Affidamento esclusivo della prole e violenza assistita

Carla Loda
25 Gennaio 2019

Può essere disposto l'affidamento esclusivo della prole minorenne laddove la condotta violenta e aggressiva di uno dei genitori sia tale da far supporre un grave turbamento in capo al minore.
Massima

Può essere disposto l'affidamento esclusivo della prole minorenne laddove la condotta violenta ed aggressiva di uno dei genitori - posta in essere in presenza del minore ai danni dell'altro genitore (o di un parente) e contravvenendo alle statuizioni che disciplinano il prelievo della prole - sia tale da far supporre un grave turbamento in capo al minore.

Il caso

Con ricorso depositato nel 2016 la sig.ra Tizia, madre della minore Caia (nata nel 2012 e affetta da sindrome dello spettro autistico di rilevante gravità), ha chiesto la modifica delle condizioni determinate in un provvedimento del 2015 relativamente alle modalità di affidamento e mantenimento della prole.

La madre della minore ha esposto che il sig. Sempronio, padre della minore, avrebbe tenuto comportamenti violenti ed aggressivi nei confronti di Tizia (e del nonno materno) anche alla presenza della figlia, oltre ad aver omesso di contribuire al suo mantenimento non versando la somma mensile di € 200,00 - determinata in un precedente provvedimento del Tribunale - ed omettendo di provvedere al rimborso delle spese eccedenti l'ordinario mantenimento (consistenti in particolare in costose terapie riabilitative necessarie alla bambina).

Il provvedimento rileva che nei confronti del padre della minore è stata emessa ordinanza di applicazione di misura coercitiva ex art. 282 c.p.p., consistente nel divieto di avvicinarsi alla ricorrente e ai luoghi dalla stessa frequentati, e che Sempronio è stato rinviato a giudizio per i reati di cui agli artt. 572 e 624 c.p..

La sentenza rileva che agli atti del procedimento penale risultano telefonate minacciose e continue che «fanno ritenere sussistente un clima quanto meno di forte aggressività durante la convivenza fra le parti, originato dalle condotte del padre».

Si aggiunge che, con decreto provvisorio emesso nel 2017, era stato conferito incarico al servizio sociale territorialmente competente di fornire al giudice accertamenti sulla situazione della minore, interpellando anche gli insegnanti della scuola e il personale del centro di terapia riabilitativa frequentati dalla minore.

Nel corso della fase istruttoria il padre della minore è stato condannato per il reato di maltrattamenti in famiglia in danno della ricorrente.

La questione

Per procedere ad una disamina del caso appare imprescindibile chiarire le accezioni dei termini affidamento condiviso, congiunto ed alternato.

L'affidamento della prole:

a) Prima delle riforme…

In Italia, l'assetto normativo dell'affidamento dei figli minorenni a seguito della dissoluzione della famiglia si è retto, sino alle riforme degli anni ‘70, sul principio dell'indissolubilità del matrimonio: unico rimedio, in ipotesi di insanabile contrasto tra i coniugi, era la separazione, che poteva essere però chiesta solo per le ipotesi di colpa tassativamente indicate.

Il codice civile del 1865, e pressoché similmente quello del 1942, prevedevano che il giudice stabilisse a quale genitore dovessero essere affidati i figli, senza indicare alcun criterio di riferimento.

Nella prassi, l'affidamento, in particolare dei figli più piccoli, era disposto in favore della madre, salvo che la separazione venisse dichiarata per sua colpa, specialmente per adulterio, poiché il giudizio negativo sulla condotta e la personalità del coniuge responsabile della disgregazione dell'unità familiare si risolveva in un'equivalente inidoneità al compito educativo.

b) ….e dopo le riforme

L'introduzione del divorzio prima e la riforma del diritto di famiglia poi, oltre ai numerosi interventi della Corte costituzionale, hanno radicalmente modificato il diritto di famiglia italiano.

Da qui anche un nuovo assetto del regime di affidamento incentrato sul principio della tutela esclusiva dell'interesse dei minori che, in genere, venivano affidati alla madre - generalmente ritenuta più idonea ai compiti di cura della prole - con diritto per la stessa di percepire dall'altro coniuge un contributo per il loro mantenimento.

L'affidamento monogenitoriale

L'art. 155 c.c. ante riforma così recitava:

«Il giudice che pronuncia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa (comma 1). In particolare, il giudice stabilisce la misura ed il modo con cui l'altro coniuge deve contribuire al mantenimento, all'istruzione e all'educazione dei figli, nonché le modalità di esercizio dei suoi diritti nei rapporti con essi (comma 2)».

In realtà la scelta monogenitoriale si traduceva in un retaggio della visione che negava la centralità del minore nella vicenda familiare, considerandolo non come soggetto bensì come oggetto della separazione, costretto a subire le conseguenze di una vicenda processuale instaurata e condotta da altri.

Tale scelta ha perpetrato il consolidamento di un assetto parentale basato sull'antitesi tra il genitore della routine quotidiana, investito da auctoritas - ossia il genitore affidatario - ed il genitore del tempo libero - l'altro.

Fino al 2006 questo era l'assetto privilegiato, risultando pressocché disapplicati gli altri regimi di affidamento vigenti.

L'affidamento congiunto

Sul presupposto che separazione e divorzio non siano eventi distruttivi, ma processi modificativi delle relazioni parentali (e che dunque la coppia non più coniugale resta comunque coppia genitoriale), si è introdotto nel nostro ordinamento l'affidamento congiunto.

L'istituto è stato introdotto con la Novella del 1987 alla legge sul divorzio (ved. art. 6, comma 2,l. div.: «ove il tribunale lo ritenga utile all'interesse dei minori, anche in relazione all'età degli stessi, può essere disposto l'affidamento congiunto o alternato»).

Non se ne dubitava l'applicabilità anche alla separazione, almeno in via analogica, perché altrimenti non si sarebbe giustificata la disparità di trattamento della prole nella separazione e nel divorzio.

L'essenza dell'affidamento congiunto era riposta nella corresponsabilizzazione dei genitori separati o divorziati i quali, adottata una linea comune nell'educazione del minore, si impegnano a realizzarla entrambi contemporaneamente e quotidianamente.

L'istituto dava pieno rilievo agli apporti educativi e affettivi delle figure sia materna che paterna, mentre l‘affidamento esclusivo ne marginalizza una in un ruolo esterno di vigilanza.

Ai fini dell'affidamento congiunto, si affermava, per prassi, che i presupposti applicativi fossero:

1. la ricorrenza tra i coniugi, nonostante la crisi della loro unione, di un'identità di vedute e di strumenti di attuazione quanto all'allevamento e assistenza della prole, senza rischi di tensioni e sovrapposizioni di ruoli;

2. la richiesta concorde di siffatto regime da entrambi i genitori;

3. la vicinanza tra le abitazioni familiari (o quanto meno l'ubicazione nella stessa città).

In tale ottimale - forse anche ideale - contesto, i rapporti tra i genitori avrebbero garantito la corretta gestione della separazione, senza significativi interventi del giudice.

Tali condizioni sono risultate solo teoriche, espressione di una visione ideale dei rapporti coniugali e post-coniugali, ma di difficilissima realizzazione pratica: identità di vedute, assenza di contrasti, massimo spirito di collaborazione non sono sempre rinvenibili anche in coppie in costanza di unione coniugale.

L'affidamento alternato

L'affidamento alternato comporta una convivenza alternata del figlio presso i genitori, ciascuno dei quali, nel periodo di convivenza, esercita per intero la potestà (ora responsabilità): la convivenza poteva essere paritaria (un periodo con un genitore, un altro con l'altro, ma in tal modo si rischiava di negare la necessaria stabilità) o diseguale (ad es.: l'anno scolastico con la madre, le vacanze con il padre).

Nell'affidamento alternato erano i figli che ruotavano intorno ai genitori, andando nel mondo prima dell'uno e poi dell'altro: i contesti educativi rimanevano estranei e non si fondevano quindi il bambino era costretto ad adattarsi al mondo genitoriale in cui si trovava.

L'istituto, pochissimo utilizzato nella pratica (in genere con riferimento a coniugi che vivevano in località diverse, spesso in Stati diversi), ha suscitato molte perplessità proprio con riferimento alla sua rispondenza all'interesse dei figli, paventandosi, infatti, il rischio che l'alternarsi di abitudini, mentalità, organizzazioni diverse ed in conflitto tra loro potesse disorientare e nuocere all'equilibrio psicofisico dei minori.

L'affidamento condiviso

Ciò che, sin da una prima lettura dell'art. 155 c.c. come sostituito dalla legge n. 54/2006, emerge con dirompente evidenza è il radicale cambiamento della prospettiva dalla quale prende le mosse la riforma: il minore diviene punto di riferimento centrale.

Nel nuovo impianto normativo l'affidamento condiviso diventa la regola generale: la separazione dei coniugi, il venir meno della convivenza e la disgregazione della famiglia non possono comportare il venir meno del rapporto parentale (nemmeno in presenza di forti conflittualità tra i genitori e persino quand'anche gli stessi vivano in città distanti centinaia di chilometri). Deve essere conservato inalterato in capo al minore il diritto a mantenere un rapporto continuato e continuativo non solo con ciascuno dei genitori, ma anche con gli ascendenti e i parenti di ciascuno.

Il principio appare come fortemente innovativo, introducendo a chiare lettere il diritto in capo a tutti i componenti del nucleo familiare di mantenere significative relazioni affettive con il minore.

In concreto, al concetto di affido condiviso non consegue - o comunque non consegue necessariamente - una paritaria distribuzione dei tempi di permanenza del minore con ciascuno dei genitori.

Il reale contenuto dell'affidamento condiviso si concretizza, di fatto, nella necessità che, pur venuto meno il rapporto coniugale o di convivenza, i genitori devono continuare ad esercitare insieme le funzioni genitoriali, seguendo la vita della prole a tutti i livelli (ordinari e straordinari) e ciò a prescindere dall'entità dei tempi di permanenza di ciascuno di essi con la prole.

Di ciò se ne è avuta conferma sin dai primi provvedimenti resi dai Tribunali ordinari, laddove lo schema generalizzato non era difforme da quello tipico delle statuizioni antecedenti alla riforma, se non per lievi modiche terminologiche (ad es. non si parlava più di genitore affidatario, ma di collocatario).

Ciò premesso, si trattava di verificare come potesse concretamente realizzarsi l'esercizio di una genitorialità condivisa laddove la maggior parte delle separazioni sono connotate da una profonda conflittualità.

La risposta è arrivata con i riflessi delle prime concrete sperimentazioni: i provvedimenti giudiziali - recependo la lettera della legge - prevedevano esplicitamente che la potestà ordinaria - ora responsabilità - venisse esercitata disgiuntamente in ragione dei tempi di permanenza del minore con ciascuno dei genitori (ciò sembrava poter evitare, o quanto meno limitare, i rischi concreti di un vorticoso insorgere di contenzioso per qualsivoglia iniziativa che un genitore volesse assumere, senza riuscire ad ottenere il consenso dell'altro).

Ciascuno dei genitori continua dunque ad esercitare liberamente il proprio ruolo genitoriale - nell'ambito della sfera “ordinaria” - ogniqualvolta ha presso di sé il minore, mentre le decisioni di maggior interesse afferenti scelte di carattere educativo, scolastico, medico-sanitario, che eccedano l'ordinaria amministrazione, continuano a dover essere prese di comune accordo tra i genitori.

Resta salva la facoltà di rimettere al giudice le controversie in merito alle decisioni di maggior interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute che i genitori non siano in grado di assumere di comune accordo.

Le soluzioni giuridiche

Affinché sia disposto l'affidamento esclusivo della prole ad un solo genitore è necessario che sussista in concreto un'effettiva inidoneità dell'altro genitore ad occuparsi del minore.

La Suprema Corte ha statuito chel'affidamento esclusivo dei figli ad uno dei genitori deve considerarsi come un'eccezione alla regola dell'affidamento condiviso, da applicarsi rigidamente soltanto nelle ipotesi in cui esista una situazione di gravità tale da rendere detto affidamento condiviso contrario all'interesse dei figli, valutandosi tale contrarietà esclusivamente in relazione al rapporto genitore-figlio e quindi con riferimento a carenze comportamentali di uno dei due genitori, di gravità tale da sconsigliare l'affidamento al medesimo per la sua incapacità di contribuire alla realizzazione di un tranquillo ambiente familiare (ved. sent. Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587; conforme Cass. 18 giugno 2008, n. 16593).

Inoltre, la Corte di cassazione ha affermato che «la regola dell'affidamento condiviso dei figli può essere derogata solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore, con la duplice conseguenza che l'eventuale pronuncia di affidamento esclusivo deve essere necessariamente sorretta da una motivazione non più solo in positivo, sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell'altro genitore (…)» (ved. sent. Cass. 7 dicembre 2010, n. 24841).

L'art. 337-quater c.c. non individua esplicitamente i casi in cui debba essere adottato l'affidamento esclusivo poiché la legge lascia ampia discrezionalità al giudice.

Si può andare dai casi limite configuranti la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale ex artt. 330 e 333 c.c., a situazioni meno gravi, ma comunque lesive dell'interesse del minore.

Fra i casi in cui può essere disposto l'affidamento esclusivo ricordiamo:

  • l'atteggiamento screditante di un genitore verso l'altro;
  • lo stato di tossicodipendenza o l'alcolismo;
  • le patologie psichiche di un genitore;
  • lo stato di detenzione di un genitore;
  • le difficoltà relazionali nel rapporto tra un genitore ed il minore;
  • il disinteresse genitoriale nei confronti del figlio (in cui si colloca anche l'inadempimento degli obblighi di mantenimento);
  • l'inettitudine a prendersi cura della prole;
  • i comportamenti pericolosi o suscettibili di pregiudicare l'equilibrato sviluppo psicofisico del figlio;
  • i comportamenti tali da ostacolare un sereno ed equilibrato svolgimento del rapporto del figlio con l'altro genitore;
  • il comportamento del genitore che tende ad inculcare un credo religioso con modalità pregiudizievoli per lo sviluppo del figlio o tali da impedire il suo normale inserimento nella società;
  • la personalità violenta di un genitore nei confronti della madre e/o del figlio.

La decisione va segnalata in particolare poiché sottolinea come non sia dirimente l'accertamento del rilievo penale delle condotte poste in essere dal padre, bensì l'incidenza che i comportamenti paterni hanno avuto sulla serenità della figlia.

Nel corso del giudizio sono state opportunamente evitate le classiche situazioni di passaggio da un genitore all'altro, disponendo che l'esercizio del diritto di visita nei confronti della figlia avvenisse con modalità tali da evitare che l'autore della violenza si presentasse personalmente per prendere con sé la bambina.

La decisione del Tribunale di Roma ha la prerogativa di mirare a proteggere la madre, rafforzandone l'autonomia e l'autodeterminazione, nonché di tutelare maggiormente la minore.

In proposito viene evidenziata la rilevanza della previsione di cui all'art. 31 della Convenzione di Istanbul (ratificata dall'Italia con legge n. 77/2013 ed entrata in vigore il 1 agosto del 2014) secondo la quale gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione devono essere presi in esame al fine di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli. La norma prevede altresì che devono essere adottate tutte le misure opportune affinché siano garantiti i diritti e la sicurezza della vittima e dei bambini.

In base all'art. 31 della Convenzione di Istanbul gli episodi di violenza non sono elementi privi di rilevanza nelle decisioni relative ai diritti di custodia e di visita dei figli minori.
Il magistrato ha quindi il dovere di considerare gli episodi di violenza subiti nel corso del rapporto in un'ottica di punizione, ma soprattutto di prevenzione, con la conseguenza che:

- l'esercizio del diritto di visita o di custodia dei figli non deve compromettere la sicurezza e l'incolumità della vittima (di violenze) o dei bambini;

- un uomo violento non deve poter utilizzare il diritto di visita del figlio come pretesto per incontrare la sua vittima esponendo quest'ultima (e i figli) a pregiudizi.

Non possiamo non considerare come sia purtroppo diffusa l'idea che i maltrattamenti nei confronti dell'ex partner non abbiano rilevanza sulle competenze genitoriali: nelle decisioni sull'affidamento dei figli minorenni, infatti, spesso prevale la regola generale dell'affidamento condiviso, senza valutare con adeguata attenzione il pregiudizio psicofisico causato ai figli dall'aver assistito alla violenza.

È auspicabile, in proposito, che le determinazioni in ordine all'affidamento non dipendano soltanto dalle risultanze di consulenze tecniche d'ufficio che a volte omettono di indagare la realtà della violenza, mistificata in forme di mera conflittualità fra le parti.

Osservazioni

Il Tribunale di Roma ha analizzato il rapporto tra i genitori pervenendo alla convinzione che uno dei due abbia esercitato violenza all'interno del nucleo familiare. Tale argomentazione supporta la decisione di disporre l'affidamento esclusivo della figlia alla madre con attribuzione a quest'ultima della responsabilità genitoriale per tutte le questioni riguardanti la minore (istruzione, terapie riabilitative, gestione dell'indennità di invalidità e di frequenza, salute, etc.), disponendo che solo la modifica della residenza abituale della bambina debba essere previamente concordata fra i genitori.

Il provvedimento rileva che «l'elevatissima conflittualità fra le parti, causata dalle condotte aggressive del padre, potrebbe rendere difficile e addirittura rischiosa la gestione condivisa della responsabilità genitoriale potendo il resistente sviluppare condotte violente nel momento di condivisione di scelte di maggior rilevanza per la minore qualora fosse dissenziente rispetto alle proposte materne».

In particolare il giudice adito evidenzia come non sia rilevante il passaggio in giudicato della sentenza di condanna in primo grado del padre della minore per il reato di maltrattamenti in famiglia posto che in sede civile non si tratta di accertare la rilevanza penale delle condotte poste in essere bensì la loro incidenza sulla serenità della figlia.

Troppo spesso nel concetto di conflitto genitoriale si fanno rientrare fattispecie diverse che con il conflitto nulla hanno a che fare, ma il conflitto è altro rispetto alla violenza.

La violenza domestica, intesa come «violenza fisica, sessuale, psicologica o economica» che si verifica all'interno della famiglia (art. 3 lett. b) della Convenzione di Istanbul) e che rappresenta uno dei meccanismi sociali per mezzo dei quali (principalmente) le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini, deve essere riconosciuta come grave violazione dei diritti umani. La violenza domestica non può essere considerata una “lite in famiglia” o un “conflitto coniugale” perché ciò equivale a negare la violenza stessa ed il vissuto traumatico del partner che quella violenza ha subito.

Con grande sensibilità il giudice adito individua la causa del conflitto nell'offesa arrecata ai diritti fondamentali delle persone ed adotta i provvedimenti opportuni affinché tale offesa non continui a produrre effetti negativi in danno dei figli.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.