Dichiarazioni acquisite ex art. 500, comma 4, c.p.p. e reformatio in pejus. È necessaria la rinnovazione dibattimentale?

Giuseppe Sgadari
03 Dicembre 2018

Se il giudice di appello debba procedere a rinnovare l'esame del dichiarante allorquando riformi una sentenza di assoluzione di primo grado sulla base di dichiarazioni rese dal soggetto nella fase delle indagini preliminari e acquisite al fascicolo del dibattimento ex art. 500, commi 4 e 5, c.p.p.
Massima

I. Quando è proposto appello da parte del Pubblico ministero contro una sentenza di assoluzione motivata sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel corso delle indagini preliminari ed acquisite ex art. 500, commi 4 e 5, c.p.p., il giudice di appello, ove riformi in peius la sentenza di proscioglimento di primo grado, non è obbligato a rinnovare il dibattimento esaminando, ex novo, la suddetta persona offesa.

II. Le dichiarazioni rese dalla persona offesa nel corso delle indagini preliminari, acquisite ex art. 500, commi 4 e 5, c.p.p., non possono essere automaticamente ritenute credibili, ma devono essere sottoposte ad un controllo di attendibilità secondo le regole generali e senza tenere conto, in linea di principio, delle dichiarazioni dibattimentali “inquinate”; la loro valutazione probatoria deve essere effettuata alla stregua dei parametri di cui all'art. 192, commi 1 e 2,c.p.p. , a meno che non emergano elementi che facciano ritenere necessario un riscontro esterno, al di là della qualifica formale rivestita dal dichiarante al momento in cui ha reso le dichiarazioni.

Il caso

Il complesso caso concreto sottoposto all'esame della Corte di cassazione, riguardava sei imputati chiamati a rispondere di tentata estorsione, rapina e lesioni personali nei confronti di una stessa persona offesa, che aveva sporto denuncia ed era stata varie volte escussa a sommarie informazioni durante le indagini preliminari.

I reati contestati avevano avuto origine da un comportamento truffaldino della persona offesa, che aveva promesso, a due degli imputati, l'ottenimento, dietro corrispettivo, di falsi attestati di partecipazione e certificazioni per la navigazione, poi subendo le ritorsioni illecite contestate, commesse dai raggirati con l'ausilio degli altri imputati quali referenti criminali.

Chiamata a deporre al dibattimento di primo grado, la persona offesa si era mostrata subito reticente e il tribunale, preso atto delle intimidazioni che costei aveva subito da parte di uno degli imputati – circostanza che non verrà mai contestata nel corso del giudizio – acquisiva, ex art. 500, commi 4 e 5,c.p.p., tutte le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari.

Il tribunale riteneva provata la responsabilità soltanto di uno degli imputati, per l'unico reato (di estorsione) in ordine al quale le dichiarazioni della persona offesa erano state corroborate da un riscontro esterno.

Giustificava l'assoluzione nel resto (del medesimo imputato e di tutti gli altri) in ragione delle contraddizioni tra le dichiarazioni rese dalla persona offesa nelle indagini preliminari e quelle rese al dibattimento, in assenza di altri validi elementi estrinseci di conferma.

La Corte di appello, adita dal pubblico ministero e dall'unico imputato ritenuto colpevole in primo grado, ha confermato la condanna inflitta dal tribunale, estendendola anche agli altri imputati, ritenendo che andassero valorizzate soltanto le dichiarazioni rese dalla persona offesa nel corso delle indagini preliminari, nel coacervo delle altre risultanze, senza alcun confronto con le dichiarazioni dibattimentali, in quanto frutto, queste ultime, delle intimidazioni subite dalla vittima.

La Corte, inoltre, pur giungendo a un ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado, non ha ritenuto di rinnovare l'esame del dichiarante, ritenendo bastevole fornire una motivazione rafforzata rispetto a quella di primo grado.

La Corte di cassazione, considera corretta la decisione della Corte di appello con riguardo alla responsabilità per estorsione dell'unico imputato che aveva subito la condanna in entrambi i gradi di merito per il reato di estorsione, mentre, tenuto conto del particolare ruolo assunto dalla persona offesa nella specifica vicenda, annulla senza rinvio la sentenza di secondo grado in relazione alla affermazione di responsabilità di tutti gli imputati per i reati di rapina e lesioni personali, in ordine ai quali le dichiarazioni della persona offesa non avevano ricevuto alcun riscontro esterno.

La questione

Come è dato rilevare dai principi di diritto sopra indicati, le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza in commento e che si ritiene di dover sottolineare in questa sede (poiché anche altre ve ne erano) sono due:

a) se il giudice di appello debba procedere a rinnovare l'esame del dichiarante allorquando riformi una sentenza di assoluzione di primo grado sulla base di dichiarazioni rese dal soggetto nella fase delle indagini preliminari e acquisite al fascicolo del dibattimento ex art. 500, commi 4 e 5,c.p.p.

b) quale sia il criterio di valutazione che il giudice deve adottare riguardo a tali dichiarazioni predibattimentali acquisite e il rapporto tra queste e le dichiarazioni rese dal medesimo soggetto al dibattimento.

Le soluzioni giuridiche

Riguardo alla prima questione, la sentenza in commento ritiene che il giudice di appello che riformi la pronuncia assolutoria di primo grado, non debba procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa decisiva allorquando le dichiarazioni del testimone (o, come nel caso in esame, della persona offesa) siano state acquisite al fascicolo del dibattimento ex art. 500, commi 4 e 5, c.p.

In questo caso, infatti, la prova dichiarativa dibattimentale è stata “inquinata” da fattori esterni (basta uno di quelli descritti dalla norma richiamata, violenza, minaccia, offerta o promessa di danaro o di altra utilità) e non sarebbe possibile né ragionevole una sua rinnovazione in contraddittorio, perché tale regola di assunzione della prova ha subito un vulnus attraverso le pressioni (nel caso in esame, le minacce) patite dalla persona offesa: le dichiarazioni di quest'ultima, infatti, in una ipotetica rinnovazione, non potrebbero che essere ritenute inaffidabili, proprio in forza dei condizionamenti subiti dal dichiarante.

Tale soluzione viene, in primo luogo, ritenuta dalla Cassazione in linea con la giurisprudenza della Corte Edu, che, pur privilegiando, nella valutazione della prova dichiarativa, i principi di oralità e immediatezza che ne impongono la assunzione diretta da parte del giudice, ammette che possano esservi delle eccezioni dovute a specifiche contingenze; tra esse, secondo la sentenza in commento, va annoverata quella di cui si discute.

E che proprio quest'ultima, delicata situazione processuale sia una eccezione alla regola generale – ora consacrata anche nell'art. 603, comma 3-bis c.p.p. ma già riveniente da consolidati principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione (il riferimento implicito è alle note sentenze Dasgupta e Patalano delle Sezioni Unite) – era già stato messo in evidenza da altra sentenza di legittimità, richiamata da quella che si sta qui commentando (Cass. pen., Sez. II, n. 55068/2017, laddove di parla di testimonianza “non assumibile” e si riassumono gli orientamenti della giurisprudenza della Corte Edu).

In secondo luogo, la Cassazione mette in evidenza che il caso disciplinato dall'art. 500, commi 4 e 5,c.p.p., è ritenuto una eccezione alla regola della formazione della prova in contradditorio anche dall'art. 111, comma 5, della Costituzione, rientrando tra le ipotesi di “accertata condotta illecita”.

In ordine alla seconda questione, la Suprema Corte ritiene che le dichiarazioni predibattimentali, acquisite ex art. 500, commi 4 e 5, c.p.p. , debbano essere valutate alla stregua dei principi generali fissati dall'art. 192, commi 1 e 2 c.p.p.

Vale a dire che, in linea di principio, la dichiarazione della persona offesa, come è noto, può da sola bastare a sostenere un giudizio di condanna dell'imputato anche in assenza di riscontri esterni, purché se ne valuti positivamente l'attendibilità intrinseca.

Attendibilità che, come tiene a sottolineare la sentenza in commento – conformandosi, sul punto, a precedente e specifica decisione di legittimità (Sez.2, n. 50323 del 2013, Rv. 257980) – il giudice deve saggiare in maniera completa, “senza automatismi” provenienti dal fatto che il dichiarante sia stato sottoposto ad accertati condizionamenti esterni.

E, inoltre, l'attendibilità intrinseca del dichiarante deve essere valutata sulla base delle dichiarazioni predibattimentali acquisite, non tenendo conto, in linea di massima, delle successive dichiarazioni “inquinate” rese davanti al giudice. Infatti, se si è verificato il condizionamento esterno del dichiarante, le dichiarazioni dibattimentali di costui, proprio per questo non saranno affidabili, sicché sarebbe contraddittorio attribuire loro rilevanza probatoria ai fini del giudizio di attendibilità confrontandole con quelle rese nella fase delle indagini preliminari.

Poste queste regole generali, la Cassazione ritiene, tuttavia, che, nel caso in esame, le sole dichiarazioni della persona offesa, in assenza di riscontri estrinseci, non avrebbero potuto sostenere un giudizio di colpevolezza.

Il principio opposto di ordine generale, prima formulato, non può trovare applicazione, nell'occorso, in funzione del precipuo ruolo svolto da quel determinato soggetto dichiarante nella specifica vicenda processuale al vaglio della Suprema Corte, in quanto autore di una condotta truffaldina che aveva innescato le reazioni illecite degli imputati.

E, ciò, indipendentemente dal fatto che questi rivestisse formalmente la veste di persona offesa, nel senso che non fosse stata formalmente elevata a suo carico alcuna imputazione.

Da qui, la conferma della sentenza di appello in relazione a quella parte di essa in cui la condanna era intervenuta sulla base delle dichiarazioni della persona offesa assistite da riscontro esterno e l'annullamento della decisione nella restante parte in cui la condanna degli imputati si era avuta attraverso le sole dichiarazioni della stessa persona offesa.

Osservazioni

Sulla questione della rinnovazione della prova dichiarativa in appello nel particolare caso disciplinato dall'art. 500, commi 4 e 5,c.p.p., la sentenza in commento offre una soluzione che potremmo definire “blindata”.

Solo per inciso, nella vicenda processuale specifica, sottoposta al vaglio della Corte di cassazione, non si poneva alcuna questione sul fatto che effettivamente la persona offesa fosse stata minacciata da uno degli imputati. Vale a dire che nessuna parte aveva messo in discussione la correttezza della decisione del tribunale di procedere alla acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali della persona offesa, in quanto l'esame di costei al dibattimento di primo grado era stato inquinato da “provata condotta illecita” commessa ai suoi danni da uno dei ricorrenti.

Detto questo, la regola espressa dalla sentenza è, come si è visto, la seguente:

se la Corte di appello si trova a giudicare il caso concreto essendo state acquisite le dichiarazioni rese dalla persona offesa ai sensi dell'art. 500, commi 4 e 5 c.p.p., non occorre che proceda a nuova escussione della vittima al dibattimento di secondo grado: la sentenza di primo grado può essere riformata in pejus, stante l'appello della parte pubblica, sulla base di una valutazione “cartolare” delle dichiarazioni predibattimentali del dichiarante.

Tale soluzione trova conforto sia nella interpretazione della giurisprudenza della Corte Edu, già oggetto di precedente e specifica decisione della stessa Corte di cassazione (sentenza n. 55068 del 2017 prima citata) – sia nell'art. 111, comma 5, della Costituzione, in questo senso interpretato anche da conformi sentenze di legittimità più risalenti (Cass. pen., Sez. I, n. 11203/2007; Cass. pen., Sez. I, n. 31131 del 2004).

Pertanto, la vicenda incidentale che determina l'acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni della persona offesa ex art. 500, commi 4 e 5,c.p.p., va pacificamente considerata una eccezione alla regola generale della formazione della prova al dibattimento e di quella che privilegia l'oralità e l'immediatezza quali pre-requisiti affinché il giudice possa valutare positivamente una prova dichiarativa, secondo gli insegnamenti che provengono dalle Sezioni unite (Dasgupta e Patalano) e ora, testualmente, anche dall'art. 603, comma 3-bis, c.p.p.

La soluzione offerta dalla sentenza, oltre che condivisibile, può essere estesa, a giudizio di chi scrive, a ogni prova dichiarativa, identica essendo la ratio che si trae dall'art. 500, commi 4 e 5,c.p.p., che tutela la genuinità della prova in quanto foriera di una corretta decisione del giudice, che tale non potrebbe essere se si radicasse su una prova dichiarativa “inquinata”, caratteristica che renderebbe quanto meno improduttiva se non fuorviante una sua replica.

Dunque, non importa che il dichiarante sia persona offesa, testimone puro, testimone assistito o imputato di reato connesso o probatoriamente collegato a quello per cui si procede (con riguardo a questo ultimo caso, è testuale il rinvio contenuto nell'art. 210, commi 5 e 6, c.p.p. all'art. 500 dello stesso codice; si veda, in proposito, nello stesso senso, anche Cass. pen., Sez. I, n. 17704/2010).

Così come, ovviamente, non importa che la prova dichiarativa “inquinata” intervenga nell'ambito di un processo celebrato con il rito ordinario o nell'ambito di un processo celebrato con il rito abbreviato condizionato alla escussione del dichiarante vittima di pressioni esterne: in entrambe le procedure, infatti, siamo in presenza di una prova orale che avviene nel contraddittorio delle parti e davanti al giudice resa da chi ha subito pressioni esterne illecite tali da minarne ab origine la genuinità.

Due condizioni sono, però, necessarie per la correttezza della decisione di non rinnovare tale prova in appello, come pure si coglie in un passaggio della sentenza 55035/2018 che merita di essere sottolineato: che al giudice di secondo grado non risulti in qualche modo che il dichiarante, le cui dichiarazioni predibattimentali sono state acquisite in primo grado ex art. 500, commi 4 e 5 c.p.p. , sia di nuovo libero di rendere testimonianza, ovvero che risulti l'insussistenza delle condotte “inquinanti”.

In altre parole, se al giudice di appello viene fornita la prova che la minaccia, la violenza o l'offerta di utilità non si erano verificate, ovvero che il soggetto non si sente più minacciato, allora riprenderanno vigore le regole generali che si sono evidenziate sopra ed andrà di nuovo assunta la testimonianza ritenuta decisiva nel processo di appello che abbia un esito peggiorativo per l'imputato rispetto al primo grado (si veda fg. 11 della sentenza in commento, laddove la Corte di cassazione si pone la questione solo in astratto e per inciso, poiché nel caso concreto non erano state dedotte simili circostanze).

Sull'altra questione giuridica, la sentenza in commento formula dei principi generali e, al contempo, delle eccezioni.

Le regole generali di valutazione della prova dichiarativa, nel caso di acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali ex art. 500, commi 4 e 5.c.p.p. , sono quelle fissate dall'art. 192, comma 1 e 2,c.p.p.

Ciò significa che la dichiarazione della persona offesa (come nel caso in esame) o del testimone, può da sola bastare a fondare la responsabilità dell'imputato, purché il giudice superi il rigoroso vaglio di attendibilità intrinseca, secondo quella che è la costante giurisprudenza di legittimità sull'argomento.

A questo proposito, tuttavia, la sentenza – conformandosi ad una precedente decisione della stessa Corte di cassazione che aveva messo a fuoco il problema (n. 50323/2013, già citata) – puntualizza tre importanti aspetti.

La circostanza che si sia dato corso, con esito positivo, all'incidente di cui all'art. 500, commi 4 e 5,c.p.p., non esime, in primo luogo, il giudice dal dovere di saggiare l'attendibilità intrinseca della prova dichiarativa, secondo i noti canoni di giudizio; al contrario, si può qui aggiungere, tale dovere è, semmai, ancora più sollecitato dal fatto che il giudizio deve avvenire su un caso che rappresenta una eccezione alle regole generali prima richiamate, su una prova che ha subito un evento traumatico nel naturale processo di sua acquisizione.

E nel giudicare della attendibilità intrinseca del dichiarante, il giudice, in secondo luogo, non deve farsi influenzare dal fatto che il soggetto ha subito un condizionamento esterno che ha attivato il meccanismo di acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali; tale meccanismo non conferisce automaticamente una patente di attendibilità al dichiarante.

Infatti, qualunque dichiarante potrebbe essere inattendibile ab origine e anche l'imputato potrebbe avere minacciato il testimone non per fargli dichiarare il falso, ma per evitare che egli lo ribadisca. Non a caso, l'art. 500, comma 4, c.p.p. , precisa che le pressioni illecite sono quelle indirizzate a che il dichiarante non deponga ovvero deponga il falso.

Tanto giustifica quel che prima si era osservato a proposito del particolare sforzo valutativo che è richiesto al giudice nello specifico contesto processuale in discorso.

Infine, nel criterio di valutazione della particolare prova dichiarativa originata dal ricorso alla procedura ex art. 500, commi 4 e 5, c.p.p., il giudice può fare a meno di prendere in considerazione le dichiarazioni rese dalla persona offesa in giudizio e basare la propria valutazione di attendibilità intrinseca del dichiarante solo sulle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari ed acquisite per effetto del meccanismo di cui si discute (anche qui, la sentenza richiama quanto si era precisato nella decisione n. 50323/2013).

Sarebbe, invero, logicamente incongruo definire inattendibile una persona offesa sulla base dell'emergenza di contraddizioni tra il contenuto delle dichiarazioni predibattimentali e il contenuto delle dichiarazioni rese in giudizio.

Ciò, in quanto, come si vede, le seconde dichiarazioni (quelle davanti al giudice) sono da ritenere intrinsecamente inaffidabili – quindi prima ancora di un qualunque confronto con le altre - in forza dei provati condizionamenti esterni.

Tuttavia, è anche vero che le dichiarazioni “inquinate” sono state comunque rese, si trovano agli atti e possono avere una ampiezza più o meno estesa a seconda dei casi concreti.

Ebbene, il giudice, tenuto a una valutazione complessiva della prova e mantenendo fermi i criteri di coerenza logica che ogni decisione deve possedere, può valorizzare singole parti delle dichiarazioni dibattimentali che, ad esempio, non entrino in rotta di collisione con le dichiarazioni predibattimentali e che possano consegnare o confermare elementi di conoscenza utili al giudizio.

Tale operazione non è proceduralmente inibita a priori ma deve essere solo giustificata da idonea motivazione (si pensi al caso di una persona offesa che, con le dichiarazioni “inquinate”, confermi comunque il dato di avere incontrato l'imputato – rivelatosi importante nell'economia della decisione – negando di avere ricevuto minacce estorsive; tanto per non allontanarsi dal merito del processo).

La Cassazione non era chiamata a una verifica del genere ma di questa eventualità si è fatta carico in un passaggio contenuto a fg. 12 della sentenza in commento.

Ritornando alle regole generali, si ha che la loro corretta applicazione, una volta espresso funditus il giudizio di attendibilità intrinseca, consente che le dichiarazioni della persona offesa possano da sole sostenere il giudizio di responsabilità di un imputato, senza necessità di riscontri estrinseci.

Nell'ottica volta ad estendere i concetti posti dalla sentenza a tutti i tipi di dichiaranti, può affermarsi che le regole di valutazione della prova seguono, anche nella eccezione causata dalla procedura ex art. 500, commi 4 e 5 c.p.p. , le distinzioni generali basate sulla qualità di chi rende le dichiarazioni: se si tratta di un testimone o di una persona offesa, giudicati attendibili intrinsecamente, non occorrerà il riscontro esterno. Se si tratta di un testimone assistito o di un imputato di reato connesso o probatoriamente collegato, invece, per affermare la responsabilità dell'imputato, dopo il controllo della attendibilità intrinseca, dovrà farsi riferimento alla regola di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. , richiamato anche dall'art. 197-bis, comma 6,c.p.p.

Questa conclusione conferma il fatto che l'incidente ex art. 500, commi 4 e 5,c.p.p., disciplina esclusivamente il meccanismo di acquisizione delle precedenti dichiarazioni fuori dal contraddittorio delle parti a quelle determinate condizioni previste dalla norma; ma non interferisce minimamente con i normali criteri di valutazione della prova dichiarativa disciplinati dalla legge in ragione della veste assunta dal dichiarante.

Ora, nel caso specifico, la Corte di legittimità si è trovata davanti a un soggetto che, formalmente, si presentava come persona offesa ma che, per il suo particolare ruolo assunto nella vicenda processuale (avendo egli truffato due degli imputati), doveva considerarsi, al di là della sua qualifica formale, come un imputato di reato connesso, con la necessità, dunque, che le sue dichiarazioni fossero assistite da riscontro estrinseco ad esse.

Questa è stata la regola che ha guidato il giudizio della Corte nel caso concreto, che è apprezzabile per la prudenza volta alla tutela degli imputati, ma che non deve ingenerare confusione nell'interprete con riguardo alla scelta del criterio di valutazione delle dichiarazioni della persona offesa nella ipotesi in cui si sia attivato il meccanismo previsto dal quarto e quinto comma dell'art. 500 c.p.p. , che rimane quello generale di cui all'art. 192, commi 1 e 2 c.p.p.

Semmai, dalla decisione del caso specifico può trarsi l'ulteriore corollario secondo cui il giudice, laddove chiamato a decidere sulla veste assunta dal dichiarante ai fini della adozione del corretto criterio di valutazione delle sue dichiarazioni - secondo la regola della necessità o meno del riscontro esterno per fondare il giudizio di responsabilità - deve fare riferimento alla sostanza più che alla forma; deve, cioè, prescindere dal fatto che il soggetto risulti iscritto come indagato o risulti imputato di un reato connesso o probatoriamente collegato a quello per cui si procede, riconoscendogli tale qualità se essa si giustifica in base alle risultanze processuali, con la conseguente adozione delle regole di valutazione della prova pertinenti a siffatte categorie di dichiaranti, ex art. 192, comma 3, c.p.p.

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