Il delitto di autoriciclaggio. Contrasti giurisprudenziali

21 Dicembre 2018

La disamina degli orientamenti interpretativi emersi in seno alla giurisprudenza di legittimità attorno ai requisiti strutturali del delitto di autoriciclaggio suggerisce, in primo luogo, di esperire dei brevi cenni inerenti all'introduzione della predetta fattispecie criminosa all'interno del nostro ordinamento...
Abstract

La disamina degli orientamenti interpretativi emersi in seno alla giurisprudenza di legittimità attorno ai requisiti strutturali del delitto di autoriciclaggio suggerisce, in primo luogo, di esperire dei brevi cenni inerenti all'introduzione della predetta fattispecie criminosa all'interno del nostro ordinamento.

A seguito di un intenso dibattito dottrinale protrattosi nel corso di un esteso arco temporale, connotato dalla suddivisione tra coloro che ritenevano necessario pervenire all'incriminazione della condotta riciclatoria di denaro, beni od altre utilità, provenienti da un delitto non colposo, posta in essere da parte del soggetto autore del reato presupposto, e coloro che, al contrario, avversavano la predetta opzione di politica criminale, in quanto foriera del rischio di violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, mediante l'art. 3 della l. 186/2014, intitolata “Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all'estero nonché per il potenziamento della lotta all'evasione fiscale. Disposizioni in materia di autoriciclaggio”, il Legislatore ha introdotto all'interno del tessuto codicistico l'art. 648-ter.1, per l'appunto proteso a disciplinare il delitto di autoriciclaggio.

Nel passare in rassegna le soluzioni offerte sino ad oggi dalla giurisprudenza della Corte di cassazione s'intende optare per un'analisi che, in prima istanza, dia conto della natura del delitto in esame, per poi soffermare l'attenzione su talune delle sue componenti strutturali, ed infine esperire dei riferimenti alle problematiche relative alla configurabilità del concorso di persone nel reato nonché ai rapporti intercorrenti con la fattispecie criminosa del trasferimento fraudolento di valori.

L'autoriciclaggio quale reato a forma libera e a natura eventualmente permanente

Con la sentenza n. 40890/2017, la II Sezione penale della Suprema Corte ha anzitutto fornito talune indicazioni relative alla modalità di tipizzazione della condotta punibile prescelta da parte del Legislatore, sancendo che l'autoriciclaggio sia un reato a forma libera.

Con la medesima pronuncia i giudici di legittimità hanno stabilito come, in via generale, tale delitto possa essere annoverato tra i reati a consumazione istantanea. Sul punto, però, richiamando i principi enucleati relativamente al delitto di riciclaggio di cui all'art. 648-bis c.p. (v., ad es., Cass., Sez. II, 27 aprile 2016, n. 29611) la Cassazione ha osservato che tale illecito possa altresì atteggiarsi alla stregua di un reato eventualmente permanente, qualora il suo autore lo progetti ed esegua con modalità frammentarie e progressive. Di tal che le eventuali condotte poste in essere in una fase successiva al primo comportamento che, di per sé, risulti già idoneo ad integrare la rilevanza penale del fatto, non possono essere ascritte al genus di un post factum non punibile, dovendo invece qualificarsi al pari di un unico fatto a cui attribuire rilevanza unitaria ai fini della perseguibilità dell'agente.

La matrice extrapenalistica delle nozioni di “attività economica e finanziaria”

Ai fini dell'applicabilità dell'art. 648-ter.1 c.p. si richiede che l'agente ponga in essere, in via alternativa, un'attività di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, dei beni od altre utilità provenienti dal delitto presupposto, nell'esercizio di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative.

Si pone, pertanto, l'esigenza di individuare l'esatto contenuto delle predette componenti, al fine di verificare se il Legislatore abbia fornito una definizione autonoma, valida esclusivamente agli effetti della legge penale ovvero se, al contrario, sia necessario far ricorso a nozioni formulate in altre branche dell'ordinamento che risultino, però, applicabili anche in sede penale.

La giurisprudenza di legittimità risulta orientata verso la seconda delle predette opzioni, affermandosi, con la pronuncia resa da Cass. pen., Sez. II, 14 luglio 2016, n. 33074, che la nozione di attività economica sia desumibile dal disposto dell'art. 2082 c.c., a mente del quale la predetta attività si sostanzia in quel complesso di comportamenti finalizzati alla produzione di beni ovvero alla fornitura di servizi.

Sul punto si deve peraltro osservare come la previsione contenuta nell'art. 2082 c.c. fornisca la nozione di imprenditore, individuandolo nel soggetto che eserciti professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi e, conseguentemente, la medesima disposizione codicistica individua i parametri necessari ai fini dell'individuazione della nozione di attività imprenditoriale. In tal modo la distinzione operata all'interno del precetto di cui all'art. 648-ter.1 c.p., ove vengono parallelamente annoverate sia le attività economiche che quelle imprenditoriali, potrebbe condurre ad affermare che la locuzione attività economiche rappresenti un quid minus rispetto alla attività imprenditoriale, nel senso che difetterebbe taluno dei presupposti richiesti ai fini della realizzazione di tale seconda tipologia di attività, individuabile, in via alternativa, o nell'assenza del requisito della organizzazione relativo all'attività economica espletata ovvero nel difetto del carattere della professionalità della predetta attività.

Tale rilievo non appare ad ogni modo ostativo in ordine all'affermazione della tipicità del fatto, poiché, come poc'anzi rilevato, il Legislatore ha inserito nella sfera delle componenti disciplinate dall'art. 648-ter.1 c.p. anche l'ipotesi relativa allo svolgimento di attività economiche, con la conseguenza che laddove, nel caso concreto, dovessero difettare i presupposti relativi allo svolgimento di un'attività di natura imprenditoriale, sulla scorta di quanto sancito dall'art. 2082 c.c., ben potrebbe residuare uno spazio operativo per la configurabilità di un'attività economica, di per sé idonea a fondare la responsabilità a titolo di autoriciclaggio.

Recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha fornito un ulteriore contributo relativo all'individuazione del contenuto della nozione di attività economica. Con la sentenza resa da Cass. pen., Sez. II, 5 luglio 2018, n. 38422, dopo aver ribadito come la predetta nozione risulti desumibile dalle disposizioni di cui agli artt. 2082, 2135 e 2195 c.c., si è precisato come essa faccia riferimento non solo all'attività produttiva in senso stretto, consistente nella creazione di nuovi beni o servizi, ma anche a quella di scambio e di distribuzione dei beni nel mercato del consumo, nonché a ogni altra attività che possa rientrare in una di quelle elencate nelle menzionate norme del codice civile.

Tornando, invece, al contenuto della sentenza della Cass., Sez. II, 14 luglio 2016, n. 33074, può rilevarsi come i giudici di legittimità abbiano altresì fornito talune indicazioni relative alla decodificazione della nozione di attività finanziaria, a sua volta presente nel testo dell'art. 648-ter.1 c.p. Rilevata l'assenza, nel tessuto del codice penale, di un'autonoma definizione e constatato, inoltre, come la predetta nozione difetti altresì nel testo del codice civile, il collegio giudicante ha affermato che il parametro normativo di riferimento sia rappresentato dall'art. 106 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (c.d. Tub), il quale individua quali tipiche attività finanziarie l'assunzione di partecipazioni (acquisizione e gestione di titoli su capitale di imprese), la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, la prestazione di servizi di pagamento (incasso e trasferimento di fondi, esecuzione di ordini di pagamento, emissione di carte di credito o debito), l'attività di cambiovalute.

Il requisito della concreta idoneità della condotta

Nella sfera degli elementi costitutivi del fatto tipico, l'art. 648-ter.1 c.p. annovera l'ulteriore componente secondo cui la condotta di impiego, sostituzione o trasferimento dei beni provenienti dal delitto presupposto debba risultare idonea «a ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa».

In ordine a tale profilo, in seno alla giurisprudenza di legittimità sono emerse le prime indicazioni, rilevando anzitutto, mediante la pronuncia resa da Cass. pen., Sez. II, 18 luglio 2017, n. 40980, come la valutazione relativa alla idoneità della condotta a occultare la provenienza illecita dei beni utilizzati debba essere esperita mediante il ricorso a un giudizio prognostico ex ante, nel senso che l'interprete debba collocarsi mentalmente al momento di realizzazione del comportamento da parte del reo, al fine di verificare se esso presenti i connotati che permettano di accertarne l'effettiva capacità dissimulatoria della provenienza delittuosa dei beni oggetto di utilizzazione. In sostanza, la Corte Suprema perviene ad applicare i principi che regolano la materia del delitto tentato, ove, come noto, accanto al requisito della non univocità degli atti in ordine alla commissione di uno specifico delitto, si richiede altresì la sussistenza del carattere della idoneità dei medesimi, nel senso che attraverso una prognosi postuma, effettuata mediante il ricorso ad un giudizio ex ante, si possa constatare l'idoneità causale dei medesimi in ordine alla realizzazione del fatto tipico vietato dalla norma incriminatrice.

In aggiunta a quanto precede, il medesimo arresto giurisprudenziale sancisce che, qualora ci si discostasse dai predetti parametri ermeneutici e si pervenisse ad applicare un criterio di accertamento che si fondi su un canone di giudizio ex post, si dovrebbe pervenire alla conclusione secondo cui la condotta posta in essere dall'agente non risulterebbe mai concretamente idonea a produrre l'effetto dissimulatorio della provenienza delittuosa dei beni utilizzati, in quanto, mediante lo svolgimento di attività di indagine da parte dell'Autorità pubblica, potrebbe identificarsi un'operazione economica di natura sospetta, con la conseguenza che riemergerebbe la provenienza illecita dei beni e non si concretizzerebbe la componente del loro occultamento.

Ad avviso del Supremo Consesso, la predetta interpretazione andrebbe necessariamente rigettata, poiché qualora venisse accolta si prefigurerebbe l'esistenza di un'incriminazione impossibile, mentre appare evidente che l'applicazione della fattispecie astratta postuli necessariamente l'individuazione dei beni indebitamente reimmessi da parte dell'agente all'interno del circuito economico-finanziario, malgrado l'effettiva idoneità della condotta originariamente realizzata ad occultarne la provenienza delittuosa.

Successivamente, la giurisprudenza di legittimità ha confermato il predetto orientamento interpretativo e, mediante la pronuncia del 4 maggio 2018, n. 25979, resa dalla Sezione II penale, la Cassazione ha affermato che ai fini dell'integrazione dell'illecito si richiede che la condotta sia dotata di una particolare capacità dissimulatoria, specificando come essa debba risultare «idonea a provare che l'autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto attuare un impiego finalizzato ad occultare l'origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto», statuendosi quindi la rilevanza penale di tutte quelle condotte che risultino «finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il quid pluris che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall'occultamento del profitto illecito penalmente rilevante».

Dal dictum della predetta pronuncia emerge pertanto come i giudici di legittimità tendano ad attribuire al requisito della capacità dissimulatoria della condotta una valenza di carattere preminentemente soggettivo, nel senso che la sentenza richiamata parrebbe suggerire che ci si debba limitare ad esperire un accertamento proteso a verificare l'intenzione presente nella psiche dell'agente, poiché ove essa coincida col perseguimento del fine di realizzare un effetto di occultamento in ordine alla provenienza delittuosa dei beni, si dovrebbe pervenire a ritenere integrata la tipicità del fatto.

Corollario di tale impostazione parrebbe rappresentato dalla circostanza che l'interprete dovrebbe prescindere da un accertamento di matrice oggettiva volto a riscontrare quantomeno l'effettiva capacità dissimulatoria della condotta perpetrata dall'agente, se non addirittura la concreta verificazione dell'evento di ostacolo all'identificazione della provenienza delittuosa del bene.

Sul punto, appare possibile formulare talune osservazioni critiche, in quanto dall'esegesi del dato letterale parrebbe preferibile propendere per un'interpretazione che conferisca al requisito della concreta idoneità della condotta ad ostacolare la provenienza illecita dei beni una valenza prettamente oggettiva, nel senso che, come poc'anzi osservato, compito dell'interprete sarebbe quello di accertare, attraverso il summenzionato ricorso ad un giudizio ex ante, la concreta attitudine del comportamento ad ostacolare l'identificazione della provenienza illecita dei beni – se non, addirittura, come suggerito in dottrina da taluni Autori, a qualificare il concreto ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa alla stregua dell'evento del reato – prescindendosi, almeno in una prima fase dell'accertamento, dall'analisi della componente soggettiva presente in capo all'agente.

Dalla lettura del testo dell'art. 648-ter.1 c.p. sembrerebbe, in sostanza, necessario conferire alla componente in parola il carattere di requisito oggettivo di fattispecie, non potendo al contrario attribuirle una funzione di connotazione dell'elemento psicologico richiesto per la configurabilità dell'illecito che, così ragionando, perverrebbe ad assumere la veste del dolo specifico.

In conclusione, potrebbe affermarsi come la struttura del delitto in oggetto suggerisca di affermarne la punibilità a titolo di dolo generico, non potendosi attribuire al frammento normativo «in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa», la natura di fine perseguito da parte dell'agente, il che evidentemente consentirebbe di sancirne la punibilità a titolo di dolo specifico.

È al contempo innegabile come nell'ambito dell'attività di accertamento demandata al giudice debba altresì rientrare l'analisi relativa al coefficiente soggettivo che abbia sorretto il comportamento dell'agente, dovendosi pertanto verificare se l'intero novero degli elementi costitutivi della fattispecie siano rientrati nel fuoco del dolo, ivi compresa la circostanza che la condotta di reimmissione nel circuito economico-finanziario dei beni di provenienza illecita fosse concretamente idonea a ostacolarne l'identificazione relativa alla loro origine, pur ribadendosi come tale componente non possa atteggiarsi a mero fine perseguito da parte del soggetto agente – il che legittimerebbe un difetto della sua concretizzazione nella realtà materiale – ma esigendosi che essa quantomeno permei la condotta materiale, se non addirittura profilandosi quale conseguenza causalmente collegata al comportamento dell'agente, assurgendo al rango di evento tipico del reato.

L'ambito di operatività della clausola di non punibilità

Recentemente la giurisprudenza di legittimità ha fornito un rilevante contributo in ordine alla delimitazione del perimetro applicativo della clausola di non punibilità codificata dal comma 4 dell'art. 648-ter.1 c.p., ove si prevede che «fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale».

Con la sentenza emessa da Cass.pen., Sez. II, 7 giugno 2018, n. 30399, la Corte suprema ha anzitutto dato atto dell'emersione, all'indomani dell'entrata in vigore della nuova figura delittuosa, di due contrapposti orientamenti in seno alla dottrina gravitanti attorno alla corretta definizione da attribuire alla locuzione fuori dei casi di cui ai commi precedenti.

Ad avviso del primo filone interpretativo, la predetta clausola andrebbe interpretata secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, vale a dire che essa non si applicherebbe alle condotte descritte nei commi precedenti. In sostanza il lemma fuori dei casi significherebbe che la fattispecie risulta diversa e autonoma rispetto a quelle previste nei commi precedenti. A corollario di tale impostazione si perviene a statuire che la norma dettata all'interno del comma 4 si limiterebbe ad avere una funzione interpretativa o di puntualizzazione del comma 1, in ragione del fatto che alla medesima conclusione si sarebbe potuti pervenire anche in sua assenza, mediante una mera interpretazione a contrario. In sostanza, dal momento che il comma 1 sanziona le condotte di impiego, sostituzione o trasferimento di beni o altre utilità provenienti dal delitto presupposto in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, sarebbe stato comunque agevole sancire la non punibilità delle condotte con le quali il denaro o gli altri beni vengono destinati ad una mera utilizzazione o al godimento personale da parte dell'agente, stante la loro estraneità rispetto alla sfera delle condotte tipiche ed il correlato rischio di veder violato il principio di legalità.

A tale tesi interpretativa se ne è contrapposta una di segno differente, secondo cui la clausola fuori dei casi di cui ai commi precedenti, prevista dal comma 4, necessiterebbe di una rilettura, nel senso che essa andrebbe sostituita con la locuzione nei casi di cui ai commi precedenti. Aderendo a tale opzione ermeneutica, si giungerebbe ad affermare che la fattispecie delineata dal comma 4 delineerebbe una causa di non punibilità delle condotte tipizzate nel comma 1, in quanto laddove il soggetto abbia posto in essere una condotta autoriciclatoria tra quelle tipizzate nel comma 1, a cui però abbia fatto seguito la mera utilizzazione o il godimento personale dei beni di provenienza delittuosa reimmessi nel circuito economico-finanziario, il predetto comportamento non risulterebbe assoggettabile a sanzione penale. In sostanza, ciò che rileverebbe sarebbe la destinazione finale impressa ai beni di provenienza illecita, in quanto l'utilizzazione ed il godimento personale eliderebbero la rilevanza delle condotte riciclatorie poste in essere nella fase antecedente.

Chiamata a confrontarsi col predetto contrasto interpretativo, con la pronuncia citata la Corte di cassazione ha optato per aderire alla prima delle summenzionate tesi interpretative, affermando che la clausola di non punibilità dettata dal comma 4 possa operare nella sola ipotesi in cui il soggetto faccia un uso diretto dei beni di provenienza delittuosa, escludendone invece l'applicabilità qualora i beni di provenienza illecita siano stati originariamente utilizzati in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative e, solo successivamente, abbiano costituito oggetto di godimento od utilizzazione personale.

L'approdo alla predetta conclusione deriva da un'accurata analisi posta in essere dalla pronuncia in scrutinio, articolata nei passaggi argomentativi che si procede ad illustrare.

In prima analisi, i giudici di legittimità rilevano come la disposizione ex comma 4 richieda un uso diretto, da parte dell'agente, dei beni provento del delitto presupposto, non potendosi ricondurre alla fattispecie in esame le ipotesi in cui l'agente utilizzi le res in modo indiretto, come potrebbe accadere qualora prima dell'utilizzazione o del godimento personale egli abbia sottoposto i beni ad operazioni di riciclaggio che ne abbiano concretamente ostacolato l'identificazione della provenienza illecita.

In seconda istanza, l'applicazione della clausola di non punibilità presuppone l'assenza di qualsiasi condotta decettiva da parte del soggetto agente, vale a dire di quelle condotte mediante le quali si perverrebbe ad ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa del bene. Difatti, dal momento che l'agente è tenuto a destinare i beni di provenienza delittuosa a sue esigenze personali, non avrebbe alcuna necessità giuridica di ostacolare l'identificazione della provenienza illecita, proprio in ragione del c.d. privilegio dell'autoriciclatore tutt'ora garantito dal disposto dell'art. 648-ter.1, comma 4, c.p.

A completamento del predetto ragionamento la pronuncia in esame sancisce che la ratio sottesa al delitto di autoriciclaggio che, peraltro, risulta equivalente a quella delineata per il reato di riciclaggio, deve essere individuata nell'intento di impedire all'agente di reinvestire i beni di provenienza criminosa nell'economia legale e di inquinare il libero mercato, ledendo l'ordine economico con l'utilizzo di risorse provenienti dalla commissione di un fatto di reato. In tal modo si può comprendere la logica sottesa all'introduzione della nuova fattispecie incriminatrice nel tessuto penalistico, la cui inoperatività postula che i beni rimangano cristallizzati nella disponibilità dell'autore del reato presupposto, perché solo in tal modo si può realizzare quell'effetto di sterilizzazione che impedisce la reimmissione nel legale circuito economico.

Viceversa, ad avviso della Corte Suprema, laddove si pervenisse ad una conclusione di segno opposto, la conseguenza implicherebbe il profilarsi di uno scenario paradossale, in quanto si consentirebbe al soggetto di realizzare una tipica condotta di riciclaggio, con cui rendere non tracciabili i proventi del delitto presupposto e, al contempo, beneficiare della clausola di non punibilità per il semplice fatto che a seguito dell'attività di ripulitura darebbe luogo a un mero godimento o utilizzazione personale del bene di provenienza illecita.

L'individuazione del prodotto, del profitto e del prezzo del delitto di autoriciclaggio confiscabili ai sensi dell'art. 648-quater c.p.

La giurisprudenza di legittimità è stata chiamata a delimitare i confini del provento derivante dalla commissione del delitto di autoriciclaggio, ai fini della sua assoggettabilità a un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca, disciplinata dall'art. 648-quater c.p.

In particolare, con la sentenza resa da Cass.pen., Sez. II, 7 giugno 2018, n. 30401, si è rilevato come il profitto derivante dalla realizzazione del reato di autoriciclaggio non possa coincidere col profitto conseguito mediante la commissione del delitto presupposto. Difatti, come osservato dai giudici di legittimità, il delitto di autoriciclaggio si alimenta in tutto o in parte col provento del delitto presupposto e, pertanto, del profitto derivante dalla commissione del predetto delitto l'agente ne ha già beneficiato, dovendosi individuare altrove il prodotto, il profitto o il prezzo derivante dalla realizzazione della condotta autoriciclatoria.

Nello specifico, il provento derivante dalla commissione dell'autoriciclaggio non può che consistere nel prodotto, profitto o prezzo conseguito mediante l'impiego, la sostituzione o il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative dei beni provenienti dalla commissione del delitto presupposto.

Qualora non si pervenisse alla predetta conclusione, si profilerebbe il rischio di assistere ad una duplicazione sanzionatoria, dal momento che l'utilità inquadrabile a titolo di provento del delitto presupposto, di per se assoggettabile ad un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, sarebbe destinata ad essere assoggettata ad un successivo provvedimento cautelare in ragione dell'attribuzione ad essa altresì della natura di provento del delitto di autoriciclaggio, giungendosi in tal modo ad una violazione del divieto del bis in idem sostanziale.

Alla luce delle considerazioni che precedono si è pertanto giunti a sancire l'autonomia del provento ricavabile dalla commissione del delitto di autoriciclaggio in rapporto al provento conseguito mediante la perpetrazione del delitto presupposto.

La configurabilità dell'autoriciclaggio ove il delitto presupposto sia stato commesso anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 648-ter.1 c.p.

Con la sentenza emessa da Cass.pen., Sez. II, 15 dicembre 2015, n. 3691, che risulta, peraltro, la prima pronuncia di legittimità avente a oggetto il delitto di autoriciclaggio, il Supremo Consesso si è soffermato in ordine ad un profilo di diritto intertemporale relativo all'applicabilità dell'art. 648-ter.1 c.p.

In particolare, si è precisato che la commissione del delitto presupposto in un momento anteriore all'entrata in vigore della summenzionata previsione criminosa – avvenuta il 1° gennaio 2015non osta alla punibilità della condotta autoriciclatoria posta in essere dall'agente, in quanto non risulta violato il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, garantito sia dall'art. 25, comma 2, Cost. che dall'art. 2, comma 1, c.p., poiché ciò che si richiede è la commissione del fatto materiale idoneo a integrare il delitto di autoriciclaggio in un'epoca successiva all'entrata in vigore della fattispecie delittuosa e, al contempo, che la fattispecie idonea ad integrare il delitto presupposto risulti penalmente rilevante anche in epoca pregressa rispetto all'entrata in vigore del reato ex art. 648-ter.1 c.p., sulla scorta della disciplina vigente al momento di consumazione del fatto.

La differenziazione del titolo di responsabilità per l'autore del delitto presupposto ed il concorrente extraneus compartecipe della condotta riciclatoria

L'introduzione della fattispecie criminosa in tema di autoriciclaggio ha posto all'attenzione dell'interprete una problematica spinosa, relativa all'esigenza di determinare il titolo della responsabilità a carico del soggetto che, non avendo commesso né concorso a commettere il delitto presupposto, abbia realizzato (o quantomeno contribuito a realizzare) la condotta riciclatoria dei beni provenienti dal predetto delitto non colposo.

Sul punto si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità che, con la sentenza resa da Cass.pen., Sez. II, 17 gennaio 2018, n. 17235 ha, in prima analisi, offerto un'articolata e puntuale ricostruzione degli orientamenti emersi in seno alla dottrina al fine di dirimere il suddetto dubbio interpretativo, per poi pervenire ad enucleare una soluzione che, allo stato attuale, si erige a diritto vivente.

Prima di esaminare il principio elaborato dal Supremo Consesso nella predetta pronuncia, appare utile passare in rassegna i principali filoni interpretativi emersi all'interno del formante dottrinale, come accennato richiamati dalla medesima pronuncia in commento.

Ad avviso di una prima tesi ermeneutica, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto presupposto, contribuisca alla realizzazione delle condotte tipizzate dall'art. 648-ter.1 c.p., è chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio di cui all'art. 648-bisc.p. ovvero del reato di impiego di denaro, beni od altra utilità, disciplinato dall'art. 648-ter. A sostegno del predetto assunto, si è osservato come l'insieme delle condotte tipizzate dall'art. 648-ter.1 c.p. si iscriva integralmente in quello previsto dal combinato disposto degli artt. 648-bis e 648-ter c.p., rilevandosi come l'elemento differenziale tra le menzionate ipotesi criminose sia da ravvisare nella qualificazione soggettiva dell'autore. In ragione di ciò si è concluso affermando che il soggetto che fornisca un contributo causale all'autoriciclatore non sarà chiamato a rispondere a titolo di concorso nell'autoriciclaggio ai sensi dell'art. 117 c.p., bensì a titolo di riciclaggio ovvero di reimpiego di beni di provenienza illecita.

Un differente orientamento interpretativo ha invece preso spunto dall'affermazione secondo cui il delitto di autoriciclaggio rappresenti un “reato di mano propria”, con la conseguenza che ai fini della sua sussistenza si richiede che l'intraneus (vale a dire il soggetto autore del reato presupposto) debba eseguire personalmente la condotta tipica, ritenendosi peraltro sufficiente la realizzazione anche di un solo frammento costitutivo dell'azione tipica. A corollario di tale impostazione si è sostenuto che in presenza di una condotta dell'intraneus di mera messa a disposizione del provento delittuoso nelle mani dell'extraneus, a cui consegua un'attività riciclatoria posta in essere esclusivamente da quest'ultimo, l'autore del reato presupposto dovrà ritenersi non punibile in virtù della irrilevanza penale del proprio comportamento, pervenendosi invece a sancire la responsabilità del solo soggetto autore della condotta di riciclaggio o di reimpiego, mediante la riconduzione del fatto storico nel paradigma degli artt. 648-bis o 648-ter c.p.

Parallelamente ai predetti orientamenti interpretativi se ne è profilato uno ulteriore, che appare comunque minoritario. Ad avviso dei fautori di tale tesi ermeneutica, l'autoriciclaggio andrebbe collocato nella categoria dei reati propri, con la conseguenza che risulterebbe ammissibile, ai fini della sua realizzazione, il concorso dell'extraneus. In tal modo parrebbe configurabile la punibilità del soggetto sprovvisto della qualifica di autore del delitto presupposto a norma degli artt. 110 o 117 c.p., a seconda che tale soggetto abbia o meno la consapevolezza della titolarità della qualifica soggettiva in capo al concorrente.

Aderendo a tale indirizzo si perverrebbe a garantire un trattamento sanzionatorio più mite in favore del soggetto che sino all'entrata in vigore dell'art. 648-ter.1 c.p. sarebbe stato chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio, potendo in tal guisa beneficiare del regime sanzionatorio delineato per la fattispecie di autoriciclaggio.

Infine, un ulteriore orientamento giurisprudenziale si è discostato dal richiamo alla disciplina in tema di concorso di persone nel reato, ancorando la soluzione del predetto problema interpretativo alla disciplina in tema di concorso apparente di norme. Si è difatti sostenuto che il soggetto extraneus che ponga in essere una condotta che concorra con la condotta dell'autore del delitto fonte, sarebbe a prima vista chiamato a rispondere sia del delitto di riciclaggio o di reimpiego, sia del delitto di autoriciclaggio. Dal rapporto intercorrente tra le fattispecie di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. e quella enucleata dall'art. 648-ter.1 c.p., emerge che le prime risultino più gravi, incorporando al loro interno l'intero disvalore oggettivo e soggettivo del fatto, con la conseguenza che, in applicazione del principio di sussidiarietà, troverà applicazione soltanto la fattispecie più grave e pertanto il soggetto non sarà chiamato a rispondere del delitto di autoriciclaggio.

Diversamente, l'autore del reato presupposto risulterà punibile alla stregua del solo art. 648-ter.1 c.p.

Poste tali premesse il Collegio giunge ad affermare che una volta osservato come non sussista tra i delitti di cui agli artt. 648-bis e 648-ter e la fattispecie criminosa di cui all'art. 648-ter.1 c.p. una clausola di sussidiarietà che ne regoli il rapporto e preso altresì atto che tra le predette fattispecie criminose non intercorra un rapporto di specialità strutturale, la problematica non può essere risolta mediante il ricorso alla disciplina in tema di concorso apparente di norme.

Sicché si deve affermare che, stante la ratio sottesa all'introduzione dell'art. 648-ter.1 c.p., derivante dall'esigenza di caducare il c.d. privilegio dell'autoriciclatore, che aveva costantemente contraddistinto l'ordinamento italiano, non può giungersi alla conclusione secondo cui il soggetto extraneus sia chiamato a rispondere del delitto di autoriciclaggio in concorso con l'intraneus mediante l'applicazione degli artt. 110 o 117 c.p. (a seconda che l'extraneus abbia o meno la consapevolezza della qualifica soggettiva rivestita da parte del concorrente, autore del delitto presupposto). In tal modo, difatti, si giungerebbe ad un'abrogazione implicita del delitto di cui all'art. 648-bis c.p. e si garantirebbe all'extraneus un trattamento sanzionatorio più favorevole, che di per sé non risulterebbe giustificato dal momento che tale soggetto non sarebbe chiamato a rispondere del delitto presupposto e, pertanto, nei suoi confronti non si perverrebbe ad una duplicazione sanzionatoria, a cui si assiste invece nei confronti del soggetto responsabile del delitto di autoriciclaggio, il che giustifica la previsione di un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello dettato dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p.

A completamento del ragionamento esperito con la pronuncia in oggetto, la Suprema Corte sancisce che la condotta dell'autore del delitto fonte che si sostanzi nella mera messa a disposizione del provento illecito nelle mani del terzo, senza porre in essere la successiva attività riciclatoria, non possa condurre alla sua non punibilità – come invece sostenuto da quell'orientamento dottrinale teso a qualificare l'autoriciclaggio come un delitto ‘di mano propria' – in quanto il comportamento posto in essere da parte dell'autore del delitto presupposto risulterebbe comunque idoneo a mantenere una rilevanza causale in ordine alla realizzazione della condotta riciclatoria.

La configurabilità del concorso tra i delitti di autoriciclaggio e trasferimento fraudolento di valori

La giurisprudenza di legittimità è stata chiamata a valutare la natura del rapporto intercorrente tra i delitti di autoriciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori (c.d. intestazione fittizia dei beni), fattispecie originariamente disciplinata dall'art. 12-quinquies, d.l. 306/1992, conv. in l. 356/1992 e attualmente trasfusa nell'art. 512-bis c.p., in virtù dell'intervento apportato dal d.lgs. 21/2018, che ha altresì introdotto il principio di riserva di codice in materia penale mediante l'inserimento dell'art. 3-bis all'interno del tessuto codicistico.

Con la pronuncia emessa da Cass. pen., Sez. II, 12 gennaio 2017, n. 3935, dopo aver rilevato come i fatti di autoriciclaggio risultassero punibili anche anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 648-ter.1 c.p., in virtù dell'applicabilità della previsione dettata dall'art. 12-quinquies, d.l. 306/1992, conv. in l. 356/1992, laddove fossero sussistiti i relativi requisiti di fattispecie, la Corte Suprema è pervenuta ad affermare che tra i due illeciti si configuri un concorso materiale, dal momento che la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l'autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio ad un terzo dei cespiti rivenienti dal reato presupposto. Laddove tale comportamento si dovesse verificare ci si troverebbe al cospetto di un fatto ulteriore che, per l'appunto, l'ordinamento sanziona mediante la previsione di cui all'art. 12-quinquies, d.l. 306/1992, conv. in l. 356/1992 (oggi da intendersi riferito all'art. 512-bis c.p.).

A rinforzare il predetto assunto i giudici di legittimità affermano altresì che i fatti manterrebbero una rilevanza cronologica distinta: in una prima fase l'autore del reato presupposto perverrebbe a realizzare l'operazione di trasferimento fraudolento di valori, in un secondo momento si potrà assistere al compimento di una condotta autoriciclatoria.

Tali approdi interpretativi sono stati successivamente confermati da Cass.pen., Sez. fer., 10 agosto 2017, n. 43144, con cui i giudici di legittimità hanno statuito che il delitto di trasferimento fraudolento di valori possa rappresentare il delitto presupposto del reato di autoriciclaggio, in quanto il profitto ricavabile dallo svolgimento di attività mediante l'utilizzo dei beni fittiziamente intestati deve ritenersi illecito e, per tale ragione, la successiva attività riciclatoria merita di essere sanzionata a norma dell'art. 648-ter.1 c.p.

Guida all'approfondimento

Bricchetti R., Riciclaggio ed autoriciclaggio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, fasc. 2, pp. 684-695; Ciraulo A., Autoriciclaggio, voce in Dig. disc. pen., Aggiornamento, IX, Torino, 2016, pp. 122-136; Consulich F., La norma penale doppia. Ne bis in idem sostanziale e politiche di prevenzione generale: il banco di prova dell'autoriciclaggio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2015, fasc. 1-2, pp. 55-87; De Francesco G. A., Riciclaggio ed autoriciclaggio: dai rapporti tra le fattispecie ai problemi di concorso nel reato, in Dir. pen. proc., 2017, fasc. 7, pp. 944-952; Gullo A., Autoriciclaggio, voce in Libro dell'anno del diritto, Roma, 2016; Mucciarelli F., Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 1/2015, pp. 108-123; Piergallini C., Autoriciclaggio, concorso di persone e responsabilità dell'ente: un groviglio di problematica ricomposizione, in Criminalia, 2015, pp. 539-556; Seminara S., Spunti interpretativi sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. proc., 2016, fasc. 12, pp. 1631-1649.; Trapasso M. T., La punibilità delle condotte autoriciclatorie, Napoli, 2017.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario