Codice di Procedura Civile art. 796 - [Giudice competente] 1 .

Mauro Di Marzio

[Giudice competente]1.

 

[1] Articolo abrogato, a far data dal 31 dicembre 1996, dall'art. 73 l. 31 maggio 1995, n. 218, come sostituito, da ultimo, dall'art. 10 d.l. 23 ottobre 1996, n. 542, conv., con modif., nella l. 23 dicembre 1996, n. 649. Il testo recitava: «[I]. Chi vuol far valere nella Repubblica una sentenza straniera deve proporre domanda mediante citazione davanti alla Corte d'appello del luogo in cui la sentenza deve avere attuazione. [II]. La dichiarazione di efficacia può essere chiesta in via diplomatica, quando ciò è consentito dalle convenzioni internazionali oppure dalla reciprocità. In questo caso, se la parte interessata non ha costituito un procuratore, il presidente della Corte d'appello, su richiesta del pubblico ministero, nomina un curatore speciale per proporre la domanda. [III]. L'intervento del pubblico ministero è sempre necessario». V. ora artt. 64 s. l. n. 218, cit.

Inquadramento

Gli abrogati artt. 796 ss. disciplinavano il procedimento attraverso il quale le sentenze ed altri provvedimenti giurisdizionali stranieri acquistavano efficacia nell'ordinamento interno. Nel complesso, il sistema adottato si riassumeva in ciò: che le pronunce dei giudici stranieri potevano essere efficacemente invocate davanti agli organi od uffici del nostro Stato solo in quanto tale efficacia fosse loro accordata o riconosciuta, caso per caso, a seguito di un sommario giudizio di controllo, al quale si soleva dare in pratica il nome, per la verità ignoto al codice di rito, di delibazione (Redenti, Diritto processuale civile, III, Milano, 1957, 430).

Tale sistema è stato definitivamente superato anzitutto dalla legge di riforma del diritto internazionale privato (l. 31 maggio 1995, n. 218) ed in seguito, con riguardo ai rapporti interni all'UE, dalla disciplina europea. Per l'effetto, è oggi affermato il principio dell'automatico riconoscimento delle sentenze straniere in materia civile e commerciale. È stata dunque abbandonata la regola dell'irrilevanza delle sentenze straniere prima della loro delibazione, in applicazione del procedimento di cui agli abrogati artt. 796 ss., ed è stato recepito l'opposto principio del riconoscimento automatico dell'autorità di giudicato della sentenza straniera (Consolo, Evoluzioni nel riconoscimento delle sentenze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, 575), rimanendo ferma l'esigenza del riconoscimento, attraverso il procedimento di cui si dirà, ai fini dell'efficacia esecutiva in Italia.

L’efficacia delle sentenze straniere nella riforma del «diritto internazionale privato»

Non è dunque richiesto lo svolgimento di alcun procedimento giudiziale perché la sentenza straniera possa produrre effetti di giudicato nell'ordinamento interno, alle condizioni stabilite dall'art. 64 l. n. 218/1995 il quale, perché la sentenza straniera sia riconosciuta in Italia, senza che occorra alcun procedimento, richiede che: a) il giudice che l'ha pronunciata potesse conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell'ordinamento italiano; b) l'atto introduttivo del giudizio sia stato portato a conoscenza del convenuto in conformità a quanto previsto dalla legge del luogo dove si è svolto il processo e non siano stati violati i diritti essenziali della difesa; c) le parti si siano costituite in giudizio secondo la legge del luogo dove si è svolto il processo o la contumacia sia stata dichiarata in conformità a tale legge; d) essa sia passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata; e) essa non sia contraria ad altra sentenza pronunziata da un giudice italiano passata in giudicato; f) non penda un processo davanti a un giudice italiano per il medesimo oggetto e fra le stesse parti, che abbia avuto inizio prima del processo straniero; g) le sue disposizioni non producano effetti contrari all'ordine pubblico.

Posto che analogo meccanismo opera non soltanto per le sentenze, ma anche per i provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone nonché all'esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità quando essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della l. n. 218/1995 o producono effetti nell'ordinamento di quello Stato, anche se pronunciati da autorità di altro Stato, purché non siano contrari all'ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa (art. 65 l. n. 218/1995), nonché per i provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione (art. 66 l. n. 218/1995), l'intervento del giudice è circoscritto, ai sensi del successivo art. 67 l. n. 218/1995, ai casi di: a) mancata ottemperanza o contestazione del riconoscimento della sentenza straniera o del provvedimento straniero di volontaria giurisdizione; b) necessità di procedere ad esecuzione forzata. In simili ipotesi l'interessato può chiedere all'autorità giudiziaria ordinaria l'accertamento dei requisiti del riconoscimento, avvalendosi del procedimento a tal fine disciplinato dall'art. 30 d.lgs. n. 150/2011 (c.d. semplificazione dei riti). All'esito del riconoscimento la sentenza straniera o il provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, unitamente al detto provvedimento, costituiscono titolo per l'attuazione e per l'esecuzione forzata. Inoltre, se la contestazione ha luogo nel corso di un processo, il giudice adito pronuncia con efficacia limitata al giudizio.

Quanto alla volontaria giurisdizione, già in relazione all'art. 801 c.p.c.  è stato affermato che per la delibazione di tali provvedimenti — il cui contenuto va approvato dal giudice di merito in base agli elementi che lo contraddistinguono indipendentemente dal nomen iuris che ad essi è stato attribuito — l'applicazione delle predette norme va adattata alla particolare materia dei provvedimenti stessi nei limiti, nei termini e secondo le modalità con essi compatibili. Così, il requisito della definitività, che l'art. 797 poneva tra le condizioni per la dichiarazione d'efficacia della sentenza straniera, non poteva essere trasferito nel campo dei provvedimenti di volontaria giurisdizione che, per la loro natura, non sono suscettibili di passare in giudicato, e per i quali, pertanto, tale requisito andava inteso nel senso che, perché un provvedimento straniero possa essere delibato, esso deve avere acquistato efficacia ai sensi dell'art. 741 (e cioè non deve essere stato reclamato nei termini previsti) e stabilità nell'ordinamento straniero, indipendentemente dalla sua eventuale provvisorietà. La delibazione rimane, invece, esclusa ove il provvedimento abbia avuto dall'origine carattere temporaneo, essendo stato adottato unicamente per far fronte ad esigenze di carattere contingente, restando salva in ogni caso, la necessità di riscontrare la sussistenza delle ulteriori condizioni previste dell'art. 797, in quanto compatibili con la natura del provvedimento di cui si tratta (Cass. n. 11422/1998). In tale prospettiva è stato detto che non rientra nei provvedimenti di volontaria giurisdizione la pronuncia di divorzio emessa da un organo amministrativo della Repubblica russa così che, priva del carattere della giurisdizionalità, non può trovare riconoscimento ed efficacia in Italia (App. Firenze 19 aprile 1999, in Foro it. 2000, I, 622).

L'art. 68 l. n. 218/1995 non circoscrive l'attribuzione dell'efficacia esecutiva agli atti pubblici di natura negoziale, estendendo l'ambito di applicazione anche gli atti ricognitivi e dichiarativi, quali le promesse di pagamento, le rinunce all'azione, il riconoscimento della fondatezza della domanda e gli atti di conciliazione ricevuti da giudici, cancellieri o autorità amministrative.

Normative convenzionali e regolamentari

La stessa linea tendente alla semplificazione e all'automaticità del riconoscimento dell'efficacia delle decisioni straniere emerge da una pluralità di fonti convenzionali e regolamentari in ambito UE.

Occorre muovere dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 e successive modifiche, richiamando altresì i diversi regolamenti concernenti la cooperazione giudiziaria in materia civile in forza della competenza spettante prima alla CE ed oggi alla UE, quale esplicazione dell'art. 81 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ratificato dalla l. 2 agosto 2008, n. 130, alla stregua del quale l'Unione sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali. Tale cooperazione può includere l'adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Per il conseguimento di detti fini il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano, in particolare se necessario al buon funzionamento del mercato interno, misure volte a garantire: a) il riconoscimento reciproco tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali e la loro esecuzione; b) la notificazione e la comunicazione transnazionali degli atti giudiziari ed extragiudiziali; c) la compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di giurisdizione; d) la cooperazione nell'assunzione dei mezzi di prova; e) un accesso effettivo alla giustizia; f) l'eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili, se necessario promuovendo la compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri; g) lo sviluppo di metodi alternativi per la risoluzione delle controversie; h) un sostegno alla formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari.

Su tale base è stato adottato il Reg. CE n. 44/2001 («Bruxelles I») poi sostituito dal Reg. UE n. 1215/2012 («Bruxelles II»), entrato in vigore il 10 gennaio 2015. La menzionata normativa si pone in continuità con la ricordata Convenzione di Bruxelles, tuttora in vigore in determinati ambiti territoriali (v. il considerando n. 9 del Reg. n. 1215/2012). Il più recente regolamento (applicabile in tutti gli Stati membri, ivi compresa la Danimarca pur con talune peculiarità) si applica in via generale alla circolazione di sentenze e provvedimenti stranieri in materia civile e commerciale, fatta eccezione per taluni ambiti menzionati all'art. 1. In proposito, inoltre, sono stati adottati appositi strumenti: il Reg. CE n. 1346/2000 per l'insolvenza, il Reg. CE n. 2201/2003 in materia familiare, il Reg. CE n. 4/2009 per gli alimenti, il regolamento UE n. 650/2012 per le successioni. In ciascuno di essi si rinviene il medesimo principio del riconoscimento automatico — con il rispetto delle disposizioni di volta in volta previste — delle decisioni straniere.

In particolare, il Reg. n. 1215/2012, ponendosi in un'ottica di vivo rafforzamento del congegno del riconoscimento automativo, nella linea già tracciata da precedenti provvedimenti settoriali, si caratterizza per l'attribuzione di diretta efficacia esecutiva alla sentenza straniera di uno Stato membro, essa ne sia già dotata nell'ordinamento di provenienza. Stabilisce l'art. 39 che la decisione emessa in uno Stato membro che è ivi esecutiva lo è negli altri Stati membri senza che sia richiesta una dichiarazione di esecutività. Soggiunge il successivo art. 40 che una decisione esecutiva implica di diritto l'autorizzazione a procedere a provvedimenti cautelari previsti dalla legge dello Stato membro richiesto. Secondo l'art. 41, fatte salve talune disposizioni, il procedimento d'esecuzione delle decisioni emesse in un altro Stato membro è disciplinato dalla legge dello Stato membro richiesto. Inoltre le decisioni emesse in uno Stato membro che sono esecutive nello Stato membro richiesto sono eseguite alle stesse condizioni delle decisioni emesse nello Stato membro richiesto.

La parte che chiede l'esecuzione di una decisione emessa in un altro Stato membro non è obbligata ad avere un recapito postale nello Stato membro richiesto, né è tenuta ad avere un rappresentante autorizzato nello Stato membro richiesto, a meno che tale rappresentante sia obbligatorio a prescindere dalla cittadinanza o dal domicilio delle parti. Ai fini dell'esecuzione in uno Stato membro di una decisione emessa in un altro Stato membro, il richiedente, ai sensi dell'art. 42, fornisce alla competente autorità incaricata dell'esecuzione: a) una copia della decisione che soddisfi le condizioni necessarie per stabilirne l'autenticità; b) l'attestato rilasciato ai sensi dell'art. 53, che certifica l'esecutività della decisione, e contenente anche un estratto della decisione nonché, se del caso, le informazioni pertinenti sulle spese processuali ripetibili e sul calcolo degli interessi. Quando si chiede l'esecuzione di una decisione emessa in un altro Stato membro, l'attestato rilasciato ai sensi dell'art. 53 è notificato o comunicato alla persona contro cui è chiesta l'esecuzione prima dell'inizio della stessa. L'attestato è corredato della decisione qualora questa non sia già stata notificata o comunicata a detta persona.

Requisiti

La sentenza oggetto di riconoscimento deve essere idonea ad acquistare autorità di giudicato sostanziale, giacché oggetto del riconoscimento è proprio il contenuto sostanziale di accertamento della pronuncia straniera. In generale, poi, in sede di delibazione di sentenza straniera, il giudice deve valutare gli effetti della decisione nel nostro ordinamento e non la correttezza della soluzione adottata alla luce dell'ordinamento straniero o della legge italiana, non essendo consentita un'indagine sul merito del rapporto giuridico dedotto. Ne consegue che nel caso di sentenza straniera (nella specie emessa dalla Corte Circondariale della contea di Cook, Illinois, USA) relativa alla definizione delle questioni economiche patrimoniali del divorzio, la valutazione della sua non contrarietà all'ordine pubblico riguarda solo la compatibilità dei suoi effetti con i principi di uguaglianza, parità e non discriminazione tra coniugi o con riferimento ai principi che costituiscono il nucleo essenziale ed inviolabile del diritto di proprietà, alla luce del contenuto costituzionale e di derivazione CEDU del diritto stesso (Cass. n. 9483/2013).

Il riconoscimento degli effetti civili ad una sentenza arbitrale straniera, richiede comunque la preliminare verifica della sussistenza dei presupposti processuali e delle condizioni dell'azione previsti dal nostro ordinamento e, pertanto, anche della legittimazione processuale delle parti; in conseguenza, non è possibile estendere la legittimazione a parti diverse da quelle nei cui confronti la decisione straniera è stata pronunciata, qualora siano ancora esistenti (Cass. n. 5895/2018).

Il giudizio di separazione personale e quello di divorzio presentano differenti causa petendi e petitum nonché ulteriori diversità riscontrabili in ordine agli effetti del giudizio. Alla luce di ciò, al fine di valutare la sussistenza di un contrasto di giudicati ostativo al riconoscimento di una sentenza di divorzio straniera, non può effettuarsi alcuna comparazione rispetto ad una sentenza di separazione emessa in Italia (Cass. n. 21741/2016).

La disciplina del riconoscimento delle sentenze straniere in Italia, così come desumibile dalla l. 31 maggio 1995, n. 218, non ha delineato un trattamento esclusivo e differenziato delle controversie sui rapporti di famiglia mediante l'art. 65, ma ha descritto, con l'art. 64, un meccanismo di riconoscimento di ordine generale (riservato in sé alle sole sentenze), valido per tutti tipi di controversie, ivi comprese perciò quelle in tema di rapporti di famiglia. Rispetto ad un tale generale modello operativo, la legge ha affidato, poi, all'art. 65 la predisposizione di un meccanismo complementare più agile di riconoscimento (allargato alla più generale categoria dei «provvedimenti») riservato all'esclusivo ambito delle materie della capacità delle persone, dei rapporti di famiglia o dei diritti della personalità, il quale, nel richiedere il concorso dei soli presupposti della «non contrarietà all'ordine pubblico» e dell'avvenuto «rispetto dei diritti essenziali della difesa», esige tuttavia il requisito aggiuntivo per cui i «provvedimenti» in questione siano stati assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto (Cass. n. 17463/2013).

Ai fini della individuazione della normativa concretamente applicabile onde ottenere la declaratoria di esecutività, in Italia, di una sentenza resa da un giudice di uno Stato comunitario, occorre fare riferimento alla relativa disciplina vigente non al momento della instaurazione, nello Stato membro, del giudizio in cui essa è stata emessa, bensì a quello in cui in cui è stato intrapreso il corrispondente procedimento di riconoscimento di tale pronuncia nello Stato richiestone, precisandosi, altresì, che nel rapporto fra le disposizioni di cui alla l. 31 maggio 1995 n. 218, ed al Regolamento CE 22 maggio 2000 n. 44/1, va data prevalenza, nella indicata fattispecie, a quest'ultimo in quanto fonte normativa gerarchicamente sovraordinata, oltre che successiva nel tempo (Cass. n. 20382/2012, che, respingendo la proposta impugnazione, ha ritenuto applicabile, ratione temporis, in applicazione del riportato principio, la normativa di cui al menzionato Regolamento CE n. 44/2001 ad una richiesta di declaratoria di esecutività, in Italia, di una sentenza resa da un Giudice tedesco nel novembre 1998, all'esito di un giudizio ivi intrapreso nel gennaio 1989).

Nell'ipotesi di lodo arbitrale estero reso fra più parti, la competenza territoriale per il procedimento di riconoscimento dei lodi stranieri prevista dall'art. 839 va individuata in ragione della residenza o della sede di ciascuna parte contro cui la domanda viene proposta o nella Corte d'appello di Roma, allorché tale parte non abbia residenza o domicilio nella Repubblica Italiana, dovendo escludersi la possibilità di deroghe alla competenza territoriale in base all'art. 33 (App. Milano 12 novembre 2012, in Riv. arbitrato 2013, 423).

Il rispetto dell'ordine pubblico

In generale, il diniego di esecutività della sentenza straniera in materia civile e commerciale ha assunto, con il Regolamento CE n.44/2001 del 22 dicembre 2001, carattere di straordinarietà ed è limitato alla ipotesi di violazione dei soli principi fondamentali dell'ordinamento dello Stato richiesto; pertanto, la parte che si oppone alla dichiarazione di esecutività deve addurre una contrarietà all'ordine pubblico interno derivante dall'applicazione di una norma o di una giurisprudenza consolidata dello Stato straniero e non dalla valutazione di merito della fattispecie decisa (Cass. n. 5487/2012).

Il limite dell'ordine pubblico è presente sia nella legge di riforma del diritto internazionale privato, sia nel diritto dell'UE, che, tuttavia, prevede l'applicazione del criterio solo in presenza di una violazione manifesta, escludendone il rilievo per i provvedimenti che costituiscono titolo esecutivo europeo. È stato ad esempio stabilito che l'art. 27, punto 1), della Convenzione 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come modificata dalla Convenzione 9 ottobre 1978, relativa all'adesione del Regno di Danimarca, dell'Irlanda e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, e dalla Convenzione 25 ottobre 1982, relativa all'adesione della Repubblica ellenica, dev'essere interpretato nel senso che non può considerarsi contraria all'ordine pubblico una decisione resa da un giudice di uno Stato contraente che riconosca l'esistenza di un diritto di privativa intellettuale su parti di carrozzeria di autoveicoli e che conferisca al titolare di tale diritto una protezione che gli consenta di vietare a terzi, ossia ad operatori economici stabiliti in un altro Stato contraente, la fabbricazione, la vendita, il transito, l'importazione o l'esportazione in tale Stato contraente delle dette parti di carrozzeria (Corte giustizia UE 11 maggio 2000, C-38/98).

Ai fini del riconoscimento, l'ordine pubblico non si identifica cioè con le semplici norme imperative, bensì con i principi fondamentali che caratterizzano l'ordinamento giuridico. La nozione di ordine pubblico da adottare ai fini dell'applicazione della l. n. 218/1995, non può non risentire dell'evoluzione al riguardo maturata in ambito giurisprudenziale e dottrinale, nel senso che, all'abbandono della tradizionale verifica in merito alla corrispondenza della decisione straniera al quadro desumibile dalle norme imperative interne, si è nel tempo affermata l'esigenza di valutare queste ultime nell'ambito del sistema assiologico posto in primo luogo dalla Costituzione e, più in generale, anche dal complesso delle fonti di diritto internazionale, con particolare riferimento ai principi consolidatisi nell'ambito dell'Unione Europea (Cass. n. 17349/2002, in cui si riafferma l'esigenza di desumere «i principi fondamentali e caratterizzanti l'atteggiamento etico giuridico dell'ordinamento di un determinato periodo storico» sulla base dell'ordine pubblico internazionale). Tale concezione, come già affermato dalla S.C. (Cass. n. 14662/2000; Cass. n. 22332/2004), si fonda sull'attuale, maggiore partecipazione dei singoli Stati alla vita della comunità delle genti, la quale sempre meglio è capace di esprimere principi generalmente condivisi e così di sottrarre la nozione di ordine pubblico internazionale sia all'eccessiva indeterminazione sia al legame con ordinamenti singoli, consentendo di rinvenirne i parametri di conformità in principi corrispondenti ad esigenze comuni ai diversi ordinamenti statali. In un caso di mutuo contratto per poter giocare presso un casinò, ivi pienamente legale, la S.C. ha esaminato la pronuncia di merito secondo cui il debito in questione derivava da gioco di azzardo, vietato dall'ordinamento italiano, che, agli artt. 718 e 720 c.p., punisce tanto l'esercizio quanto la partecipazione al gioco d'azzardo ed espressamente non ammette azione per il pagamento di debiti di gioco, solo escludendo la ripetibilità di quanto spontaneamente pagato in adempimento di un debito di gioco: sicché — secondo il giudice di merito autore della pronuncia sottoposta al giudizio della S.C. — apparterrebbe al complesso delle regole inderogabili del nostro ordinamento la previsione del gioco d'azzardo come reato, della quale la disposizione dell'art. 1933 c.c., costituisce il necessario corollario, attesa l'incompatibilità fra la prevista illiceità e la possibilità di agire per ottenere il pagamento del debito derivante dal reato. Ha viceversa stabilito la S.C. che la corte d'appello aveva operato una vera e propria traslazione dalla normativa penale alla disciplina codicistica, ravvisando in quest'ultima una sorta di dipendenza dalla prima, della quale sarebbe un necessario corollario. Tale assunto è stato giudicato non condivisibile: basta porre mente alla formulazione dell'art. 1933 c.c., con particolare riferimento all'esclusione dell'azione per il pagamento di un debito di gioco e di scommessa «anche se si tratta di gioco o di scommessa non proibiti», per rendersi conto del diverso ambito di operatività della disposizione in esame rispetto alle norme che prevedono come reato la partecipazione al gioco d'azzardo. Lo stesso meccanismo della soluti retentio, per altro, rinviando alla figura dell'obbligazione naturale, relativa a «quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali», evidentemente in forza di una ritenuta giusta e tipica (art. 2034 c.c., comma 2) causa di trasferimento, non consente di sostenere con tranquillante certezza che la denegatio actionis prevista dall'art. 1933 c.c., comma 1, sia espressione di un principio di ordine pubblico e non costituisca, piuttosto, una scelta, sia pure di compromesso, del legislatore fondata sulla c.d. «neutralità del gioco», nonché sulla risalente concezione del debito di gioco come dovere morale e sociale. In definitiva, non produce effetti contrari all'ordine pubblico e, quindi, può essere riconosciuta in Italia, ai sensi degli artt. 64 e 67 l. n. 218/1995, la sentenza straniera (nella specie, emessa dalla Corte Suprema delle Bahamas) recante condanna per un debito attinente al gioco d'azzardo legalmente esercitato (nella specie, debito contratto presso la direzione del Casinò delle Bahamas per l'acquisto delle fiches), atteso che, in ambito nazionale e in ambito comunitario, non esiste un disfavore dell'ordinamento giuridico nei confronti del gioco d'azzardo in quanto tale, ove esso non sfugga al controllo degli organismi statuali e non si esponga, pertanto, alle infiltrazioni criminali (Cass. n. 16511/2012; Cass. n. 1163/2013; Cass. n. 12364/2016).

La S.C. ha affermato che il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l'ordine pubblico dell'atto straniero, deve verificare non se sia in contrasto con le norme imperative interne, ma se contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, ricavabili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché dalla CEDU (Cass. n. 19599/2016): non deve quindi farsi riferimento esclusivamente all'ordinamento giuridico nazionale, ma all'ordine pubblico internazionale che consiste nel complesso dei principi cardine dell'ordinamento giuridico (Cass. n. 7613/2015).

È stata recentemente rimessa al primo presidente della Corte di cassazione, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione di massima di particolare importanza attinente: a) la legittimazione del Sindaco, quale ufficiale di stato civile, e del Ministro dell'interno ad essere parti del procedimento ex art. 67 l. n. 218/1995, per conseguire l'accertamento del riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giudiziario straniero; b) la legittimazione del pubblico ministero, almeno quando si verta in tema di ordine pubblico, a ricorrere in Cassazione avverso il relativo provvedimento (nella specie, la statuizione impugnata aveva riconosciuto l'efficacia in Italia, escludendone il contrasto con l'ordine pubblico, quale delineato da Cass. n. 19599/2016, del provvedimento giudiziario straniero che aveva disposto la rettifica dell'atto di nascita di due bambini, nati da una pratica di maternità surrogata, i quali avevano acquisito così lo status di figli di due uomini, quello già indicato come padre e quello di cui il provvedimento aveva accertato la genitorialità); c) la sussistenza, al riguardo, della giurisdizione ordinaria; d) in ogni caso la conformità della richiamata statuizione con l'ordine pubblico, anche atteso che la nozione di questo, fatta propria da Cass. 19599/2016, non appare in linea con quella espressa da Cass. S.U., n. 16601/2017.

Viene in quest'ultima pronuncia rammentato che, secondo quanto già affermato dalla S.C. (Cass. n. 11021/2013) che il concetto di ordine pubblico processuale è riferibile ai principi inviolabili posti a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, non anche alle modalità con cui tali diritti sono regolamentati o si esplicano nelle singole fattispecie, e ciò in ragione delle statuizioni della Corte di giustizia le cui pronunce costituiscono l'interpretazione autentica del diritto dell'Unione europea e sono vincolanti per il giudice a quo. Ne consegue che anche il diritto di difesa — tenuto conto degli orientamenti della Corte di giustizia (v. Corte giustizia UE 2 aprile 2009, causa C-394/2007, Gambazzi) — non costituisce una prerogativa assoluta ma può soggiacere, entro certi limiti, a restrizioni. Si è aggiunto che il giudice deve verificare se siano stati soddisfatti i principi fondamentali dell'ordinamento, anche relativi al procedimento formativo della decisione, con la precisazione che non è ravvisabile una violazione del diritto di difesa in ogni inosservanza di una disposizione della legge processuale straniera a tutela della partecipazione della parte al giudizio, ma soltanto quando essa, per la sua rilevante incidenza, abbia determinato una lesione del diritto di difesa rispetto all'intero processo, ponendosi in contrasto con l'ordine pubblico processuale riferibile ai principi inviolabili a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, e non quando, invece, investa le sole modalità con cui tali diritti sono regolamentati o si esplicano nelle singole fattispecie. Invero, secondo quanto si evince dalla giurisprudenza comunitaria il diritto di difesa può subire una moderata limitazione nel caso in cui il provvedimento sia stato emesso nei confronti di un soggetto che abbia avuto comunque la possibilità di partecipare attivamente al processo, quantomeno nella fase precedente a quella conclusasi con l'emissione del provvedimento (Cass. n. 17519/2015). Anche le sentenze di Stati estranei all'Unione europea sono soggette, come comprovato dalle pronunce citate e dalle molte altre che hanno progressivamente raffinato la nozione di ordine pubblico, all'assetto che questo istituto ha acquisito per effetto delle Carte fondamentali del diritto dell'Unione. Si può dire che, almeno a partire da Corte EDU 13 febbraio 2001, Krombach c. Francia, si è avviato un fenomeno definito in dottrina di comunitarizzazione/europeizzazione del diritto internazionale privato e processuale. In forza di questo fenomeno si è detto che l'ordine pubblico da strumento di tutela dei valori nazionali, da opporre alla circolazione della giurisprudenza, diviene progressivamente «veicolo di promozione» della ricerca di principi comuni agli Stati membri, in relazione ai diritti fondamentali. La tutela del diritto fondamentale ad un equo processo, più volte enunciata, non è stata intesa come prerogativa assoluta, cioè intransigente ricerca di qualsivoglia violazione in relazione alle movenze processuali di ogni singolo Stato, ma come mezzo per impedire, tramite l'esecuzione di sentenze, soltanto lesioni manifeste e smisurate del diritto delle parti al contraddittorio e alla difesa. Ciò comporta prioritariamente, sul piano processuale, la ricerca di fattori unificanti e non di impedimenti all'esecuzione. Pertanto le lesioni devono essere state tali da intaccare in concreto e in modo sproporzionato la sostanza stessa delle facoltà difensive.

In tema di riconoscimento di sentenze straniere, nel vigore della disciplina introdotta dagli artt. 64 e ss. l. n. 218/1995 (così come sotto la vigenza dell'abrogato art. 797), gli eventuali vizi e la stessa mancanza della motivazione della sentenza straniera non costituiscono cause ostative al riconoscimento invocato, posto che, quando il contraddittorio sia stato assicurato e la sentenza sia passata in giudicato (tanto da doversi presumere che i fatti e le questioni di diritto posti a fondamento della decisione siano non più discutibili), è da ritenere che l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali non rientri tra i principi inviolabili fissati nel nostro sistema normativo a garanzia del diritto di difesa, sancendo l'art. 111 Cost., che siffatto obbligo prevede, un assetto organizzativo della giurisdizione che attiene esclusivamente all'ordinamento interno (Cass. n. 597/2017). Viceversa nella giurisprudenza di merito è stato detto che una sentenza straniera non può essere riconosciuta nel nostro ordinamento quando è priva di motivazione infatti il giudice, prima di procedere all'accertamento dei requisiti necessari al riconoscimento previsti dall'art. 64 l. 218/1995 deve verificare l'esistenza dei presupposti processuali e delle condizioni dell'azione sancite dal nostro ordinamento e tra le condizioni oggetto di verifica prodromica al riconoscimento della sentenza straniera, deve includere la sua compatibilità con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano e quindi anche i canoni del giusto processo di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. (Trib. Piacenza 26 giugno 2013). Si è di recente precisato che, in tema di delibazione di sentenze straniere rese da autorità giudiziarie di Stati membri dell'Unione europea, la mancanza di un'espressa motivazione sul rigetto di un'istanza istruttoria non integra una ipotesi di violazione dell'ordine pubblico cd. processuale, il quale è ravvisabile solo in casi eccezionali, di violazione di principi fondamentali dello Stato richiesto, da escludersi nel caso di specie, atteso che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, l'implicita esclusione della rilevanza del mezzo dedotto può desumersi dalla stessa ratio decidendi che ha risolto il merito della lite (Cass. n. 1239/2017). Il concetto di ordine pubblico processuale, dunque, è riferibile ai principi inviolabili posti a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, non anche alle modalità con cui tali diritti sono regolamentati o si esplicano nelle singole fattispecie, e ciò in ragione delle statuizioni della Corte di Giustizia le cui pronunce (non solo il dispositivo ma anche i motivi portanti della decisione) costituiscono l'interpretazione autentica del diritto dell'Unione europea e sono vincolanti per il giudice a quo. Ne consegue che anche il diritto di difesa - tenuto conto degli orientamenti della Corte di Giustizia (sent. 2 aprile 1999, causa C-394/2007) - non costituisce una prerogativa assoluta ma può soggiacere, entro certi limiti, a restrizioni (Cass. n. 11021/2013, che ha confermato la validità della delibazione della Corte di appello di una decisione dell'High Court inglese che, pur se resa senza contraddittorio, era stata però preceduta da un procedimento nel corso del quale il ricorrente aveva avuto la possibilità di partecipare attivamente alle fasi antecedenti l'emissione del provvedimento e di vedere esaminate le proprie ragioni). È stato ancora ribadito che il giudice deve verificare se siano stati soddisfatti i principi fondamentali dell'ordinamento, anche relativi al procedimento formativo della decisione, con la precisazione che non è ravvisabile una violazione del diritto di difesa in ogni inosservanza di una disposizione della legge processuale straniera a tutela della partecipazione della parte al giudizio, ma soltanto quando essa, per la sua rilevante incidenza, abbia determinato una lesione del diritto di difesa rispetto all'intero processo, ponendosi in contrasto con l'ordine pubblico processuale riferibile ai principi inviolabili a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, e non ove investa le sole modalità con cui tali diritti sono regolamentati o si esplicano nelle singole fattispecie. Invero, secondo quanto si evince dalla giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia 2 aprile 2009, causa C-394/2007), il diritto di difesa può subire una moderata limitazione nel caso in cui il provvedimento sia stato emesso nei confronti di un soggetto che abbia avuto comunque la possibilità di partecipare attivamente al processo, quantomeno nella fase precedente a quella conclusasi con l'emissione del provvedimento (Cass. n. 17519/2015).

Tuttavia, si è anche affermato che, nel vigore della disciplina introdotta dagli artt. 64 e ss. l. n. 218/1995, sebbene la mancanza della motivazione della sentenza straniera non costituisca causa ostativa al riconoscimento stesso, tuttavia tale vizio diviene rilevante quando la motivazione stessa sia indispensabile ai fini del riconoscimento di una sentenza, per valutarne la compatibilità con l'ordine pubblico interno (Cass. n. 1781/2012, in un caso in cui la decisione impugnata aveva riconosciuto una sentenza statunitense, priva di motivazione, la quale aveva liquidato un'ingente somma a titolo di risarcimento del danno, senza precisare i criteri legali in concreto applicati per qualificare la responsabilità, né individuare le voci di pregiudizio risarcibile e la causa giustificatrice dell'attribuzione e senza ripartire le conseguenze riparatorie fra i più responsabili, onde evitare indebite duplicazioni e locupletazioni).

Ai fini del riconoscimento o meno dei provvedimenti giurisdizionali stranieri, deve aversi prioritario riguardo all'interesse superiore del minore (art. 3 l. 27 maggio 1991 n. 176 di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo, di New York 20 novembre 1989) ribadito in ambito comunitario con particolare riferimento al riconoscimento delle sentenze straniere in materia di rapporti tra genitori e figli, dall'art. 23 del Reg. CE n. 2201/2003 il quale stabilisce espressamente che la valutazione della non contrarietà all'ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto dell'interesse superiore del figlio. Nel caso di minore nato all'estero, da coppia omosessuale, in seguito alla fecondazione medicalmente assistita eterologa con l'impianto di gameti da una donna all'altra, l'atto di nascita del fanciullo può essere trascritto in Italia poiché, nel caso in questione, non si tratta di introdurre ex novo una situazione giuridica inesistente ma di garantire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da diverso tempo, nell'esclusivo interesse di un bambino che è stato cresciuto da due donne che la legge riconosce entrambe come madri. Assume rilievo determinante la circostanza che la famiglia esista non tanto sul piano dei partners ma con riferimento alla posizione, allo "status" e alla tutela del figlio. Nel valutare il best interest per il minore non devono essere legati fra loro, il piano del legame fra i genitori e quello fra genitore-figli: l'interesse del minore pone, "in primis", un vincolo al disconoscimento di un rapporto di fatto, nella specie validamente costituito fra la co-madre e un figlio (App. Torino 29 ottobre 2014).

Matrimonio e sentenze ecclesiastiche

La regola del diritto straniero secondo cui il divorzio può essere pronunciato senza la previa separazione personale dei coniugi, ed il decorso di un periodo di tempo adeguato a consentire loro di ritornare sulla decisione assunta, non costituisce ostacolo al riconoscimento in Italia della sentenza straniera per quanto concerne il rispetto dell'ordine pubblico, richiesto dall'art. 64, comma 1, lett. g), della l. n. 218/1995, essendo a tal fine necessario, ma anche sufficiente, che il divorzio segua all'accertamento dell'irreparabile venir meno della comunione di vita tra i coniugi (Cass. n. 12473/2018).

In mancanza di trattati bilaterali tra l'Italia e il Kenia, non può essere riconosciuta - ai sensi dell'art. 65 l. n. 218/1995 - una pronuncia di divorzio emessa in tale Stato tra due cittadini italiani qualora il giudice straniero abbia applicato la lex fori, nella specie, attribuendo rilievo alla pregressa separazione personale protrattasi per due anni e alla crudeltà del marito (App. Milano 27 marzo 1998, in Riv. dir. internaz. priv. e proc. 1999, 960).

È contrario all'ordine pubblico internazionale l'art. 1133 del codice civile iraniano, il quale, consentendo al marito di divorziare secondo il suo arbitrio senza che la moglie possa paralizzare la volontà di quest'ultimo, prevede un vero e proprio ripudio unilaterale (App. Milano 17 dicembre 1991, in Riv. dir. internaz. priv. e proc. 1993, 109). Non è invece contraria ai principi fondamentali dell'ordine pubblico la sentenza straniera di divorzio che non indichi compiutamente le condizioni di affidamento e di mantenimento inerenti alla prole minorenne degli ex coniugi, dal momento che nessun principio costituzionale impone che la definitiva regolamentazione dei diritti e dei doveri scaturenti da un determinato status sia dettato in un unico contesto, tant'è che nel nostro ordinamento è prevista la sentenza non definitiva di divorzio, che statuisce sullo status e rinvia per l'adozione dei provvedimenti conseguenti (Cass. n. 13556/2012).

Con riferimento alle sentenze di annullamento del matrimonio di altri Stati, il riconoscimento dell'efficacia è subordinata alla mancanza di incompatibilità con l'ordine pubblico interno, che è assoluta e relativa rispetto a tutti gli Stati, mentre è solo assoluta per le sentenza ecclesiastiche atteso che - in ragione del favore particolare al loro riconoscimento che lo Stato italiano si è imposto con Protocollo addizionale del 18/2/1984 modificativo del concordato - per queste la delibazione è possibile in caso di incompatibilità relativa, ravvisabile tutte le volte che la divergenza possa superarsi, sulla base di una valutazione di circostanze o fatti (anche irrilevanti per il diritto canonico), individuati dal giudice della delibazione, idonei a conformare la pronuncia ai valori o principi essenziali della coscienza sociale desunti dalle fonti normative costituzionali ed alla norma inderogabile, anche ordinaria, nella materia matrimoniale (Cass. S.U., n. 19809/2008).

La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario contratto da uno dei coniugi per metus reverentialis, postula che la corte d'appello verifichi la compatibilità della qualificazione canonistica della suddetta causa di nullità matrimoniale con l'ordine pubblico italiano, valutando in concreto che non si sia trattato di una mera reverentia dovuta a persona cui uno degli sposi era legato da particolare rapporto, ma unicamente di situazioni tali da integrare gli estremi della gravità, estrinsecità e decisività ai fini della formazione del consenso (Cass. n. 1749/2016). Parimenti, la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per incapacitas (psichica) assumendi onera coniugalia di uno dei coniugi non trova ostacolo nella diversità di disciplina dell'ordinamento canonico rispetto alle disposizioni del codice civile in tema di invalidità del matrimonio per errore (essenziale) su una qualità personale del consorte e, precisamente, sulla ritenuta inesistenza in quest'ultimo di malattie (fisiche o psichiche) impeditive della vita coniugale (art. 122, comma 3, n. 1, c.c.), poichè detta diversità non investe un principio essenziale dell'ordinamento italiano, qualificabile come limite di ordine pubblico (Cass. n. 19691/2014). Ed ancora, in tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della invalidità del matrimonio concordatario, deve negarsi l'esistenza, nell'ordinamento nazionale, di un principio di ordine pubblico secondo il quale il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato (Cass. n. 9044/2014, che ha ritenuto la legittimazione dell'attore, affetto da impotentia coeundi, osservando, altresì, che doveva escludersi secondo l'ordinaria diligenza la non conoscibilità del vizio da parte dell'altro coniuge). L'accertamento dell'esistenza di una causa di nullità del matrimonio concordatario, consistente nella mancanza di «discrezione di giudizio», cioè della effettiva capacità d'intendere il valore del matrimonio-sacramento, anche se non accompagnato da una compiuta verifica in ordine alla consapevolezza dell'altra parte circa l'accertamento del vizio del consenso, non è incompatibile con l'ordine pubblico interno, non essendovi un principio generale di tutela dell'affidamento, che contempli come elemento essenziale la riconoscibilità di tale vizio per l'altra parte (Cass. n. 8857/2012).

In tema di delibazione delle sentenze del tribunale ecclesiastico, inoltre, si è detto in un primo tempo chela convivenza dei coniugi (nella specie protrattasi per oltre trent'anni) successiva alla celebrazione del matrimonio non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l'istituto del matrimonio e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell'ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico (Cass. n. 8926/2012).

In senso diverso suona però il principio pretorio secondo cui la convivenza «come coniugi», quale elemento essenziale del «matrimonio-rapporto», ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di «ordine pubblico italiano», la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, già affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del «matrimonio-atto» (Cass. S.U. n. 16379/2014). La pronuncia, priva di base normativa, ha richiesto una successiva correzione di rotta, con la precisazione secondo cui, in tema di delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, la convivenza «come coniugi» costituisce un elemento essenziale del «matrimonio-rapporto» e, ove si protragga per almeno tre anni dalla celebrazione, integra una situazione giuridica di «ordine pubblico italiano» che, tuttavia, non impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità per vizi genetici del «matrimonio-atto», a loro volta presidiati da nullità nell'ordinamento italiano. In particolare, la convivenza ultratriennale non è ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica, che accerti la nullità del matrimonio per errore essenziale sulle qualità personali dell'altro coniuge dovuto a dolo di questi, poiché una tale nullità è prevista anche nell'ordinamento italiano e non è sanabile dalla protrazione della convivenza prima della scoperta del vizio (Cass. n. 17910/2022).

La declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all'altro coniuge, ovvero che sia stata da questo in effetti conosciuta, o che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, atteso che, qualora le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all'ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole. In quest'ambito, se, da un lato, il giudice italiano è tenuto ad accertare la conoscenza o l'oggettiva conoscibilità dell'esclusione anzidetta da parte dell'altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità, dall'altro, la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del processo medesimo eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria; inoltre, il convincimento espresso dal giudice di merito sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell'altro costituisce, se motivato secondo un logico e corretto iter argomentativo, statuizione insindacabile in sede di legittimità, sebbene la prova della mancanza di negligenza debba essere particolarmente rigorosa e basarsi su circostanze oggettive e univocamente interpretabili che attestino la inconsapevole accettazione dello stato soggettivo dell'altro coniuge (Cass. n. 3378/2012;  Cass. n. 18429/2022). Per converso, la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per l'apposizione di una condizione al vincolo matrimoniale (nella specie condicio de futuro relativa alla residenza familiare) viziante il relativo consenso negoziale di uno dei coniugi, trova ostacolo nel principio di ordine pubblico, costituito dalla ineludibile tutela dell'affidamento incolpevole dell'altro coniuge, allorché l'apposizione della condizione sia rimasta nella sfera psichica di uno dei nubendi, senza manifestarsi (né comunque essere conosciuta o conoscibile) all'altro coniuge. L'accertamento della conoscenza o conoscibilità, da parte di quest'ultimo, di detta condizione deve essere compiuto dal giudice della delibazione con piena autonomia rispetto al giudice ecclesiastico e con particolare rigore, giacché detto accertamento, pur tenendo conto del favore particolare al riconoscimento che lo Stato italiano si è imposto con il protocollo addizionale del 18 febbraio 1984 modificativo del Concordato, attiene al rispetto di un principio di ordine pubblico di speciale valenza e alla tutela di interessi della persona riguardanti la costituzione di un rapporto, quello matrimoniale, oggetto di rilievo e tutela costituzionali (Cass. n. 12738/2011).  Nella stessa linea interpretativa va collocata la decisione secondo la quale, in caso di apposizione al vincolo matrimoniale di una condizione pro futuro, ex art. 1102, par. 1, del codice canonico (nella specie consistente nella maggiore affettività post nuptias dell'altro coniuge), l'esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario postula che la condizione sia stata manifestata all'altro coniuge, ovvero sia stata da questi conosciuta o non colpevolmente ignorata; in mancanza, la delibazione è impedita dalla contrarietà all'ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell'affidamento del coniuge incolpevole (Cass. n. 15142/2023).  La sentenza emessa dal tribunale ecclesiastico, che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, previa ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio sui documenti prodotti dal solo coniuge istante con riguardo all'incapacità della controparte di assumere gli oneri del matrimonio, non contrasta con l'ordine pubblico italiano, allorché nessun diritto fondamentale di difesa sia stato violato, quando l'assenza del coniuge convenuto dal processo e dalle operazioni peritali sia derivata dalla libera scelta processuale del medesimo e non potendo in nessun caso tale scelta impedire all'altro coniuge di esercitare i suoi diritti e di produrre i documenti in suo possesso (Cass. n. 30242/2011).

Sul piano processuale, nel giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, ove la relativa domanda sia proposta da uno solo dei coniugi, non trova applicazione la disciplina dei procedimenti camerali, ma quella del giudizio ordinario di cognizione, ai sensi dell'art. 796, sicché la costituzione del convenuto dinanzi alla corte d'appello deve ritenersi disciplinata dall'art. 167, che impone a tale parte, a pena di decadenza, di proporre nella comparsa di risposta le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, nel termine stabilito per la costituzione dall'art. 166 (Cass. n. 8028/2020, che ha precisato che non assume rilievo l'intervenuto differimento dell'udienza di comparizione delle parti, disposto ai sensi dell'art. 168-bis, comma 4, perché non opera, in tal caso, la disciplina dettata dall'art. 166 per l'ipotesi di cui al comma 5 dell'art. 168-bis, che è norma avente carattere eccezionale, pertanto non suscettibile di applicazione analogica).

Adozione, filiazione

La sentenza straniera di adozione del figlio del partner omosessuale è automaticamente efficace nell'ordinamento giuridico italiano ai sensi dell'art. 41, comma 1, l. n. 218/1995; è dunque inammissibile la q.l.c. degli artt. 35 e 36 l. n. 184/1983, nella parte in cui non consentirebbero al giudice di valutare, caso per caso, se risponda all'interesse del minore il riconoscimento di quella sentenza (Corte cost. n. 76/2016).

In tema di riconoscimento di provvedimenti stranieri in materia di adozione (nella specie promosso da cittadini macedoni aventi la residenza in Italia nei riguardi di minore macedone), in virtù del richiamo operato dall'art. 41, comma 2, l. n. 218/1995 alla l. n. 184/1983 ed alla l. n. 476/1998, che ha ratificato la Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993, trova applicazione la normativa speciale in materia di adozione che impone di valutare la conformità del provvedimento all'interesse del minore come prevalente su altri interessi confliggenti, sicché deve ritenersi la competenza del Tribunale per i minorenni e non già della Corte d'appello, quale giudice adìto ex artt. 66 e 67 l. n. 218/1995 per il riconoscimento di provvedimento estero (Cass. n. 29668/2017).

Va riconosciuta a ogni effetto in Italia l'adozione pronunciata dall'autorità di un Paese straniero, purché conforme ai principi della Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993. Tale Convenzione non pone limiti allo status di genitori adottivi (che pertanto ben potrebbero essere dei single, delle coppie etero o omosessuali, unite o non unite in matrimonio), richiedendo soltanto l'art. 5 che i futuri genitori adottivi siano «qualificati e idonei» all'adozione e l'art. 24, quale condizione ostativa al riconoscimento, la manifesta contrarietà all'ordine pubblico internazionale (Trib. min. Firenze 8 marzo 2017, secondo cui il coniugio, ai fini della filiazione, non è principio rientrante tra quelli fondamentali che regolano il diritto di famiglia e dei minori nello Stato).

L'assenza di un legame genetico fra i due minori e il padre non biologico non rappresenta un ostacolo al riconoscimento di filiazione accertato dal giudice straniero, dovendosi escludere che nel nostro ordinamento vi sia un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico fra il genitore e il nato; all'opposto deve essere considerata: l'importanza assunta a livello normativo del concetto di responsabilità genitoriale che si manifesta nella consapevole decisione di allevare ed accudire il nato; la favorevole considerazione da parte dell'ordinamento giuridico al progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli anche indipendentemente dal dato generico, con la regolamentazione dell'istituto dell'adozione; la possibile assenza di relazione biologica con uno dei genitori per i figli nati da tecniche di fecondazione eterologa consentite (App. Trento 23 febbraio 2017, in Ilfamiliarista.it 1° marzo 2017).

In tema di reato ex art. 567 c.p., la trascrizione di certificati di nascita dei bambini nati con la fecondazione eterologa non è in contrasto con l'ordine pubblico poiché, anche nell'ordinamento italiano, il principio cardine è quello della responsabilità procreativa finalizzato a proteggere il valore della tutela della prole. Cosicché, detto principio è assicurato sia dalla procreazione naturale che da quella medicalmente assistita ove sorretta dal consenso del padre sociale. Conseguentemente, l'ingresso della norma straniera e dei suoi effetti, non mette in crisi detto principio cardine dell'ordinamento e, ciò, in quanto, ben può armonizzarsi il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa con il riconoscimento del rapporto di filiazione e, solo del rapporto di filiazione, tra il padre sociale ed il nato a seguito di fecondazione eterologa. Da ciò ne deriva la legittima trascrizione dell'atto di nascita (nel caso di specie due bambine gemelle) legalmente formato all'estero dall'Ufficiale dello Stato Civile del Paese ove le nascite si sono verificate con il ricorso alla tecnica in questione; tecnica ivi riconosciuta ed in Italia vietata (Trib. Milano 12 giugno 2015).

Kafalah

La kafalah di un minore in stato di abbandono consiste nella stipula di un negozio formale attraverso cui il kafil (una singola persona o una coppia) assume l'impegno di provvedere, curare e mantenere un minore bisognoso (makful). Attraverso, dunque, tale istituto, il minore in stato di abbandono (previa apposita dichiarazione del competente Tribunale per i minori) viene affidato a una persona che s'impegna a mantenerlo ed educarlo sino al raggiungimento della maggiore età. Tra il minore e il suo affidatario non sorge alcun rapporto di filiazione, né s'instaura un rapporto di parentela; né, tantomeno, cessano i rapporti giuridici del makful con la famiglia biologica. In ossequio alla disposizione coranica che vieta l'adozione il minore non assume il cognome del kafil e non ne diviene erede, mentre quest'ultimo non acquisisce né la potestà, né la rappresentanza legale del makful (così Baktash, I giudici italiani alla prova con l'istituto della kafalah, in Fam. dir., 2018, 300).

Presso di noi è stata dichiarata inammissibile la domanda, proposta ai sensi degli artt. 66 e 67 l.n. 218/1995, di riconoscimento in Italia del provvedimento di affidamento in kafalah di un minore in stato d'abbandono, ad una coppia di coniugi italiana, emessa dal Tribunale di prima istanza di Casablanca (in Marocco), atteso che l'inserimento di un minore straniero, in stato d'abbandono, in una famiglia italiana, può avvenire esclusivamente in applicazione della disciplina dell'adozione internazionale regolata dalle procedure richiamate dagli artt. 29 e 36 l. n. 184/1983 (come modificata dalla l. n. 476/1998, di ratifica ed attuazione della Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993), con la conseguenza che, in tale ipotesi, non possono ssere applicate le norme generali di diritto internazionale privato relative al riconoscimento dei provvedimenti stranieri, ma devono essere applicate le disposizioni speciali in materia di adozione ai sensi dell'art. 41, comma 2, l. n. 218/1995 (Cass. n. 19450/2011).

Come è stato osservato in dottrina, è vero è che, secondo quanto riconosciuto dalla citata decisione, la kafalah è assimilata all'affidamento familiare e non all'adozione, ma la S.C. ha nell'occasione ritenuto che la distinzione tra adozione e affidamento non avesse rilievo alcuno, posto che «nell'art. 3, comma 6, lett. d), l. n. 18/1983, si fa espresso riferimento all'adozione o l'affidamento stranieri». In proposito sono state sollevate due diverse obiezioni. Si è sottolineato che la S.C. sembra infatti avere identificato in un'unica figura due istituti ben distinti: quello dell'affidamento preadottivo e quello dell'affidamento cosiddetto assistenziale, detto anche eterofamiliare e più comunemente denominato come affido. L'affidamento preadottivo in effetti non costituisce un istituto a se stante del diritto minorile, bensì uno dei passaggi del procedimento di adozione, col quale si impone ai futuri genitori adottivi un periodo, cosiddetto probatorio, di inserimento dell'adottando nella sua futura famiglia, al cui positivo esito seguirà il provvedimento di adozione. Viceversa, l'affido ha la diversa funzione di accogliere il minore presso l'affidatario ma senza mirare a costituire un rapporto di filiazione. Ed è in effetti proprio a questa seconda figura di affido che va ricondotto, per equivalenza, l'istituto di diritto islamico della kafalah (Morozzo della Rocca, La kafalah non è né adozione né affidamento preadottivo, in Corr. giur., 2012, 197).

In seguito la S.C. ha affermato che la kalafah convenzionale, istituto di affidamento familiare proprio di alcuni ordinamenti giuridici che si ispirano all'insegnamento del Corano, non ha quale presupposto una situazione di abbandono del minore bensì di semplice difficoltà o inadeguatezza dell'ambiente familiare originario, sicché non cancella il rapporto di filiazione, ma si propone di assicurare al minore l'opportunità di vivere in una situazione più favorevole alla sua crescita. Pertanto, la valutazione circa la possibilità di consentire al minore l'ingresso in Italia ed il ricongiungimento con l'affidatario, anche se cittadino italiano, che non può essere esclusa in considerazione della natura e della finalità dell'istituto della kafalah negoziale, deve essere effettuata caso per caso in considerazione del superiore interesse del minore. (Cass. n. 1843/2015). Ciò sulla scia di una decisione delle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 21108/2013) secondo cui non può seguirsi la tesi secondo cui il cittadino italiano che intenda inserire nella propria famiglia un minore straniero in stato di abbandono non avrebbe altra possibilità che quella di procedere all'adozione internazionale, ai sensi della l. n. 184/1983.

È stato in seguito però ribadito che il riconoscimento di una sentenza di adozione emessa all'estero può avvenire esclusivamente in applicazione della disciplina dell'adozione internazionale regolata dalle procedure richiamate dagli artt. 29 e 36 l. n. 184/1983 (come modificata dalla l. n. 476/1998, di ratifica ed attuazione della Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993), con la conseguenza che, in tale ipotesi, non possono essere applicate le norme generali di diritto internazionale privato relative al riconoscimento dei provvedimenti stranieri, ma devono essere applicate le disposizioni speciali in materia di adozione ai sensi della l. n. 218/1995, art. 41 comma 2 (Cass. n. 22220/2017).

Nella giurisprudenza di merito si trova di recente affermato che al provvedimento di affidamento ai sensi dell'art. 116-117 del codice della famiglia dell'Algeria che disciplina la kafalah (precetto che fa obbligo di aiutare i bisognosi e gli orfani. La kafalah costituisce l'unico strumento a protezione dei minori che si trovano in uno stato di abbandono ) emesso dal Tribunale di Khenchela, deve riconoscersi piena e diretta efficacia nel nostro ordinamento, ai sensi degli artt. 65 e 66 l. n. 218/1995, e della normativa internazionale (dall'art. 20 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, quale forma di «protezione sostitutiva» dei minori privati del loro ambiente familiare, e dagli artt. 3, lett. e), e 33 della Convenzione dell'Aja del 19 ottobre 1996, sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione del minore, ratificata dall'Italia e resa esecutiva con l. n. 101/2015). Sia la kafalah «pubblicistica» che la kafalah «negoziale» costituiscono presupposto giuridico del diritto al ricongiungimento familiare, ai sensi della normativa in materia di libera circolazione dei cittadini europei e dei loro familiari, includendo anche il minore affidato in base a tale istituto fra i familiari aventi diritto all'ingresso e al soggiorno nel territorio nazionale (Trib. Mantova 10 maggio 2018).

Ai fini del riconoscimento di un provvedimento straniero di omologazione della kafalah, si applica la procedura generale stabilita dagli art. 64 ss. l. n. 218/1995 e non quella prevista per le adozioni internazionali (Cass. n. 1843/2015).

Danni punitivi

L'orientamento tradizionale espresso dalla S.C. è stato a lungo contrario alla riconoscibilità delle sentenze straniere di condanna al pagamento di somme a titolo di danni punitivi (Cass. n. 1183/2007). Non solo, in alcune pronunce si è affermata la sufficienza del dubbio sull'esistenza di una condanna ai punitive damages, per giustificare la contrarietà all'ordine pubblico della decisione (in tal senso Cass. n. 1781/2012).

È stata poi rimessa al primo presidente, per la valutazione dell'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione relativa alla riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi. L'attuale vigenza nell'ordinamento del principio di non delibabilità, per contrarietà all'ordine pubblico, delle sentenze straniere che riconoscano danni punitivi desta infatti perplessità, alla luce della progressiva evoluzione compiuta dalla giurisprudenza di legittimità nell'interpretazione del principio di ordine pubblico, originariamente inteso come espressione di un limite riferibile esclusivamente all'ordinamento giuridico nazionale, ma che è andato successivamente ad identificarsi con l'«ordine pubblico internazionale», da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l'ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela, comuni ai diversi ordinamenti, dei diritti fondamentali dell'uomo e desumibili dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria (Cass. n. 9978/2016).

Le Sezioni Unite hanno infine affermato che nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve, però, corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i suoi limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero ed alla loro compatibilità con l'ordine pubblico (Cass. S.U., n. 16601/2017).

Atti pubblici rogati all'estero

L'azione tesa al riconoscimento in Italia di atti pubblici rogati all'estero non è soggetta a prescrizione, trattandosi di un'azione autonoma tendente ad una pronunzia ad effetti meramente processuali, che non assume alcuna efficacia costitutiva, limitandosi ad accertare l'esistenza dei requisiti per procedere ad esecuzione forzata ai sensi dell'art. 68 l. n. 218/1995, fermo restando il diritto di ogni interessato a far valere gli eventuali vizi del titolo negoziale, opponendosi all'esecuzione forzata nelle forme consentite dall'ordinamento italiano (Cass. n. 11198/2018).

Ai fini della dichiarazione di esecutività dell'atto pubblico formato ed avente efficacia esecutiva in uno Stato membro dell'Unione europea (nella specie, riconoscimento di debito rogato da un notaio tedesco), il controllo del giudice italiano è limitato - oltre che alla non contrarietà all'ordine pubblico - agli aspetti di natura formale, in sintonia con il regime di semplificazione che connota il regolamento CE n. 44/2001. Ne consegue che la sospensione dell'esecutività disposta dal giudice dello Stato di formazione del titolo (nella specie, da un tribunale tedesco) non osta all'exequatur, anche perché l'efficacia di tale provvedimento non può intaccare la riserva di competenza prevista dall'art. 22, n. 5, del regolamento in favore dei giudici dello Stato ove ha luogo l'esecuzione (Cass. n. 1164/2013).

Bibliografia

Balena, Il procedimento per la liberazione degli immobili dalle ipoteche, in Riv. dir. civ. 1983, II, 703; Fragali, Ipoteca (dir. priv.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972; Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, II, 2, Padova, 2002; Redenti, Diritto processuale civile, IV, Milano, 1957.

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