La personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale alla persona: questioni suscitate dal punto 7 del c.d. decalogo

Carlo Breggia
03 Gennaio 2019

Nella nota pronuncia n. 7513/2018 si affronta anche il tema della personalizzazione, fissando principi che paiono restringere in maniera estremamente significativa il margine di applicazione dell'aumento personalizzante. Ci si propone di mostrare, dapprima con una interpretazione più aderente al testo di legittimità e poi passando alla più ampia visuale del concetto di integralità del risarcimento, che la personalizzazione resta un meccanismo indefettibile..
Il settimo punto del decalogo: la personalizzazione

La S.C., con riguardo alla c.d. personalizzazione, nella ben nota ordinanza 27 marzo 2018 n. 7513, ponendosi nel solco già tracciato da Cass. civ., 17 gennaio 2018 n. 901, scrive in dettaglio: «[…] In presenza d'un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento. […]».

Si postula che la misura di invalidità permanente espressa dal CTU medico-legale ricomprenda in sé anche la riduzione degli aspetti dinamico relazionali ordinariamente connessi a quel grado di nocumento biologico (ivi, in motivazione, § 5.8). E si spiega poi (al § 5.9.2.) che «[…] Una lesione della salute può avere le conseguenze dannose più diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi: - conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità: - conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili. […]». Il principio, per quanto consti, è stato ribadito anche da Cass. civ., sez. VI, ord. 7 maggio 2018 n. 10912.

Quindi:

1) ogni grado di invalidità permanente espresso dalla medicina legale definisce la classe di tutti quei soggetti che hanno subito nocumenti alla persona fra sé equipollenti in termini di conseguenze sulla sfera non patrimoniale del danno alla salute;

2) ogni conseguenza sulla vita di relazione e sulla risonanza interna del fatto lesivo che sia comune a qualsiasi elemento della predetta classe non richiede un aumento del risarcimento (a titolo di personalizzazione), perché già considerata nella determinazione del grado percentuale di i.p. e ristorata con l'applicazione della tabella a punto variabile;

3) solo le conseguenze straordinarie giustificano l'aumento per personalizzazione: «[…] Ma lo giustificano, si badi, non perché abbiano inciso, sic et simpliciter, su "aspetti dinamico-relazionali": non rileva infatti quale aspetto della vita della vittima sia stato compromesso, ai fini della personalizzazione del risarcimento; rileva, invece, che quella/quelle conseguenza/e sia straordinaria e non ordinaria, perché solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione […]» (ivi, pag. 21).

Infine, la S.C., pur riaffermando in via di principio che lo stabilire se e in qual misura a un determinato grado di i.p. corrisponda una diminuzione della vita di relazione integra un apprezzamento di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità, si premura di rammentare che, a esempio, plurime volte è stato affermato nella sua giurisprudenza che a una grave invalidità è connaturata la perdita della possibilità di intrattenere gli ordinari rapporti sociali.

È allora legittimo interrogarsi se questi principî releghino di fatto la personalizzazione nell'ambito della irrilevanza, perché rarissima da individuarsi nei casi concreti della pratica giudiziaria.

Ritengo di no.

Una proposta interpretativa sulla esatta portata del principio espresso dalla S.C. in tema di personalizzazione

Pare innanzitutto preferibile intendere per conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari non già rarissime conseguenze del tutto fuori dell'ordinario, ma, più limitatamente, conseguenze che esulano dalla media dei casi clinici espressi da un determinato valore di invalidità.

Se, infatti, il postulato di partenza è che il baréme medico-legale sintetizza anche la riduzione della vita di relazione normalmente collegata a quel grado di incidenza biologica dei postumi, è ovvio che resta inespresso tutto ciò che va oltre la norma, intesa come media, e non solamente ciò che è rarissima evenienza. Conseguenza straordinaria va quindi intesa nel senso di ciò che è oltre la media dei casi analoghi e non di ciò che è del tutto eccezionale; del resto, anomalo indica ciò che non è conforme alla regola e peculiare, pur con l'avverbio affatto, significa particolare. Sarebbe, insomma, un errore dare una interpretazione enfatizzante delle qualificazioni anomale ed affatto peculiari, perché ci si porrebbe in disarmonia grave col presupposto da cui si è mossa la S.C., ossia che il grado stimato dal CTU medico-legale contiene tutte le conseguenze (ricadenti sulla vita di relazione) che in media risente chi abbia patito lesioni di quella misura.

Conforta questa linea interpretativa la stessa giurisprudenza di legittimità, che in altri suoi recenti arresti, ha, per esprimere l'identico concetto, distinto, all'interno della classe di un medesimo punto di invalidità permanente, tra pregiudizi normalmente subiti da chiunque e quelli peculiari del caso concreto (Cass. civ. 21939/2017); ovvero tra conseguenze ordinarie da quelle legate all'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale nella specie considerata (Cass. civ. n. 20795/2018), tutte scelte lessicali che avvalorano la tesi qui sostenuta.

Si consideri, fra l'altro, che l'accertamento, riservato al giudice di merito, di quali siano le conseguenze che qualunque persona con una determinata invalidità permanente non può non subire non è così agevole come si può pensare. Anzi, è un accertamento necessariamente presuntivo e prettamente statistico: presuntivo, perché non si può certo pretendere di passare in rassegna tutte le possibili attività della vita di relazione e scrutinare poi l'intera classe dei nocumenti alla salute raggruppati dal barème medico-legale nel medesimo grado percentuale di invalidità, per stabilire quali siano comuni e quali no; statistico, perché, per l'appunto, non può che fondarsi sulla ricorrenza di determinate limitazioni nei casi passati e, sotto questo profilo, sarà sempre possibile nel corso del tempo e con l'evoluzione dei costumi sociali e delle terapie di recupero che un aspetto della vita di relazione che, se perduto oggi, è una conseguenza straordinaria di quel determinato grado di invalidità permanente, ne divenga un domani una conseguenza ordinaria; o viceversa. Se certo è ovvio, in via di approssimazione, che «[…] la perduta o ridotta o modificata possibilità di intrattenere rapportisociali in conseguenza di una invalidità permanente costituisce una delle "normali" conseguenze delle invalidità gravi, nel senso che qualunque persona affetta da una grave invalidità non può non risentirne sul piano dei rapporti sociali […]» (ord. n. 7513/2018, § 5.11), è anche ovvio che, scendendo nella specificità del caso concreto, diviene meno automatico accoppiare una determinata limitazione della vita di relazione a un preciso grado di invalidità.

È quindi preferibile, a mio avviso, leggere nella ultima giurisprudenza di legittimità non tanto uno spostamento dell'aumento per la personalizzazione al margine del discorso sul ristoro del danno alla persona (e, in concreto, pressoché una sua eliminazione), quanto un (doveroso) invito a un ancor maggior rigore ai fini del suo riconoscimento, che – è appena il caso di rammentare – impone a chi agisce dapprima una allegazione tempestiva e specifica; indi, una piena dimostrazione, pur col ricorso, in ipotesi, a presunzioni, a fatti notori, ecc.-

Uno sguardo più ampio: la personalizzazione e il principio dell'integralità del risarcimento

L'art. 1223 c.c. fonda il principio dell'integralità del risarcimento.

Nell'impianto originario del codice civile, peraltro, l'integralità era attenuata, nella responsabilità contrattuale, dal limite previsto dall'art. 1225 c.c. (prevedibilità del danno); ed era invece assicurata nella sua pienezza, nella responsabilità aquiliana, sia dall'art. 2056 c.c. (che consapevolmente esclude il rinvio all'art. 1225 c.c.), sia dall'art. 2058 c.c. (che, nel sancire il diritto al risarcimento in forma specifica, indica con chiarezza che, salvo il limite dell'impossibilità o dell'eccessiva onerosità, la funzione del risarcimento è quella di rispristinare perfettamente la sfera del soggetto leso).

Il principio dell'integralità del risarcimento, come codificato, non ha ricevuto alcuna specifica e intangibile copertura dalla Costituzione, come – proprio in tema di risarcimento del danno alla persona e, in particolare, di quello per le invalidità micropermanenti (derivate dalla circolazione stradale) disciplinato dall'art. 139cod. ass. – ha avuto modo di affermare la Corte Costituzionale nella sentenza n. 235 del 2014, argomentando che una tabella di predeterminazione del risarcimento per il danno alla persona è legittima nella materia della responsabilità civile automobilistica, perché il sacrificio che può determinarsi a carico dell'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi.

Le distinzioni appena accennate fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, peraltro, sono ormai da considerarsi superate con riferimento alla materia del risarcimento del danno non patrimoniale alla persona. Infatti, le note sentenze di San Martino (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972-5) hanno, fra l'altro, affermato, per il tramite di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., la risarcibilità del danno non patrimoniale alla persona anche nel caso di responsabilità contrattuale. E nessuno può oggi dubitare, sempre seguendo la medesima linea interpretativa, che il risarcimento del danno alla persona derivante da un inadempimento, così come ricomprende quello del nocumento non patrimoniale (dovendosi l'art. 2059 c.c. leggere alla luce della Costituzione), altrettanto non risente del limite dell'art. 1225 c.c., che pure sarebbe dettato per quel tipo di responsabilità. Ciò, appunto, perché quando sono in gioco diritti fondamentali della persona, è la natura del danno e non il titolo della responsabilità che determina le regole applicabili: si tratta, a ben vedere, di una conseguenza necessitata del c.d. principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalle sentenze di San Martino e sempre poi riaffermato (in sintesi estrema si veda proprio il punto 3 del decalogo di Cass. civ., n. 7513/2018: «"Categoria unitaria" vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ad i medesimi criteri risarcitori (artt. 1223,1226,2056,2059 c.c.).».

Orbene, l'utilizzo di un sistema tabellare – previsto dalla legge (artt. 139 e 138, quando attuato, cod. ass.) o elaborato dalla giurisprudenza (Tabelle del Tribunale di Milano) – garantisce il rispetto del principio di eguaglianza, sì che a nocumento equipollente corrisponda un risarcimento in denaro eguale.

La personalizzazione – è a questo punto chiaro - risponde all'esigenza di rendere flessibile il sistema risarcitorio, per adeguarlo a ogni singolo caso concreto, attuando il principio dell'integralità del risarcimento, che, con specifico riguardo al danno non patrimoniale, corrisponde poi alla categoria di onnicomprensività (intesa come obbligo di valutare e ristorare ogni e qualsiasi pregiudizio non economico prodottosi sulla sfera personale dell'offeso), da sempre ribadita nella giurisprudenza di legittimità.

Il sistema tabellare, dunque, assicura l'uniformità generale di base dei risarcimenti (e il rispetto del principio di eguaglianza: cfr Cass. civ., 7 giugno 2011 n. 12408); la personalizzazione ne garantisce l'integralità nei singoli casi concreti.

Discende da tutto quanto sin qui osservato che, ai fini della personalizzazione, deve avere rilievo anche la quantità e la qualità degli aspetti della vita di relazione (o della sofferenza interiore) che sono stati colpiti in concreto. Se è certo vero che nella valutazione medico-legale e poi nel punto variabile sono ricompresi già anche aspetti relazionali e interiori ordinari, è pure innegabile che, a parità di postumi permanenti, la situazione di chi in concreto abbia perduto molti profili della sua vita di relazione è diversa da chi ne abbia perduti meno; così come abbia risentito più o meno acutamente i riflessi interiori della perturbazione organica.

Il baréme medico-legale può considerare, predeterminando il punteggio, le conseguenze che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire (ovvero le conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità), ma non può ovviamente sapere se, quante e quali di quelle conseguenze saranno risentite nel singolo caso. Questo ulteriore dato dipende, infatti, dalla situazione della singola vittima: più ampia era la sua vita sociale, più variegati i suoi interessi, più grave sarà, a parità di grado di i.p., il danno conseguente alla loro riduzione; così come, sul piano interiore, più sensibile e più fragile era, sul piano esistenziale, la persona, più ampio sarà, a parità di i.p., il danno derivante dalla risonanza interna del male patito. E ciò, a ben vedere, perché, come nota acutamente Cass. civ., n. 901/2018 (pag. 29), la sofferenza umana è, così come il danno non patrimoniale corrispondente, indefinita e atipica e non pare quindi che un baréme medico-legale possa ex ante predeterminare ed esaurire tutto – o quasi tutto – lo spazio di una dimensione siffatta.

La situazione personale della vittima

Le considerazioni che precedono riportano con forza l'attenzione sulla funzione di adeguamento del risarcimento standard alla fattispecie del processo, che lo stesso nome di personalizzazione porta con sé. È un profilo questo ineludibile, visto che, diversamente, si finirebbe col dare un identico risarcimento standard a persone che, pur a parità di i.p., hanno subito nocumenti diversi, per il maggior o minor numero dei riflessi sulla vita di relazione o per la maggiore o minore risonanza interna.

Ci si può allora chiedere, spostando l'analisi a un diverso punto d'osservazione, se la situazione personale della vittima debba essere, sotto un qualche profilo, comunque esclusa dai parametri che determinano il danno risarcibile: la risposta è senza dubbio negativa.

Già l'art. 5, comma 4,l. 5 marzo 2001 n. 57 (e poi gli art. 138 e 139 comma 3,d. lgs. 209/2005) previde come necessario un meccanismo di personalizzazione che tenesse conto delle «[…] condizioni soggettive del danneggiato […]»: esse, dunque, sono senz'altro un fattore che deve essere tenuto presente dal giudice (in difetto incorrendosi in un vizio di motivazione: fra le altre, Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2015 n. 21087). E non v'è nessuna limitazione alla portata diversificante che esse, a parità di grado di invalidità permanente, possono introdurre nella fattispecie concreta, dal momento che il ristoro del danno non patrimoniale unitariamente inteso non incontra, come già si è avuto modo di accennare, il limite dell'art. 1225 c.c.; del resto, basti pensare che la semplice diversa età di una vittima rispetto a un'altra modifica il risarcimento in relazione alla differente aspettativa di vita futura.

Esiste poi una ulteriore e ben distinta prospettiva dalla quale si può guardare alle condizioni soggettive del danneggiato ed è quella della causalità.

Due sono i nessi causali che si devono valutare nel giudizio civile di liquidazione del danno. Innanzitutto quello di causalità materiale, che lega la condotta all'evento e la cui verifica va condotta sulla base del principio di preponderanza causale e che infine, se sussistente, fa sorgere l'obbligazione risarcitoria in capo al danneggiante. Indi, in successione logica, il nesso di causalità giuridica, che lega invece l'evento alle conseguenze nocive patite dall'offeso e che si valuta secondo il canone della regolarità causale (art. 1223 c.c.: i danni risarcibili sono solo quelli che del fatto generatore di responsabilità «[…] siano conseguenza immediata e diretta […]») e che infine, se sussistente, rende risarcibile una determinata voce di danno (su questa distinzione cfr Cass. civ., sez. I, 23 dicembre 2010 n. 26042).

Se le condizioni ambientali o naturali nei quali si colloca il fatto illecito – e, dunque, anche la maggiore o minore fragilità psichica o fisica della vittima, così come la maggiore o minore ricchezza della sua vita di relazione – sono causa (materiale) di per sé sola sufficiente del nocumento patito dall'attore, tanto che la condotta ascritta al convenuto resti a livello di mera occasione, non sorge alcuna obbligazione risarcitoria e, a ben vedere, manca qualsiasi responsabilità del preteso danneggiante, che neppure può essere definito tale. Si tratta però di casi che, come la pratica giudiziaria mostra, solo raramente si verificano in concreto, perché nella grande maggioranza dei casi la condotta lesiva del danneggiante supera ampiamente il limite della mera occasione, che si ha solo quando il danno si sarebbe verificato a prescindere dalla condotta del terzo. E, va subito aggiunto onde evitare fraintendimenti, la condizione particolare dell'offeso neppure può essere mai considerata concausa del nocumento, perché «[…] una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile […]» (così Cass. civ., sez. III, 1 febbraio 1991 n. 981; Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2011 n. 15991; nonché Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 2003 n. 5539, che ha cassato la sentenza d'appello che, avendo accertato che gli illegittimi provvedimenti del datore di lavoro fossero responsabili, sul piano eziologico, del 50% del danno biologico riscontrato nel lavoratore essendo esso ascrivibile per l'altro 50% ad una predisposizione fisica e a infermità pregresse - aveva posto a carico del datore di lavoro non la totalità dei danni subiti dal lavoratore, bensì solo il 50%; vedi anche Il problema del concorso tra cause umane e naturali e il danno cd. incrementativo, in Ridare.it).

La valutazione della causalità giuridica, come sopra definita, può in prima battuta suggerire conclusioni diverse: si potrebbe cioè affermare che le conseguenze delle lesioni sulla vita di relazione o sulla vita interiore della persona offesa che derivano da una sua peculiare situazione personale (di maggiore fragilità, ecc.) non sono profili risarcibili, in quanto conseguenze non immediate né dirette (ex art. 1223 c.c.) dell'illecito.

Credo tuttavia che questa linea argomentativa non possa essere seguita per almeno due ragioni:

1) perché il diritto positivo stabilisce che le condizioni soggettive del danneggiato sono un fattore che può aumentare il risarcimento, non certo ridurlo (oggi artt. 138 e 139 cod. ass. già citati);

2) perché la situazione personale dell'offeso non è una sua condotta colpevole, ma uno stato naturale, che non può incidere in alcun modo sulla liquidazione del risarcimento.

Ne discende una volta di più che la situazione soggettiva del danneggiato è e deve restare un fattore potenzialmente rilevante per un aumento della somma risarcitoria e che l'operazione liquidatoria a ciò deputata è quella della personalizzazione. La persona di più ricca vitalità esterna o di più intima risonanza interna, insomma, patisce da una medesima lesione un danno superiore a quello di una persona di più limitati interessi non già per ragione della sua situazione, ma sempre e solo perché quel suo equilibrio è stato perturbato dall'illecito. A ben vedere, quindi, solo adducendo l'imprevedibilità della configurazione personale della vittima rispetto a una ipotetica personalità media si potrebbe limitare il risarcimento, ma questa via è sbarrata nel diritto positivo dall'omesso richiamo dell'art. 1225 c.c. da parte dell'art. 2056 c.c.

Qualche esempio dalla pratica giudiziaria

Può verificarsi il caso in cui chi ha subito una lesione micropermanente deve, per la peculiare situazione della fattispecie concreta, cessare attività di notevole importanza nella vita quotidiana: a es., deve smettere di guidare perché i postumi permanenti di tipo algico di una ferita lacero contusa alla gamba, per il resto di modesto impatto, hanno però reso troppo doloroso l'azionamento dei pedali del veicolo.

Oppure il caso di invalidità di per sé grave e che, per di più, abbia inciso su aspetti particolarmente qualificanti della vita di relazione: ad es., la compromissione della funzione di deglutizione, cui consegue la necessità di assumere pasti obbligatoriamente omogeneizzati, che aliena in radice la possibilità di recarsi al ristorante, per la vergogna e il disagio conseguenti.

O, ancora, il caso di invalidità grave che ha eliso un complesso particolarmente variegato e ampio di attività ricreative e ludiche che, se singolarmente considerate, sono ordinarie, mentre, se apprezzate nel complessivo impatto che la loro mancanza determina sul danneggiato, sono straordinarie.

In tutti questi casi occorre, ove vi sia stata tempestiva allegazione e adeguata prova, procedere a personalizzazione.

Nel primo caso, più evidente, perché la qualità della attività preclusa è di particolare incidenza nella vita ordinaria e, dunque, sproporzionata rispetto alla valutazione medico legale della lesione, di per sé micropermanente.

Nel secondo, perché, del pari, la qualità del nocumento esorbita dall'ordinario, visto che la completa ablazione del piacere del convivio è un pregiudizio di intensità troppo forte per essere compresso nella norma

Nel terzo, infine, perché tanto più ricca era la vita di relazione della persona, tanto più incidente sarà la sua drastica riduzione.

Conclusione

La personalizzazione deve sempre tenere conto dei riflessi delle lesioni per come si sono dispiegati sulla vittima; e ciò, peraltro, senza contraddire, a ben vedere, l'insegnamento della S.C., perché la maggiore o minore intensità del nocumento interiore, così come il maggiore o minore risentimento nella vita di relazione costituiscono (o possono costituire), se valutate nella loro complessiva incidenza sulla sfera del singolo soggetto leso, conseguenze comuni o non comuni a quel grado di invalidità permanente. La perdita congiunta e contestuale di plurime e importanti componenti vitali, insomma, è (o può essere) di per sé – ossia proprio in ragione della sua estensione quantitativa e importanza qualitativa – una conseguenza anomala e affatto peculiare di quel grado di i.p.- Non è semplicemente che un certo danneggiato non può più svolgere una, due o più attività (ludiche, ricreative, sociali, ecc.) che prima svolgeva, ovvero che vive interiormente con un disagio più o meno forte il vissuto traumatico; ma, soprattutto, è che quei determinati nocumenti si presentano in lui incarnati contemporaneamente o che uno di essi raggiunge in lui una intensità fuori del comune, così che solo una attenta disamina del caso concreto può dire l'ultima parola sulla legittimità di una personalizzazione o meno, ciò che, appunto, è la funzione essenziale di questa operazione risarcitoria.

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