I difficili rapporti tra provvedimenti ablatori del giudice penale e dichiarazione di fallimento

Ciro Santoriello
29 Ottobre 2018

Il tema dei rapporti fra responsabilità da reato degli enti collettivi e le procedure concorsuali è venuto più volte all'attenzione della Corte di legittimità. È evidente infatti che frequentemente il patrimonio di una società può essere oggetto di...
Massima

Allorquando nel procedimento penale si procede a sequestro o confisca di beni di pertinenza di una società di fallita – sia la dichiarazione di fallimento antecedente al provvedimento di vincolo o successiva alla stesso – l'unico soggetto legittimato ad agire per la restituzione dei beni è il curatore fallimentare.

Il caso

Nella fase delle indagini era disposto il sequestro preventivo delle disponibilità finanziarie intestate a un soggetto e alla società da lui amministrata, in relazioni all'illecito fiscale dell'indebita compensazione, ex art. 10-quater d.lgs. 74/2000. Il sequestro preventivo medesimo era eseguito anche sugli immobili della società amministrata dall'indagato in quanto le somme di denaro di cui disponeva costui quanto la medesima persona giuridica non erano sufficienti a raggiungere l'importo della contestata evasione.

Dopo l'esecuzione del sequestro, tuttavia, la società interessata dal provvedimento cautelare falliva ed il curatore fallimentare nominato dal competente giudice fallimentare richiedeva il dissequestro dei beni ma vedeva la sua istanza respinta dal giudice per le indagini preliminari perché inammissibile per carenza di interesse e successivamente rigettata in sede di riesame per presunta insussistenza della legittimazione all'impugnazione.

Ricorrendo innanzi alla Cassazione, la difesa della curatela fallimentare affermava che l'interesse al venir meno della cautela reale, sufficiente a richiedere la revoca del sequestro, deve essere riconosciuto in capo al curatore il quale ha, quale risvolto processuale del c.d. spossessamento di cui all'art. 42 l. fall., la legittimazione attiva e passiva in tutte le controversie aventi ad oggetto rapporti di diritto patrimoniale del fallito, tra le quali rientrano anche quelle che hanno ad oggetto la liberazione dei beni del fallito da eventuali vincoli reali. Inoltre, si contestava – per quanto riguarda il merito della vicenda – che il sequestro di cui si chiedeva la revoca era stato eseguito illegittimamente sui beni della società il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nell'ambito di reati tributari, determinano comunque il fallimento della società genera la perdita della libera disponibilità dei beni da parte della società e degli stessi amministratori sicché non potrebbe essere eseguito il sequestro preventivo in base all'art. 321 c.p.p. e art. 12-bis del d.lgs. 74/2000.

La questione

Il tema dei rapporti fra responsabilità da reato degli enti collettivi e le procedure concorsuali è venuto più volte all'attenzione della Corte di legittimità. È evidente infatti che frequentemente il patrimonio di una società può essere oggetto di provvedimenti di sequestro o confisca adottati dal giudice penale nel corso del relativo giudizio; al contempo, però, è tutt'altro che l'ente colpito da tali provvedimenti venga nel frattempo – o sia stato in precedenza dichiarato fallito: in tali casi il vincolo giuridico andrà a incidere (non più su disponibilità economiche della società, quanto) su beni di pertinenza della massa attiva della procedura concorsuale, alla quale – proprio in ragione di quei provvedimenti giurisdizionali – sarà precluso il raggiungimento degli obiettivi e delle finalità che gli sono propri ed in particolare la liquidazione al miglior prezzo del patrimonio sociale ed il soddisfacimento dei creditori. Da qui il problema di riconoscere al giudice penale che ritenga di dover confiscare o sottoporre a sequestro preventivo beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, la possibilità di limitare il suo esame circa la sussistenza dei requisiti per l'adozione del provvedimento ablatore al solo profilo della confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o se lo stesso non debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa – e segnatamente dei creditori in buona fede - e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato.

Il dibattito in questione origina da una sentenza della Cassazione, la pronuncia a Sezioni unite del 24 maggio 2004 n. 29951, ricorrente Focarelli (Se ne vedano i commenti di MASSARI, Note minime in materiali sequestro probatorio sui beni del fallito, in Giur. It., 2005, 1507; IACOVIELLO, Fallimento e sequestri penali, in Fall., 2005, 1265), che affermarono che, pur in mancanza di una previsione legislativa, non poteva comunque sostenersi la radicale insensibilità del sequestro alla procedura concorsuale, affidando al potere discrezionale del giudice la conciliazione dei contrapposti interessi, ovvero di quelli propri della tutela penale (impedire che i proventi di illecito potessero giovare all'indagato) e di quelli tipici della procedura concorsuale (tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare). Secondo le Sezioni unite, quindi, il sequestro penale di beni di pertinenza di una massa fallimentare sarebbe senz'altro possibile ma in tali casi il giudice penale deve dare motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca – e quindi all'adozione del previo sequestro cautelare – rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori e ciò in quanto gli interessi perseguiti dalla procedura concorsuale hanno anch'essi una natura pubblicistica – come desumibile dal ruolo del curatore fallimentare, quale emerge dalle fonti del suo potere, dalle finalità istituzionalmente collegate al suo agire e dai controlli che presidiano la sua attività gestoria, e che non deve essere considerato come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito o dei creditori, ma piuttosto come organo che svolge una funzione pubblica nell'ambito della amministrazione della giustizia, incardinato nell'ufficio fallimentare a fianco del tribunale e del giudice delegato.

Nella stessa pronuncia, tuttavia, la Cassazione distingueva fra le diverse ipotesi di sequestro e confisca, escludendo che in ipotesi di confisca obbligatoria il giudice potesse evitare di adottare il provvedimento ablatorio, in considerazione degli interessi della curatela fallimentare, giacché in tali casi le finalità del fallimento non sono in grado di assorbire la funzione assolta dal sequestro dovendosi sempre riconoscere assoluta prevalenza all'esigenza preventiva «di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente pericoloso in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato; [sicché] le ragioni di tutela dei terzi creditori sono destinate ad essere pretermesse rispetto alla prevalente esigenza di tutela della collettività». Conclusioni diverse, per l'appunto, sarebbe formulabili in caso di confisca facoltativa, la quale non si giustifica sulla pericolosità della cosa in sé ma in ragione della relazione che la lega al soggetto che ha commesso il reato: in tali circostanze infatti la funzione del sequestro preventivo o della confisca, che è quella di evitare che il reo resti in possesso delle cose che sono servite a commettere il reato o che ne sono il prodotto o il profitto, potrebbe ben essere realizzata mediante lo spossessamento dei beni in capo al fallito determinato dalla procedura concorsuale assorba, contemperandola con la garanzia dei creditori sul patrimonio dell'imprenditore fallito.

La predetta sentenza delle Sezioni unite, tuttavia, lasciava non chiarito un profilo essenziale. La Corte Suprema, come abbiamo detto, aveva sostenuto che un possibile contemperamento fra gli interessi della procedura fallimentare e l'istanza punitiva fosse possibile solo in caso di confisca facoltativa dei beni, mentre la confisca obbligatoria non consentiva alcun margine discrezionale al giudice penale, il quale, proprio in virtù della doverosità della stessa, doveva adottare il relativo provvedimento ablatorio senza considerare in nulla la posizione della curatela concorsuale. Quest'ultima conclusione era stata motivata – sia pure frettolosamente – asserendo che la confisca obbligatoria è diretta verso res pericolose, rispetto alle quali non ha senso riconoscere ad alcuno un diritto alla libera disponibilità delle stesse – si pensi, ad esempio, al sequestro di farmaci scaduti e pericolosi per la salute in capo a una società farmaceutica dichiarata fallita –, sicché in tal caso non vi sarebbe nessuno spazio per il curatore – o per i creditori dell'imprenditore – di reclamare il possesso dei beni sotto sequestro, i quali, in quanto pericolosi, non possono per l'appunto essere nella disponibilità di alcun soggetto.

Tali conclusioni, però, non paiono poter operare nelle diverse ipotesi di confisca obbligatoria contemplate nel nostro ordinamento che non hanno per oggetto cose intrinsecamente pericolose, ovvero gli oggetti di cui al n. 2 del comma secondo dell'art. 240 c.p. Il silenzio della Corte di legittimità sul punto ha fatto sì che ci si domandasse se l'affermazione secondo cui il giudice penale non deve considerare in alcun modo gli interessi del fallimento fosse un principio da tenere fermo in ogni caso in cui fosse prevista la confisca obbligatoria dei beni o solo quando tale obbligatorietà fosse determinata dalla natura, intrinsecamente pericolosa, del bene che ne forma oggetto (Per una ricostruzione del dibattito, COMPAGNA, Obbligatorietà della confisca di valore e profili di discrezionalità nell'eventuale sequestro: il necessario contemperamento degli interessi costituzionali in gioco e l'ipotesi di fallimento, in Cass. Pen., 2009, 3034).

In proposito, l'indirizzo prevalente riteneva che ciò che il giudice deve considerare è essenzialmente la natura del bene, dovendosi quindi, quando lo stesso non è pericoloso, provvedere ad un contemperamento degli interessi della procedura e di quelli connessi all'apposizione del vincolo ed avendo il giudice penale il compito, nel compiere tale valutazione, di acquisire la ragionevole certezza che attraverso la procedura concorsuale i cespiti non rientreranno nella diretta o indiretta disponibilità del condannato (Cass. pen., Sez. III, 2 febbraio 2007, n. 20132, Sorrentino; Cass. pen., Sez. I, 1 marzo 2013, n. 20216, Arconte; Cass. pen., Sez. VI, 17 ottobre 2013, n. 49821 Lu.Fra. Trasporti S.R.L.; Cass. pen., Sez. V, 8 luglio 2008,n. 33408, Fazzalari). A tale prevalente indirizzo se ne contrapponeva un altro, che, nel disciplinare i rapporti tra sequestro e confisca e fallimento dava, invece, rilievo alla natura della confisca, sostenendo che la res confiscabile è per presunzione assoluta pericolosa perché frutto di attività illecita, cosicché, trattandosi di confisca obbligatoria, se ne deve affermare la insensibilità al fallimento (Cass. pen., Sez. VI, 4 marzo 2008, Bruno, in Mass. Uff., n. 241013; Cass. pen., Sez. I, 7 aprile 2010, n. 16783, Profilo; Cass. pen., Sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 19051, Fallimento Soc. Tecno Hospital S.R.L.).

Il contrasto è stato risolto con la decisione n. 11170 del 25 settembre 2014 (depositata il 15 marzo 2015) delle Sezioni unite, secondo dall'eventuale natura obbligatoria della confisca – e del previo sequestro – da adottare a carico di una società non può derivare la conclusione che essa possa essere adottata dal giudice senza alcuna considerazione per gli interessi di terzi ed in particolare della procedura fallimentare, giacché il giudice, nell'adozione del provvedimento ablatorio, deve far salvi, ovvero deve considerare la rilevanza e la sussistenza, i diritti acquisiti dai terzi in buona fede: come si legge nella sentenza n. 11170 del 2015, «la logica evidente del legislatore è che gli enti resisi responsabili di illeciti amministrativi derivanti da reato debbano essere perseguiti e puniti con la confisca degli illeciti proventi al fine di ristabilire il turbato equilibrio economico, ma che ciò non possa e non debba avvenire in pregiudizio di terzi che siano titolari di diritti acquisiti in buona fede sui beni oggetto di sequestro e confisca» (la sentenza era in tema di applicazione della confisca a carico delle società ai sensi del d.lgs. 231/2001).

Compete dunque al giudice penale, nell'adozione dei suddetti provvedimenti di confisca e sequestro, onde far salvi i diritti reali acquisiti da terzi in buona fede sui beni originariamente rientranti nel patrimonio della persona giuridica, contemperare i diversi interessi – quelli connessi alla procedura punitiva e quelli facenti capo ai terzi estranei e tale risultato andrà perseguito valutando se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede e in caso di esito positivo di tale verifica il bene, la cui titolarità sia vantata da un terzo, non potrà essere sottoposto né a sequestro né a confisca.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ha definito la questione portata alla sua attenzione prescindendo dal dibattito in tema di rapporti fra provvedimenti ablatori del giudice penale e dichiarazione di fallimento, in quanto nel caso di specie il sequestro preventivo per equivalente sui beni immobili della società poi dichiarata fallita era stato eseguito senza alcun titolo genetico.

I giudici di legittimità infatti evidenziano come nel caso di specie l'esecuzione del decreto di sequestro da parte del pubblico ministero fosse avvenuta in maniera assolutamente difforme rispetto al relativo provvedimento cautelare emesso dal giudice per le indagini preliminari, il quale aveva disposto il sequestro preventivo delle sole disponibilità finanziarie intestate alla persona fisica indagata e alla società favorita dall'evasione tributaria nonché, ove necessario, in caso di insufficienza e/o inesistenza delle suddette disponibilità economiche, delle partecipazioni societarie, dei beni immobili e mobili registrati di proprietà del solo indagato, non autorizzando di conseguenza – conformemente agli insegnamenti di Cass. pen., Sez. un., 30 gennaio 2014, Gubert, secondo cui, in caso di illeciti fiscali, non è consentito nei confronti dell'ente collettivo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, salvo che la persona giuridica costituisca uno schermo fittizio, poiché́ i reati tributari non sono ricompresi, nella lista del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, tra quelli che consentono il sequestro per equivalente nei confronti di una persona giuridica – l'adozione del sequestro per equivalente nei confronti della società; di contro, in sede di esecuzione del provvedimento cautelare la Procura della Repubblica faceva eseguire il sequestro preventivo per equivalente sui beni immobili della società.

In presenza di tale situazione, la invalidità del titolo genetico di apposizione del vincolo è indiscussa la legittimazione del curatore a richiedere la restituzione dei beni giacché gli stessi sono stati illegittimamente sottratti alla massa fallimentare e vi sarebbero entrati ove non fosse stato illegittimamente eseguito il sequestro. In tale ipotesi, è indiscussa il diritto del curatore del fallimento alla restituzione dei beni, giacché è a tale soggetto che per effetto degli artt. 31, 42 e 88 della legge fallimentare compete l'amministrazione e la disponibilità dei beni del fallito, sia quelli esistenti alla data di dichiarazione di fallimento che quelli che pervengono al fallito durante il fallimento.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione, al di là delle particolarità del caso di specie – in cui vi era stato un evidente esecuzione del provvedimento di sequestro in maniera difforme da quanto stabilità dal giudice delle indagini preliminari nel relativo decreto –, fissa il chiaro principio secondo cui allorquando nel procedimento penale si procede a sequestro o confisca di beni di pertinenza di una società di fallita – sia la dichiarazione di fallimento antecedente al provvedimento di vincolo o successiva alla stesso –, unico soggetto legittimato ad agire per la restituzione dei beni è il curatore fallimentare e ciò in ragione del fatto che, a seguito della dichiarazione di fallimento, il fallito perde la disponibilità dei beni rientranti il suo patrimonio, la cui amministrazione gestione passa per l'appunto il curatore il quale perciò è l'unico soggetto legittimato ad interloquire con l'autorità giudiziaria per chiedere la restituzione del patrimonio sottoposto a vincolo.

Peraltro la circostanza che l'apertura della procedura concorsuale determina un mutamento nell'individuazione del soggetto che ha la disponibilità del patrimonio del fallito - nel senso che, in caso di dichiarazione di fallimento della società, l'amministrazione nella gestione del relativo patrimonio passa dall'originario legale rappresentante al curatore fallimentare - ha indotto recentemente la Cassazione a sostenere che nei confronti della società fallita non possono essere adottati provvedimenti di cui al citato art. 12-bis e ciò in quanto “la peculiare natura dell'attivo fallimentare è di ostacolo all'applicabilità dell'art. 12-bis che individua quale limite all'operatività della confisca l'appartenenza dei beni che costituiscono il profitto il prezzo del reato a terzi estranei al reato, ovvero l'indisponibilità dei medesimi in capo reo e dunque alla persona giuridica rappresentata dall'autore del reato” e ciò in quanto occorre “considerare la disponibilità dei beni appresi dalla procedura fallimentare antecedentemente al sequestro come assorbente, trattandosi di un soggetto terzo, rispetto all'elemento della titolarità formale del diritto di proprietà in capo all'indagato/condannato, astrattamente rilevante nel campo penale, in quanto contestualmente privato del potere di fatto sui medesimi beni” (Cass. pen., Sez. III, 10 ottobre 2018, n. 45574). In sostanza, secondo i giudici di legittimità, una volta intervenuto il fallimento, i beni non possono essere più ritenuti nella disponibilità del contribuente infedele, ma sono di pertinenza della procedura concorsuale, la quale va considerata quale terzo estraneo rispetto al reato e quindi non può essere penalizzata da provvedimenti latu sensu sanzionatori che devono andare di incidere solo sulla persona del responsabile dell'illecito fiscale.

Quanto alla posizione dei creditori del fallito, che si sono insinuati nella procedura concorsuale e che non possono richiedere la revoca del sequestro al giudice penale, posto che, come detto, la relativa legittimazione spetta in via esclusiva al curatore fallimentare, vedono i loro interessi tutelati secondo le modalità indicate dalle Sezioni unite con la citata sentenza n. 11170 del 2015. Secondo la Suprema Corte, quanti si insinuano nel fallimento vantando un diritto di credito nei confronti dell'impresa decotta non possono essere ritenuti per tale solo fatto titolari di un diritto reale sul bene, perché sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare: il curatore individua i beni che debbono formare la massa attiva del fallimento e soltanto alla fine della procedura si potrà procedere alla assegnazione dei beni ai creditori ed è soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate.

Se la procedura di assegnazione termina prima che venga definita la sorte del processo nei confronti dell'ente collettivo, allora sarà il giudice penale competente per la definizione di tale giudizio che, al momento di procedere a confisca di beni – o quando interpellato in ordine al mantenimento del sequestro preventivo -, dovrà verificare se sui beni medesimi terzi in buona fede vantino – come riconosciuti in sede di chiusura del fallimento e di approvazione del piano di riparto - diritti reali che ne impongano loro la restituzione dei beni medesimi. Se invece il fallimento si chiude dopo la definizione del giudizio penale, i terzi in buona fede che in sede di procedura concorsuale abbiano viste riconosciute come fondate le proprie pretese potranno agire in sede di esecuzione e sarà il giudice dell'esecuzione ad operare quel contemperamento fra le diverse esigenze ed interessi – dello Stato e dei privati creditori – cui si è fatto cenno in precedenza.

La Cassazione, peraltro, con la sentenza n. 11170 del 2015 ha precisato che l'incidente di esecuzione – o comunque l'istanza di restituzione dei beni in caso di pendenza di un sequestro preventivo – non può essere formulata dal curatore fallimentare. Posto, infatti, che il creditore che non abbia ancora ottenuto l'assegnazione del bene a conclusione della procedura concorsuale non può essere considerato "terzo titolare di un diritto acquisito in buona fede" perché prima di tale momento il creditore vanta una semplice pretesa, ma non certo la titolarità di un diritto reale su un bene, allo stesso modo il curatore fallimentare, che è certamente terzo rispetto al procedimento di sequestro o confisca dei beni già appartenuti alla fallita società, non può agire in rappresentanza dei creditori, né d'altro canto è egli stesso titolare di un qualche sui beni, avendo esclusivamente compiti gestionali e mirati al soddisfacimento dei creditori.

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