Assegno di divorzio: il Tribunale di Milano interpreta le Sezioni Unite

Marta Rovacchi
16 Gennaio 2019

Nel valutare il diritto alla erogazione dell'assegno divorzile il Tribunale deve accertare innanzi tutto l'esistenza di uno squilibrio tra la posizione economico-reddituale delle parti.
Massima

Nel valutare il diritto alla erogazione dell'assegno divorzile, il Tribunale deve accertare innanzi tutto l'esistenza di uno squilibrio tra la posizione economico-reddituale delle parti e, in caso di assenza o insufficienza dei redditi del coniuge economicamente debole (profilo assistenziale), il parametro sulla base del quale deve essere fondato l'accertamento del diritto ha natura composita.

Il caso

Intervenuta in corso della causa di scioglimento di matrimonio sentenza parziale sul vincolo, il marito ricorrente, in sede di precisazione delle conclusioni, chiedeva dichiararsi che nulla fosse dovuto alla moglie a titolo di assegno divorzile avanzando altresì richiesta di prove testimoniali e istanze di esibizione ex art 210 c.p.c..

La moglie resistente, a sua volta, precisava le proprie conclusioni chiedendo che le fosse riconosciuto un assegno divorzile di €545,00 mensili, avanzando a sua volta istanze istruttorie testimoniali debitamente capitolate e insistendo nelle proprie richieste di esibizione ex art 210 c.p.c..

I coniugi, dal cui matrimonio non erano nati figli, nel 2010 avevano formalizzato una separazione consensuale che prevedeva il versamento da parte del marito a favore della moglie di un assegno a titolo di contributo al mantenimento personale della somma di € 500,00 mensili.

In sede di assunzione dei provvedimenti provvisori, il Presidente dichiarava cessato l'obbligo del ricorrente di versare alla moglie l'assegno mensile previsto in separazione sia in virtù della peggiorata situazione economico-reddituale e della salute del marito, sia in quanto la stessa moglie aveva ammesso di possedere cospicui risparmi, nonché di essere comproprietaria di due immobili, oltre ad essere laureata con pregresse esperienze lavorative e dotata di capacità lavorativa.

Le istanze istruttorie avanzate in corso di causa, nonché quelle riproposte in sede di precisazione delle conclusioni da entrambe le parti, venivano respinte dal Tribunale di Milano che, assunta in decisione la causa, si trovava dunque a valutare e decidere in ordine alla sussistenza o meno dei presupposti per l'accoglimento o meno della domanda avanzata dalla moglie finalizzata ad ottenere il riconoscimento di un assegno divorzile.

La questione

La questione, dunque, sottesa alla decisione del Tribunale Milanese è quella riguardante l'analisi delle situazioni di due coniugi che addivengono allo scioglimento del loro vincolo matrimoniale, per decidere se in capo ad uno di essi, che ne ha fatto richiesta, sussista il diritto a percepire un assegno divorzile ai sensi e per gli effetti dell'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970.

Il tema è estremamente attuale stante gli ultimi e recenti interventi giurisprudenziali in materia da parte della Suprema Corte che, a parere di chi scrive, ed alla luce della decisione in questione, non hanno prodotto un uniforme orientamento interpretativo da parte dei vari Tribunali di merito chiamati a decidere in ordine al riconoscimento o meno di un assegno divorzile a favore di un coniuge che ne avanza richiesta.

È noto, infatti, che dal 1990 al 2017, la giurisprudenza di legittimità ha attribuito unanimemente all'assegno divorzile natura prettamente assistenziale con compito del Giudice di compiere una rigida bipartizione tra i criteri attributivi (an) e determinativi (quantum) in relazione al parametro dell'adeguatezza o meno dei mezzi di sussistenza del coniuge richiedente.

Tale percorso valutativo partiva dall'accertamento comparativo della situazione economico-reddituale dei coniugi in relazione all'inadeguatezza dei mezzi, esaminata sulla base di un apprezzabile deterioramento delle condizioni economiche in conseguenza del divorzio anche in confronto al pregresso tenore di vita.

Ciò valutato, il Giudice doveva poi procedere alla quantificazione dell'assegno divorzile applicando gli indicatori di cui all'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 che spesso fungevano da “riduttori” o “azzeratori” dell'importo dovuto a tale titolo.

È noto che questo consolidato orientamento è stato completamente ribaltato dalla sentenza Cass. 10 maggio 2017, n. 11504 con la quale la Suprema Corte di cassazione ha fornito una interpretazione dell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l'assegno ancorata al concetto di “autosufficienza economica”, nel senso di considerare degno di ricevere un assegno divorzile solo quel coniuge privo della capacità di garantirsi autonomamente una esistenza libera e dignitosa, a prescindere dal tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Questa valutazione da parte del Giudice, secondo la Suprema Corte, avrebbe comunque dovuto essere effettuata mantenendo ferma la rigida distinzione tra le due fasi dell'an e del quantum, ovvero tra il criterio attributivo e quello determinativo.

Da quel momento si sono susseguite numerose sentenze di merito da parte dei Tribunali Italiani che, applicando il principio dell'autosufficienza economica avulso dal parametro del tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, hanno negato la sussistenza del diritto all'assegno divorzile al coniuge richiedente, arrivando dunque talvolta ad azzerare totalmente la somma mensile attribuita in sede di separazione a titolo di contributo al mantenimento personale, sia che fosse stata decisa consensualmente che giudizialmente. Tra tutte, ricordiamo l'ordinanza del Tribunale di Milano del 22 maggio 2017 che aveva immediatamente specificato che per indipendenza economica doveva intendersi la capacità per una persona adulta e sana, tenuto conto del contesto sociale di inserimento, di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse sufficienti per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali). Così, subito dopo la pronuncia della Cassazione, anche il Tribunale di Roma nell'applicazione del nuovo principio, aggiungeva che per la verifica dei criteri dell'an debeatur è il richiedente a dover fornire la prova della insussistenza dei criteri elaborati dalla Corte Suprema.

Con la conseguenza che sarebbe stata la parte richiedente l'assegno divorzile a dover dimostrare di essersi attivata per reperire un lavoro consono all'esperienza professionale maturata ed al titolo di studi conseguiti, comprovando dunque di essere nell'impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa (Trib. Roma, sentenza n. 18063/2017; App. Roma n. 1786/2017).

Quando la vicenda dei coniugi che ci occupa giunge alla decisione del Tribunale di Milano, nel frattempo, sulla questione dell'assegno divorzile, è intervenuta la pronuncia delle Sezioni Unite con la nota sentenza Cass. 11 luglio 2018, n. 18287, che ha aperto ad un nuovo e diverso orientamento al quale la sentenza milanese quivi in esame dimostra di attenersi ed adeguarsi con le osservazioni, le motivazioni e la decisione che andiamo ad esaminare.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Milano attinge il fondamento della propria decisione dal principio secondo il quale, nella valutazione della sussistenza del diritto alla percezione dell'assegno divorzile, primaria importanza va attribuita all'apporto fornito dall'ex coniuge alla conduzione della attività endofamiliare, anche in funzione al principio dell'autoresponsabilità, che induce ad una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali in ordine alle quali si deve valutare se la disparità riscontrabile alla fine del rapporto coniugale sia frutto esclusivo o prevalente delle scelte adottate dai coniugi durante la loro vita familiare.

Da quanto premesso, si evince come i criteri cui il giudice deve attenersi nel valutare il diritto all'assegno divorzile sono sia perequativo-assitenziale (accertando l'esistenza di uno squilibrio tra la posizione economico-reddituale delle parti e l'assenza o insufficienza dei redditi del coniuge economicamente debole), sia comparativo-compensativo (in caso di sperequazione nella condizione patrimoniale delle parti alla luce della valutazione del contributo dato dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune ed alla formazione del patrimonio dell'altra parte).

Il Giudice milanese, sulla base di questi criteri analizza la situazione del caso concreto distinguendo tra disparità reddituale e disparità patrimoniale, nel senso che la moglie si è rivelata svolgere qualche occasionale prestazione lavorativa e percepire un esiguo reddito da locazione, mentre il marito è risultato percepire un reddito pensionistico piuttosto elevato. Viene dunque rilevata una disparità reddituale tra le parti, nonostante i costi che il marito è risultato dover sostenere per le condizioni di salute, una badante ed un canone di locazione.

Dal punto di vista patrimoniale, invece, la convenuta è emerso essere comproprietaria di due immobili e di avere venduto un appartamento dal quale ha ricavato la relativa somma, mentre il ricorrente è stato dimostrato

essere titolare di un diritto di usufrutto su immobile.

Nell'applicazione del composito criterio assistenziale-perequativo- compensativo, il giudice milanese ha tenuto conto del progetto familiare dei coniugi che prevedeva la creazione di un nucleo mono-reddito in cui la moglie non era necessario lavorasse: tale circostanza, alla fine del lungo matrimonio, ha posto la moglie (ora 52enne) in una posizione economica svantaggiata, non potendo la stessa percepire redditi da lavoro di importo significativo o comunque tali da renderla autonoma e non potendo aspirare ad una posizione pensionistica in futuro.

L'ulteriore fattore “indicatore”, di cui all'art. 5 l. div. che il Tribunale esamina nel caso di specie, è quello delle “ragioni della decisione”: nonostante, infatti, il ricorrente abbia eccepito che la moglie, attraverso condotte del tutto censurabili (non da ultimo l'alcoolismo), avesse compromesso il rapporto coniugale causando la separazione e tenuto comportamenti dannosi nei confronti del coniuge anche dopo l'intervenuta separazione, il collegio milanese non ha ritenuto che tali circostanze fossero ostative al riconoscimento di un assegno divorzile in favore della convenuta: le condotte tenute dalla moglie prima della separazione si dovevano infatti ritenere superate dall'intervenuta separazione consensuale con conseguente rinuncia alla richiesta di addebito; quelle successive, invece, non potevano essere ritenute rilevanti ai fini della valutazione del diritto all'assegno sia perchè l'istituto del divorzio non prevede l'addebito, sia perchè il nostro ordinamento non subordina la sussistenza del diritto all'assegno ad una valutazione di non indegnità del coniuge richiedente.

Alla luce, dunque, di tutti gli elementi (situazione reddituale e patrimoniale delle parti, durata del matrimonio, posizione sociale e capacità lavorativa dei coniugi), il Tribunale di Milano, nel riconoscere il diritto della moglie a percepire una somma a titolo di assegno divorzile, quantifica lo stesso in € 300,00 mensili, ovvero € 200,00 in meno rispetto a quello concordato dalle parti stesse in sede di separazione consensuale.

Osservazioni

La prima osservazione che, ictu oculi, sovviene spontanea concerne un elemento comune ai diversi orientamenti che nel breve arco temporale di un solo anno e mezzo, hanno mutato e diversamente interpretato giurisprudenzialmente l'art. 5, comma 6, l. div. circa il riconoscimento dell'assegno divorzile.

Tale elemento comune è rappresentato dall'intento di evitare che il divorzio, che scinde radicalmente la volontà della coniugio, rischi di avallare intenti locupletatori ingiustificati da parte del coniuge richiedente.

Il primo intervento in questo senso, ovvero quello della Suprema Corte con la sentenza n. 11504/2017, è stato talmente preminente e prevalente da trascurare gli altri rilevanti fattori ed elementi indicati dall'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 che, invece, le Sezioni Unite, con la sentenza 11 luglio 2018, n. 18287 hanno teso a valorizzare.

Uno di questi è indubbiamente quello della riaffermazione del valore della solidarietà post-coniugale basato sul valore costituzionale della pari dignità ed uguaglianza dei coniugi.

In questo senso, avere, da parte delle Sezioni Unite, non riconosciuto sufficiente valutare solo lo squilibrio economico-patrimoniale tra le parti per il riconoscimento dell'assegno divorzile, ma reintroducendo il concetto del contributo dato da un coniuge alla formazione del patrimonio comune o a quello dell'altro coniuge, anche in relazione alle potenzialità future, pare riportare il momento della dissoluzione del vincolo nell'alveo dell'art. 29 Cost..

Tuttavia, l'affermazione della natura composita dell'assegno divorzile (assistenziale, perequativo e compensativo, per non dire risarcitorio), lascia comunque spazi interpretativi discrezionali da parte del Giudice che, a parere di chi scrive, non daranno luogo a decisioni uniformi, sia sotto il profilo probatorio, sia sotto il profilo squisitamente determinativo a scapito del principio della certezza del diritto.

Non va poi trascurato che il criterio del tenore di vita, vigente e preminente in sede di determinazione e quantificazione dell'assegno di mantenimento in sede di separazione ed irrilevante al momento del divorzio, è destinato ad avere una valenza ridotta, se non nulla, stante i brevi termini che, grazie alla riforma, intercorrono tra le due fasi caratterizzanti la crisi coniugale.

Ad una attenta lettura della pronuncia in esame, non si può rilevare come la stessa si collochi, per così dire, “in medio” tra le pronunce che, successivamente alla Cassazione del maggio 2017, hanno unanimemente negato e revocato il diritto all'assegno divorzile e quelle che, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite, hanno difformemente interpretato ed applicato la rivisitata natura composita dell'assegno stesso.

Ad avviso di chi scrive, nella produzione giurisprudenziale degli ultimi mesi, si nota una oscillazione tra i Tribunali che hanno dato prevalenza e valore dirimente alla mera disparità reddituale, a quelli che, come nel caso in esame, hanno collocato tale divario tra un ulteriore distinzione tra “reddito” e “patrimonio”.

Nonostante, dunque, dalla pronuncia in oggetto, non pare che le ragioni della decisione”, citate dallo stesso art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, abbiano inciso sulla sentenza del tribunale milanese, che ha ritenuto che condotte tenute dalla moglie prima della separazione si dovevano ritenere superate dall'intervenuta separazione consensuale con conseguente rinuncia alla richiesta di addebito e che quelle successive non potevano essere ritenute rilevanti ai fini della valutazione del diritto all'assegno sia perchè l'istituto del divorzio non prevede l'addebito, sia perchè il nostro ordinamento non subordina la sussistenza del diritto all'assegno ad una valutazione di non indegnità del coniuge richiedente, ciò, a parere di chi scrive, pare appartenere all'orientamento, già inaugurato dalla Cassazione del 2017, che interpreta la scelta del divorzio quale scioglimento integrale di un vincolo disancorato da ogni aspetto, personale e giuridico, riguardante il passato, anche separativo.

Di ciò preso atto, sorge spontaneo in chi scrive l'interrogativo sulla valenza, ai fini della tutela dei diritti, collegata alla liberta di scelta dei singoli individui così come garantita dalla Costituzione e dal nostro ordinamento giuridico, dell'attuale obbligatorio regime delle due fasi (separazione e divorzio) attraverso le quali regolamentare da parte dei coniugi il loro “addio” giuridico.

Ciò in quanto, a breve distanza normativa, la situazione reddituale/economica/personale delle parti risponde a criteri normativi, interpretativi e applicativi differenti a seconda che si tratti di separazione e divorzio, con la conseguenza che, come nel caso di specie e come in numerosi altri casi, nel giro di pochi mesi una parte si veda modificare parzialmente o integralmente le decisioni assunte in sede di separazione.

Ciò è ancora più “ toccante” se le condizioni che prevedevano un assegno di mantenimento a favore del coniuge in sede di separazione vengono, a distanza di pochi mesi, modificate (ridotte o revocate) in virtù della variabile interpretazione che la sentenza delle Sezioni Unite offre nella concessione o meno dell'assegno divorzile.

Ciò che, a sommesso parere di chi scrive, si trae dall'analisi del provvedimento in questione e dall'analisi delle pronunce di merito degli ultimi mesi, è che la prova in capo al richiedente l'assegno divorzile è onerosa, precisa e deve essere completa esaustiva.

Ciò in ordine a: disparità reddituale (potendosi distinguere tra reddito “fiscale” e “patrimonio”); contributo dato alla carriera del coniuge; contributo alla formazione patrimonio-reddito familiare comune; accordi in ordine ai rispettivi ruoli; rinuncia alla carriera personale (pro figli) a favore della formazione e della gestione della famiglia.

A nulla valendo, a questo punto, le “ulteriori ragioni” che hanno eventualmente portato all'emissione di un provvedimento giudiziale di tipo diverso e più favorevole al coniuge economicamente più debole

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