Un frutto avvelenato della riforma Orlando: le sentenze di patteggiamento prive di motivazione non sono più impugnabili

29 Novembre 2018

Per la giurisprudenza di legittimità, nonostante il giudice sia ancora tenuto a escludere la sussistenza di cause di proscioglimento prima di definire il processo nelle forme dell'art. 444 c.p.p., la violazione di tale obbligo non è più censurabile con ricorso per Cassazione. Si tratta di una conseguenza delle modifiche apportate all'art. 448 c.p.p., che la Corte regolatrice ritiene immune da censure di irragionevolezza. Tuttavia il volto costituzionale del rito alternativo appare sempre meno riconoscibile.
Abstract

Per la giurisprudenza di legittimità, nonostante il giudice sia ancora tenuto a escludere la sussistenza di cause di proscioglimento prima di definire il processo nelle forme dell'art. 444 c.p.p., la violazione di tale obbligo non è più censurabile con ricorso per Cassazione. Si tratta di una conseguenza delle modifiche apportate all'art. 448 c.p.p., che la Corte regolatrice ritiene immune da censure di irragionevolezza. Tuttavia il volto costituzionale del rito alternativo appare sempre meno riconoscibile.

La compatibilità del rito speciale con i principi costituzionali nella giurisprudenza della Corte costituzionale

Al rito alternativo dell'applicazione della pena su richiesta delle parti era affidata «buona parte dell'efficienza del nuovo codice» (cfr. Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, G.U. serie generale 250 del 24 ottobre 1988). Tuttavia l'istituto, sconosciuto al previgente codice, venne ben presto sottoposto a plurime censure di costituzionalità.

Anzitutto si addusse l'illegittimità dell'art. 444 c.p.p. nella parte in cui non consentiva al giudice di valutare la congruità della pena oggetto del pactum.

Si ritenne violato il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge, ex art. 101, primo comma, della Costituzione, perché costui, nel decidere sull'istanza di applicazione della pena, «[…] sarebbe sostanzialmente tenuto alla volontà delle parti, salvo che per il controllo di legittimità sulla definizione giuridica del fatto e sulle circostanze».

Del pari si dubitò della conformità del rito con la presunzione di non colpevolezza ex art. 27, comma 1, Cost., giacché il giudice, investito della richiesta delle parti, è chiamato non a verificare la colpevolezza dell'imputato, quanto a scrutinare se vi siano evidenze della sua innocenza, con un chiaro rovesciamento di prospettiva rispetto alla previsione costituzionale.

Ulteriormente si considerò violato l'obbligo di motivazione imposto dall' art. 111 della Costituzione per i provvedimenti giurisdizionali, «perché non può attribuirsi valore di motivazione all'enunciazione nel dispositivo della richiesta delle parti, mentre manca ogni indicazione del convincimento del giudice sul merito».

La Corte costituzionale ritenne fondata la prima censura, rilevando che l'art. 27,comma 3, Cost. «impone al giudice di valutare l'osservanza del principio di proporzione fra quantitas della pena e gravità dell'offesa, e quindi il concreto valore rieducativo della pena in relazione alla sua pregnante finalità» (cfr. Corte cost. 26 giugno 1990, n. 313, relatore Gallo).

Diversamente non trovarono accoglimento le altre questioni di costituzionalità.

Invero per la Corte la soggezione del giudice soltanto alla legge restava garantita non soltanto dalle rigorose condizioni entro cui l'intesa tra le parti può aver luogo, avuto riguardo ai limiti di pena, ma anche dal vaglio che il decidente conduce attraverso l'analisi delle risultanze processuali, tanto riguardo all'assenza di cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., quanto alla definizione giuridica dei fatti, nonché rispetto al riconoscimento delle attenuanti e al loro bilanciamento con le eventuali aggravanti.

Così ricostruiti gli accertamenti che il giudice è chiamato a svolgere sulla res iudicanda, in tema di motivazione della sentenza di patteggiamento la Corte ritenne che il generale modello di motivazione della sentenza di cui all'art. 546 c.p.p.esprima «un'esigenza che non è esclusa dalla particolare configurazione della sentenza prevista dall'art. 444 cod. proc. pen., anche se ovviamente va ad essa ragguagliata».

Ed è proprio il richiamo al paradigma dell'art. 546 c.p.p. che pare saldare nel ragionamento della Corte il rispetto dell'obbligo di motivazione con la presunzione di non colpevolezza, giacché la norma codicistica, esigendo che il giudice indichi le prove che intende porre a base della sua decisione ed enunci le ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie, fa sì che «anche la decisione di cui all'art. 444 cod. proc. pen., quando non è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalle prove della responsabilità».

La concreta tenuta del modello designato dalla Corte costituzionale nella prassi giurisprudenziale

Nonostante l'enfasi posta dalla Corte costituzionale sui controlli e i correlati obblighi motivazionali in capo al giudice, al fine di assicurare la costituzionalità del rito, ben presto la giurisprudenza fu chiamata a conformare quei principi con la natura pattizio del nuovo rito.

Invero il Legislatore del 1988 introdusse una forma di “giustizia patteggiata” senza però sciogliere i nodi che il principio dispositivo, sotteso al nuovo rito, comportava.

A ben guardare rimasero elusi quesiti fondamentali.

L'accordo raggiunto tra le parti ha un efficacia sanante dei vizi processuali e se sì di qualsivoglia tipo? Il che equivale a chiedersi se tali vitia sono nella disponibilità dell'imputato e del pubblico ministero.

Alla sentenza con cui si applica la pena concordata si accorda una motivazione peculiare, stante la sua sostanziale natura di ratifica di una volontà altrui?

A costituzione immutata, è lecito ridurre l'area di ricorribilità della sentenza, idonea comunque a incidere sulla libertà personale?

Tuttavia, non soltanto il nuovo codice non pose nessuna specifica norma riguardo a tali temi ma a rigori la caratteristica pattizia del nuovo rito appariva irrilevante, dovendo ciascuno dei quesiti poc'anzi riportato risolversi secondo la disciplina generale.

A tal punto però la giurisprudenza, traendo ogni estrema conseguenza dalla natura negoziale del patteggiamento, iniziò una vasta opera di riscrittura del medesimo in più direttrici.

Anzitutto si accordò al rito un macroscopico effetto sanante.

Infatti si ritenne che il patteggiamento comporti la rinuncia a far valere ogni questione e obiezione di qualsiasi natura (Cass. pen., Sez. IV, 11 marzo 1992), financo se si inveri in una nullità assoluta (ex pluribus Cass. pen., Sez. III, 18 giugno 2014, n. 39193,Da Silva e altri; Cass. pen., Sez. VI, 24 marzo 2000, n. 1445, Procopio; Cass. pen., Sez. V, 29 dicembre 1998, ord. n. 7262, Ben Hamidi L). Ciò salvo che non si tratti di nullità attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato (Cass. pen., Sez. V. 1° aprile 1999, n. 7262).

Tale arresto ha trovato applicazione anche rispetto allo straniero alloglotta, cui gli atti non erano stati tradotti (Cass. pen., Sez. VII,n. 14308/2016).

È evidente che ricostruendo così il rito, viene rimessa alla comune volontà delle parti di disporre di interessi di per sé indisponibili e in quanto tali protetti da nullità assolute.

Parimenti, già pochi anni dopo l'entrata in vigore del nuovo codice, il massimo consesso della Suprema Corte affrontò il tema della declinazione dell'obbligo di motivazione rispetto alla sentenza di patteggiamento.

Le Sezioni unite precisarono che l'obbligo di giustificazione, imposto al giudice dagli artt. 111 Cost. e 125, comma 3, c.p.p., per tutte le sentenze, opera anche rispetto alle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti. Tuttavia, l'apparato giustificativo «non può non conformarsi alla particolare natura giuridica della sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 444, comma 2, cod. proc. pen.» (Cass. pen.,Sez. unite, 27 settembre 1995, n.10372).

In altra occasione, sempre le Sezioni unite avevano “redatto” una sorta di vademecum per la motivazione delle sentenze di patteggiamento, puntualizzando che essa consiste in una delibazione allo stesso tempo positiva e negativa (Cass. pen., Sez. unite, 27 marzo 1993, n. 5777).

Positiva quanto all'accertamento:

  1. della sussistenza dell'accordo delle parti sull'applicazione di una determinata pena;
  2. della correttezza della qualificazione giuridica del fatto nonchè della applicazione e della comparazione delle eventuali circostanze;
  3. della congruità della pena patteggiata, ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, comma 3, Cost.;
  4. della concedibilità della sospensione condizionale della pena, qualora l'efficacia della richiesta sia stata subordinata alla concessione del beneficio.

Negativa quanto alla esclusione della sussistenza di cause di non punibilità o di non procedibilità o di estinzione del reato.

Tuttavia, tanto per il massimo consesso della Corte quanto per le successive Sezioni semplici ciò che andava motivato, poteva esserlo con argomentazioni implicite, se non apparenti.

Infatti per ciò che attiene al giudizio negativo sulla ricorrenza di alcuna delle ipotesi previste dall'art. 129 c.p.p., il mero richiamo in sentenzaalla norma «è sufficiente a far ritenere che il giudice abbia verificato ed escluso la presenza di cause di proscioglimento, non occorrendo ulteriori e più analitiche disamine al riguardo» (Cass. pen., Sez. VI , 9 dicembre 2015, n. 1088, nonché Cass. pen., Sez. VI, 1 aprile 2015, n. 15927, Benedetti; Cass. pen., Sez. II, 27 gennaio 2015, n.7683; Cass. pen., Sez. II, 17 novembre 2011, n. 6455).

Analogamente per ciò che concerne la motivazione relativa al giudizio di bilanciamento tra le circostanze, si è chiarito che «anche la sola enunciazione dell'eseguita valutazione delle circostanze concorrenti, esaurisce l'obbligo della motivazione» (Cass. pen., Sez. IV, 26 marzo 1990, n. 10379, Di Carlo; nonché Cass. pen., Sez. VI, 11settembre 2017, n. 56976, S.R.).

Tuttavia per la Corte di legittimità l'obbligo motivazionale si riespande lì dove il codice riconosca al giudice un potere discrezionale rispetto al patto concluso dalle parti, come in caso di confisca facoltativa disposta in relazione al c.d. patteggiamento allargato. Infatti si è considerato che «dopo la modifica dell'art. 445 c.p.p., che ha esteso le possibilità di provvedere alla confisca rendendola adottabile in tutti i casi previsti dall'art. 240 c.p., il giudice è tenuto a motivare l'esercizio del suo potere discrezionale, evidenziando i presupposti della disposta misura» (Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2015, n. 1088), senza che le giustificazioni addotte possano assumere le connotazioni di sinteticità tipiche del rito (Cass. pen., Sez. V, 11 marzo 2015, n. 3267, Di Lucrezia e altro).

È evidente che motivazioni sì congegnate rendevano, già ante novella del 2017, assai limitati i margini di ricorso per cassazione.

Infatti, il ricorso per difetto di motivazione, riguardo alla ricorrenza di cause di proscioglimento, era limitato all'ipotesi in cui esse fossero rese evidenti dal medesimo testo della sentenza (Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2015, n. 1088).

Ancora più ristretta, evidentemente, la possibilità di censurare l'erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza, potendosi dedurre i soli casi di errore manifesto (Cass. pen. Sez. III, 24 giugno 2015, n. 34902, Brughitta e altro) e comunque rimanendo precluso l'accesso agli atti (Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2012, n. 15009, Bisignani). Talora peraltro la Corte di legittimità si è spinta sino al punto di affermare che, una volta intervenuto il patto, «l'accusa come giuridicamente qualificata non può essere rimessa in discussione» (Cass. pen.,Sez. IV, 27 giugno 2014,n. 32465, C.I. e altri).

Infine merita rilevarsi che il rilievo accordato dalla giurisprudenza al principio dispositivo appare manifesto in quelle pronunce secondo cui il giudice, sebbene chiamato a controllare la qualificazione giuridica del fatto, non può discostarsi da quella consacrata nell'accordo delle parti, salvo errori manifesti,neppure in favor rei (Cass. pen., Sez. II, 13 luglio 2011, n. 35576, Tutino).

L'avallo della c.d. riforma Orlando alla prassi giudiziaria e le conseguenze in tema di difetto di motivazione della sentenza di applicazione della pena

Come è noto la legge 103 del 2017 ha cercato di deflazionare il giudizio di legittimità, riducendo le occasioni di gravame e introducendo agevoli procedure di cestinazione delle impugnazioni, accompagnate da gravose sanzioni pecuniarie a carico dell'imputato ricorrente.

Tali finalità si colgono in particolar modo con riferimento al patteggiamento, rispetto al quale un preteso abuso dell'«istituto del ricorso per cassazione […] ha indotto il Legislatore della riforma […] ad intervenire» (Cass. pen., Sez. II, 11 gennaio 2018 , n. 4727).

Infatti, mentre antecedentemente alla riforma, in tesi, si poteva ricorrere alla Suprema Corte per tutti i motivi di cui all'art. 606 c.p.p., con il nuovo comma 2-bis dell'art. 448 c.p.p., il Legislatore ha limitato la ricorribilità ai soli «motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza», introducendo così «una norma speciale rispetto al canone generale delineato nell'art. 606 c.p.p.» (Cass. pen.,Sez. VI, 8 gennaio 2018, n.3108).

Appare manifesto come la riforma abbia accolto le istanze della giurisprudenza di legittimità prima riportata, espungendo dall'area del gravame ogni caso di deficit del discorso giustificativo e selezionando le ipotesi di errores ricorribili.

Al riguardo si noti che già appare consolidato l'indirizzo di legittimità che ritiene inammissibile il gravame volto a censurare l'omesso riferimento in sentenza all'accertamento negativo sulla ricorrenza delle condizioni ex art. 129 c.p.p. Invero ancora una volta enfatizzando il ruolo dispositivo del rito, la Corte di cassazione ha affermato che «l'intento perseguito dal Legislatore è quello di evitare un'analisi della motivazione della sentenza di patteggiamento sull'affermazione di colpevolezza dinanzi al giudice di legittimità, dovendosi invece dare rilievo al consenso prestato dall'imputato […] che rende contraddittorio e superfluo un giudizio di impugnazione sullo svolgimento dei fatti»(Cass. pen., Sez. II, 11 gennaio 2018 , n. 4727).

Tale novella sarebbe esente da censure di irragionevolezza mercé l'implicito riconoscimento di responsabilità che scaturisce dal rito speciale (Cass. pen.,Sez. IV, 5 giugno 2018,n. 38235, nonché Cass. pen.,Sez. IV,9 maggio 2018, n. 24514).

Con riguardo alle ipotesi di violazione di legge oggi censurabili, val la pena di rilevare che il Legislatore è apparso più “lealista del re”, forse giungendo a escludere ipotesi di violazioni di legge antea pacificamente ricorribili, se non emendabili con la procedura di correzione dell'errore materiale.

Infatti non si coglie se tra le ipotesi di illegalità della pena o della misura di sicurezza oggi censurabili, rientri ancora l'omessa o erronea applicazione di sanzioni amministrative accessorie, prima ritenute ricorribili (Cass. pen., Sez. IV, 19 novembre 2015, n. 1880, P.G. in proc. G.G.E.,). Il dubbio che tali errores siano in qualche modo emendabili è reso ancora più acuto ove si acceda alla tesi secondo cui la riformata procedura di correzione dell'errore materiale non consente l'emenda della sentenza di patteggiamento, al di fuori delle specifiche ipotesi previste dal nuovo comma I bis dell'art. 130 c.p.p., e cioè per rettificare la specie e la quantità della pena applicata per errore di denominazione o di computo.

Oltre le colonne d'Ercole della legittimità costituzionale?

La riforma del 2017 potrebbe avere definitivamente allontanato il rito alternativo dai principi costituzionali.

L'articolo 111 della Costituzione prevede che le sentenze debbano essere motivate e che esse siano sempre ricorribili per violazione di legge.

Orbene, per quanto con la riforma del 2017 non siano venuti meno né i controlli cui il giudice sottopone il negozio, né la motivazione, per quanto scarnificata, del provvedimento, l'incensurabilità di ogni vizio motivazionale fa sì che le sentenze prive di giustificazione abbiano trovato cittadinanza nel nostro ordinamento, per come testimoniato dai recenti approdi giurisprudenziali.

E tutto ciò nonostante la Corte costituzionale avesse già avvertito che una motivazione che si risolvesse alla «enunciazione nel dispositivo che avverte esservi stata richiesta delle parti non è effettivamente motivazione» (Corte cost. 26 giugno 1990 cit.).

Peraltro gli effetti perversi della riforma possono apprezzarsi ancor di più, ove si ponga mente al divieto di patteggiamento per parte dei capi di imputazione (Cass. pen., Sez. III, 16 febbraio 2001, Ardigò; Cass. pen., Sez. II, 27 marzo 2008, D.P; Cass. pen., Sez. I, 9 luglio 2007, Armeli Moccia e altri).

Infatti, il c.d. divieto di patteggiamento parziale contiene ontologicamente il rischio che l'imputato si assuma responsabilità anche per fatti che non ha commesso pur di evitare condanne più severe in relazione alle imputazioni più gravi. La validità de facto della sentenza immotivata anche con riguardo al vaglio delle condizioni di proscioglimento rischia di avallare definitivamente il pericolo del sacrificio dell'innocente.

In ogni caso, se con riguardo alla motivazione formalmente il precetto costituzionale può dirsi ancora osservato, rispetto alla ricorribilità per violazione di legge la selezione operata dal legislatore non appare conforme neppure alla lettera dell'art. 111 Cost., che sembra imporre la censurabilità innanzi ai Giudici nomofilattici di ogni violazione di legge.

Ma invero v'è da chiedersi se già ante riforma il rito alternativo concretamente disegnato dalla giurisprudenza non fosse estraneo alla Carta costituzionale.

Infatti non pare che il rimettere alla mercè della negoziazione delle parti interessi indisponibili- quali quelli custoditi dalle nullità assolute- sia conforme al principio di soggezione del Giudice alla legge.

In conclusione

È indubbio che i riti speciali debbano soddisfare esigenze deflattive e che la negoziazione implichi un ampio esercizio di poteri dispositivi, ma ciò non si può tradurre in un annullamento di ogni garanzia per chi vi abbia fatto ricorso.

Guida approfondimento

E. ACCARDO, Limiti del giudizio di legittimità in relazione alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, in IlPenalista.it;

G. COLAIACOVO, L'impugnazione della sentenza di patteggiamento”, in “La riforma Orlando. Modifiche al codice penale, in Spangher (a cura di), Codice di procedura penale e ordinamento penitenziario, Pisa, 2017, 200 ss.;

G. DELLA MONICA, I limiti al controllo sulla sentenza di patteggiamento introdotti dalla riforma Orlando in Archivio penale, 6 giugno 2018;

A. SANNA, L'eclissi della legalità nel rito negoziale: limiti al ricorso per cassazione nel disegno di riforma all'esame del Parlamento, in Dir. pen. e processo, 2016, 928 ss.

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