La risposta a domanda suggestiva o nociva è inutilizzabile? Ancora una volta, la Cassazione dice di no

Michele Sbezzi
20 Dicembre 2018

Le domande suggestive, vietate dall'art. 499 c.p.p. terzo comma, non comportano la inutilizzabilità della prova, né la sua nullità.
Abstract

Le domande suggestive, vietate dall'art. 499 c.p.p. terzo comma, non comportano la inutilizzabilità della prova, né la sua nullità.

Semplicemente perchè non si tratta di prova acquisita in violazione di un divieto, come nel caso, ad esempio, di una dichiarazione testimoniale che abbia ad oggetto le dichiarazioni rese dall'imputato o dall'indagato nel corso del procedimento.

Va quindi nel solco dei precedenti la sentenza 43157/2018, che sottolinea come non valutabile sia semmai la prova compromessa, nel suo insieme, da una modalità scorretta di porgere le domande. E che non parla affatto di inutilizzabilità.

La Suprema Corte torna su un tema spinoso, che in passato non era stato sondato abbastanza in profondità, soprattutto a causa della mancanza di ricorsi specifici (e ammissibili). E che, soprattutto, non è stato fino in fondo compreso nella sua complessità.

In un passato non troppo lontano, il LaPEC – che ancora non aveva aggiunto la denominazione di “Giusto processo”, né quella “di Ettore Randazzo” come dedica al suo fondatore scomparso – nacque ponendosi come primo interrogativo proprio la questione delle domande suggestive e nocive, che il codice di rito, all'art. 499, vieta espressamente.

In quei giorni ci si interrogò, innanzitutto, sul significato da riconoscere alle parole usate dal Legislatore per la formulazione della norma: che significa domande che possono nuocere alla sincerità della risposta? Anche il terzo comma, apparentemente più chiaro, non fu trascurato. Che significa, davvero, quelle domande che tendono a suggerire le risposte?

Ai convegni promossi dal LaPEC in tutt'Italia, e particolarmente ai primi congressi di Siracusa e di Alghero, parteciparono attivamente molti studiosi del diritto, avvocati, accademici ed autori, ed anche molti Magistrati, tra cui alcuni di quelli che avrebbero ricoperto, negli anni successivi, incarichi di altissimo prestigio.

Definizioni

Il risultato di tanto studio e tanto confronto fu univoco.

Domanda suggestiva é quella che tende a ottenere una risposta di favore, di accondiscendenza nei confronti di chi l'ha posta, un riconoscimento di fondatezza all'ipotesi che, con la domanda, viene suggerita all'interrogato.

Questi, piuttosto che operare uno sforzo di memoria per dare una risposta perfettamente aderente al proprio ricordo, o al proprio convincimento, conferma la tesi che gli viene suggerita.

Domanda nociva è invece quella posta partendo da un presupposto infondato, cui a volte, per pura logica di aderenza, seguirà una risposta altrettanto infondata; o che addirittura si fonda su una minaccia, più o meno velata, cui l'interrogato rischia di non saper resistere. Va intesa quindi come nociva la domanda che tende a limitare la libertà morale dell'interrogato con minacce o allettamenti, parole o gesti violenti, o anche, più semplicemente, con atteggiamenti di provocazione o sfottò.

Il divieto di porre domande suggestive e nocive

Per quanto esposto, la domanda suggestiva è vietata a chi ha addotto il teste, nell'ovvia considerazione del fatto che chi ha chiesto l'ammissione di un testimone può ben averlo preparato oltre i limiti di liceità e potrà quindi tentare, durante l'esame, di far emergere la tesi concordata anche nel caso il teste non sembri aderire all'accordo, o mostri di averlo dimenticato.

Il suggerimento, se proveniente da chi ha addotto il teste, può servire a ottenere la risposta concordata, che in quanto tale può essere diversa da quella veritiera.

Per tal motivo essa è vietata. Ma solo alla parte che ha addotto il teste e a chi ha un interesse processuale comune a essa. La parte civile non può fare domande suggestive al teste del P.M.; e viceversa.

Per converso, la domanda suggestiva, proprio perché suggerisce, è invece ammessa se posta da chi abbia interesse contrapposto e voglia controinterrogare. E ciò non perchè in tal caso non si possa provocare una risposta diversa da quella veridica; bensì proprio perché quel rischio serve a verificare l'attendibilità del teste. In controesame, infatti, una parte accorta tende principalmente a evidenziare che il teste, prima interrogato, ha reso dichiarazioni infondate o poco credibili; tenterà, reinterrogandolo sugli stessi argomenti, di far emergere gli elementi di tale inattendibilità.

Per tal motivo, se resiste al suggerimento pronunziato in controesame, il teste risulterà credibile. E attendibile sarà valutata la prova nel suo complesso.

Sul limite al divieto si è più volte pronunciata la Suprema Corte. Tra le altre, ricordiamo la sentenza della Sez. III penale, n. 4721 del 30 gennaio 2008, che espressamente rileva dal testo codicistico (“nell'esame”) come il divieto di porre domande suggestive non possa riguardare l'esame del Giudice o il controesame, per il quale non vi è il rischio di un precedente accordo con il testimone.

Appena pochi giorni dopo, la stessa 3° sezione penale, con la sentenza 43837 del 25 novembre 2008, rilevò come il divieto in argomento riguardi solo il dibattimento e non le indagini preliminari.

Anche in questo caso, il rilievo si basa sul testo della norma, che espressamente, tanto al secondo quanto al terzo comma, parla appunto di “esame”.

La domanda nociva, invece, pone un problema diverso, di natura morale. In essa non è contenuta una suggestione ma, almeno in nuce, un'infondatezza che rischia di portare il teste a dare una risposta ben diversa da quella che, egli stesso, sa essere quella corretta. Il costringimento morale che l'interrogato può subire in caso di domanda nociva, o comunque lo sviamento imposto da chi vuole in qualche modo confonderlo, hanno portato il Legislatore a vietare a tutte le parti processuali la domanda nociva, senza distinzioni.

La domanda nociva, moralmente troppo violenta perchè possa apparire utilizzabile per la verifica di attendibilità, è vietata a chiunque. Perfino al giudice.

Il divieto si estende al giudice?

Per la verità, nel corso degli anni e nello sviluppo del dibattito sul tema, vi è stato anche chi ha seriamente messo in discussione la possibilità che il giudice ponga domande suggestive (tra gli altri vedi Vancheri, Perché il giudice non può e perché non deve porre domande suggestive).

In quel caso, l'autore ha sottolineato come la prova scaturente dal contraddittorio tra le parti è il metodo da ritenere attualmente più efficace per la ricerca di una verità processuale accettabile. E, se nel processo non esiste una verità precostituita alla cui custodia sia chiamato il giudice, questi non deve privare le parti e se stesso del miglior livello di giudizio possibile.

Se suggestione è certamente quella indotta con tecniche raffinate d'induzione, per le quali si possa addirittura portare il teste a fare errati riconoscimenti o a crearsi un ricordo prima inesistente, suggestione è anche l'effetto della sottoposizione all'autorità del giudice in udienza. Nel lavoro di Vancheri si parla, molto a proposito, di «accondiscendenza, intesa come disponibilità dell'interrogato ad allinearsi alle affermazioni, alle richieste ed alle istruzioni dell'esaminatore».

Il giudice non è una parte contendente, ma colui il quale deve beneficiare del contributo conoscitivo che le parti gli forniscono con l'esame e il controesame; salvo casi straordinari, le persone hanno con la Giustizia un rapporto unico o occasionale. Scontano quindi un certo metus nei confronti del Giudice: in aula, possono esser portate, anche in assoluta buona fede, ad “accontentare” un giudice che le esamini in modo suggestivo.

Ciò porrebbe «[… ] a forte rischio la formazione della prova e, gioco forza, la correttezza della decisione. In palese contrasto con la finalità del processo, che è il bene primario cui le norme tendono».

La tesi esposta aveva e ha un precedente illustre, da individuarsi nella sentenza 7373 del 24 febbraio 2012, emessa dalla terza sezione penale della Suprema Corte, nel cui testo leggiamo che il «divieto di porre al testimone domande suggestive si applica a tutti i soggetti» (quindi, non solo alle parti) «che intervengono nell'esame, operando […] per tutti costoro il divieto di porre domande che possano nuocere alla sincerità della risposta e dovendo, anche dal Giudice, essere assicurata, in ogni caso, la genuinità delle risposte […]».

Molto meno illustre il parere espresso, in altra sede, dallo stesso redattore della presente nota. Il Giudice non deve porre domande suggestive perchè, per le medesime considerazioni brillantemente svolte da Vancheri, il teste poco aduso alle aule di giustizia, travolto dal metus nei confronti del giudice, è facile preda non tanto e non solo di una voglia di accondiscendenza, ma addirittura della paura di pronunziare qualcosa che il Giudice non vorrebbe sentire, o che non gli sembri convincente.

Nell'esperienza giornaliera d'aula è frequente sentire domande poste dal giudice, non sempre nello spazio temporale che il codice all'art. 506 gli riserva, con modalità piuttosto pressanti, che anche quando non costituiscono minaccia, ingenerano comunque una pressione difficilmente sostenibile.

In quei casi, la domanda suggestiva del giudice rischia di trasformarsi in nociva.

Essa andrebbe pertanto ricompresa nel novero delle domande vietate. Perchè pericolose per l'acquisizione di una prova che possa dirsi pienamente genuina. E perchè poste, comunque, da chi non ha un interesse specifico a far cadere in contraddizione un teste già interrogato dalle altre parti.

La tesi è tuttora in discussione. Mancano altre sentenze della Corte Regolatrice che possano indicare la strada risolutiva.

Inutile dire che, nell'esperienza di tutti i giorni, le teorie lapechiane cui gli autori sopra citati, con evidenza, aderiscono, scontano una certa resistenza culturale da parte di giudici che, pur consci della delicatezza e difficoltà del ruolo che rivestono, mal sopportano l'imposizione di un limite alla loro “fame di verità”.

Le conseguenze della violazione del divieto: irregolarità o inutilizzabilità?

Per tornare al tema del presente commento, il divieto di porre domande suggestive e, soprattutto, le conseguenze da ricollegare alla sua violazione, sono state oggetto di pochi interventi della Corte. Soprattutto, come si è accennato sopra, per l'esiguità di ricorsi che centrassero il punto o lo ponessero a fondamento di un'eccezione processuale procedibile prima e ammissibile poi.

Ma anche, se non soprattutto, per il consolidamento della giurisprudenza.

In quei pochi esempi fortunati di ricorsi arrivati al vaglio d'aula, la Suprema Corte ha dapprima sottolineato – senza spendersi in troppo lunghe dissertazioni esplicative - come la violazione del divieto di porre domande suggestive non comportasse affatto nullità della prova o inutilizzabilità, risolvendosi invece in semplici irregolarità, del tutto prive di conseguenze.

Parte della dottrina e gli Avvocati del LaPEC, in uno ad autorevoli esponenti della Magistratura, rilevarono – seppur giungendo a soluzioni esattamente opposte - come, in effetti, la previsione codicistica di cui all'art. 191 c.p.p. Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate non lascia molto spazio all'interpretazione. Per alcuni, se le domande suggestive sono vietate espressamente, e se non può esservi dubbio che esse lo siano, la prova che ne discende dovrebbe conseguentemente esser dichiarata non utilizzabile.

Altri argomentarono che le domande sono certamente vietate; ma altra cosa è la prova acquisita in violazione dei divieti. Le risposte a domande suggestive non sono acquisite illegittimamente.

Forse, la risposta più garantista è frutto d'interpretazione troppo semplicistica.

E forse, invece, l'altra è troppo rigorosamente ispirata al principio di salvaguardia della prova.

Questione di merito, questione di legittimità

C'è da dire, innanzitutto, che la questione del divieto in argomento pone la parte processuale al cospetto di un problema, a volte di prontezza, altre volte di piena consapevolezza e cultura giuridico-giudiziaria.

Il rilievo della suggestività, e l'eccezione al Giudice, vanno sollevati immediatamente al giudice di merito. E non certo nel ricorso alla Suprema Corte.

Avanti il successivo grado merito, e poi anche avanti la Corte Regolatrice, può semmai farsi questione della motivazione (mancante o apparente, contraddittoria, illogica) con la quale il giudice abbia accolto o respinto l'eccezione.

In tal senso la sentenza 47084 del 19 dicembre 2008, con cui la terza sezione penale della Suprema Corte sottolineò che, nei gradi successivi a quello in cui la domanda oggetto di eccezione fu posta, può esser proposta solo la valutazione della motivazione del provvedimento di accoglimento o rigetto dell'eccezione stessa.

Senza dimenticare, peraltro, che avanti la Corte Suprema deve indicarsi in qual modo la suggestione abbia portato ad una risposta non veritiera o non attendibile, né quanto tutto ciò possa avere avuto influenza sulla decisione finale. La prova di resistenza non andrebbe mai dimenticata.

La questione della suggestività, invece, riguarda solo il merito, il cui esame è assolutamente precluso in sede di legittimità.

Questa, senza dubbio, è una delle ragioni per le quali difettano sentenze di legittimità in numero tale da potersi dire compiutamente e largamente analizzata la questione.

Ma, anche riuscendo a sollevare tempestiva eccezione di suggestività della domanda e riuscendo poi a centrare il tema in un corretto e ammissibile ricorso alla Suprema Corte, cosa potrebbe ottenere un bravo Difensore?

Probabilmente molto. Ma, a tutt'oggi, non un'applicazione automatica di quello che potrebbe anche sembrar essere il contenuto dell'art. 191 c.p.p. Non l'inutilizzabilità, insomma. Non sempre.

Giurisprudenza consolidata nel senso della mera irregolarità

Già la terza sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza 4672 del 22 ottobre 2014, depositata il 2 febbraio 2015, ebbe ad esprimere che «[…] la violazione del divieto in argomento, in mancanza di una sanzione processuale, rileva soltanto sul piano della genuinità della prova, che può risultare compromessa esclusivamente se inficia l'intera dichiarazione e non semplicemente la singola risposta fornita alla domanda suggestiva […]».

Non è la teoria del LaPEC, né quella che sembrava essere la conclusione cui tanti lavori convegnistici erano giunti, fino alla stipula di un protocollo d'intesa tra Accademia, Avvocatura e Magistratura, siglato da firme di grande rilievo scientifico e culturale; è pur sempre una posizione che rappresenta un passo in avanti rispetto alla teoria della semplice “irregolarità” priva di conseguenze.

Può bastare? Sommessamente, e con rispetto per l'autorità che ha espresso il piccolo passo in avanti, non è molto chiara; né sufficientemente esplicativa!

Siamo solo al punto che la domanda suggestiva può aver compromesso la genuinità della prova. Non che la prova sia inutilizzabile per il sospetto che la domanda suggestiva l'abbia compromessa, come potrebbe invece sembrare abbia voluto il redattore del codice di rito.

Si tratta, a ben vedere, di un'interpretazione, invero necessariamente riduttiva, della portata dell'art. 191 c.p.p., più volte sopra citato: non ogni prova acquisita in violazione del divieto di domanda suggestiva, ma solo la prova non genuina, va ritenuta compromessa e quindi inutilizzabile.

Non basta il divieto espresso, né una semplice ipotesi di avvenuta suggestione; va invece valutato più in profondità il percorso che, dalla domanda suggestiva in poi, ha fatto l'intera prova testimoniale.

Potrebbe però obbiettarsi che, per arrivare a tanto, non è necessario il conforto dell'art. 499 c.p.p. comma 3. Ed è proprio questo il punto.

Il divieto di domanda suggestiva non si può ricollegare, in via automatica ed acritica, alla sanzione imposta dall'art. 191 c.p.p.

Una prova che si ritiene essere non genuina, comunque e per qualunque percorso sia stata prodotta, non può entrare nel corredo di informazioni che determinano il convincimento del Giudice e la sua decisione finale. Essa non è credibile.

A ben vedere, dunque, nulla di nuovo emerge dalla decisione richiamata, che si colloca nel solco delle precedenti sul tema.

Certamente e indiscutibilmente fondata è la tesi secondo cui, in casi del genere, non può sollevarsi questione di nullità della prova. Nel nostro diritto, com'è ben risaputo, il regime delle nullità discende da una previsione assolutamente tassativa di casi, impossibile da estendersi a casi non previsti.

Né vi è una norma cui ricollegarsi per ritenere che una o più domande suggestive, poste nel corso di una prova (che si rinviene nel complesso di domande formulate e di risposte ottenute), rendano la prova stessa affetta da nullità, relativa o assoluta che sia. Neppure nel caso sia certamente dimostrato che le risposte conseguite siano state non genuine. Esse restano non genuine. Non diventano nulle. E nessuna nullità consegue, dunque, alla domanda suggestiva.

Perchè la prova ottenuta con domanda suggestiva non può dirsi illegittimamente acquisita

Neppure questo, comunque, dà un chiarimento definitivo alla questione che ci occupa. Il Legislatore del codice di rito, per il caso in argomento, non ha prescritto la nullità. Ha invece fissato un divieto cui ci chiediamo se sia ricollegabile l'inutilizzabilità.

Ancora una volta, la Suprema Corte risponde di no.

O, quantomeno, ci risponde che non è possibile applicare, in modo automatico e acritico, una sanzione tanto grave e definitiva come l'inutilizzabilità.

Il tutto, naturalmente, è retto da una logica ferrea.

Non ogni domanda suggestiva provoca suggestione; e, dunque, non ogni domanda suggestiva compromette la risposta e l'intera prova.

Altra sentenza ci regala chiarimenti che ci appaiono più completi. Si tratta della sentenza 18702, emessa dalla Suprema Corte, sezione terza penale, all'udienza del 2 aprile 2014.

In essa si esamina il ricorso di un condannato, il quale rileva il mancato rispetto delle regole della celebre Carta di Noto nel corso di un incidente probatorio integralmente riversato agli atti del dibattimento.

La Corte risponde puntualmente ai rilievi della Difesa, sostenendo che l'assunzione della prova, con metodologia non rispondente ai criteri della Carta di Noto, non determina l'inutilizzabilità delle risultanze dell'esame svolto.

E ancora, dopo aver richiamato la Giurisprudenza precedente sul punto, afferma che la violazione del divieto di porre domande non pertinenti o suggestive non determina l'inutilizzabilità della testimonianza, in quanto tale sanzione riguarda le prove vietate dal codice di rito e non la modalità vietata di assunzione di quelle consentite. Né è sanzionata da nullità in virtù del principio di tassatività.

Leggiamo in questa sentenza qualcosa in più che nelle precedenti.

L'inutilizzabilità della prova acquisita in violazione dei divieti stabiliti dalla legge riguarda ben altro.

Riguarda solo le prove non consentite; quelle vietate. Tanto che, in effetti, l'articolo 191 c.p.p. si titola Prove illegittimamente acquisite. E non prove illegittime.

Nel nostro caso, quello della prova ottenuta con domande suggestive, non siamo nel campo della prova vietata, ma della prova consentita: la prova per testi.

È, semmai, solo la modalità di raccoglimento ad esser vietata, ove ricorrente e riconosciuta.

Le prove inutilizzabili sarebbero, invece, le dichiarazioni comunque rese dall'imputato o dall'indagato nel corso del procedimento (art. 62 c.p.p.); le dichiarazioni indizianti (art. 63 c.p.p.); le perquisizioni e ispezioni effettuate negli uffici dei difensori in casi non consentiti (art. 103 c.p.p.); i casi di cui all'art. 195 c.p.p. E poi, ancora, i casi previsti agli artt. 197, 203, 234, 240, 254, 270 e 271 del codice di rito.

Tutti casi in cui è espressamente prevista, relativamente a situazioni specifiche compiutamente descritte, la sanzione dell'inutilizzabilità. Tutti casi di prova non consentita.

In tali casi, e solo in essi, la prova che sia stata acquisita nonostante il divieto di legge, è assolutamente inutilizzabile. A prescindere dal suo contenuto e dalla pur sempre possibile sua verosimiglianza o, addirittura, aderenza al vero.

Nel caso della domanda suggestiva, invece, i divieti posti dall'art. 499 vanno intesi nel senso che non la risposta alla domanda suggestiva, ma la risposta certamente compromessa nella sua genuinità da una domanda suggestiva è inutilizzabile.

Qualsiasi risposta, seppur conseguente a domanda vietata, può non esser stata compromessa ed essere quindi genuina; essa non va automaticamente e acriticamente esclusa dal novero delle conoscenze utili al fine del decidere.

L'ultima decisione della Suprema Corte

L'ultima sentenza che si vuol qui prendere in esame è la n. 43157 dell'8 maggio 2018, depositata dalla terza sezione penale della Corte di cassazione in data 1 ottobre 2018.

Con essa, la Suprema Corte sottolinea che, in difetto di sanzioni processuali che il Legislatore non ha previsto, il divieto di porre domande suggestive non può dar luogo a nullità, né alla sanzione della l'inutilizzabilità.

Può solo compromettere la genuinità della dichiarazione testimoniale, a condizione, però, che destrutturi l'esame nel suo complesso e non, come potrebbe essere, la singola risposta fornita.

Il giudizio di attendibilità può esser espresso sulla base delle altre risposte.

«Per predicare l'assenza di genuinità della prova non è sufficiente quindi affermare e comprovare che una o più domande dell'esame testimoniale abbiano in ipotesi suggerito la risposta ma occorre estendere l'analisi all'affidabilità della prova nel suo complesso, pervenendo alla conclusione che l'uso di una metodologia non corretta abbia inciso sul risultato della prova in maniera da rendere il materiale raccolto, globalmente inidoneo ad essere valutato».

Ancora una volta, quindi, la Suprema Corte resta tetragona ad ogni pretesa di una diversa interpretazione: la prova ottenuta con domande suggestive, l'intera prova testimoniale, non andrà valutata solo se sarà evidente che essa sia stata compromessa dalle modalità scorretta – e vietata – di porre domande.

Si tratterà di una prova non genuina, inutilizzabile ai fini del decidere perchè compromessa.

Non perchè frutto di una o più domande vietate.

In conclusione

La logica utilizzata dalla Suprema Corte per risolvere il problema che ci siamo posti è ferrea e difficilmente contrastabile. La domanda suggestiva non costituisce prova vietata, perchè non può certo dirsi vietata la prova per testi. Al più, si tratta di prova esperita con modalità non conformi al diritto e perciò vietate. Ad essa, quindi, non consegue sanzione perchè, assai banalmente, nessuna sanzione è espressamente prevista dal codice di rito come conseguenza della suggestività o nocività di una domanda.

Ciò perchè la risposta può comunque essere veridica e fondata; perchè il teste può esser stato immune a ogni suggestione, come può non aver subito la pressione e la minaccia della domanda nociva, anch'essa vietata dal codice.

La risposta, e non la domanda, va valutata nella sua genuinità.

In caso di vaglio positivo, non c'è ragione che possa giustificare la pretesa sanzione di inutilizzabilità.

In caso di vaglio negativo, ove risulti cioè provata la compromissione della prova ottenuta perchè la suggestione ha avuto effetto o perchè il teste si è sentito minacciato, allora essa non potrà esser valutata ai fini del decidere. Ma non come effetto diretto ed automatico della suggestività o della nocività.

È la conclusione cui la Corte Suprema perviene ormai da tempo, alla quale non si può che prestare assenso.

Resta il fatto che se il processo penale utilizza la prova come metodo di ricerca di una verità affidabile, sulla quale fondare la decisione finale, ritenere consentita la prova anche quando viene esperita in modalità vietata è un vulnus al diritto della difesa, e soprattutto a quello dell'imputato, di avere una sentenza giusta, cioè emessa a seguito di un procedimento che abbia pedissequamente rispettato tutte le regole imposte dal Legislatore.

Una prova, la cui genuinità possa anche solo esser messa in dubbio per le modalità scorrette della sua assunzione, non è prova che possa accettarsi come fondata e giusta, rispettosa del diritto.

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