Legittima la funzione del cognome comune nelle unioni civili quale cognome d'uso senza valenza anagrafica

23 Gennaio 2019

Il d.lgs. n. 5/2017 (e il successivo d.m. 27 febbraio 2017) nell'omologare la disciplina del cognome comune dell'unione civile a quella prevista dall'art. 143-bis c.c. per il cognome coniugale ha stravolto il significato normativo dell'art. 1, comma 10, l. n. 76/2016?
Massima

La funzione del cognome comune, come cognome d'uso, senza valenza anagrafica, non determina alcuna violazione dei diritti al nome, all'identità e alla dignità personale. La disposizione di cui all'art. 3 d.lgs. n. 5/2017 deve, pertanto, ritenersi legittima nell'ipotesi in cui prevede che la scelta del cognome comune non modifica la scheda anagrafica individuale, nella quale rimane il cognome precedente alla costituzione dell'unione.

Il caso

Con ordinanza del 22 novembre 2017, il Tribunale ordinario di Ravenna solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lett. c), n. 2) e 8 d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'art. 1, comma 28, lett. a) e c), legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Ad avviso del giudice a quo entrambe le disposizioni censurate violerebbero, in primo luogo, l'art. 2 Cost., poiché la parte dell'unione civile verrebbe privata, d'ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito ed utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all'identità e alla dignità personale. Sarebbe, inoltre, violato il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d'intervenire d'imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali, al fine di mutare l'identità personale di un soggetto. Secondo il giudice remittente le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l'art. 22 Cost., poiché, con l'eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell'unione civile sarebbe privata di un cognome già acquisito. Esse sarebbero, altresì, in contrasto anche con l'art. 77 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate e in contrasto con gli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall'art. 8 CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nel giudizio di legittimità costituzionale si sono costituite le parti che hanno evidenziato come, privando di valenza anagrafica il cognome comune, relegato ad una funzione meramente simbolica, sarebbero stati svuotati i diritti soggettivi attribuiti alle parti delle unioni civili dall'art. 1, comma 10, legge n. 76/2016, in quanto sarebbe stata lesa l'identità personale della parte il cui cognome sia diverso da quello scelto quale cognome comune, atteso che la cancellazione prevista dall'art. 8 d.lgs. n. 5/2017, prevendendo la modificazione retroattiva delle risultanze anagrafiche, ridefinirebbe l'identità personale secondo lo status quo ante. Secondo le parti ricorrenti la cancellazione retroattiva del cognome comune, già assunto da una delle parti dell'unione civile, lederebbe la dignità della persona e il suo diritto inviolabile al nome ed alla identità personale, in quanto con l'attribuzione della valenza anagrafica del cognome comune, la legge n. 76/2016 avrebbe inteso conferire all'unione civile visibilità sociale e caratterizzazione anche sotto il profilo familiare.

La questione

La questione in esame è la seguente: «Se il d.lgs. n. 5 del 2017 ed il successivo decreto del Ministro dell'interno 27 febbraio 2017, nell'omologare la disciplina del cognome comune dell'unione civile a quella prevista dall'art. 143-bis c.c. per il cognome coniugale ha stravolto il significato normativo dell'art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016, condiviso dallo stesso Governo nel d.P.C.M. n. 144 del 2016».

Le soluzioni giuridiche

Il diritto al cognome costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo, avente copertura costituzionale assoluta. Il cognome è lo strumento che consente l'identificazione della persona all'interno della società e, quindi, l'attuazione del diritto ad essere se stessi. Su queste basi la dottrina ha affermato che sarebbe forse opportuno non parlare del diritto al cognome come espressione di un'autonoma posizione giuridica, ma di inserirlo tra gli aspetti del più ampio diritto all'identità personale, rispetto al quale il segno distintivo ne costituisce la concreta attuazione. Nella disciplina giuridica del cognome confluiscono elementi pubblicistici e privatistici. La funzione pubblicistica è finalizzata ad assicurare tutela alla famiglia, consentendo ai suoi membri di essere identificati come appartenenti ad un determinato nucleo familiare, ma assolve anche una funzione fondamentale di natura privatistica, quale strumento identificativo della persona. La protezione dell'identità personale, immancabilmente contraddistinta da peculiari connotati morali, culturali ed ideologici, trova, infatti, il suo nucleo centrale nella tutela del nome, considerato non tanto come mezzo necessario di individuazione del singolo nell'ambito dei soggetti di un ordinamento giuridico secondo i principi normativi di interesse generale, quanto piuttosto nella sua corrente qualità di simbolo emblematico della identità personale di un individuo e quindi come aspetto, meritevole di protezione, della personalità umana. Infatti, tra i diritti che fondano il patrimonio irretrattabile della persona umana, l'art. 2 Cost. riconosce e garantisce anche il diritto all'identità personale. L'identità personale costituisce un bene per sé medesima, indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti del soggetto, di guisa che a ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua individualità sia preservata.

Ciò che è importante evidenziare è come sia avvenuto il passaggio da una concezione del cognome quale mero segno di identificazione della discendenza familiare a una visione che lo inquadra tra gli elementi costitutivi del diritto soggettivo all'identità personale, intesa come bene a sé, indipendentemente dallo status familiare, così progressivamente sganciando le sorti del cognome dalla titolarità di una determinata posizione all'interno della famiglia. Questa soluzione si è espressa in alcune significative decisioni della Corte costituzionale, la quale, ad esempio, con sentenza 11 maggio 2001, n. 120, ha giudicato costituzionalmente illegittimo l'art. 299, comma 2, c.c., per contrasto con l'art. 2 Cost., nella parte in cui non prevede che, qualora sia figlio "naturale" non riconosciuto dai propri genitori, l'adottato (maggiorenne) possa aggiungere al cognome dell'adottante anche quello originariamente attribuitogli dall'ufficiale dello stato civile, sottolineando che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo. Già in precedenza, però, con sentenza 3 febbraio 1993, n. 14, la Corte aveva stabilito l'illegittimità costituzionale dell'art. 165 R.D. 9 luglio 1939, n. 1238, per violazione dell'art. 2 Cost., nella parte in cui non prevede che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto cui si riferisce, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, ove questo sia da ritenersi acquisito come autonomo segno distintivo della sua identità personale. La Consulta ha, quindi, riconosciuto che il cognome gode di una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona e che, in quanto tale, costituisce parte essenziale e irrinunciabile della personalità. Nel 1996, la Corte costituzionale interviene ancora sul rapporto esistente tra il nome e l'identità personale del soggetto, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 262 c.c., nella parte in cui non prevede che il figlio "naturale", nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome precedentemente attribuitogli (Corte cost., 23 luglio 1996, n. 297).

Sul solco di queste decisioni si inserisce la pronuncia Corte cost. n. 212/2018, in fattispecie peculiare, relativa all'uso del cognome comune nelle unioni civili, istituto familiare di nuovo conio, regolamentato dal legislatore con la legge n. 76/2016. Ciò che in questa sede è importante ricordare è che nelle unioni civili la scelta del cognome comune deve farsi con dichiarazione della parti resa al momento della costituzione dell'unione, con conseguente inserimento nell'atto relativo o in un momento successivo. L'Ufficiale di stato civile deve anche procedere all'annotazione del cognome prescelto nell'atto di nascita di ciascuna delle parti, senza però che si verifichino mutamenti dal punto di vista anagrafico. L'art. 20, comma 3-bis, d.P.R. n. 223/1989, introdotto mediante d.lgs. n. 5/2017 precisa, infatti, che «le schede devono essere intestate al cognome posseduto prima dell'unione civile». L'adozione di un cognome comune non è imposta dalla legge ma frutto di libera scelta e va considerata anche la possibilità che l'interessato possa, con decisione unilaterale, richiedere (anche successivamente) di aggiungere il proprio cognome a quello dell'unione.

In tema di unioni civili, la disciplina sul cognome della coppia si discosta significativamente da quella prevista per il matrimonio, ciò in quanto, secondo autorevole dottrina (Auletta, Jus civile, 2017, 4) la disciplina interviene a molti anni di distanza dalla riforma del diritto di famiglia, e quindi sul solco di quella giurisprudenza di merito e dell'indirizzo della dottrina che aveva sollevato obiezioni sulla incompatibilità della disciplina di cui all'art. 143-bis c.c. con il principio di uguaglianza [R. Tommasini, in Commentario del cod. civ., diretto da E. Gabrielli, (artt. 74- 176), Torino, 2010; M. Moretti, Il cognome coniugale, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini, Torino, 2016, I, 789]. Un altro indirizzo, invece, ritiene che tale disciplina innovativa interviene perché si è in presenza di una coppia dello stesso sesso, sicché non esisterebbe una ragione plausibile per dare prevalenza ad un cognome rispetto ad un altro, ciò in quanto la disciplina del cognome riferita al rapporto di coniugio si giustifica per il ruolo di prevalenza accordato dall'ordinamento al marito, quale capo famiglia (G. Villa, Gli effetti del matrimonio, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini, G. Cattaneo, II ed., Torino, 2007, I, 346 ss.). Va registrata però una differenza sostanziale con il rapporto di coniugio, ormai fortemente criticata dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, anche per quanto dispone la Convenzione di New York del 1979, ratificata in Italia con legge n. 132/1985, che assicura gli stessi diritti personali al marito ed alla moglie, compresa la scelta del cognome. A tale riguardo si segnala la pronuncia della Corte costituzionale n. 286/2016 che ha dichiarato illegittima l'attribuzione automatica ai figli del cognome paterno, lasciando ai genitori la possibilità di decidere, in conformità con l'indirizzo di quella dottrina che ritiene che l'unità della famiglia si realizza e si completa nell'uguaglianza dei suoi componenti e che non hanno alcun fondamento quelle impostazioni che in tema di cognome giustificano disparità di trattamento tra i genitori e cioè l'assunzione in capo ai figli del solo patronimico, in funzione di una pretesa unità familiare.

La legge regolamenta la possibilità che i componenti dell'unione identifichino mediante il cognome di uno dei due la nuova formazione familiare all'interno della società, consentendo la possibilità che tale rapporto sia identificato mediante un solo cognome, rimettendone la scelta al consenso delle parti, in mancanza del quale ognuno conserva il proprio. Tale previsione risponde alla necessità anche di salvaguardare l'unità e la stabilità della coppia, pur se non fondata sul matrimonio. La scelta del cognome comune rimane affidata alla volontà dei partner, sicché, a differenza del matrimonio può mancare. Ai coniugi non è riconosciuta tale possibilità, in quanto l'art. 143-bis c.c. impone che sia attribuito alla moglie il cognome del marito, che lo aggiunge al proprio, posponendolo (A.C. Jemolo, Il matrimonio, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, III, ed. Torino, 1958, 423).

Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale ha stabilito che la funzione del cognome comune, come cognome d'uso senza valenza anagrafica, non determina alcuna violazione dei diritti al nome, all'identità e alla dignità personale. La disposizione di cui all'art. 3 d.lgs. n. 5/2017 deve pertanto ritenersi legittima, nell'ipotesi in cui prevede che la scelta del cognome comune non modifica la scheda anagrafica individuale, nella quale rimane il cognome precedente alla costituzione dell'unione. La Corte ha ritenuto, inoltre, che ciò realizzi il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge n. 76/2016, attraverso l'adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile alle previsioni della legge sulle unioni civili, e in particolare a quella del comma 10. Da ciò consegue la legittimità dell'annullamento delle modifiche anagrafiche intervenute prima dell'adozione del d.lgs. n. 5/2017. Precisa, inoltre, che la dichiarata transitorietà del d.P.C.M. n. 44/2016 e la brevità del suo orizzonte temporale portano ad escludere che le novità introdotte da tale fonte di rango secondario abbiano determinato l'emersione e il consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona. La Consulta, pertanto, conclude, dichiarando infondate le questioni di legittimità costituzionale proposte, rilevando preliminarmente che l'art. 3 d.lgs. n. 5/2017 delimita la durata del cognome comune a quella della unione civile, cosicché lo scioglimento dell'unione civile comporta la perdita automatica del cognome comune. Secondo la Corte questa previsione è conforme al principio di ragionevolezza: data la temporaneità dell'effetto della scelta del cognome, sarebbe stato contraddittorio ed irragionevole attribuire a tale scelta un effetto definitivo ed irreversibile quale è quello che consegue alla variazione della scheda anagrafica e dei documenti rilasciati al soggetto.

Osservazioni

La Consulta evidenzia che anche per il matrimonio il cognome assunto dalla moglie non comporta alcuna variazione anagrafica del cognome originario; infatti, l'art. 20, comma 3, d.P.R. n. 223/1989 prevede che «per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile». La Corte, quindi, rileva una assimilazione con l'istituto delle unioni civili laddove si prevede che la scheda anagrafica della parte dell'unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell'altra parte dell'unione (comma 1) senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis). Conclude, pertanto, affermando: «La natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l'unione civile e la facoltà di stabilire la collocazione accanto a quello originario, anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica, costituiscono dunque garanzia adeguata dell'identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere». Operata la scelta, può proporsi anche per l'unione civile, come per il matrimonio, l'interrogativo, se il relativo uso costituisca (oltre che un diritto) anche un dovere per colui che lo assume. Un indirizzo della dottrina, con riferimento al matrimonio, ha fatto derivare l'obbligo dal tenore dell'espressione usta dall'art. 143-bis c.c. nonché dalla previsione dell'art. 156-bis, comma 2, c.c. alla luce del quale la moglie, nel caso di separazione, può essere autorizzata dal giudice a non usarlo ove possa derivarle pregiudizio. Con lo scioglimento dell'unione civile, a differenza del matrimonio, non è più consentito l'uso del cognome comune.

Nel rapporto di coniugio, infatti, al fine di rendere palese lo scioglimento del matrimonio, l'ex moglie, se non è autorizzata dal giudice, non può più fregiarsi del cognome maritale, sicché la spendita dello stesso nei rapporti sociali diventa illegittima se incide sulla riservatezza e sulla reputazione dell'ex marito. L'uso del cognome da parte dell'ex moglie integra un fatto illecito qualora avvenga in modo indebito o pregiudizievole e può cagionare danno morale risarcibile qualora il fatto abbai violato in modo grave diritti inviolabili altrui, quali i segni distintivi della persona protetti ex art. 2 Cost., e tra questi il diritto al nome. Tuttavia, mentre il pregiudizio rilevante ai fini dell'inibitoria all'uso del cognome può essere meramente potenziale, quello legato all'azione risarcitoria deve necessariamente tradursi in un danno secondo le regole dell'illecito aquiliano (Trib. Milano 12 gennaio 2010, Fam. e dir. 2010, 917 con nota di A. Vesto, Uso strumentale del cognome).

Guida all'approfondimento

P. Pollice, L'uso del cognome maritale da parte della donna divorziata, in Dir. Giur., 1987, 815;

A. Natale, Il cognome della donna divorziata, in Fam., pers. e succ., 2005, 60.

G. Savi, nel commento al comma 10 della legge in A.A.V.V. Unioni civili e convivenze, Guida commentata alla legge n. 76 del 2016 (a cura di M.A. Lupoi, C. Cecchella V. Cianciolo, V. Mazzotta), Santarcangelo di Romagna, 2016.

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