Le novità in tema di gratuito patrocinio del c.d. decreto sicurezza

10 Dicembre 2018

L'art. 15 del c.d. "Decreto sicurezza" (d.l. n. 113/2018) ha introdotto l'art. 130-bis nel capo V del TUSG dedicato alla disciplina degli obblighi e diritti di difensori e consulenti di parte della parte ammessa al gratuito patrocinio nel processo civile.
Collocazione e ratio dell'art. 130-bis d.P.R. 115/2002

Il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito con modifiche nella legge 1 dicembre 2018, n. 132, contiene anche una modifica al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (d'ora innanzi, per brevità, TUSG).

Si tratta del capoverso dell'art. 15 (intitolato “Disposizioni in materia di giustizia”), che ha introdotto l'art. 130-bis nel capo V del TUSG dedicato alla disciplina degli obblighi e diritti di difensori e consulenti di parte della parte ammessa al gratuito patrocinio nel processo civile.

In sede di conversione sono stati eliminati i riferimenti al processo civile, che erano presenti nella versione originaria del decreto, in quanto, evidentemente, ritenuti superflui.

La nuova norma contempla, rispettivamente ai commi 1 e 2, due ipotesi di esclusione del diritto al compenso del difensore e del CT della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato.

A ben vedere essa costituisce la trasposizione, nella disciplina del TUSG dedicata al processo civile, di una norma, identica, che già esisteva con riguardo al processo penale, ovvero l'art. 106, e rappresenta così una deroga alla regola generale fissata, dall'art. 130, secondo cui il difensore e il consulente di parte nominati da chi è ammesso al patrocinio a spese dello Stato hanno diritto al compenso, che, però, è ridotto della metà (così SCALERA, Gratuito patrocinio e liquidazione dei compensi agli avvocati nel c.d. “decreto sicurezza”, in ilprocessocivile.it).

Entrambe le previsioni hanno una evidente finalità di contenimento della spesa pubblica poiché escludono la possibilità di un onere economico dello Stato a fronte di determinate evenienze che rendono il professionista immeritevole di una retribuzione.

Il primo comma. I precedenti

Il comma 1 dell'art. 130-bis nega al difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio il diritto al compenso, per l'attività prestata nel corso del giudizio di impugnazione, qualora l'impugnazione stessa sia dichiarata inammissibile, riecheggiando in tal modo analoghe disposizioni, riguardanti il processo civile, già presenti nel nostro ordinamento.

Si pensi innanzitutto all'art. 13, comma 1-quater, dello stesso TUSG che prevede che: «Quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale…».

Peraltro questa previsione, la cui applicabilità al processo con parte ammessa al gratuito patrocinio è controversa (Cass. civ., sez. lav., 2 settembre 2014, n. 18523 e Cass. civ., 9 novembre 2016, n. 22867, l'hanno esclusa in base al rilievo che, in ipotesi di ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato, il contributo unificato è prenotato a debito, quindi non è “versato”), sanziona direttamente la parte e non il suo difensore e in tutte le ipotesi di esito sfavorevole della impugnazione, quindi anche in caso di rigetto nel merito o di improcedibilità.

Non va poi dimenticato l'art. 4, comma 9, del d.m. 55/2014 (regolamento sui parametri forensi) che prevede che: «Nel caso di responsabilità processuale ai sensi dell'art. 96 c.p.c., ovvero, comunque, nei casi d'inammissibilità o improponibilità o improcedibilità della domanda, il compenso dovuto all'avvocato del soccombente è ridotto, ove concorrano gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione, del 50 per cento rispetto a quello altrimenti liquidabile».

Tale norma, che si applica nell'ambito del rapporto tra avvocato e cliente, e quindi non nei giudizi con parte ammessa al gratuito patrocinio, giacché in essi il rapporto relativo al pagamento del compenso intercorre tra avvocato e Stato, prevede una riduzione del compenso in caso di esito in rito del giudizio e, si badi, non della sola impugnazione, nella concorrenza di gravi ed eccezionali ragioni da esplicitarsi nella motivazione.

Quest'ultima precisazione è stata aggiunta, assai opportunamente, alla originaria, analoga, previsione che era contenuta nell'art. 10 del d.m. 140/2012.

Quella versione infatti era eccessivamente severa, sia nella scelta di equiparare, ai fini della riduzione del compenso, i casi delle pronunce in rito alla condanna per lite temeraria, nonostante i primi, a differenza della seconda, non presuppongano necessariamente condotte processuali connotate da mala fede o colpa grave, sia per l'automaticità dell'effetto sanzionatorio che era ricollegato alle decisioni citate.

Giova evidenziare come tale disciplina sottenda l'idea che vi sia una responsabilità concorrente dell'avvocato e della parte da lui assistita per la conclusione del giudizio con una delle pronunce in rito menzionate o con una condanna per lite temeraria.

In modo incoerente rispetto a tale impostazione, con la norma in commento, invece, il legislatore ha dimostrato di ritenere che l'inammissibilità dell'impugnazione va attribuita alla responsabilità esclusiva del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, probabilmente perché le ragioni che determinano quell'esito sono esclusivamente tecnico-giuridiche.

Infatti, a fronte di tale ipotesi, non è stata prevista la revoca del beneficio che quindi permane, con la conseguenza che la parte ammessa resta esonerata dal pagamento delle spese (ad esempio per CTU e CT di parte), alle quali abbia dato luogo il giudizio di impugnazione, salvo che non rientrino tra quelle menzionate nel secondo comma dell'art. 130-bis. L'ipotesi non appare inverosimile se si pensa ad un giudizio nel quale la pronuncia di inammissibilità sopraggiunga dopo lo svolgimento di attività istruttoria, perché ad esempio il giudice si avveda allora della inammissibilità della impugnazione.

L'ulteriore conseguenza della scelta operata dal legislatore, di mantenere il regime del patrocinio a spese dello Stato, è che l'avvocato non potrà pretendere il compenso dalla parte, a ciò ostando il disposto dell'art. 128 TUSG.

Segue. L'ambito di applicazione

È indubbio che rientrano nell'ambito di applicazione della norma sia le ipotesi tipiche di inammissibilità delle impugnazioni, che sono determinate da difetti di requisiti di contenuto-forma dell'atto di impugnazione (artt. 342, 365, 360-bis, 366, 366-bis, 398 c.p.c.), o dalla mancata integrazione del contraddittorio nel termine perentorio fissato dal giudice (art. 331 c.p.c.), sia le ipotesi “innominate” o “extratestuali” quali:

  • l'impugnazione proposta dopo la scadenza dei termini per impugnare;
  • l'impugnazione proposta dalla parte che abbia fatto acquiescenza alla sentenza;
  • l'impugnazione proposta avverso la sentenza non impugnabile con quel determinato mezzo d'impugnazione;
  • l'impugnazione proposta da chi non era parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata;
  • l'impugnazione proposta in mancanza di interesse ad impugnare.

La norma non precisa, a differenza dell'art. 13, comma 1-quater, se anche la parziale inammissibilità della impugnazione (ad esempio per alcuni dei motivi dedotti) abbia la medesima conseguenza ma ad avviso di chi scrive, l'ipotesi va esclusa, risultando preferibile una interpretazione restrittiva della previsione, in considerazione della gravità delle conseguenze che contempla.

Si pone poi anche per essa la questione, già dibattuta con riguardo all'art. 13, comma 1-quater, della sua applicabilità al procedimento di reclamo.

Orbene, con riguardo a quella problematica, alcune pronunce di merito (Trib. Palmi, 3 marzo 2014) hanno dato risposta negativa all'interrogativo, sulla scorta del rilievo che il reclamo non ha natura di impugnazione, mentre altre (Trib. Novara, 4 aprile 2013; Trib. Napoli, 29 aprile 2016; Trib. Treviso 30 luglio 2015) sono state di contrario avviso, senza peraltro motivare adeguatamente sul punto.

Un argomento a sostegno della estensione di questa seconda soluzione al caso in esame può rinvenirsi nella natura sanzionatoria della norma, con la conseguenza che essa può trovare applicazione in tutti i procedimenti che abbiano una funzione di riesame della decisione di primo grado.

Sul punto è opportuno ricordare che, per le controversie in materia di opposizione allo stato passivo, la Suprema Corte (Cass. civ., 25 gennaio 2018, n. 1895)ha escluso l'obbligo, per l'opponente, di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, sul presupposto che esse non rientrano tra i giudizi di impugnazione in senso proprio, trattandosi piuttosto di un gravame che apre la fase a cognizione piena.

Deve anche ritenersi che l'esclusione del diritto al compenso va riconosciuta, a fronte della declaratoria di inammissibilità, a prescindere dal tipo di regolamentazione delle spese che sia stata adottata, e quindi anche qualora venisse disposta la compensazione delle spese del giudizio di impugnazione, sulla base delle ragioni che la Suprema Corte (Cass. civ., 14 marzo 2014, n. 5955) ha esposto con riguardo ai presupposti per l'applicazione dell'art. 13, comma 1-quater.

Sempre con riguardo all'ambito di applicazione della norma in commento non si comprende l'esclusione da esso delle altre pronunce in rito (improponibilità e improcedibilità, che invece era assimilata alla inammissibilità nella bozza iniziale del d.l.), con una scelta in chiaro contrasto con quella compiuta nelle previsioni che si sono esaminate nel precedente paragrafo, nelle quali tutte le ipotesi di pronunce in rito sono accomunate. Infatti anche la responsabilità per gli esiti non citati, secondo l'impostazione sottesa alla norma, dovrebbe essere attribuita in via esclusiva al difensore della parte ammessa.

Peraltro, tenendo conto, da un lato della interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 106, fornita dalla Corte Costituzionale con la sentenza 30 gennaio 2018, n. 16, e, al contempo, dei presupposti per l'applicazione dell'art. 4, comma 9, d.m. 55/2014, richiamati nel paragrafo precedente, può affermarsi che la previsione viene in rilievo solo se la pronuncia di inammissibilità sia dovuta a colpa grave del difensore.

La previsione riguardante il CT di parte

La seconda parte della norma è formulata, al pari dell'art. 106, in maniera alquanto imprecisa.

È opportuno infatti evidenziare, in primo luogo, che essa menziona «le spese sostenute per le consulenze tecniche di parte» e quindi, sotto il profilo strettamente letterale, pare alludere ad una delle categorie di spese anticipate dall'erario ai sensi dell'art. 131, comma 4, lett. c) d.P.R. 115/2002 (così CAROLEO, ll nuovo art. 130 bis del d.P.R. n. 115/2002 in materia di patrocinio a spese dello Stato: una primissima sconsolata lettura, in ilcaso.it).

L'espressione è stata probabilmente mutuata da quella dell'art. 92, comma 1, c.p.c. che ricomprende nelle spese eccessive o superflue anche quelle per il compenso e le spese vive della CT di parte (sul punto si veda Cass. civ., 3 gennaio 2013, n. 84, che ha affermato che le spese sostenute per la consulenza tecnica di parte, rientrano tra quelle che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsate a meno che il giudice non si avvalga, ai sensi dell'art. 92, comma 1, c.p.c., della facoltà di escluderle dalla ripetizione, ritenendole eccessive o superflue).

Dalla rubrica dell'art. 130-bis però si desume chiaramente che il legislatore ha inteso ricomprendere nella previsione non solo le spese sostenute dal CT di parte per l'adempimento dell'incarico ma anche il suo compenso. Del resto, tenuto conto della finalità di contenimento della spesa pubblica della norma, non avrebbe avuto senso limitarne l'applicazione a quel ristretto ambito.

Si noti che essa riguarda anche i giudizi di cui sia parte una curatela ammessa al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell'art. 146, comma 1, TUSG.

L'esclusione del diritto al compenso del consulente è subordinata ad un giudizio di irrilevanza o superfluità dell'attività da lui svolta, da formularsi secondo un criterio di prognosi postuma, ovvero avendo riguardo non all'esito della causa ma al momento del conferimento dell'incarico o, meglio, dell'istanza rispetto alla quale la CT è funzionale.

In tale prospettiva andrebbe esclusa l'irrilevanza o la superfluità (i due termini appaiono dei sinonimi) di una CT di parte diretta a supportare, ad esempio, una richiesta di CTU o di emissione di un provvedimento cautelare o l'opposizione ad una istanza di concessione della p.e. di un decreto ingiuntivo o, ancora, delle osservazioni critiche alla relazione di CTU, a prescindere se la successiva decisione del giudice sia stata o meno favorevole alla parte ammessa.

Ed allora, se si vuole individuare un qualche significato nella norma, occorre riconoscere che essa attribuisce al giudice il potere-dovere di valutare la relazione del CT di parte, o le sue osservazioni alla CTU, e di stimarle immeritevoli di compenso, ad esempio, se non pertinenti ai fatti di causa, generiche, errate sotto il profilo tecnico o incomprensibili.

Sarebbe stato opportuno prevedere anche la possibilità per il giudice di ridurre il compenso del CT, ritenuto eccessivo, a prescindere dalla sua dimidiazione ai sensi dell'art. 130 TUSG, tenuto conto che esso può essere determinato sulla base del solo accordo delle parti, senza dover osservare il decreto 30 maggio 2002.

Invero sarebbe bastato estendere a questo caso quanto stabilisce l'art. 92, comma 1, c.p.c. a proposito della pronuncia alle spese a favore della parte vittoriosa.

In ogni caso la norma risulta di poca o nessuna utilità, se si ha riguardo alle modalità con le quali il consulente di parte può soddisfare il proprio credito per l'attività prestata in favore di una parte ammessa al gratuito patrocinio.

Esse sono definite dall'art. art. 131, comma 3, d.P.R. 115/2002 che stabilisce che: «gli onorari dovuti al consulente tecnico di parte e all'ausiliario del magistrato sono prenotati a debito anche nel caso di transazione della lite, se non è possibile la ripetizione dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali o dalla stessa parte ammessa, per vittoria della causa o per revoca dell'ammissione».

La prenotazione a debito a cura dello Stato è quindi un rimedio residuale, al quale il CTP della parte non abbiente può ricorrere qualora non gli sia possibile il recupero di quanto liquidatogli non solo nei confronti del soggetto che l'ha incaricato, ma anche nei confronti della parte abbiente che risulti soccombente (la norma costituisce una vistosa deroga alla disciplina ordinaria).

Si tratta quindi di un adempimento piuttosto remoto, che comunque non comporta un onere diretto per lo Stato, perché questo può pagare solo se recupera la somma dovuta dalle parti, ai sensi dell'art. 134, e quindi, per il CT di parte, è più vantaggioso tentare il recupero nei confronti delle parti del giudizio, salvo che per l'ipotesi in cui ci sia stata revoca del gratuito patrocinio.

Si noti che nel giudizio penale non opera lo stesso meccanismo perché in esso il compenso del CTP della parte non abbiente è anticipato dallo Stato ai sensi dell'art. 107, comma 3, lett. d) e quindi lì il disposto dell'art. 106 può evitare effettivamente una spesa a carico dello Stato per una attività inutile.

La norma non pare nemmeno idonea a realizzare un apprezzabile risparmio della spesa pubblica con riguardo alle spese vive del CTP, che a differenza del compenso, sono anticipate dallo Stato, dato che sono estremamente rare le ipotesi in cui il CTP ne chiede il rimborso.

Il regime transitorio

Nel d.l. 113/2018 non è presente una disciplina di diritto intertemporale cosicché il regime transitorio delle due previsioni che si sono analizzate non può che essere desunto dalla loro funzione.

Orbene, poiché la prima di esse, come si è detto, ha una funzione sanzionatoria, è conforme a criteri di ragionevolezza ritenere che si applichi ai giudizi di impugnazione promossi a decorrere dal 5 ottobre 2018, giorno successivo alla pubblicazione del d.l. nella G.U.

A sostegno di tale lettura depone anche la considerazione che l'art. 13, comma 1-quater, avente, come si è visto, identica funzione, è stato dichiarato applicabile ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore di quella legge, dall'art. 1, comma 17, l. n. 228/2012.

A diversa conclusione deve giungersi con riguardo al secondo comma dell'art. 130-bis, atteso che esso fissa un nuovo criterio di liquidazione del compenso del CTP che quindi va utilizzato nelle liquidazioni successive alla suddetta data, anche se il professionista ha prestato la sua attività prima di tale momento.

Guida all'approfondimento

SCALERA, Legittima l'esclusione del compenso al difensore di parte ammessa al gratuito patrocinio in caso di impugnazione inammissibile, in ilProcessoCivile.it;

VACCARI, La mala fede o la colpa grave sono sufficienti per la revoca del patrocinio a spese dello Stato? in ilProcessoCivile.it ;

VACCARI, Le spese dei processi civili, Milano, 2017, 351-457.

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