Responsabilità medica e applicabilità di misure cautelari interdittive

Vittorio Nizza
13 Novembre 2018

La sentenza in epigrafe si incentra principalmente sulla problematica relativa all'applicabilità di una misura cautelare interdittiva in ambito sanitario, in particolare oltre alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, nel caso di specie era stato individuato come presupposto applicativo il rischio di reiterazione della condotta da parte del sanitario.
Massima

In tema di applicazione di misure interdittive all'indagato per omicidio colposo per colpa professionale, mentre per la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza sono sufficienti gli elementi probatori che implicano una ragionevole probabilità circa la ricorrenza dei presupposti del reato ipotizzato e della sua riferibilità alla condotta del soggetto indagato e ciò indipendentemente dal grado della colpa, che attiene al merito, a dalla cooperazione di altre persone nello stesso reato, ai fini cautelari, anche in tema di colpa professionale, è possibile l'applicazione di una misura cautelare per le esigenze previste dall'art. 274, comma 1, lett. c) del codice di procedura penale (pericolo di commissione di reati della stessa specie in considerazione delle circostanze del fatto e della personalità dell'imputato) poiché anche in materia di colpa professionale è possibile una prognosi di reiterazione dei comportamenti in relazione alle caratteristiche della struttura in cui il professionista opera e al comportamento da questi tenuto nel caso oggetto di giudizio e l'offesa temuta riguarda gli stessi interessi collettivi già colpiti. A tal riguardo, il giudice deve esaminare e apprezzare compiutamente le concrete modalità di commissione del fatto costituente reato e tutti gli altri parametri enunciati nell'articolo 133 del codice penale che possono evidenziare la personalità del soggetto; occorre, inoltre, considerare il grado della colpa, valutando il grado di difformità della condotta dell'autore rispetto alle regole cautelari violate, al livello di evitabilità dell'evento e al quantum di esigibilità dell'osservanza della condotta doverosa pretermessa.

Il caso

Nel caso in oggetto al dott. M.M., esercente la professione sanitaria, imputato dei reati di omicidio colposo ex art. 589 e 590-sexies c.p., veniva applicata la misura cautelare interdittiva della sospensione dall'esercizio della professione medica.

Il sanitario era imputato per omicidio colposo di un paziente di anni sei in quanto, quale medico curante, a fronte di un quadro clinico di otite media acuta aveva sottovalutato per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, il quadro clinico limitandosi inizialmente a un colloquio telefonico e prescrivendo una terapia omeopatica, successivamente, anche a fronte del successivo aggravarsi della sintomi e della situazione clinica, non aveva comunque prescritto le opportune terapie antibiotiche nè predisposto i necessari approfondimenti diagnostici.

Avverso l'ordinanza emessa dal Gip e confermata dal tribunale del riesame proponeva riscorso l'imputato contestando la mancanza dei presupposti applicativi di una misura cautelare.

La questione

La sentenza in epigrafe si incentra principalmente sulla problematica relativa all'applicabilità di una misura cautelare interdittiva in ambito sanitario, in particolare oltre alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, nel caso di specie era stato individuato come presupposto applicativo il rischio di reiterazione della condotta da parte del sanitario.

Le soluzioni giuridiche

La Corte analizza gli elementi posti a fondamento della richiesta di applicazione della misura cautelare interdittiva in capo al medico, in particolare, oltre alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, nel caso di specie era stato ritenuto concreto e attuale il pericolo di reiterazione.

Sotto il profilo del quadro gravemente indiziante era stato dimostrato che il decesso del piccolo paziente era stato determinato da una complicanza endocranica da otite. Dagli atti di indagine era emerso come il medico avesse sottostimato la gravità della patologia, dapprima limitandosi a un consulto telefonico e poi non prescrivendo la necessaria terapia antibiotica ma persistendo con la cura omeopatica nonostante l'aggravarsi della situazione e la contraria indicazione dei protocolli medici che impongono il passaggio alla terapia tradizionale decorsi cinque giorni dalla constatazione dell'inefficacia di quella omeopatica impostata.

Infine con riferimento al presupposto del pericolo di reiterazione del reato, afferma la Cassazione come occorra valutare le concrete modalità di commissione del fatto di reato nonché tutti gli altri parametri volti a evidenziare la personalità del reo ai sensi dell'art. 133 c.p.

Anche in materia di colpa professionale è possibile una prognosi di reiterazione dei comportamenti in relazione alle caratteristiche della struttura in cui il professionista opera e il comportamento da questi tenuto. Nel caso di specie, affermano i supremi giudici, il pericolo di reiterazione sarebbe stato giustificato non tanto dal pregresso esercizio della professione medica, quanto dalla mancanza di un vaglio critico, manifestata dall'indagato con il comportamento tenuto dopo il fatto. L'attualità e la concretezza del pericolo di reiterazione sarebbero da ricercarsi, più che nella negligenza, imprudenza e imperizia manifestate nella pratica, nella manifestata pervicacia dell'indagato nell'applicare la terapia già rivelatasi inidonea e quindi nella sua erronea convinzione teorica di una superiorità della medicina omeopatica rispetto a quella tradizionale.

Osservazioni

La sentenza in esame affronta il problema dell'applicabilità delle misure cautelari, in particolare di quella interdittiva dall'esercizio della professione, in materia di responsabilità medica. L'attenzione è rivolta non tanto alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, quanto ai presupposti applicativi indicati nell'art. 274 c.p.p.

L'applicazione di una misura cautelare, infatti, richiede oltre alla sussistenza di elementi probatori che consentano di formulare un giudizio prognostico di colpevolezza dell'imputato ai sensi dell'art. 273 c.p.p., anche la presenza di almeno uno dei presupposti individuati dall'art. 274 c.p.p.: il pericolo di inquinamento probatorio, il pericolo di fuga o il pericolo di reiterazione del reato.

Il requisito del pericolo di reiterazione, che rappresenta la finalità cautelare di c.d. prevenzione sociale, deve essere valutato in base alla sua concretezza e alla sua attualità. Elementi che non possono essere desunti esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede ma devono essere valutati sulla base delle situazioni fattuali concrete e degli elementi sintomatici della personalità dell'indagato.

La concretezza del pericolo di reiterazione implica, quindi, che la valutazione del giudice sia correlata a elementi di fatto e non si basi esclusivamente su criteri generici e automatici, meramente astratti e congetturali.

L'attualità deve essere valutata nella sua dimensione temporale, intesa non come imminenza del pericolo ma come prognosi, fondata su elementi concreti, di commissione di delitti analoghi. Discusso in giurisprudenza se sia sufficiente la sussistenza di elementi che rendano effettivo il pericolo di reiterazione della condotta o se sia necessaria anche la previsione concreta o altamente probabile che si verifichi per l'imputato un'ulteriore occasione per compiere nuovi delitti (tesi verso la quale sembrerebbe orientarsi la giurisprudenza più recente).

Secondo la giurisprudenza ormai consolidata, infatti, il giudizio prognostico di pericolosità ex art. 247 c.p.p. può essere desunto dai criteri stabiliti dall'art. 133 c.p., tra cui sono ricompresi le modalità e la gravità del fatto di reato.

Nella sentenza in commento, infatti, la stessa Corte ritiene come possa essere utilizzato come parametro di riferimento il grado della colpa valutato – secondo l'interpretazione costante elaborata in materia di colpa medica sulla legge Balduzzi – tendendo conto del grado di difformità tra la condotta dell'autore e la condotta prescritta dalle regole cautelari violate, del livello di evitabilità dell'evento e del quantum di esigibilità dell'osservanza della condotta doverosa pretermessa.

Pertanto conclude la Corte, anche in tema di colpa professionale è possibile l'applicazione di una misura cautelare (nel caso di specie interdittiva dell'esercizio della professione) poiché anche in materia è possibile una prognosi di reiterazione in relazione alle caratteristiche della struttura in cui il professionista opera e al comportamento da questi tenuto nel caso oggetto di giudizio e l'offesa temuta riguarda gli stessi interessi collettivi già colpiti.

Nel caso di specie il rischio di reiterazione veniva dedotto del persistere del medico sulle proprie convinzioni, avendo continuato a cercare di curare il piccolo paziente con rimedi omeopatici senza proscrivere la doverosa cura antibiotica e gli eventuali necessari accertamenti. L'imputato quindi avrebbe manifestato una sorta di ostinazione nell'applicare una terapia già rivelatasi inidonea e così manifestando, a parere della Corte, una caparbia convinzione di una superiorità della disciplina omeopatica rispetto a quella tradizionale.

In tal senso, quindi, il pericolo di reiterazione sarebbe desumibile, più che dal comportamento imprudente negligente e imperito, certamente apprezzabile sul diverso piano della colpa, dalla «mancanza di un vaglio critico, manifestata dall'indagato con il comportamento tenuto dopo il fatto».

Ad analoghe conclusioni era già giunta la suprema Corte nel caso di un medico accusato di avere provocato colposamente il decesso di una paziente. Nella valutazione della sussistenza dei presupposti per l'applicabilità di una misura cautela interdittiva veniva in rilievo proprio il fatto che il sanitario avesse perseverato e reiterare le condotte negligenti, imprudenti ed imperite a fronte delle evidenti lesioni già causate alla paziente (decideva di effettuare un tipo di intervento in presenza di circostanze che suggerivano l'adozione di altre tecniche chirurgiche; eseguiva in modo gravemente non corretto l'operazione procurando alla paziente molteplici lesioni; non si preoccupava di trattare dette lesioni nonostante egli, nel corso dell'intervento, si fosse reso conto dell'accaduto; non diagnosticava, neppure nei giorni successivi all'intervento, le ragioni del quadro gravemente precario delle condizioni di salute della donna - Cass. Pen. sez. IV, 3 novembre 2011, n. 42588).

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