Il risarcimento del danno non patrimoniale: alla ricerca di un punto di equilibrio

Andrea Penta
06 Novembre 2018

Nelle “sentenze di San Martino” la natura unitaria del danno non patrimoniale comporta che tutti i pregiudizi non patrimoniali (biologico, da perdita parentale, esistenziale, sofferenza interiore) non danno luogo a diverse tipologie/categorie di danno, ma, quali “voci descrittive”, mirano solo a cogliere una più completa considerazione dell'insieme di cui fanno parte e devono essere, quindi, congiuntamente liquidati. Già in relazione a tale aspetto le recenti pronunce della Cassazione appaiono in contrasto con le Sezioni Unite del 2008.
I rapporti tra il danno dinamico-relazionale ed il danno biologico

Già l'art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2000 n. 38, nel delegare il Ministro del lavoro ad approvare una "tabella delle menomazioni" (cioè delle percentuali di invalidità permanente), in base alla quale stimare il danno biologico indennizzabile dall'Inail, stabilì, in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, che l'emananda tabella dovesse essere «comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali» e, quindi, dovesse tenere conto delle ripercussioni di essa sulla vita quotidiana della vittima.

A sua volta, l'art. 5 della l. 5 marzo 2001 n. 57, dettato in tema di danni causati dalla circolazione dei veicoli, definì il "danno biologico" come la menomazione dell'integrità psico-fisica della persona, «la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato».

Dunque in entrambi i testi normativi si volle far comprendere che nella nozione di "danno biologico" doveva considerarsi ricompreso altresì il pregiudizio che fino ad allora era stato definito come danno esistenziale.

A partire dall'emanazione del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (cd. Codice delle assicurazioni private), i pregiudizi di carattere relazionale, ovvero legati alla “proiezione esterna dell'essere” (va ricordato che il danno cd. esistenziale viene inteso come «pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare a-reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno»; v. Cass. civ., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572), risultano, avuto riguardo all'incidentistica stradale e, di riflesso, alle lesioni in ambito medico-sanitario, compresi nella definizione stessa di danno biologico, data la nozione cd. dinamico/funzionale fatta propria, da ormai molto tempo, dalla giurisprudenza della stessa Cassazione e, allo stato, positivizzata nell'art. 139, comma 2, d.lgs. n. 209/2005 citato, a mente del quale «per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito».

Tale impostazione trae origine dalla convinzione secondo cui il danno biologico si traduce sempre in una "ordinaria" compromissione delle attività quotidiane (gli "aspetti dinamico-relazionali").

D'altra parte, come posto correttamente in evidenza dalla sentenza n. 7513 del 27 marzo 2018 della S.C. (est. Rossetti), secondo l'attuale medicina legale, «il danno biologico misurato percentualmente è la menomazione all'integrità psicofisica della persona la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti».

Viceversa, quando il danno biologico, a causa della specificità del caso, compromette non già attività quotidiane comuni a tutti, ma attività "particolari" (ovvero i "particolari aspetti dinamico-relazionali"), di questa perdita deve tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente.

E così, quando un baréme medico legale indica per una certa menomazione un grado di invalidità, ad esempio, del 50%, questa percentuale indica che l'invalido, a causa della menomazione, sarà teoricamente in grado di svolgere la metà delle ordinarie attività che una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età, sarebbe stata in grado di svolgere (Cass. civ., sez. III, sent. 13 ottobre 2016 n. 20630; Cass. civ., sez. 3, sent. 7 novembre 2014 n. 23778). Se, invece, viene allegato e provato che quella menomazione ha avuto una incidenza negativa su particolari aspetti dinamico-relazionali, occorre tenerne conto in sede di personalizzazione.

Invero, le circostanze di fatto che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale integrano un "fatto costitutivo" della pretesa, e devono essere allegate in modo circostanziato e provate dall'attore (ovviamente con ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l'allegazione del notorio, delle massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici, come già ritenuto dalle Sezioni Unite della S.C., con la nota sentenza pronunciata l'11 novembre 2008 n. 26972), senza potersi, peraltro, risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2014 n. 24471).

In termini più generali, una lesione della salute può avere le conseguenze dannose più diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi:

  • conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità;
  • conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili.

Tanto le prime che le seconde conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale. Tuttavia, la distinzione rileva sul piano probatorio: mentre, infatti, la liquidazione delle prime presuppone la mera dimostrazione dell'esistenza dell'invalidità, la liquidazione delle seconde esige la prova concreta dell'effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto.

Pertanto la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, così come la perduta o ridotta o modificata possibilità di intrattenere rapporti sociali, in conseguenza d'una lesione della salute, non esce dall'alternativa: o è una conseguenza "normale" del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica, nel senso che qualunque persona affetta da una grave invalidità non può non risentirne sul piano dei rapporti sociali), ed allora si dovrà ritenere ricompresa nella liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (cd. "personalizzazione"; così Cass. civ., sez. III, sent. 29 luglio 2014 n. 17219).

Dunque le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti "dinamico-relazionali", che sono generali ed inevitabili (ordinarie) per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale da invalidità permanente. Al contrario, le conseguenze (straordinarie) della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento (in sede di personalizzazione in sede di liquidazione) del risarcimento di base del danno biologico (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, sent. 21 settembre 2017 n. 21939 e Cass. civ., sez. III, sent. 7 novembre 2014 n. 23778), purché le circostanze "specifiche ed eccezionali" siano tempestivamente allegate dal danneggiato (Cass. civ., sez. III, sent. 7 novembre 2014 n. 23778; Cass. civ., sez. III, sent. 18 novembre 2014 n. 24471; Cass. civ., sez. III, sent. 23 settembre 2013 n. 21716; Cass. civ., sez. III, sent.16 maggio 2013 n. 11950; Cass. civ., sez. IV-III, ord. 13 luglio 2011 n. 15414; Cass. civ., sez. III, sent.9 dicembre 2010 n. 24864; Cass. civ., sez. lav., sent. 30 novembre 2009 n. 25236).

Se ciò è vero, non si condivide, però, l'ulteriore affermazione contenuta nella sentenza della III Sezione civile n. 7513/2018, secondo cui «Per la legge, dunque, l'espressione "danno dinamico-relazionale" non è altro che una perifrasi del concetto di "danno biologico"» (l'affermazione si traduce negli slogan, secondo cui «Non, dunque, che il danno alla salute "comprenda" pregiudizi dinamico-relazionali dovrà dirsi; ma piuttosto che il danno alla salute è un danno "dinamico-relazionale"» e «l'incidenza d'una menomazione permanente sulle quotidiane attività "dinamico relazionali" della vittima non è affatto un danno diverso dal danno biologico»). Se per ‘perifrasi' si intende una circonlocuzione imposta o suggerita da motivi di chiarezza o di opportunità, un conto è sostenere che i due concetti di danno relazionale e di danno biologico coincidono (nel senso di sovrapporsi per intero) ed un altro è rilevare che il primo è ricompreso, a mò di minus, nel secondo.

Il decalogo enunciato da Cass. civ. n. 7513/2018

La S.C., con la sentenza n. 7513/2018, nell'analizzare un caso in cui la vittima, a causa dell'infortunio, aveva ridotto le proprie frequentazioni con altre persone e, come emerso dalla prova testimoniale, in conseguenza dei postumi permanenti, aveva patito un grave e permanente danno dinamico-relazionale consistito nella forzosa rinuncia ad attività precedentemente praticate, tra le quali la cura dell'orto e del vigneto, ha colto l'occasione per dettare dieci regole che dovrebbero orientare i giudici di merito nella liquidazione del danno non patrimoniale.

Prescindendo dai primi cinque principi, si soffermerà l'attenzione sugli ultimi tre, richiamando il sesto ed il settimo, che non pongono particolari problemi.

In presenza d'un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d'una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e l'attribuzione d'una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale; principio n. 6, perfettamente in linea con questo esposto nel precedente paragrafo).

In presenza d'un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema cd. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento (principio n. 7, anch'esso in linea con questo rappresentato nel precedente paragrafo).

Il principio n. 8 è, invece, almeno in apparenza, dirompente: in presenza d'un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d'una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e d'una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione).

Corollario del precedente è il nono: ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l'esistenza d'uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (come sarebbe confermato, oggi, dal testo degli artt. 138 e 139 cod. ass., così come modificati dall'art. 1, comma 17, l. 4 agosto 2017, n. 124, nella parte in cui, sotto l'unitaria definizione di "danno non patrimoniale", distinguono il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello "morale").

Il principio in precedenza enunciato viene, in fine, reiterato con riferimento al danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, il quale va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con sè stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme; id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell'uno come nell'altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria (principio n. 10).

Ad avviso del Collegio, pertanto, la duplicazione risarcitoria non si ravvisa se, nel contesto della liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, sia possibile distinguere un importo finalizzato a fronteggiare la perdita etichettabile come danno biologico e un altro finalizzato a compensare «i pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale», categoria cui sono ascrivibili, ad esempio, il patema d'animo, l'angoscia e lo sconforto. Per converso, si deve parlare di duplicazione, quante volte al ristoro del danno biologico venga abbinata un'altra somma diretta a risarcire i «pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente»: con questa formula si allude ai pregiudizi relazionali indefettibilmente correlati alla situazione patologica.

In definitiva, mentre il danno alla componente esistenziale andrebbe tendenzialmente ricompreso all'interno del danno biologico (potendo riconoscergli un autonomo ristoro solo nel caso in cui il danno non patrimoniale non sia derivato da una lesione della salute), la sofferenza morale meriterebbe sempre e comunque un autonomo ristoro.

La pronuncia n. 901/2008 della III sezione

La sentenza appena descritta era stata preceduta da un'altra della medesima sezione (Cass. civ., 17 gennaio 2018 n. 901, est. Travaglino), la quale aveva anch'essa già affermato che il giudice, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, deve tener conto anche «dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, quali il dolore, la vergogna, il rimorso, la disistima di sè, la malinconia, la tristezza)».

Tuttavia, la pronuncia sembra andare oltre, in quanto si afferma altresì che il giudice «deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno(c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo “in pejus” con la vita quotidiana (il danno cd. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale)», inquadrandosi nel genus della sofferenza (sotto forma di suoi aspetti essenziali)il dolore interiore e/o la significativa alterazione della vita quotidiana, danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili.

La Cassazione ravvisa la conferma di questa statuizione nella pronuncia della Corte cost. n. 235/2014, predicativa della legittimità costituzionale dell'art. 139 cod. ass. (lesioni fino al 9%), la quale afferma che «la norma denunciata non è chiusa, come paventano i remittenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione e nei limiti di cui alla disposizione del comma 3 (aumento del 20%)». Pertanto, secondo la Cassazione, «anche all'interno del sotto-sistema delle micro-permanenti, resta ferma […] la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto». Il che confermerebbe la legittimità dell'individuazione della doppia dimensione fenomenologica della sofferenza, quella di tipo relazionale, oggetto espresso della previsione legislativa in aumento, e quella di natura interiore, da quella stessa norma, invece, evidentemente non codificata e non considerata, lasciando così libero il giudice di quantificarla nell'an e nel quantum con ulteriore, equo apprezzamento […] senza che ciò costituisca alcuna "duplicazione risarcitoria”.

In definitiva, sembrerebbe che, mentre nell'ambito del codice delle assicurazioni le ripercussioni sugli aspetti dinamico-relazionali, se eccedenti quelle ordinarie, dovrebbero essere ristorate, nei limiti di 1/5, in sede di personalizzazione del risarcimento del danno biologico e la sofferenza morale, se provata, meriterebbe un autonomo ristoro, in aggiunta a quanto liquidato a titolo di danno biologico, al di fuori del detto codice le due voci meriterebbero un autonomo riconoscimento.

Effettivamente la nozione di danno biologico data dal Codice delle Assicurazioni negli artt. 138 e 139per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito») non sembra contemplare espressamente la sofferenza morale.

Il contrasto con i principi enunciati nelle sentenze di San Martino

La Cassazione, nelle “sentenze di San Martino” (nn. 26972-5 dell'11 novembre 2008), ha affermato che «il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno».

Nelle “sentenze di San Martino”, quindi, la natura unitaria del danno non patrimoniale comporta che tutti i pregiudizi non patrimoniali (biologico, da perdita parentale, esistenziale, sofferenza interiore) non danno luogo a diverse tipologie/categorie di danno, ma, quali “voci descrittive”, mirano solo a cogliere una più completa considerazione dell'insieme di cui fanno parte e devono essere, quindi, congiuntamente liquidati.

Già in relazione a tale aspetto le pronunce finora commentate appaiono in contrasto con le Sezioni Unite del 2008.

Nelle sentenze della Cassazione nn. 901/2018 e 7513/2018, il richiamo all'unitarietà del danno non patrimoniale mira, infatti, ad enfatizzare la duplice costante natura dei pregiudizi (danno relazionale-esistenziale e danno da sofferenza interioremorale) conseguenti alla lesione di tutti i diritti-valori della persona tutelati dalla Carta costituzionale, pregiudizi soggetti alle medesime regole ed ai medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 1226, 2056, 2059 c.c.), quale premessa per la liquidazione atomistica.

Questi principi di diritto si pongono in contrasto con le “sentenze di San Martino, in cui si afferma la necessità di distinguere l'ipotesi in cui la sofferenza soggettiva sia in sé considerata da quella in cui la sofferenza si presenti come componente di un più complesso pregiudizio non patrimoniale: «ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato. Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione».

In definitiva, sembrava che tutto dovesse essere ricompreso nel danno alla salute, in una visione pan-biologica.

L'Osservatorio di Milano, nel solco delle “Sezioni Unite di San Martino”, aveva preso atto che, quando c'è lesione biologica, i pregiudizi conseguenti alla menomazione psicofisica – «il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare» e quello ravvisato nella pena e nel dolore conseguenti e cioè «nella sofferenza morale determinata dal non poter fare» - sono, in definitiva, due facce della stessa medaglia, essendo la sofferenza morale «componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale». I giudici avrebbero dovuto, quindi, con congrua motivazione, “procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico”, valutando congiuntamente i pregiudizi anatomo-funzionali e le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso (v. amplius, D. SPERA, Tabelle milanesi 2018 e danno non patrimoniale, in Officine del Diritto, Giuffrè, 2018).

Ciò in quanto aveva ritenuto che non fosse più possibile continuare ad applicare la precedente Tabella milanese di liquidazione del danno non patrimoniale, atteso che la medesima prevedeva la separata liquidazione del danno morale/sofferenza interiore, nella misura da un quarto alla metà dell'importo liquidato per il danno biologico.

L'attuale Tabella prevede «una percentuale di aumento di tali valori “medi” da utilizzarsi - onde consentire un'adeguata "personalizzazione" complessiva della liquidazione - laddove il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato, in particolare:

sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali (ad es.: lavoratore soggetto a maggior sforzo fisico senza conseguenze patrimoniali; lesione al "dito del pianista dilettante"), sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva (ad es.: dolore al trigemino; specifica penosità delle modalità del fatto lesivo), ferma restando, ovviamente, la possibilità che il giudice moduli la liquidazione oltre i valori minimi e massimi, in relazione a fattispecie del tutto eccezionali rispetto alla casistica comune degli illeciti» (D. SPERA, Tabelle del Tribunale di Milano, in Ridare.it 2018).

Nella tabella milanese, dunque, in relazione ai valori monetari “medi”, il danno non patrimoniale da lesione del bene salute tiene già debitamente conto della sofferenza soggettiva (morale) media e del pregiudizio dinamico-relazionale (esistenziale) medio che normalmente si accompagnano ad una determinata menomazione biologica (temporanea o permanente), pregiudizi che dunque possono essere ritenuti provati in via presuntiva.

Nella percentuale di personalizzazione di tali valori medi il giudice potrà, invece, tener conto delle peculiarità del caso concreto allegate e provate dal danneggiato, sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali e dinamico-relazionali sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva, qualora ritenuti di speciale intensità.

Nel solco di tale impostazione, la sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 15350/2015, ha ribadito la necessità della unitaria liquidazione del danno non patrimoniale per i pregiudizi di tipo relazionale e di sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale. Dal canto suo, Cass. civ. sez. III, 23 febbraio 2016, n. 3505, ha affermato che solo quando la specifica situazione presa in esame si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all'oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'id quod plerumque accidit, scatta l'esigenza di personalizzare il risarcimento, dovendo il giudice dar conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state apprezzate.

Il mutato contesto normativo

Non può non considerarsi che le sentenze di San Martino vennero pronunciate nel 2008 e che il d.lgs. n. 209 (meglio noto come Codice delle assicurazioni) venne pubblicato, nella sua stesura originaria, il 7 settembre del 2005.

Da allora molta acqua è scorsa sotto i ponti, sicché occorre tener presente il mutato quadro giurisprudenziale e, soprattutto, normativo.

Per quanto concerne il Codice delle Assicurazioni, sembra che ormai non vi possano più essere margini di incertezza.

Nell'ambito della Tabella normativa ex art. 139 cod. ass., la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 235/2014, aveva avvertito che per le “sentenze di San Martino” «il cosiddetto “danno morale”, e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato «rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente». La norma denunciata (l'art. 139) non è, quindi, chiusa, come paventano i rimettenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla disposizione del citato comma 3 (aumento del 20%)».

Residuava, però, il dubbio circa la possibilità di estendere tale approccio anche ai casi in cui l'illecito non avesse integrato gli estremi di un reato.

Comunque, per evitare altre possibili zone d'ombra e di incertezza, la novella della Legge concorrenza (l'art. 1, comma 19, l. 4 agosto 2017, n. 124) ha espressamente previsto che «Qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati ovvero causi o abbia causato una sofferenza psico-fisica di particolare intensità, l'ammontare del risarcimento del danno […] può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 20 per cento».

Quindi, la citata sentenza della Corte costituzionale, prima, e il legislatore, dopo, hanno stabilito che l'eventuale personalizzazione si effettua mediante una maggiore liquidazione congiunta degli aspetti dinamico-relazionali (sfera esteriore) e di quelli sofferenziali (sfera interiore), nel limite massimo del 20%.

Tuttavia, essendosi la Corte costituzionale pronunciata con riferimento al solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità, poteva (e può tuttora) sostenersi che, per le lesioni di non lieve entità, l'art. 138 cod. ass. avesse (abbia) lasciato libero il giudice di quantificare (almeno) la sofferenza interiore nell'an e nel quantum con ulteriore, equo apprezzamento.

Il nuovo testo dell'art. 138 (comma 2, lett. e) introdotto dall'art. 1, comma 17, l. 4 agosto 2017, n. 124, dispone che «al fine di considerare la componente del danno morale da lesione all'integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico stabilita in applicazione dei criteri di cui alle lettere da a) a d) è incrementata in via percentuale e progressiva per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessivadella liquidazione».

La lettera della norma è equivoca e si presta ad una duplice, alternativa interpretazione.

Una parte della dottrina (D. SPERA, Time out – Il decalogo della Cassazione e la medicina legale, su Ridare 2018) sostiene che il ritenere che, nelle ipotesi disciplinate dall'art. 138, la personalizzazione del danno sia consentita nei limiti del 30% dell'importo base allorché la menomazione incida in maniera rilevante su “specifici aspetti dinamico-relazionali personali” (e cioè nella sfera esteriore) e sia, invece, illimitata per la sofferenza soggettiva (e cioè nella sfera interiore):

  1. comporterebbe (nella maggioranza dei casi) un'evidente duplicazione del risarcimento del medesimo pregiudizio;
  2. contrasterebbe con l'espressa previsione di “esaustività” del risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi del comma 4 dello stesso articolo.

In considerazione, invece, della contiguità o, meglio ancora, della commistione tra sofferenza soggettiva interiore e pregiudizio esteriore relazionale, la prova in concreto di particolari sofferenze soggettive, che si riflettano in mutate condizioni di vita ovvero (eccezionalmente) rimangano allo stato di sofferenza interiore, potrebbe, secondo questa opinione, comportare l'aumento della liquidazione del risarcimento, ma pur sempre nel limite massimo del 30%.

Il parametro di riferimento rappresentato dalle tabelle di Milano

La principale critica che, a mio modo di vedere, potrebbe muoversi alle attuali tabelle milanesi non è tanto quella (implicitamente formulata nelle sentenze nn. 901 e 7513 del 2018) che ricomprendano nei valori del danno non patrimoniale sia la lesione dell'integrità psico-fisica che la lesione dell'integrità morale, se considerata standard, ma, semmai, quella di non aver, in realtà, dato in pieno attuazione alla nota sentenza 11 novembre 2008 n. 26972 emessa dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite. Invero, con tale pronuncia queste ultime vollero, all'evidenza, tra l'altro, invitare la giurisprudenza di merito ad evitare ogni automatismo nella liquidazione del danno non patrimoniale rappresentato dalla sofferenza morale. In quest'ottica, una tabella la quale preveda, per ogni grado di invalidità permanente, un corrispondente aumento per tenere conto della sofferenza morale, potrebbe sostanzialmente tradire il principio affermato dalle Sezioni Unite. Ciò in quanto si rischierebbe di tornare, di fatto, a quell'automatismo risarcitorio invalso fino al 2008, che fu aspramente censurato dai giudici di legittimità.

D'altra parte, mentre la stima del danno permanente alla salute può essere predeterminata con criteri oggettivi, perché ha una base medico legale e può essere accertata con i criteri stabiliti dalla medicina legale, non altrettanto può dirsi per l'accertamento della stima del danno consistente nella sofferenza morale.

In questo contesto si condivide la considerazione espressa da M. Rossetti (Danno non patrimoniale: nuove tabelle, nuovi problemi, su Ilquotidianogiuridico.it, 17 aprile 2018), secondo cui, mentre per il danno biologico è scientificamente possibile e giuridicamente auspicabile la predeterminazione di criteri standard per la stima del risarcimento, per le sofferenze cosiddette morali derivanti da qualunque fatto illecito nessuna predeterminazione è possibile, essendo esse troppo strettamente legate alle caratteristiche della vittima, alle modalità del fatto illecito, al contesto sociale, emotivo e familiare di chi abbia patito la lesione.

Viceversa, la censura alle tabelle milanesi sollevata nelle due menzionate sentenze della III sezione non coglie, a mio modo di vedere, nel segno.

La liquidazione congiunta di tutte le varie voci di pregiudizio (e, quindi, del danno da pregiudizio anatomo-funzionale e dei pregiudizi dinamico-relazionali e da sofferenza interiore) non comporta necessariamente la negazione della loro distinta entità ed ontologica autonomia, ma solo che le stesse vanno considerate in modo unitario, in modo da evitare perniciose sovrapposizioni e, dunque, duplicazioni risarcitorie, tenendo, però, altresì conto che occorre assicurare l'integrale ristoro del pregiudizio complessivamente subìto dalla vittima.

Il problema, con uno sforzo di sintesi, può esplicitarsi nei termini che seguono: se le varie voci del danno patrimoniale vanno autonomamente ristorate, è indifferente, sul piano matematico e monetario, farlo nel coacervo o sommando le diverse somme (di questo secondo avviso sembrano essere le sentenze della Cassazione del 2018, a mente delle quali, allorché vi sia la prova che la menomazione accertata abbia inciso in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali - ad esempio, quando risulti compromessa la pratica di un hobby amatoriale -, si dovrebbe risarcire, oltre al danno biologico standard, l'ulteriore danno dinamico relazionale e, poi, separatamente, la maggiore sofferenza interiore che ne consegue – si pensi alla mancata pratica del medesimo hobby -); se, invece, le voci diverse da quelle del danno alla salute possono rilevare solo sul piano della personalizzazione di quest'ultimo, è evidente che si pone un'asticella (salvo poi individuare la percentuale al cui interno operare la detta personalizzazione) al di là della quale non è possibile andare.

A volte le fattispecie sono border line. Si pensi al caso di una cicatrice che cagioni un danno estetico valutato dal CTU medico legale con i consueti barème, ma che determini particolare sofferenza della vittima, la quale, pur continuando a compiere le sue quotidiane attività come prima, viva con malinconia o tristezza ovvero modifichi sensibilmente il proprio stile di abbigliamento per nascondere la menomazione. Avuto riguardo al profilo di “sofferenza psico-fisica”, qualora si riconoscesse la sua particolare intensità e se non degenerasse in danno biologico-psichico, restando esclusivamente nella sfera interiore (sotto forma di disagio psicologico comportante intense reazioni emotive del soggetto e rilevanti strategie di adattamento), sarebbe sufficiente procedere alla personalizzazione del danno alla salute che ne costituisce il substrato?

Occorre partire dalla distinzione tra:

  • a)“natura unitaria”, secondo cui non v'è alcuna diversità nell'accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto differente da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza ovvero del rapporto parentale;
  • b) “natura omnicomprensiva”, alla cui stregua, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio di carattere non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagattellari (ex multis, Cass. civ., 17 gennaio 2018, n. 901).

Se è vero, però, che il risarcimento deve essere omnicomprensivo, è altrettanto vero che lo stesso deve essere altresì integrale.

È chiaro, peraltro, che, in ipotesi di illeciti plurioffensivi (vale a dire, che diano luogo alla lesione di plurimi interessi della persona costituzionalmente protetti; si pensi al diritto alla salute ed al diritto al rapporto parentale, costituzionalmente protetto dagli artt. 2, 29, 30 e 31 Cost.), qualora le conseguenze pregiudizievoli rilevate risultino in tutto o in parte sovrapponibili, le stesse non possono essere liquidate due o più volte quanti sono gli interessi lesi cui sono al contempo riconducibili. Tuttavia, il principio denominato “di unitarietà nella liquidazione del danno non patrimoniale” non vuol certo dire che, quando l'illecito produca pregiudizi non patrimoniali eterogenei, anche in ragione della diversità degli interessi lesi (es.: danno alla salute, danno alla libertà personale, danno alla integrità morale, ecc.), la liquidazione di una tipologia di danno non patrimoniale (quale, ad esempio, il danno alla salute) assorba sempre e necessariamente tutte le restanti, bensì che il medesimo danno non può essere liquidato due volte solo perché lo si denomini con termini dissimili (Cass. civ., n. 9320/2015).

E allora, a ben vedere, il vero problema si pone (non già dal punto di vista della liquidazione del danno, ma) sul piano assertivo e, ancor di più, su quello asseverativo. Ciò in quanto il danno non patrimoniale risarcibile (come, del resto, anche il danno patrimoniale) rappresenta un danno-conseguenza e, come tale, va rigorosamente dimostrato, sia pure attraverso il ricorso alle prove presuntive.

Una lettura costituzionalmente orientata

È opportuno ricordare che l'art. 2059 c.c., consentendo il risarcimento del danno non patrimoniale “solo nei casi determinati dalla legge”, implica che, ai fini della risarcibilità dello stesso, è necessario individuarne un fondamento di diritto positivo, costituito o dall'espressa previsione legislativa del risarcimento o dalla tutela costituzionale di un diritto inviolabile della persona (cd. tipicità del danno non patrimoniale; v. Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).

Al di fuori dei casi in cui il fatto assurga al rango di reato ed al di là delle fattispecie disciplinate in leggi speciali (vittime del terrorismo e militari caduti in guerra; altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali: art. 29, comma 9, l. n. 675/1996, quanto all'impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998, in relazione all'adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi), non può, peraltro, considerarsi solo il Codice delle Assicurazioni, dovendosi tener conto altresì dei pregiudizi non patrimoniali che trovano il loro fondamento nella legge fondamentale costituita dalla Costituzione. E così, mentre il danno alla integrità psico-fisica trova il suo aggancio nell'art. 32 Cost. e la lesione all'integrità morale può ancorarsi all'art. 2 Cost. (oltre che all'art. 1 della Carta di Nizza), il danno alla vita di relazione può essere inteso come danno da peggioramento della qualità della vita, lesione del diritto alla serenità e tranquillità familiare, trovando, in siffatta evenienza, inquadramento negli artt. 2, 29 e 30 Cost..

Fatta eccezione per le microlesioni in ambito di responsabilità da sinistri stradali e medica, con riferimento alle quali effettivamente il danno cd. esistenziale sembrerebbe essere ricompreso in quello alla salute (potendo in casi eccezionali incidere sulla personalizzazione del relativo risarcimento), occorre domandarsi se, al di fuori di questo contesto (si pensi alla eterogenea fattispecie di responsabilità derivante da cc.dd. insidie e trabocchetti), sia possibile relegare il pregiudizio relazionale e, a maggior ragione, quello all'integrità morale in una posizione ancillare rispetto al danno biologico, nonostante gli stessi abbiano un fondamento costituzionale.

Peraltro, solo quando entra in gioco il diritto alla salute, la liquidazione di una voce autonoma di danno esistenziale si potrebbe risolvere in una duplicazione risarcitoria (perché, come detto, già la lesione della salute sarebbe espressione del vulnus arrecato a tutti gli aspetti dinamico-relazionali della vita della persona), laddove a differenti conclusioni dovrebbe pervenirsi nel caso in cui sia leso un (altro) interesse o un (altro) valore tutelato dalla Carta fondamentale. In quest'ultima ipotesi, in sede di liquidazione del danno, il giudice deve verificare che la lesione di diritti costituzionalmente protetti si traduca in un adeguato ristoro del danno alla persona nella duplice essenza tanto dell'aspetto interiore del danno medesimo (la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, quali il dolore, la vergogna, il rimorso, la disistima di sé, la malinconia, la tristezza) quanto del suo impatto modificativo in termini peggiorativi con la vita quotidiana: danni diversi e autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, provati caso per caso, con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (tra cui il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni), al di là di sommarie generalizzazioni.

Avuto riguardo a queste ultime fattispecie, si fa sempre più largo nella giurisprudenza della S.C. l'opinione secondo cui il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico-relazionali, e che è risarcibile autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria (v., in tal senso, Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 2017, n. 24075). In questo ambito qualsiasi lesione arrecata ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizzerebbe, pertanto, per la sua doppia dimensione (fenomenologica; v. infra) del danno relazionale/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza (la sofferenza morale stricto sensu intesa). Si fa, cioè, largo la tesi secondo cui, fatta eccezione per l'ambito delle micro-permanenti, l'aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico-relazionali della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, del tutto a prescindere dalla considerazione (e dalla risarcibilità) del danno morale. In altri termini, si rimarca che, per le lesioni più gravi, a fronte dell'interiorizzazione intimistica della sofferenza, il giudice mantiene un cospicuo margine di discrezionalità nel fissare il quantum di un pregiudizio non omogeneo a quello rappresentato dalla significativa alterazione della vita quotidiana.

Senza tralasciare che, diversamente opinando, la vittima, per esempio, di una violenza sessuale con un danno biologico modesto potrebbe trovarsi a conseguire un “risarcimento aggravato” del tutto irrisorio, laddove questo fosse per l'appunto riconosciuto in un incremento percentuale del danno non patrimoniale da lesione dell'integrità psicofisica (M. BONA, Tabelle milanesi oltre il seminato: critica ai parametri per i danni da premorienza e terminali, in Ridare, 17 aprile 2018).

Questo rischio probabilmente non si pone nel caso in cui si sia al cospetto di un danno cd. parentale, atteso che la sofferenza morale è, di regola, riconducibile per intero alla lesione del rapporto parentale, non essendo distinguibile una sofferenza interiore riguardante la lesione del diritto alla salute (in termini, ad esempio, di rabbia ovvero di preoccupazione per le proprie condizioni di salute) ulteriore rispetto a quella derivante dalla perdita della persona cara, in una situazione ove, al contrario, sono proprio la gravità del lutto e la profondità dell'intimo dolore provato a riversarsi pure in compromissione oggettivamente apprezzabile dell'integrità psicofisica, con effetti invalidanti permanenti.

Tuttavia, mentre la riconduzione delle componenti dannose morale/interiore e relazionale/esteriore alla lesione del rapporto parentale risulta, di regola, corretta, il danno biologico (danno psichico) non sempre identifica ed assorbe per intero la componente relazionale e, men che meno, quella di sofferenza interiore.

Osservazioni conclusive

Come si è detto, nel caso in cui entrino in gioco le tabelle di Milano, quelli che in passato erano definiti danno esistenziale e danno morale vengono presi in considerazione nei loro valori standard, salvo consentire alla vittima di dimostrare che la lesione abbia in realtà oltrepassato tali valori, invocando e, se del caso, conseguendo un maggior ristoro in sede di personalizzazione.

L'unico rilievo che potrebbe, in astratto, formularsi ad una siffatta impostazione è quello di aver ancorato tali voci di pregiudizio alla lesione base dell'integrità psico-fisica e di aver posto come limite massimo alla personalizzazione la percentuale del 50%.

Tuttavia, la prima scelta è in linea con le direttive contenute nelle sentenze di San Martino; la seconda è il frutto di un'analisi capillare operata dall'Osservatorio su un campione di sentenze significativo.

Per quanto si possano muovere delle critiche costruttive ad un impianto del genere, è innegabile che, al di là della sua ampia diffusione ed applicazione, rappresenti, in assenza di una Tabella Unica Nazionale, l'unico serio, meditato ed oggettivo metodo di liquidazione del danno non patrimoniale.

Sarebbe, peraltro, auspicabile che la sezione della Cassazione competente, in occasione di una prossima controversia che affronti le analoghe problematiche, sollecitasse il Primo Presidente a sollevare la questione dinanzi alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 374, comma 3, c.p.c..

Volendo richiamare il noto metodo di baconiana memoria, una pars destruens non ha senso se non è accompagnata da una pars construens.

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