Responsabilità degli enti. La S.C. riflette sulle nozioni di interesse e vantaggio

Ciro Santoriello
20 Dicembre 2018

La responsabilità degli enti è configurata come derivante da fatto proprio degli stessi, dipendente da uno dei reati specificamente previsti nel catalogo normativo.
Massima

In tema di responsabilità degli enti collettivi, quando si deve verificare l'esistenza di un interesse della società in capo al soggetto agente che pone in essere il reato presupposto della responsabilità della società, pur essendo la nozione di “interesse dell'ente” caratterizzata (a differenza della nozione di vantaggio) da una prevalente connotazione soggettiva, non può prescindersi – specie se il reato è stato commesso nel prevalente interesse del singolo o di terzi – da un confronto con un parametro oggettivo, non rimesso esclusivamente ad imperscrutabili intendimenti dell'agente.

Il caso

Prima il tribunale, poi la Corte d'appello di Milano condannavano una società per l'illecito amministrativo di cui all'art. 25, comma 2, d.lgs. 231/2001 in relazione al delitto di istigazione alla corruzione commesso dal responsabile di un centro operativo della medesima società

In sede di ricorso per cassazione, l'ente collettivo imputato lamentava, per quanto di interesse in questa sede, innanzitutto il difetto di correlazione tra contestazione e sentenza, in quanto alla società era stato contestato l'illecito amministrativo sul presupposto che l'imputato persona fisica rivestiva all'interno della società una posizione apicale, mentre la condanna era avvenuta sul diverso presupposto del ruolo non apicale, cosicché era stato fatto riferimento non al canone di imputazione di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a), e 6 d.lgs. 231 del 2001 ma a quello di cui agli artt. 5, comma 1, lett. b), e 7 d.lgs. 231 del 2001, non potendosi al riguardo parlare di derubricazione, ma di rilievo di un profilo eterogeneo, implicante la verifica del livello organizzativo all'interno del quale il reato era stato commesso e gli obblighi di direzione e vigilanza omessi, fermo restando che la contestazione non conteneva alcun riferimento agli elementi che integrano l'illecito ai sensi dell'art. 7 d.lgs. 231/2001.

Si lamentava inoltre un vizio di motivazione in ordine al canone di imputazione dell'interesse dell'ente. I giudici di merito, infatti, avevano fornito con riguardo a tale criterio di imputazione una motivazione apodittica e illogica, sebbene le difese avessero dimostrato in dibattimento la finalità del singolo di consolidare la sua posizione all'interno della società, elemento tale da attestare l'interesse esclusivo del predetto, mentre le sentenze di condanna non avevano fornito alcun elemento per attestare un interesse della società all'eliminazione o riduzione di sanzioni e penali o all'azzeramento dei controlli (interessi peraltro in contrasto modestia delle somme richieste a titolo di sanzioni e dall'interesse della società ad avvalersi piuttosto di personale efficiente e all'altezza).

Inoltre, il vizio di motivazione era rilevabile anche in relazione alla indebita sovrapposizione dei profili dell'interesse e del vantaggio, il primo da valutarsi ex ante e il secondo di natura oggettiva, valutabile ex post, ma non ravvisabile con riguardo ad una fattispecie di tentativo.

Infine, si rilevava come i giudici di merito non avessero motivato in ordine alla violazione dei doveri di direzione e vigilanza, avendo dato rilievo al rimborso spese richiesto dall'imputato persona fisica responsabile del reato presupposto per somme erogate al funzionario pubblico per mantenimento di buoni rapporti, ma non considerando la genericità dell'annotazione e il suo riferirsi a fatto estraneo al tema di prova, accaduto inoltre cinque anni prima. In realtà non era stato dato conto dell'individuazione del dovere di vigilanza idoneo ad impedire l'illecito, della verifica dell'inosservanza, della prova del nesso eziologico tra illecito e inosservanza. La consapevolezza delle spese di rappresentanza nulla diceva circa l'offerta corruttiva, anche in ragione del fatto che l'impedimento dell'illecito avrebbe dovuto reputarsi impossibile, essendosi trattato di iniziativa estemporanea del dipendente, qualificabile come elusione fraudolenta del modello – circostanza che come esclude la responsabilità dell'ente nel caso di reato imputabile a soggetti apicali, analoga conclusione deve determinare agli effetti dell'art. 7 d.lgs. 231/2001

La questione

Come è noto, la responsabilità degli enti è configurata come derivante da fatto proprio degli stessi, dipendente da uno dei reati specificamente previsti nel catalogo normativo. In particolare, danno luogo a responsabilità dell'ente ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 231/2001 i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, da chi riveste posizione apicale di rappresentanza, amministrazione o direzione, anche di unità organizzativa dotata di autonomia, o da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti apicali e sempre che nell'assetto dell'ente sia rinvenibile una colpa di organizzazione, in senso normativo, correlata ai reati specificamente previsti (per tutti, Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343).

In caso di reati commessi da chi riveste posizione apicale, ai sensi dell'art. 6 del testo in commento l'ente, altrimenti responsabile, può opporre, secondo la scelta del legislatore delegato, la prova della preventiva adozione e attuazione di idonei modelli organizzativi, volti a prevenire reati della specie di quello verificatosi, dell'affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e sull'osservanza dei modelli a organismo dell'ente dotato di autonomi poteri, della fraudolenta elusione dei modelli, della non ravvisabilità di un'omessa o insufficiente vigilanza; con riguardo invece a reati commessi da soggetti non apicali, l'art. 7 d.lgs. 231/2001 prevede che l'ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, inosservanza che è comunque da escludere in caso di preventiva adozione e attuazione di idonei modelli organizzativi.

Il sistema nel suo complesso, come posto in luce anche dalla dottrina, si fonda dunque sulla concreta riconducibilità del fatto alla sfera di operatività e interesse dell'ente e a un profilo di immedesimazione della responsabilità, la quale può essere esclusa solo nel caso di preventiva adozione di idonei modelli organizzativi, cui sia correlato un proficuo e mirato sistema di prevenzione (PIERGALLINI – PALIERO, La colpa di organizzazione, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, fasc. 3/2006, 167; PIERGALLINI, Colpa di organizzazione e impresa, in Reato colposo e modelli di responsabilità, a cura di Donini-Orlandi, Bononia University Press, 2013, 161). Nel caso di reato commesso da soggetto apicale la mancata adozione è di per sé bastevole al fine di suffragare la responsabilità dell'ente (Cass. pen., Sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083), in quanto viene a mancare in radice un sistema che sia in grado di costituire un oggettivo parametro di riferimento anche per chi è nella condizione di esprimere direttamente la volontà dell'ente; nel caso di soggetto non apicale, la circostanza che l'adozione del modello organizzativo valga ad escludere ai sensi dell'art. 7d.lgs. 231/2001 la responsabilità dell'ente implica che in tale ipotesi il legislatore abbia ritenuto non addebitabile all'ente un profilo di colpa di organizzazione, tale da rendere ravvisabile un'effettiva immedesimazione della responsabilità, dovendosi quindi considerare il reato come estraneo alla sfera di operatività e concreta interferenza dell'ente.

L'illecito amministrativo dell'ente si fonda in primo luogo sul fatto che il reato sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio di esso.

La tesi assolutamente prevalente tanto in dottrina che in giurisprudenza è quella secondo cui il requisito dell'interesse va diversificato rispetto a quello del vantaggio (In giurisprudenza Cass. pen., Sez. unite, n. 38343/2014, Espenhahn e altri; Cass. pen., Sez. V, n. 10265/2013, Banca Italease S.P.A.; Cass. pen., Sez. II, n. 3615/2005, D'Azzo).

Quanto al significato, diverso, di questi due termini, l'interesse ha un'indole – per così dire – soggettiva, inequivocabilmente riferita alla sfera volitiva del soggetto persona fisica che agisce, per cui la presenza o meno di tale requisito è suscettibile di valutazione ex ante, potendosene sostenere la sussistenza nella misura in cui la persona fisica non abbia agito in contrasto con gli interessi della società. Di contro, la caratterizzazione del vantaggio è prettamente oggettiva ed opera ex post, per cui la responsabilità della persona giuridica può sussistere anche laddove il soggetto abbia agito prescindendo da ogni considerazione circa le conseguenze che in capo all'ente collettivo sarebbero derivate dalla sua condotta e sempre che fra le conseguenze del reato possa annoverarsi anche il maturare di un beneficio economico a favore dell'organizzazione collettiva.

In sostanza, mentre il giudizio circa il fatto che il reato sia stato commesso per il perseguimento di un interesse societario richiede una valutazione in ordine al contenuto ed all'atteggiamento della sfera volitiva del soggetto che pone in essere la condotta, l'accertamento in ordine ai vantaggi tratti dalla persona giuridica a seguito dell'accaduto presenta invece una caratterizzazione oggettiva, nel senso che quand'anche la persona fisica abbia agito nel suo esclusivo interesse, se da tale condotta delittuosa è derivato comunque un beneficio patrimoniale in capo alla società tale circostanza è sufficiente – unitamente ad altri profili richiamati dal d.lgs. 231/2001 – per poterne affermare la responsabilità. Come è stato sostenuto in giurisprudenza, si deve «distinguere un interesse "a monte" per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell'illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante, sicché l'interesse ed il vantaggio sono in concorso reale» (Cass. pen., Sez. II, n. 3615/2005, D'Azzo).

Si ricorda che l'art. 5, comma 3, d.lgs. 213/2001 cit. stabilisce che l'ente non risponde se la persona ha agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi e l'art. 12, comma 1, lett. a), d.lgs. 231/2001 cit., contempla invece una diminuzione della sanzione nel caso in cui il soggetto abbia agito nel prevalente interesse proprio o di terzi (sul punto della rilevanza del concorrente interesse della società, si rinvia a Cass. pen.,Sez. VI, 22 maggio 2013, n. 24559).

Le soluzioni giuridiche

Nella decisione in commento, la Cassazione esclude la sussistenza di un difetto di correlazione tra la contestazione dell'illecito amministrativo posto a carico della società e la successiva sentenza di condanna, fondata non più sulla posizione apicale dell'imputato del reato presupposto e dunque sul modello delineato dagli artt. 5, comma 1, lett. a), e 6 d.lgs. 231/2001, bensì sull'attribuzione allo stesso soggetto della qualità di soggetto sottoposto all'altrui direzione e vigilanza e dunque sul modello delineato dagli artt. 5, comma 1, lett. b), e 7, comma 1, d.lgs. 231/2001.

Secondo la Corte di legittimità, anche con riguardo alla responsabilità degli enti il parametro di valutazione ai fini della verifica della correlazione tra contestazione e sentenza non può che essere quello del rispetto del diritto di difesa, che deve essere garantito sia sotto il profilo dell'analisi critica sia sotto quello della facoltà di prova, posto che «il principio di correlazione tra contestazione e sentenza è funzionale alla salvaguardia del diritto di difesa dell'imputato; ne consegue che la violazione di tale principio è ravvisabile quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d'imputazione non contiene l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consente di ricavarli in via induttiva» (Cass. pen., Sez. VI, 18 febbraio 2015, n. 10140). Orbene, a fronte di una contestazione incentrata sul ruolo apicale, associato alla mancata adozione di modelli organizzativi, la responsabilità dell'ente è stata affermata sulla base della diversa qualificazione del ruolo attribuibile l'imputato persona fisica, sulla base del rilievo del mancato svolgimento di una concreta e mirata azione preventiva, correlata al catalogo normativo dei reati, al di là dell'astratto potere di controllo affidato ai diversi soggetti apicali presenti in azienda, e su tale tema del mancato esercizio dei poteri di controllo e prevenzione la difesa ha avuto ampia facoltà di interloquire mediante testi e documenti, risultando dunque assicurato il contraddittorio in ordine al profilo della concreta qualificazione della responsabilità, incentrata su un modello che, stante la reale dinamica dell'ente, come ricostruita dai giudici di merito, ha finito per presentare connotazioni assimilabili a quelle dell'originaria contestazione, comunque incentrata sulla mancata adozione e attuazione di specifiche regole cautelari.

Parimenti viene ritenuto infondata la censura riferita alla motivazione con cui si è ravvisata la configurabilità dell'illecito della società, in relazione alla sussistenza di un suo interesse alla commissione del delitto, interesse concorrente con quello facente capo al singolo soggetto agente. In proposito, il dato normativo è inequivocabile, posto che se l'art. 5, comma 3, d.lgs. 231/2001 stabilisce che l'ente non risponde se la persona ha agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi, il successivo art. 12, comma 1, lett. a), d.lgs. 231/2001 citato, contempla invece una diminuzione della sanzione nel caso in cui il soggetto abbia agito nel prevalente interesse proprio o di terzi: di conseguenza, nessuna contraddizione sussiste nel ritenere l'ente responsabile per l'illecito commesso dal singolo pur avendo riconosciuto che questi ha agito nel prevalente interesse proprio, in funzione della tutela della propria immagine ma, per l'appunto, nel concorrente interesse della società.

Quanto alla sussistenza, nel caso di specie, di un interesse dell'ente – che le difese negavano adducendo che il rischio derivante dalla condotta illecita era sproporzionato rispetto alla minima consistenza di penali e sanzioni, e che comunque era interesse della società di avvalersi semmai di collaboratori apprezzati e trasparenti –, la Cassazione ritiene che effettivamente debba escludersi che la condotta possa dirsi tenuta a vantaggio della società, giacché secondo la valutazione ex post un siffatto vantaggio non è ravvisabile, mentre è innegabile il ricorrere di un interesse della società, rappresentato dai benefici che sarebbero potuti derivare dall'azione corruttiva, corruzione da cui sarebbero potuti discendere l'attribuzione fittizia di lavori non eseguiti e l'eliminazione di penali e sanzioni, non solo con riferimento a quelle all'epoca irrogate, ma in via generale con riguardo a tutte le potenziali conseguenze negative sottese ai controlli di competenza della pubblica amministrazione.

Sul punto, la decisione della Cassazione è stimolante in quanto nella stessa si riconosce che il riferimento all'interesse, pur connotato da una prevalente connotazione soggettiva, non può escludere un confronto con un parametro oggettivo, non rimesso esclusivamente a imperscrutabili intendimenti dell'agente. Nel caso di specie, però, non è possibile escludere la sussistenza di un interesse della società argomentando sulla base dei limitati benefici economici ricavabili dalla vicenda, a fronte di elevati rischi, ed in relazione all'interesse a disporre di personale adeguato, in quanto dalla proposta di corruzione potevano derivare tali e tanti benefici economici dall'impresa da rendere implausibile l'esclusione di una sussistenza di un interesse dell'ente.

Viene poi escluso il ricorrere di una attività elusiva da parte del dipendente, occorrendo a tal fine una condotta ingannevole e subdola, influente sull'esercizio dei poteri di gestione e controllo ed essendo irrilevante che il singolo responsabile dell'illecito avesse in concreto agito tenendo nascosto il suo agire illecito ai superiori, non rappresentando tale circostanza una condotta ingannevole e subdola, tale da costituire propriamente elusione di una cogente regola cautelare (Cass. pen., Sez. V, 18 dicembre 2013, n. 4677).

Infondato poi è ritenuto il motivo di ricorso afferente la mancata individuazione da parte dei giudici di merito del dovere di vigilanza e la mancanza di motivazione sulla derivazione dell'illecito da tale inosservanza. Secondo la Cassazione, le difese non considerano come la colpa di organizzazione, fondamento della responsabilità dell'ente, fa leva sulla mancata predisposizione di un sistema di regole cautelari volte a prevenire determinati reati. In tale prospettiva, il dovere di direzione e vigilanza deve specificamente orientarsi verso la prevenzione delle condotte illecite incluse nel catalogo normativo, tanto più con riguardo a quelle inerenti ai rischi propri del tipo di impresa: nel caso di specie, non si era in presenza di una predisposizione da parte della società di un idoneo e preciso assetto di cautele, di cui si sarebbe trattato di vagliare l'eventuale violazione nel caso concreto, ma era mancata in radice la concreta vigilanza sull'operato del dipendente, in assenza di qualsivoglia indicazione di mirate cautele all'uopo adottate – cautele vieppiù necessarie considerando che la società operava a contatto con la pubblica amministrazione e che l'imputato persona fisica era soggetto che operava a contatto con pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio, occupandosi anche di occasioni conviviali, il che implicava la necessità di un'azione di direzione e controllo, volta a scongiurare il rischio di condotte più disinvolte.

Sul punto, la Cassazione si sofferma a lungo in quanto cerca di ricostruire il ruolo che, nell'ambito del sistema della responsabilità da reato delle imprese collettive, riveste l'adozione del modello organizzativo. In particolare, con riferimento ai delitti commessi da dipendenti, non rivestenti un ruolo apicale nell'impresa, si osserva che posto che i reati cui è connessa la responsabilità sono specificamente previsti e che ogni ente deve essere in grado di prevenirne la commissione, anche in rapporto alle rispettive sfere di rischio, occorre che l'assetto organizzativo risulti comunque in grado di assicurare un'azione preventiva, con la conseguenza che solo il concreto ed effettivo esercizio di un mirato potere di direzione e controllo può valere a scongiurare la responsabilità, in questo senso dovendosi intendere il riferimento contenuto nell'art. 7 d.lgs. 231/2001 all'inosservanza dei doveri di direzione e vigilanza, connaturati all'esigenza preventiva di cui si è detto. In tale prospettiva, nel caso di mancata adozione di modelli organizzativi, i presupposti della responsabilità dell'ente, a seconda che si tratti o meno di soggetto apicale, differiscono solo alla condizione che sia concretamente attestato un assetto, ispirato da regole cautelari, destinato comunque ad assicurare quell'azione preventiva, in tal caso essendo necessario provare che il fatto sia stato propiziato dall'inosservanza nel caso concreto della necessaria azione di direzione o vigilanza. Qualora peraltro non risultino specificamente dedotti assetti incentrati sul concreto svolgimento di quell'azione, da qualificarsi nondimeno come necessaria, non può dirsi occorrente, al fine di attestare la responsabilità dell'ente, una prova specifica ulteriore, avente ad oggetto la dimostrazione di una regola cautelare rimasta inosservata.

In sostanza, la mancata previsione di un assetto, connotato dall'attribuzione di mirati poteri e doveri e in grado di esercitare un'azione preventiva, non può tradursi in una condizione di privilegio sotto il profilo probatorio ma implica che gli obblighi di direzione e vigilanza siano rimasti inosservati, essendo da ciò derivata la commissione del reato da parte del soggetto non apicale.

Quanto alla circostanza che nel caso di specie si sarebbe trattato di una iniziativa estemporanea del dipendente, la circostanza non rileva in quanto tra i compiti della società vi era specificamente quello di creare le condizioni perché siffatte condotte non avvenissero o fossero comunque idoneamente prevenute.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione presenta molteplici profili di interesse ma presumibilmente quello di maggior rilievo è rappresentato dalla nuova concezione di interesse dell'ente che la giurisprudenza comincia a proporre.

Si è detto della differenza che si ritiene corrente fra le nozioni di interesse e vantaggio, distinguendosi la prima per una connotazione squisitamente soggettiva, essendo la stessa sussistenza quando il soggetto agisce con l'intento di arrecare un beneficio all'ente di appartenenza e ciò a prescindere dagli effettivi risultati della sua condotta e anche se la principale finalità del singolo non è beneficiare l'impresa ma soddisfare proprie esigenze personali o di terzi.

Rispetto a queste conclusioni, che sembravano ormai assolutamente consolidate, la Cassazione con la decisione in parola pare fare un passo avanti, sostenendo che, nella valutazione circa la partecipazione della società all'illecito di un suo dipendente, il giudizio circa la presenza di un interesse dell'ente – specie se il reato è stato commesso nel prevalente interesse del singolo o di terzi – non può prescindere da un confronto con un parametro oggettivo, non rimesso esclusivamente ad imperscrutabili intendimenti dell'agente, ovvero da una considerazione dei benefici che l'ente medesimo ha tratto effettivamente dalla vicenda delittuosa.

In realtà, sul punto si potrebbe anche andare oltre le odierne conclusioni della Cassazione. Sulla scorta di un precedente giurisprudenziale (Cass. pen., Sez. V, 19 settembre 2017, n. 42778), potrebbe infatti sostenersi che, nel decidere circa la sussistenza di un vantaggio in capo alla società in conseguenza di un illecito criminale posto in essere dai suoi amministratori, la valutazione non va svolta isolando le singole conseguenze del reato ma considerando in termini complessivi ed in un'ottica temporale più vasta rispetto a quella che considera il solo momento di svolgimento della condotta illecita quali siano gli effetti che in capo alla persona giuridica sono derivati dal reato stesso. Si pensi ad esempio all'amministratore il quale, consapevole dell'intenzione dell'assemblea dei soci di rimuoverlo dall'incarico per la sua incapacità gestionale, corrompa un pubblico ufficiale per evitare l'applicazione di sanzioni tributarie o previdenziali a carico della società ed evitare così la sua rimozione: in questa ipotesi non potrà sostenersi che la società si sia avvantaggiata della condotta corruttiva tenuta dall'amministratore, giacché a fronte delle sanzioni pecuniarie non versate si contrappone l'effetto pregiudizievole e di impatto decisamente negativo per l'impresa di non poter rimuovere un soggetto incapace dal ruolo di dirigente dell'azienda.

Per le medesime ragioni non potrà mai parlarsi dell'esistenza di un vantaggio per l'ente allorquando vi sia un contrasto fra gli interessi patrimoniali della persona giuridica e la condotta delittuosa posta in essere dal singolo, anche se incidentalmente dal reato siano comunque derivate conseguenze favorevoli per la societas. Oltre alla vicenda presa in esame dalla decisione in parola, si pensi al caso degli amministratori che occultano utili maturati nel corso dell'anno con conseguente risparmio fiscale per l'impresa: in queste ipotesi, infatti, la circostanza che l'ente comunque benefici delle conseguenze dell'altrui crimine è davvero un evento accidentale e nient'affatto sufficiente a fondare un giudizio di corresponsabilità, proprio perché – stante il contrasto fra l'esigenze della società e le finalità del singolo delinquente – in nessun modo potrà sostenersi che il crimine sia riferibile all'organizzazione collettiva.

Accanto a queste ipotesi, riteniamo inoltre che deve ritenersi irrilevante il beneficio economico che maturi in capo alla società per ragioni assolutamente casuali ed episodiche ed in conseguenza di reati che sono assolutamente estranei all'ordinario svolgimento dell'attività aziendale. Si pensi all'amministratore di una casa editrice di grande importanza e rilievo per la vita culturale del paese il quale venga sorpreso in atteggiamenti sessuali con minori procuratigli da un'organizzazione che svolge attività di sfruttamento della prostituzione minorile; questi, per evitare lo scandalo, corrompe – magari con fondi prelevati dalle casse della società da lui gestita - gli investigatori e preclude lo svolgimento del processo nei suoi confronti, impedendo così che la vicenda travolga anche le sorti dell'azienda da lui gestita, la quale riceverebbe un grave danno dalla diffusione pubblica della notizia.

In questo caso, nonostante la persona giuridica risulti beneficiata dall'altrui condotta illecita, è altresì vero che la circostanza che l'ente abbia ottenuto un qualche vantaggio non dimostra certo l'esistenza di una connessione, di un raccordo, fra il reato commesso dalla persona fisica e l'attività imprenditoriale dell'ente e ciò è sufficiente per concludere che l'ente collettivo debba ritenersi estranei alla condotta criminale.

Guida all'approfondimento

ASTROLOGO, Brevi note sull'interesse ed il vantaggio nel d.lgs. 231/2001, in Ind. Pen., 2003, 657;

BARTOLI, Le Sezioni Unite prendono coscienza del nuovo paradigma punitivo del "sistema 231", in Soc., 2015, 215;

BERNARDO, Requisiti oggettivi della responsabilità degli enti dipendente da reato, in Dir. Prat. Soc., 2006, 60.

CIALDELLA, Il requisito dell'interesse alla commissione del reato presupposto ai fini della responsabilità dell'ente, in Cass. pen., 2014, 1361;

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