Immobile aggiudicato all’asta e non trasferito: risarcimento del danno, in re ipsa, del proprietario usurpato

30 Ottobre 2018

È corretto ritenere che il danno sia “in re ipsa” e che, in quanto tale, non vada provato, ricollegandosi cioè in via diretta alla sussistenza del fatto contra ius puro e semplice, ovvero è pur sempre necessaria la dimostrazione che il danno sia invece specificamente allegato e provato? In assenza di altri riferimenti, quale criterio può essere adottato dal giudice per la liquidazione del danno?
Massima

In caso di occupazione senza titolo di un cespite altrui, il danno per il proprietario usurpato è “in re ipsa”, ricollegandosi al semplice fatto della perdita della disponibilità del bene da parte del dominus ed all'impossibilità per costui di conseguire l'utilità normalmente ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso. La determinazione del risarcimento del danno può essere, in tali ipotesi, operata dal giudice facendo riferimento al cosiddetto danno “figurativo” e, quindi, al valore locativo del cespite usurpato.

Il caso

La società E. evoca in giudizio avanti il Tribunale di Pesaro una locale Fondazione chiedendo in forza dell'art. 2932 c.c. la condanna della medesima alla stipulazione del contratto, per essersi aggiudicata all'asta una casa colonica, con annesso terreno che, tuttavia - a motivo della mancanza della presupposta autorizzazione amministrativa - non poteva essere trasferita in favore dell'avente diritto. Il primo giudice accoglie la domanda principale, previo versamento del saldo del prezzo, nonché la domanda risarcitoria pure formulata dalla società, liquidando un importo di € 100.000. La decisione, appellata, viene tuttavia parzialmente riformata in seconde cure. La Corte d'appello di Ancona, accogliendo in parte il gravame principale, mette infatti nel nulla il risarcimento riconosciuto dal Tribunale ritenendolo privo di prova. La società impugna la decisione avanti la Corte di legittimità, deducendo con unico motivo violazione e falsa applicazione dell'art. 1223 c.c. per avere la corte territoriale annullato la statuizione del giudice pesarese in punto di risarcimento del danno, versandosi nella specie in un'ipotesi di danno “in re ipsa”, coincidente cioè con la stessa lesione dell'interesse protetto.

La questione

Il tema sottoposto allo scrutinio della Suprema Corte è caratterizzato da un particolare rilievo pratico ed è spesso approdato al vaglio di legittimità, dando vita ad una copiosa quanto discordante produzione interpretativa. Il campionario casistico è davvero multiforme. Si pensi a tutte le ulteriori situazioni in cui un cespite immobiliare sia detenuto da un soggetto privo di un titolo giustificativo ovvero in possesso di un titolo la cui efficacia sia venuta meno. Tra le fattispecie di maggiore ricorrenza, le ipotesi di occupazione sine titulo, i casi di permanenza del conduttore nell'immobile locato oltre il termine negozialmente stabilito, ma anche il diffuso fenomeno delle locazioni “in nero”. Attesa la pacifica antigiuridicità di queste condotte e considerata quindi la loro potenziale attitudine dannosa, le ulteriori e più complesse questioni che si pongono all'interprete si incentrano - in particolare - sull'allegazione e quindi sulla prova del pregiudizio effettivamente sopportato dal proprietario usurpato e, dunque, sulla misura del conseguente risarcimento. In casi consimili è pertanto corretto ritenere che il danno sia “in re ipsa” e che, in quanto tale, il medesimo non vada provato, ricollegandosi cioè in via diretta alla sussistenza del fatto contra ius puro e semplice, vale a dire alla (ingiusta o non titolata) perdita della disponibilità del bene immobile da parte del suo legittimo proprietario? Ovvero è pur sempre necessaria, secondo i principi generali, la dimostrazione che il danno sia invece specificamente allegato e provato?

La prima e più liberale opzione potrebbe introdurre nel sistema un'automatica e rigida presunzione a favore del dominus, esonerandolo dalla dimostrazione del danno-conseguenza e financo dalla sua allegazione. Nel secondo caso, invece, la difficoltà di dimostrare in modo rigoroso l'esistenza di un pregiudizio graverebbe il titolare del diritto reale di un carico probatorio talora troppo severo, indebolendo l'effettività della tutela risarcitoria della proprietà.

La seconda questione, conseguente al superamento della prima, attiene invece alla misura del quantum risarcitorio. In assenza di altri riferimenti, quale criterio può essere adottato dal giudice per la liquidazione del danno?

Le soluzioni giuridiche

I Supremi giudici, pur operando alcuni distinguo, accolgono la censura svolta dalla società ricorrente, dando dunque espressa continuità alla piuttosto controversa, ma ancora persistente, tesi del danno “in re ipsa”. Con la pronuncia gravata la corte marchigiana non avrebbe difatti tenuto conto del pregiudizio, pure lamentato quale voce di lucro cessante, derivante dalla sola indisponibilità del bene. Circostanza questa sola che, prima e dopo i celebri arresti di San Martino del 2008 , secondo i principi elaborati da una parte della giurisprudenza di legittimità in riferimento alle varie ipotesi di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, varrebbe a determinare in capo al proprietario usurpato un danno - appunto - in “in re ipsa”. Un danno ricollegato cioè al semplice fatto della perdita della disponibilità del bene ed all'impossibilità per il dominus di conseguire l'utilità normalmente ricavabile dal bene medesimo in relazione all'attitudine naturalmente fruttifera del bene stesso. All'ordinario regime probatorio dovrebbero invece soggiacere, secondo il decisum, altre voci di mancato guadagno meramente ipotetico, dipendenti invece da condizioni probabilisticamente più incerte e, siccome tali, da dimostrarsi rigorosamente in concreto, quali ad esempio la sussistenza di una volontà edificatoria o di sfruttamento edilizio del bene.

Quanto poi alla concreta determinazione del danno in re ipsa, questa, secondo i giudici di piazza Cavour, può essere operata facendo riferimento al cosiddetto “danno figurativo”, parametrato dunque al valore locativo del bene usurpato e cioè ad un termine economico dell'utilità del bene resistente ad un rigoroso vaglio probabilistico. Tale ultima soluzione liquidativa non è inedita nella giurisprudenza di legittimità ed ha trovato concreto seguito anche presso i giudici di merito, a partire da una spesso citata decisione del Tribunale di Brindisi (Trib. Brindisi, sez. Ostuni, sent. 19 dicembre 2011).

La pronuncia della Cassazione qui in commento è solo una delle ultime emersioni della dibattuta figura del danno “in re ipsa” che, variamente declinata, è sopravvissuta anche a seguito dell'epocale svolta nomofilattica segnata dalle celebri decisioni gemelle del novembre 2008. Tale opzione è tutt'altro che condivisa. Solo qualche mese prima dalla pubblicazione del dictum agostano, la terza Sezione della Corte di legittimità (Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2018, n. 13071) argomentava infatti sullo stesso tema in modo diametralmente opposto. Mediante un ricco e complesso iter motivazionale, la sentenza, pur tributando al danno “in re ipsa” una certa capacità attrattiva (con particolare riguardo al momento della liquidazione equitativa del danno), lo collocava comunque dogmaticamente al di fuori dalla stretta ortodossia del sistema risarcitorio venutosi a consolidare dopo le già citate Sezioni Unite del 2008 e organizzato sull'asse di una netta scissione ontologica tra la lesione del diritto e il danno. Non solo. Escludere la necessità dell'accertamento effettivo del danno fondendolo direttamente con la lesione del diritto, secondo la formula sostanzialmente propugnata dai fautori del “danno in re ipsa”, snaturerebbe sempre secondo la stessa pronuncia - anche e soprattutto - la funzione “tradizionale” compensativo/ripristinatoria della responsabilità civile, spingendosi in definitiva nell'ancora incerto terreno del danno punitivo, a tutt'oggi ristretto nei limiti della riserva di legge. Per dare coerenza al sistema e non negare comunque ristoro a situazioni in cui il danno è comunque particolarmente evidente basterà in definitiva, secondo la lettura della Terza Sezione, un opportuno governo delle presunzioni. Ciò tuttavia senza esonerare la parte attrice - quanto meno - dall'onere di allegare i fatti in cui consisterebbe il danno, così garantendo al tempo stesso uno spazio adeguato al diritto di difesa della controparte.

Osservazioni

Come abbiamo visto, sembra dunque ancora protrarsi il profondo contrasto dogmatico interno alla Suprema Corte, tra i custodi dell'ordine del sistema risarcitorio e i fautori di “corsie preferenziali” anche per determinate categorie di danni patrimoniali, quali appunto quelli originati dalla lesione del diritto dominicale. La tematica, pur rivelandosi di grande complessità teorica e involgendo questioni di fondo circa le finalità stesse del meccanismo risarcitorio, non sembra però determinare sul piano pratico incolmabili differenze di disciplina, relegando la questione - in una prospettiva squisitamente operativo-processuale - alla dimensione della prospettazione della domanda, con particolare riguardo agli oneri di allegazione del danneggiato. A fronte di un franca violazione del diritto, l'oggettiva difficoltà di provare il pregiudizio può così essere agevolmente ovviata, senza scardinare il sistema, attraverso un'adeguata articolazione della domanda e un equilibrato uso delle presunzioni da parte del giudice, assicurando così una giusta riparazione del danno e sfuggendo al tempo stesso all'insidia di trasformare surrettiziamente il risarcimento in una pena privata non contemplata dalla legge.

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