Il valore probatorio delle riprese visive di condotte penalmente rilevanti effettuate in luoghi pubblici o aperti al pubblico

Irene Scordamaglia
11 Gennaio 2019

Il tema devoluto allo scrutinio del giudice di legittimità attiene al valore probatorio da riconoscere alle riprese filmate documentanti condotte di rilievo penale, effettuate in luoghi pubblici o aperti al pubblico, prima e a prescindere dall'istaurazione del procedimento penale.
Massima

Le riprese filmate dei movimenti dell'imputato nel luogo in cui è commesso il reato di lancio di oggetti pericolosi in occasione di manifestazioni sportive costituiscono prova documentale del fatto ai sensi dell'art. 234 c.p.p.

Il caso

Gli imputati, condannati, con doppia sentenza conforme di merito, per il delitto di lancio di oggetti pericolosi in occasione di una manifestazione sportiva (art. 6-bis,comma 1, l. 401/1989), commesso lungo la pubblica via o, comunque, in luoghi aperti o esposti al pubblico, ricorrevano per cassazione deducendo, tra l'altro, la violazione dell'art. 187 c.p.p. e il vizio di travisamento della prova, sul rilievo dell'omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia costituita dall'analisi dei fotogrammi e delle video riprese. In tal senso si dolevano del fatto che l'accertamento della concreta pericolosità degli oggetti scagliati fosse stato compiuto solo sulla base delle relazioni di servizio stilate dal personale di pubblica sicurezza e delle dichiarazioni di un Ispettore di Polizia, utilizzate in funzione surrogatoria rispetto all'analisi delle immagini, la cui qualità, per ammissione dello stesso giudice, erano scadenti: donde sarebbe stato necessario che il decidente, piuttosto che confidare acriticamente sulle impressioni dell'operante, avesse visionato direttamente i filmati ed, in ogni caso, avesse disposto una consulenza antropometrica ai fini della certa identificazione dei responsabili delle azioni delittuose.

La Suprema Corte ha riconosciuto la fondatezza dei ricorsi quanto al profilo della inadeguata motivazione circa la natura degli oggetti scagliati dai ricorrenti ed in ordine alla loro effettiva pericolosità. In particolare, ha ritenuto che l'argomentazione spesa dalla Corte territoriale in punto di prova della carica offensiva delle condotte ascritte agli imputati fosse del tutto carente, essendosi sostanziata in un supino richiamo al contenuto delle dichiarazioni dell'Ispettore di Polizia che aveva visionato le immagini, nella integrale preterizione delle specifiche ragioni di gravame con le quali erano state espressamente contestate le prove risultanti dalle videoriprese, sia per la scarsa qualità delle immagini, sia perché il testimone escusso si era limitato a riferire delle sue impressioni desunte dalla visione dei filmati. Donde, alla stregua dei rilievi difensivi e ribadita, comunque, la linea interpretativa della giurisprudenza di vertice secondo cui «Le rappresentazioni filmate dei movimenti degli indagati nel luogo in cui è stato commesso il reato costituiscono prova documentale del fatto ai sensi dell'art. 234 c.p.p., come tale da valutare per la formazione del libero convincimento del giudice in ordine alla responsabilità penale dell'imputato» (Cass. pen., Sez. V, 20 ottobre 2004, n. 46307), ha annullato la sentenza impugnata con rinvio al giudice di appello per procedere ad una rinnovato apprezzamento della prova documentale e della prova dichiarativa sul tema della effettiva idoneità offensiva del lancio di oggetti ascritto agli imputati e ad una più congrua motivazione sul punto.

La questione

Il tema devoluto allo scrutinio del giudice di legittimità attiene al valore probatorio da riconoscere alle riprese filmate documentanti condotte di rilievo penale, effettuate in luoghi pubblici o aperti al pubblico, prima e a prescindere dall'istaurazione del procedimento penale. Afferisce a tale oggetto di discussione, a mo' corollario, quello della valenza rappresentativa delle dichiarazioni degli ufficiali di polizia giudiziaria che riferiscano del contenuto delle immagini estrapolate dai detti filmati ed alla necessità o meno che il giudice proceda a visionare direttamente le stesse allo scopo di attingere nella maniera più genuina possibile gli elementi di prova necessari a verificare l'ipotesi di accusa.

Il Collegio della decisione annotata, invero, ha solo lambito i profili della questione giuridica illustrata, essendosi concentrato, piuttosto, nell'articolare le scansioni argomentative della statuizione cassatoria assunta, sulla carenza motivazione della sentenza impugnata, avendo evidenziato come il giudice censurato avesse sostanzialmente eluso i rilievi critici formulati dalla difesa degli imputati, con i quali era stato specificamente chiesto alla Corte di appello di dar conto della effettiva pericolosità della condotta a questi ascritti, dal momento che la scarsa qualità delle immagini estrapolate dai filmati che le riprendevano non consentivano di percepire quale fosse la natura degli oggetti utilizzati per commettere il reato e le dichiarazioni rese dall'ufficiale di polizia giudiziaria che le aveva visionate sembravano riferire più di impressioni che di fatti.

Le soluzioni giuridiche

La materia delle riprese visive e delle prove che ne conseguono non è regolata specificamente dalla legge, tuttavia sul tema sono intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione che, con la sentenza 28 marzo 2006 (dep. 28 luglio 2006), n. 26795, hanno, in primo luogo, stabilito che le videoregistrazioni in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico, non effettuate nell'ambito del procedimento penale, vanno incluse nella categoria dei documenti di cui all'art. 234 c.p.p., mentre le medesime eseguite dalla polizia giudiziaria, anche d'iniziativa, vanno invece incluse nella categoria delle prove atipiche, soggette alla disciplina dettata dall'art. 189 c.p.p. e, trattandosi della documentazione di attività investigativa non ripetibile, possono essere allegate al relativo verbale e inserite nel fascicolo per il dibattimento: questo perché la prova documentale disciplinata dall'art. 234 c.p.p. e la prova atipica disciplinata dall'art. 189 c.p.p. costituiscono forme probatorie alternative, come si desume dalla relazione al progetto preliminare del vigente codice di rito.

La Corte regolatrice, nella successiva elaborazione, ha, quindi, ribadito che le videoriprese effettuate, in luoghi pubblici o aperti al pubblico, al di fuori e prima dell'instaurazione del procedimento penale non sono prove atipiche ma documenti, acquisibili senza la necessità dell'instaurazione del contraddittorio previsto dall'art. 189 c.p.p., cosicché, nel caso di mancata acquisizione delle stesse, deve ritenersi legittima la testimonianza resa dagli operatori di polizia giudiziaria in ordine al loro contenuto rappresentativo (Cass.pen., Sez. II, 30 novembre 2016, n. 10; Cass. pen., Sez. II, 4 febbraio 2015, n. 6515; Cass. pen., Sez. VI, 17 novembre 2009, n. 4978; Cass. pen., Sez. V, 20 ottobre 2004). Il contenuto rappresentativo di un documento può essere, infatti, provato anche attraverso una testimonianza e il grado di minore affidabilità della prova dichiarativa non implica l'inutilizzabilità di quest'ultima (Cass. pen., Sez. V, 28 giugno 2017, dep. 3 agosto 2017, n. 38767; Cass. pen., Sez. VI, 6 maggio 2014, n. 37367): in proposito si è affermato che il riconoscimento dell'imputato nel soggetto ritratto nei fotogrammi estratti dalla registrazione effettuata dalle telecamere di sicurezza presenti sul luogo di consumazione del delitto, operato da parte del personale di polizia giudiziaria che vanti pregressa personale conoscenza dello stesso, ha valore di indizio grave e preciso a suo carico, la cui valutazione è rimessa al giudice di merito (Cass. pen., Sez. II, 16 ottobre 2014, n. 45655; Cass. pen., Sez. II, 7 aprile 2010, n. 15308).

Nondimeno, poiché la registrazione video è un documento figurativo, che testimonia di un fatto attraverso le immagini che lo rappresentano e non attraverso la scrittura che lo descrive, la stessa è utilizzabile probatoriamente al di fuori di quanto previsto dall'art. 2072 c.c., e, quindi, senza necessità della sua sottoscrizione, dovendo la sua autenticità essere accertata caso per caso dal giudice (Cass.pen., Sez. VI, 17 novembre 2009, dep. 8 febbraio 2010, n. 4978).

In ossequio al dictum della stessa sentenza Sezioni unite n. 26795/2006, la quale, tra l'altro, ha enunciato il principio di diritto secondo cui le videoregistrazioni in ambienti in cui è garantita l'intimità e la riservatezza, non riconducibili alla nozione di domicilio, sono prove atipiche, soggette ad autorizzazione motivata dell'A.G. e alla disciplina dettata dall'art. 189 c.p.p. – nell'ambito di tali ambienti essendo da ricomprendere i c.d. privé di un locale notturno, come pure i bagni pubblici, che non possono essere considerati domicilio, neppure nel tempo in cui sono occupati da persone, in quanto il concetto di domicilio individua un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza – la giurisprudenza di legittimità ha statuito che costituiscono prove atipiche le videoriprese, effettuate nel corso delle indagini preliminari dalla polizia giudiziaria, di comportamenti non aventi contenuto comunicativo effettuate in luoghi esposti al pubblico ovvero in luogo lavorativo non rientrante nella nozione di domicilio privato, dovendosi intendere per comportamenti comunicativi solo quelli finalizzati a trasmettere il contenuto di un pensiero mediante la parola, i gesti, le espressioni fisiognomiche o altri atteggiamenti idonei a manifestarlo (Cass. pen. Sez. II, 16 febbraio 2018, dep. 22 maggio 2018, n. 22972; Cass. pen., Sez. VI, 4 novembre 2016, n. 52595; Cass. pen., Sez. V, 17 novembre 2015, n. 11419; Cass. pen., Sez. VI, 4 giugno 2013, n. 30177; Cass. pen., Sez. VI, 15 giugno 2012, n. 33593; Cass. pen., Sez. I, 18 dicembre 2008, n. 4422; Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2008, n. 37698). Donde si è stabilito che la videoregistrazione di comportamenti non comunicativi effettuata, ad esempio, nell'atrio di un ufficio pubblico, ovvero nel box di un'autorimessa o, ancora, in un'aula scolastica possono essere acquisite previo provvedimento autorizzatorio motivato da parte del pubblico ministero e sono liberamente valutabili dal giudice di merito; di contro la captazione di comportamenti comunicativi, pur effettuata negli stessi luoghi, soggiace alla disciplina delle intercettazioni ambientali e deve essere autorizzata dal giudice.

Alla stregua dell'insegnamento parimenti impartito dalla sentenza delle Sezioni unite dianzi più volte evocata, per la quale le riprese video di comportamenti "non comunicativi" non possono essere eseguite all'interno del domicilio in quanto lesive dell'art. 14 Cost., si è sancito il divieto di acquisizione e di utilizzazione, anche in sede cautelare, delle immagini in tal modo registrate, venendo in rilievo una prova illecita.

Il tema, invero, era già stato affrontato dalla Corte costituzionale, che, con sentenza 24 aprile 2002, n. 135, (in G.U. 2 maggio 2002), nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 189 e 266 e 271 c.p.p. in riferimento agli artt. 3 e 14 Cost. tendente all'ottenimento di una pronuncia additiva che allineasse la disciplina processuale delle riprese visive in luoghi di privata dimora a quella delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti nei medesimi luoghi, ha evidenziato come tra le situazioni poste a confronto vi sia una sostanziale eterogeneità, venendo in rilievo l'invasione della sfera della libertà domiciliare in quanto tale, da un lato, e la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni, dall'altro; di modo che l'ipotesi della videoregistrazione di contenuto non comunicativo avrebbe potuto essere disciplinata soltanto dal Legislatore, nel rispetto delle garanzie costituzionali dell'art. 14 Cost..

Il giudice di legittimità, traendo ispirazione da tale autorevole approdo interpretativo, ha osservato che, dovendosi assicurare la coerenza del sistema processuale, per un verso, non sarebbe consentito ritenere che una violazione del domicilio, solo perché non prevista dalla legge processuale, possa legittimare la produzione di materiale di valore probatorio; per altro verso, che per le riprese di comportamenti non comunicativi non possano valere regole meno garantiste di quelle applicabili alle riprese di comportamenti comunicativi: di qui la conclusione circa l'inutilizzabilità, allo stato della normazione vigente, delle riprese visive di comportamenti non comunicativi effettuate in ambito domiciliare (Cass. pen., Sez. unite, 28 marzo 2006, n. 26795). Le videoregistrazioni di condotte non comunicative disposte dalla polizia nel corso delle indagini preliminari, in luoghi riconducibili al concetto di domicilio, e quindi generalmente meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 14 Cost., sono qualificabili come prova atipica disciplinata dall'art. 189 c.p.p., e utilizzabili senza alcuna necessità di autorizzazione preventiva del giudice, soltanto se le riprese sono state eseguite con il consenso del titolare del domicilio (Cass.pen., Sez. II, 7 luglio 2015, dep. 14 ottobre 2015, n. 41332).

Osservazioni

La proteiforme fenomenologia delle riprese visive è stata regolamentata esclusivamente sul versante della prevenzione delle possibili aggressioni alla sfera di riservatezza delle persone, non su quello del valore probatorio delle immagini così ottenute.

Del tema si è diffusamente occupata la dottrina, la quale, con riguardo ai filmati realizzati in luoghi pubblici o aperti al pubblico, ha unanimemente riconosciuto il valore probatorio degli stessi, sia alla stregua di documenti preesistenti all'istaurazione di un procedimento penale, di cui è consentita l'acquisizione ai sensi dell'art. 234 c.p.p. – che individua una categoria aperta, tale da consentire l'adeguamento al costante progresso scientifico e tecnologico –, sia alla stregua della cristallizzazione dell'attività di indagine effettuata dalla polizia giudiziaria, utilizzabile ai sensi dell'art. 189 c.p.p. ove abbia a oggetto comportamenti non comunicativi, posto che, in entrambi i casi, la tutela del diritto alla riservatezza delle persone è recessiva rispetto all'esigenza di accertamento dei reati.

Per quanto concerne le videoriprese realizzate al di fuori del procedimento penale, profili di problematicità sono stati ravvisati nell'interferenza tra la norma processuale che ne regolamenta l'acquisizione in funzione dell'accertamento dei reati e le previsioni rinvenibili in altri settori dell'ordinamento, quali la disciplina in materia di protezione dei dati personali o di tutela dei lavoratori.

Quanto alla protezione dei dati personali, la Suprema Corte ha stabilito che il diritto alla riservatezza è subvalente rispetto alle esigenze di accertamento del processo penale, con la conseguenza che anche immagini captate in violazione delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali devono considerarsi utilizzabili; in tal senso si è affermato che sono pienamente utilizzabili nel procedimento penale le videoriprese realizzate all'interno, all'esterno di un ufficio postale e in strada pur in mancanza dell'apposizione dell'avviso "area video sorvegliata" prescritto dagli artt. 11 e 13 del d.lgs. 196/2003, in quanto la violazione della disciplina a tutela della privacy non può costituire uno sbarramento rispetto alle preminenti esigenze di accertamento del processo penale (Cass. pen., Sez. II, 21 aprile 2017, n. 28367) e il filmato del sistema di sorveglianza conservato per un tempo superiore a quello previsto dall'art. 11 dello stesso codice in materia di protezione dei dati personali (Cass. pen., Sez. II, 8 marzo 2013, n. 22169). A fronte di tale presa di posizione da parte della giurisprudenza di vertice, la dottrina ha, tuttavia, osservato che l'importanza dei valori in gioco – soprattutto alla luce dei principi sanciti da norme di rango sovranazionale – avrebbe meritato uno sforzo argomentativo maggiore per individuare il punto di equilibrio tra esigenze contrastanti, pur dovendosi prendere atto che, atteso il tenore dell'art. 160, comma 6, d.lgs. 196/2003, che esclude ogni interferenza tra le norme del codice della la privacy e quelle processuali, non sarebbe possibile giungere a conclusioni diverse.

Quanto alla tutela dei lavoratori, la norma di riferimento è costituita dall'art. 4 l. 300/1970, che, nel sancire il divieto di uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, ha previsto le cautele da osservare per poter effettuare in modo lecito videoriprese nei luoghi di lavoro.

In tal senso la Corte di legittimità, pur avendo affermato che, anche a seguito dell'abrogazione degli artt. 4 e 38 della legge 20 maggio 1970, n. 300, costituisce reato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, in quanto sussiste continuità normativa tra l'abrogata fattispecie e quella attualmente prevista dall'art. 171 in relazione all'art. 114 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 come rimodulata dall'art. 23, d.gs. 14 settembre 2015, n. 151 (attuativo di una delle deleghe contenute nel c.d. Jobs Act), avendo la normativa sopravvenuta mantenuto integra la disciplina sanzionatoria per la violazione dell'art. 4, cit. (Cass.pen., Sez. III, 10 ottobre 2017,n. 4564; Cass. pen., Sez. III, 8 settembre 2016, n. 51897), ha costantemente stabilito che sono comunque utilizzabili a fini probatori nel processo penale, sia le rilevazioni degli orari di ingresso e uscita dei lavoratori, anche ove gli apparecchi di rilevazione siano stati installati in violazione delle garanzie procedurali previste dall'art. 4, comma 2, l. 300/1970 (violazione e derivante dalla mancanza dell'accordo con le organizzazioni sindacali), vuoi perché tali garanzie riguardano soltanto i rapporti di diritto privato tra datore di lavoro e lavoratori ma non possono avere rilievo nell'attività di accertamento e repressione di fatti costituenti reato (Cass.pen., Sez. II, 12 maggio 2016, dep. 1 agosto 2016, n. 33567), vuoi perché l'utilizzabilità delle videoriprese in ambienti dedicati allo svolgimento di attività lavorativa non è preclusa dagli artt. 4 dello statuto dei lavoratori e 114 del codice della privacy, i quali riguardano unicamente i controlli del datore di lavoro sull'esecuzione dell'ordinaria attività lavorativa, non anche quelli destinati a prevenire specifiche condotte illecite del lavoratore (Cass. pen., Sez. VI, 4 giugno 2013, n. 30177); sia i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio (Cass.pen., Sez. V, 12 luglio 2011, dep. 26 settembre 2011, n. 34842).

La dottrina non ha mancato di rilevare un possibile contrasto tra la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, per la quale la legittimità dei controlli effettuati dall'imprenditore è subordinata all'esistenza di concreti sospetti circa la realizzazione di attività illecite nei luoghi di lavoro ed al preventivo avviso circa l'impiego di videocamere, con conseguente inutilizzabilità dei videotapes nel caso in cui tali requisiti non risultino integrati, e il diritto vivente nostrano, che sulla base del tenore dell'art. 4 dello statuto dei lavoratori, sembra riconoscere una sorta di presunzione di legittimità dei controlli realizzati dal datore di lavoro per i fini predetti.

In materia di videoriprese effettuate in ambito domiciliare, v'è da dire che alcuni autori ne avevano escluso l'utilizzabilità in virtù del disposto di cui all'art. 188 c.p.p., che stigmatizza i mezzi di prova che incidano sulla libertà morale della persona ma tale riferimento è apparso da subito improprio in quanto il soggetto segretamente ripreso in ambito domiciliare agisce in maniera spontanea.

In realtà il parametro che assume rilievo ai fini della valutazione di utilizzabilità delle riprese video in ambito domiciliare è rappresentato dall'art. 14 Cost., il quale, secondo parte della dottrina, sarebbero radicalmente illegittime, atteso che il comma secondo della norma costituzionale in parola consente esclusivamente ispezioni, perquisizioni e sequestri. Tale impostazione è stata, tuttavia, smentita dalla Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 135/2002, ha negato l'esistenza di una tipizzazione delle limitazioni all'inviolabilità del domicilio, non potendo il Costituente prevedere le innovazioni tecnologiche asservibili alle esigenze investigative e ha, quindi, opinato nel senso che la riserva di legge all'uopo stabilita imponga ad ogni modo di ricondurre la sorveglianza visiva ad uno degli istituti previsti dal codice di rito: e l'istituto che si è rivelato più confacente a soddisfare la necessità di operare un bilanciamento degli interessi in competizione è stato individuato in quello delle intercettazioni ambientali di comunicazioni tra presenti almeno per quanto riguarda i comportamenti comunicativi. Rimane, tuttavia, un vuoto normativo con riferimento alle riprese visive realizzate in ambito domiciliare di comportamenti non comunicativi, allo stato da ritenere inutilizzabili perché privi di copertura legislativa.

In proposito, va fatta menzione della sentenza della Corte costituzionale del 16 maggio 2008, n. 149, (in G.U. 21 maggio 2008) che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale (a prescindere da valutazioni sul merito rispetto a cui vale il dictum della sentenza n. 135 del 2002) dell'art. 266, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento agli artt. 13, commi 1 e 2, 14, commi 1 e 2, e 15 della Costituzione, nella parte in cui non estende la disciplina delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti a qualsiasi ripresa visiva effettuata in luoghi formalmente riconducibili alla privata dimora, ancorché le immagini captate non abbiano a oggetto comportamenti di tipo comunicativo. Infatti, il giudice rimettente, limitandosi a opporre che il davanzale della finestra di un'abitazione è un punto certamente riconducibile alle nozioni di domicilio e di privata dimora, senza specificare né quali immagini siano state concretamente filmate, né come la ripresa sia avvenuta, aveva omesso una compiuta descrizione della fattispecie concreta; e altresì aveva fondato la questione su una premessa interpretativa – e precisamente quella secondo cui, in assenza di un espresso divieto o di una esplicita regolamentazione, da parte della legge ordinaria, delle riprese visive di comportamenti di tipo non comunicativo all'interno del domicilio, tale attività investigativa sarebbe esperibile anche a iniziativa della polizia giudiziaria, con connessa utilizzabilità processuale dei relativi risultati – che non è l'unica astrattamente possibile, in tal modo omettendo preliminarmente di verificare la praticabilità della soluzione interpretativa opposta rispetto a quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi o da renderli comunque non rilevanti nei giudizi principali.

Analogo profilo problematico attiene alle riprese video eseguite per fini investigativi in luoghi pubblici o aperti al pubblico o in luoghi non riconducibili al domicilio in senso stretto, posto che queste, qualora abbiano ad oggetto un comportamento comunicativo, sarebbero da assimilare alle captazioni ambientali, mentre, qualora abbiano ad oggetto un comportamento non comunicativo, costituiscono un mezzo di ricerca della prova atipico.

Va osservato, con ampia parte della dottrina, che tale distinzione tra videoriprese a contenuto comunicativo anche non labiale e videoriprese a contenuto non comunicativo, le prime da ricondurre al genus delle intercettazioni ambientali e le seconde da considerare prove illecite, se realizzate in ambito domiciliare, o prove atipiche, se effettuate, nel corso delle indagini, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o in luoghi non riconducibili al domicilio in senso stretto, si appalesa artificiosa, perché fondata sulla scissione di uno strumento investigativo in realtà unitario quanto a tipologia, natura, grado e modalità di compressione del bene tutelato. Si è, così, sottolineato che spesso il confine tra meri comportamenti (azioni: ad esempio il confezionamento della droga) e comunicazioni (anche non verbali: come nel caso di gesti o smorfie) è labile, sicché l'utilizzabilità della prova verrebbe ad essere ancorata a parametri evanescenti; senza contare che tale distinzione non si confronta con l'impossibilità pratica di differenziare ex ante i diversi tipi di comportamenti. Ne viene che, ad esempio, in ipotesi di videoregistrazioni in ambiente domestico autorizzate dal giudice, soltanto ad operazioni di captazione avvenute sarebbe possibile discernere tra le immagini utilizzabili, perché ritraenti comunicazioni verbali o non verbali, e le immagini non utilizzabili perché ritraenti meri comportamenti: sicchè soltanto a violazione del domicilio consumata sarebbe possibile assicurarne la tutela mediante l'estromissione delle immagini (a contenuto non comunicativo) di cui è vietato l'impiego a fini probatori. Del pari, in ipotesi di videoregistrazioni in un luogo non riconducibile al domicilio in senso stretto (ad esempio bagni pubblici o aule scolastiche), non sarebbe possibile stabilire ex ante quali operazioni filmiche siano suscettibili di essere autorizzate con decreto motivato del pubblico ministero ai sensi dell'art. 189 c.p.p. – perché ritraenti comportamenti non comunicativi – e quali debbano essere autorizzate dal giudice delle indagini preliminari, nei casi e nei modi di cui all'art. 266, comma 2, c.p.p. – perché ritraenti comportamenti comunicativi.

Insomma, a fronte di numerose incertezze interpretative e di obiettive difficoltà applicative della normativa vigente, l'unico dato incontrovertibile sembra essere rappresentato da una latitanza del Legislatore, il cui intervento regolatore secondo una visione d'insieme sarebbe quanto mai necessario, secondo quanto auspicato, del resto, dal giudice delle leggi già nel 2002.

Guida all'approfondimento

BELVINI, Videoriprese non investigative e tutela della riservatezza, in Processo Penale e Giustizia, 2018, n. 4, 797;

LAZZARI, Video riprese: il confine tra esigenze investigative e garanzie costituzionali, in Il Foro Italiano, 2017, 2, 146;

RIZZO, Videoregistrazioni domiciliari e l'incerta distinzione tra condotte comunicative e non comunicative, in Cassazione penale, 2017, 2, 4.2, pag. 722;

GUERINI, Le videoriprese di comportamenti non comunicativi nel luogo di lavoro, in Diritto Penale e Processo, 2014, 6, 737;

PISELLI, Videosorveglianza e privacy dei lavoratori, in Diritto e pratica del lavoro, 2014, 5, PAG. 263;

CAMON, voce Captazione di immagini (Dir. proc. pen.), in Enc. Dir., Annali, vol. VI, Giuffrè, 2013, 133;

MARI, Utilizzabilità delle videoriprese all'interno dei luoghi di lavoro, in Cassazione Penale, 2012, 4, 4, 1432

DI BITONTO, Le riprese video domiciliari al vaglio delle Sezioni Unite, in Cassazione Penale, 2006,12, PAG. 3950;

CONTI, Le video-riprese tra prova atipica e prova incostituzionale: le Sezioni Unite elaborano la categoria dei luoghi “riservati”, in Diritto Penale e Processo, 2006, 12, 1347;

SAPONARO, Sulla “vexata quaestio” della natura delle videoregistrazioni, in Cassazione Penale, 2004, 10, 3280.

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