. civ., sez. VI, 11 febbraio 2014, n. 3003).

Ci troviamo di fronte, dunque, secondo la Cassazione, ad un intervento normativo che non è finalizzato a tutelare il diritto del danneggiato, ma che vuole salvaguardare l'interesse pubblico al giusto processo, divenendo così uno strumento sanzionatorio a disposizione del giudice per colpire quelle condotte che si concretano in un abuso o in un uso distorto dell'iniziativa giudiziaria o della resistenza a detta iniziativa.

Anche le prime pronunce dei giudici di merito successive alla novella legislativa hanno confermato la natura sanzionatoria/punitiva della norma.

Tra le diverse sentenze, una particolarmente rilevante e incisiva è quella del Tribunale di Varese secondo cui, «mediante l'art. 96, comma 3, c.p.c., introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, trova ingresso nell'ordinamento una fattispecie a carattere sanzionatorio, che prende le distanze dalla struttura tipica dell'illecito civile per confluire nelle c.d. condanne punitive» (Trib. Varese, 30 ottobre 2009, n. 1094 )

Il cerchio del dibattito sulla natura giuridica dell'art. 96, comma 3, c.p.c. dovrebbe essersi definitivamente chiuso con la sentenza della Corte Costituzionale del 2016 (Corte Cost., 23 giugno 2016, n. 152 ).

Il Tribunale di Firenze, nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ove, per la manifesta infondatezza e lo scopo meramente dilatorio dell'opposizione, ricorrevano i presupposti per la condanna dell'opponente al pagamento dell'ulteriore somma prevista dal comma 3 dell'art. 96 c.p.c. aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale di tale norma per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. Il contrasto si evidenziava laddove la norma dispone la condanna di tale somma al danneggiato anziché all'erario.

Secondo il Tribunale, atteso che detta condanna ha natura sanzionatoria/punitiva a tutela dell'interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione civile, sarebbe ragionevole che della stessa si avvantaggi lo Stato anziché la controparte.

La Consulta ha rigettato con una motivazione secca e precisa l'eccezione di incostituzionalità della norma, precisando che l'art. 96, comma 3 c.p.c. ha una funzione prevalentemente sanzionatoria che si discosta dalla struttura tipica dell'illecito civile propria della responsabilità aggravata di cui ai primi due commi del medesimo articolo.

Tuttavia, si afferma in sentenza, considerare esclusivamente la funzione sanzionatoria/punitiva dell'art. 96, comma 3 c.p.c. sarebbe riduttivo perché riflette una visione parziale dell'istituto che ha anche – se pur minoritaria – ha altresì una concorrente funzione indennitaria nei confronti della parte vittoriosa.

La Consulta rileva che la norma va letta in combinato disposto con il comma 1 del medesimo articolo: quando la parte vittoriosa non sia riuscita a provare il danno da illecito coinvolgimento del processo, ai sensi del comma 1, entra in campo il comma 3 che completa l'analisi funzionale dell'intero articolo.

Un articolo che, come è stato rilevato in dottrina (Brenda) ha due anime, alla luce della richiamata pronuncia della Corte Costituzionale: una compensativa e l'altra sanzionatoria, ma è assai arduo distinguere con precisione dove finisca l'una e cominci l'altra.

Criteri di liquidazione proposti dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano

Chiarita la natura della disposizione di cui all'art. 96, comma 3 c.p.c. , si volge ora lo sguardo alla prassi operativa soffermandosi sui criteri di liquidazione proposti dall'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano.

Prima di procedere al loro esame, occorre fare una doverosa premessa.

Anche l'elaborazione di tali criteri, al pari degli altri maturati in seno all'Osservatorio, è frutto di una riflessione che trae origine dall'analisi della giurisprudenza, nella specie in tema di responsabilità aggravata.

La Corte di cassazione ha rilevato come detta norma, stabilendo che il soccombente possa essere condannato a pagare alla controparte una “somma equitativamente determinata”, non fissi alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo, diversamente dal comma 4 dell'art. 385 c.p.c. (abrogato dalla l. 18 giugno 2009 n. 69, che stabiliva, per il giudizio di cassazione, il limite massimo del doppio dei massimi tariffari), con la conseguenza che la determinazione giudiziale deve solo osservare il criterio equitativo, potendo essere calibrata anche sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo (oppure su una loro frazione), con il solo limite della ragionevolezza (Cass. civ., sez. VI, 30 novembre 2012, n. 21570).

La violazione di tale limite è stato ravvisato dai giudici di legittimità (Cass. civ., sez. VI, 17 ottobre 2017, n. 24410) in un caso di liquidazione di un importo superiore a cinque volte l'entità delle spese processuali a carico dei soccombenti in solido, discostandosi ampiamente dal limite del doppio dei massimi tariffari desumibile dal citato art. 385, comma 4 c.p.c., utilizzato come parametro nelle prassi condivise dei giudici di merito (Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 2014, n. 22465).

Sulla possibilità di individuare equitativamente l'ammontare della sanzione in una somma corrispondente a quella da liquidarsi a titolo di compensi a favore della controparte si sono espresse anche le Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 18 settembre 2017, n. 21544).

Viene poi in considerazione l'attesa pronuncia con cui le Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un.,5 luglio 2017, n. 16601) hanno affermato che, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, essendo interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria.

La Consulta poi, con la ricordata decisione del 2016, ha ritenuto legittima la condanna per “lite temeraria” in favore della controparte, escludendone in particolare l'incostituzionalità, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che detta condanna debba essere pronunciata in favore della controparte e non dell'erario (Corte Cost., 23 giugno 2016, n. 152 cit.).

La locuzione “in ogni caso”, presente nell'incipit dell'art. 96, comma 3, c.p.c., porta a escludere ogni vincolo di interdipendenza tra la statuizione ivi prevista e un'eventuale pronuncia su una domanda risarcitoria proposta per responsabilità aggravata di cui ai commi 1 e 2, potendo la condanna intervenire d'ufficio, dunque su iniziativa del giudice, in aggiunta alla condanna al risarcimento dei danni emessa in accoglimento di un'istanza di parte, oppure in via esclusiva, a prescindere da una specifica richiesta formulata dalle parti, senza che siano necessarie la deduzione e la dimostrazione di un danno subito in conseguenza del contegno processuale della controparte (è così superata la difficoltà posta alla parte istante dai primi due commi ovvero quella di allegare e, secondo il più rigoroso orientamento giurisprudenziale, provare l'effettivo pregiudizio riportato dalla lite temeraria).

Tanto debitamente premesso, i principi giurisprudenziali sopra esposti sono stati tenuti in considerazione nell'elaborazione della proposta formulata dall'apposito Gruppo di lavoro costituitosi all'interno dell'Osservatorio del Tribunale di Milano.

È stata compiuta una certosina analisi dei parametri di liquidazione generalmente adottati dalla giurisprudenza in caso di condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3 c.p.c., allo scopo di enucleare possibili criteri orientativi.

Il risultato della disamina di 90 provvedimenti tra sentenze e ordinanze, emesse nell'ultimo quinquennio per lo più nel distretto milanese, è stato che a prevalere, nella giurisprudenza di merito e di legittimità, è il paramento dei “compensi liquidati”, rispetto ad altri parametri che hanno un utilizzo molto più sporadico (tali l'indennizzo da riconoscersi per anno ex l. n. 89 del 2001, c.d. legge Pinto, l'aliquota del decisum, l'imposta di registro, le spese per testi e/o ricerca dei documenti).

Da questa analisi e dalle conseguenti valutazioni scaturisce la proposta dell'Osservatorio milanese, che fa dunque riferimento al parametro del compenso defensionale liquidato in causa per individuare la “sanzione” di carattere pubblicistico cui all'art. 96, comma 3 c.p.c. , nell'ambito di un range compreso tra la metà della somma liquidata a titolo di spese di lite fino ad una volta e mezza la somma riconosciuta a tale titolo (l'importo, in altri termini, è all'incirca pari al compenso defensionale, riducibile sino alla metà ed aumentabile della metà), in ragione delle circostanze specifiche dell'abuso.

Sovviene, per meglio comprendere tale parametro, l'esempio riportato nella nota esplicativa dell'Osservatorio di Milano: allorché la condotta di una delle parti meriti la sanzione prevista dall'art. 96, comma 3 c.p.c., il giudice potrà ritenere equo liquidare utilizzando il criterio in esame – una somma compresa tra Euro 2.500,00 ed Euro 7.300,00, se il compenso defensionale è pari ad Euro 4.850,00.

Per commisurare la somma oggetto della condanna di chi ha abusato degli strumenti processuali, vien fatto, in giurisprudenza, riferimento ai seguenti indici di graduazione: valore della controversia, qualità delle parti, oggetto e natura della controversia (valorizzando, ad esempio, i casi in cui il giudizio abbia coinvolto interessi di carattere personale, otre che meramente economico), numero delle parti vittoriose (abusate da lite temeraria), durata del procedimento, condotta assunta nel corso del processo dal soccombente e, segnatamente, intensità dell'elemento soggettivo dell'abusante, affaticamento derivato alla parte abusata dal processo temerario, gravità della condotta di abuso del processo e l'incidenza sulla sua durata e sul diritto alla ragionevole durata del processo (tra le tante, Trib. Macerata, 1 giugno 2018, n. 669; Trib. Camerino, 9 gennaio 2012; Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010; Trib. Rovigo, 7 dicembre 2010; Trib. Bari, sez. I, 10 maggio 2010, n. 1600; v. inoltre, nota esplicativa dell'Osservatorio di Milano).

In conclusione

L'applicazione della condanna di cui all'art. 96, comma 3 c.p.c. scoraggia l'abuso del processo, ovvero iniziative o resistenze giudiziali che non hanno ragion d'essere e, al contempo, tutela il principio sancito dall'art. 111 Cost., atteso che una lite che scaturisca da un'iniziativa o da una resistenza coltivata con mala fede o colpa grave dà luogo a un processo la cui durata è di per sé irragionevole (cfr. Trib. Macerata, 1 giugno 2018, n. 669 cit.).

È chiara dunque la vocazione, oltre che indennitaria e sanzionatoria, deflattiva della norma, rivolta anche alla riduzione del contenzioso giudiziale.

Stante le rilevate funzioni, nell'ottica di garantire l'uniformità e la prevedibilità delle decisioni, l'auspicio è che a fronte di iniziative o resistenze processuali temerarie – che lungi dal rappresentare esercizio del diritto fondamentale di difesa garantito dall'art. 24 Cost. si sostanziano, piuttosto, in attività ostruzionistiche, dilatorie o poste in essere con sviamento delle prerogative difensive (così, tra le più recenti, Trib. Macerata, 1 giugno 2018, n. 669 cit.) – al pari dei criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico-fisica e dalla perdita-grave lesione del rapporto parentale (cfr. Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011, n. 12408), anche questo criterio elaborato dall'Osservatorio sulla Giustizia civile istituito presso il Tribunale di Milano trovi applicazione da parte dei giudici sull'intero territorio nazionale.

Va da sé, come più volte evidenziato dalla Suprema Corte, che la condanna ai sensi della art. 96, comma 3 c.p.c. richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente (ex pluribus, Cass. civ., sez. II, 21 novembre 2017, n. 27623).

È ravvisabile una condotta concretante abuso degli strumenti processuali (che l'ordinamento offre alla parte nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale, Cass. civ., Sez. Un., 15 novembre 2007 n. 23726 ; conforme, tra le più recenti, Cass. civ., sez. VI, 27 luglio 2018, n. 19898) allorché si agisca o resista in giudizio con la coscienza dell'infondatezza della propria domanda (mala fede) o con carenza dell'ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta coscienza (colpa grave), elemento soggettivo quest'ultimo desumibile dall'inconsistenza delle motivazioni addotte dalla parte che insistite, colpevolmente, in tesi giuridiche manifestamente infondate (cfr. Cass. civ., sez. VI, 18 novembre 2014, n. 24546).

Benché recenti arresti abbiano affermato che la condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c. non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, ma piuttosto di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, «quale l'aver agito o resistito pretestuosamente e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione» (Cass. civ., sez. VI, 10 settembre 2018, n. 21943; Cass. civ., sez. II, 21 novembre 2017, n. 27623), sussiste un orientamento anteriore di segno contrario, conforme ad un ampio filone giurisprudenziale sviluppato dalla Suprema Corte (tra le ultime, Cass. civ., sez. III, 30 marzo 2018, n. 7901; Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2016, n. 7726).

Tra gli indici di graduazione della liquidazione vengono particolarmente in rilievo l'impegno difensivo dell'abusato, la qualità delle parti, la gravità del condotta dell'abusante (cfr. Trib. Milano, sez. XI, 21 febbraio 2018, n. 1906) e, in special modo, della sua difesa, condotta che rischia tra l'altro di compromettere la stessa immagine professionale dell'avvocato.

A tal proposito, autorevole dottrina (Bona) osserva come, dalle prime applicazioni giurisprudenziali della sanzione ex art. 96, comma 3, c.p.c. emerga in realtà una questione preliminare rispetto a quella della determinazione dei criteri di liquidazione, potendosi evincere come la condotta punita sia invero più quella tenuta dal difensore della parte soccombente che la condotta di quest'ultima, ciò che non dovrebbe essere ai sensi della disposizione codicistica la quale prevede espressamente (al comma 1) quale elemento soggettivo la mala fede o la colpa grave della parte sostanziale che ha perso la causa.

Ritiene l'Autore che «la commisurazione, in via pressoché automatica, della sanzione in oggetto ai parametri professionali potrebbe indurre a reiterare questo errore di prospettiva», con l'auspicio che «l'eventuale futuro consolidamento di standard liquidativi quali quelli proposti dall'Osservatorio milanese non conduca ad obliterare la questione relativa all'oggetto della sanzione in esame».

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